Nuova Champions: a morte la serie A

Se il Marchese del Grillo fosse ancora tra noi, il testimonial perfetto per la nuova, luccicante Champions League che i top club europei stanno tirando a lucido in vista del varo previsto per l’anno di grazia 2024 sarebbe lui. Che col suo motto: “Io so’ io e voi nun siete un cazzo!” chiarirebbe in un battibaleno il concetto che sta alla base della rivoluzione firmata ECA (l’European Club Association presieduta da Andrea Agnelli succeduto a Kalle Rummenigge del Bayern Monaco). Comandamento numero 1: non contenti di essere sufficientemente ricchi, i club più potenti d’Europa ridipingono la Champions League trasformandola in un gigantesco bancomat a loro uso e consumo e chissenefrega se il resto del calcio, a cominciare dai campionati nazionali, andrà a ramengo.

Dietro al restyling della Champions come la vorrebbero i ricchi Epuloni, c’è una montagna di balle che sarebbe il caso di smontare subito, visto che ancora lo scempio non è stato perpetrato. La prima balla riguarda il nobile gesto dei nostri eroi di proporre, a pro dei diseredati, l’introduzione di un terzo torneo Uefa: per tornare ai tempi belli, raccontano, quando in Europa si giocavano Coppa dei Campioni, Coppa Uefa e Coppa delle Coppe. Inganno totale. La verità è che già oggi la Champions League ha di fatto inglobato le due più importanti competizioni di un tempo iscrivendo al via le vincitrici di tutti i campionati (ex Coppa Campioni) e le seconde, terze e a volte quarte classificate (ex Coppa Uefa). L’Europa League, infatti, al confronto alla Champions è il trionfo della tristezza: cosa che non poteva dirsi della Coppa Uefa, spesso più difficile da vincere rispetto alla Coppa dei Campioni. E mentre la Coppa della Coppe, terzo torneo del calcio d’antan, aveva una sua precisa identità che le conferiva un alone di indiscutibile simpatia (radunava le vincitrici delle coppe nazionali: a volte club di medio o piccolo calibro che davano vita, spesso, a imprese che si trasformavano in favole romantiche, commoventi, come lo furono per noi le cavalcate del Vicenza di Guidolin, che in semifinale andò a un passo dall’eliminare il Chelsea di Vialli e Zola, e dell’Atalanta di Mondonico, che in serie B sfiorò la finale europea soccombendo solo all’ultimo al Malines del mitico portiere Preud’Homme), immaginatevi lo strazio cosmico che provocherebbe la nuova, terza competizione europea; roba da suicidio al solo leggerne il cartellone. Insomma: se un tempo c’erano tre eccellenti e blasonati tornei, dal 2024 avremo un torneo mangiatutto (la Champions allargata e ricoperta d’oro), un torneo malinconico (l’Europa League) e un torneo da terzo mondo (il nuovo nato, abortito già adesso). Una presa in giro prima di tutto nei riguardi dei club medio-piccoli di tutta Europa, poi degli appassionati. Ma c’è di più. I Marchesi del Grillo dell’Eca meditano infatti di spostare, sia pure gradualmente, le partite della Nuova Champions nei fine settimana: sloggiando e colpendo al cuore, se ciò accadesse, i campionati nazionali, che diventerebbero teatrini d’avanspettacolo. Per fortuna, Premier League (Inghilterra) e Bundesliga (Germania) hanno già detto no almeno a questo scempio: e Tebas, presidente della Liga di Spagna, ha definito “folle” il progetto di ridurre il valore di campionati e coppe nazionali solo per far diventare ricchissimo chi già e straricco.

Ratzinger, le comode bugie di un papa su clero e pedofilia

Quello pubblicato, su una rivista tedesca, dall’ex papa Joseph Ratzinger a proposito di pedofilia clericale e dintorni è un documento importante, che suggerisce molte considerazioni. Trascuro quelle relative alla personalità del pontefice e soprattutto alle dimensioni abnormi del suo ego ferito per concentrarmi sulla tesi di fondo (certo non nuova, ma comunque attuale) che Ratzinger presenta nel suo articolo. In sintesi, secondo il papa tedesco, la diffusione della pedofilia è una diretta conseguenza del clima licenzioso e libertino instauratosi in Occidente a partire degli anni Sessanta e della conseguente morte di Dio, cioè della crescente mancanza di fede da parte delle popolazioni dei paesi più sviluppati.

La tesi è falsa e ridicola: come tutti sanno, la pedofilia clericale è fenomeno antichissimo e non un risultato perverso del Sessantotto e del Vaticano Secondo, come sembra pensare Ratzinger. Anzi, al contrario di quanto ritiene l’ex papa, il diritto dei bambini a non essere oggetto di attenzioni sessuali degli adulti è stato definitivamente sancito nella coscienza popolare proprio nell’ultimo mezzo secolo, e cioè dopo il Sessantotto. I bambini e i ragazzini di entrambi i sessi hanno infatti purtroppo sempre subito le attenzioni indesiderate degli adulti, anche di quelli in tonaca, ma è solo nella società democratica contemporanea che quei comportamenti vengono finalmente e giustamente condannati senza remore e le vittime incoraggiate a denunciarli.

Ma nel documento c’è molto di più. Per Ratzinger, la pedofilia e gli abusi a danno dei minori non rappresentano nulla di peculiare: sono manifestazioni di una sessualità perversa al pari dell’omosessualità, della pornografia e in generale del sesso fuori dal matrimonio. Per il teologo tedesco, tutti questi sono comportamenti condannati dalla morale cattolica, in quanto manifestazioni dell’allontanamento da Dio e dalla sua volontà da parte di coloro che li hanno compiuti. Sfugge del tutto a Ratzinger l’elemento di colpevole manipolazione da parte di un adulto della volontà di un bambino presente in ogni abuso sessuale. La colpa per lui è quella di aver violato la legge di Dio. Le vittime non solo non meritano per lui nessuna attenzione speciale, ma sono probabilmente, anche se Ratzinger qui non lo dice in modo esplicito, il più delle volte corresponsabili, anche se involontariamente, dello schiaffo inflitto a Dio da coloro che li hanno abusati.

Citando il caso di una donna violentata da un prete da bambina, Ratzinger scrive che il sacerdote era solito accompagnare l’abuso con le parole “Questo è il mio corpo che è dato per te”. “È evidente – commenta nel documento l’ex papa – che quella ragazza non può più ascoltare le parole della consacrazione senza provare terribilmente su di sé tutta la sofferenza dell’abuso subìto”. Il problema per Ratzinger non è quindi rappresentato dalle terribili sofferenze psicologiche che seguono all’abuso, ma dal fatto che quella ragazza oggi non riesce ad accostarsi alla comunione senza sentir riecheggiare le parole del prete violentatore.

Il ragionamento di Ratzinger ha un’altra conseguenza, forse la più tragica di tutte. Se la crisi è soprattutto una crisi spirituale, una questione di fede, è chiaro che il rimedio dev’essere altrettanto spirituale e il prete che ha compiuto l’abuso dev’essere quindi soprattutto aiutato a ritrovare la fede perduta, a riottenere per intero la sua integrità spirituale. Forte di questo ragionamento, la Chiesa ha sottratto per decenni i suoi funzionari autori di reati sessuali alla giustizia per affidarli alle cure dei conventi, dei monasteri, dei centri spirituali specializzati. Solo lì, per i gerarchi come Ratzinger, gli abusatori (al pari degli autori di qualsiasi altra violazione delle norme morali cattoliche) avrebbero ritrovato quell’amore per Dio, quella volontà di servire fedelmente la Chiesa che erano loro mancati nei momenti in cui avevano sospeso il controllo dei loro istinti sessuali. In questa logica, curare gli abusatori spiritualmente senza far sapere alla gente quello che era successo è stato il modo migliore per garantire il recupero del funzionario “caduto” e insieme preservare dallo scandalo la comunità dei fedeli.

Un’ultima considerazione riguarda il papa attuale, Francesco. La pubblicazione del documento di Ratzinger ha scatenato le fazioni ostili del papa tedesco e di quello argentino. In realtà di un dissenso tra i due non c’è alcuna prova: il documento di Ratzinger è stato visionato – e si presume approvato – dal segretario di Stato Parolin e da Bergoglio e si chiude con un esplicito complimento rivolto da Benedetto al suo successore. Quest’ultimo ha usato parole almeno in parte diverse da quelle di Ratzinger per analizzare il fenomeno della pedofilia. Però quella che Ratzinger ha ricostruito nel suo articolo è l’inossidabile cultura organizzativa della Chiesa Cattolica, quella con la quale essa affronta da sempre i crimini sessuali commessi dal clero. Per sfidare quella cultura serve molto di più che qualche nuovo slogan. Serve un programma di riforme che metta al centro la figura del prete e la concezione che la Chiesa ha della sessualità e delle interazioni umane. Un compito immenso che sinora Bergoglio non ha nemmeno tentato di affrontare.

I finalisti del premio Strega

Teatro pieno di studenti della provincia di Caserta e gente comune. I dodici finalisti del Premio Strega 2019 sono arrivati ieri a Casal di Principe. Grandissima emozione del sindaco Renato Natale e degli studenti che hanno avuto modo di confrontare la lettura dei libri finalisti del prestigioso premio, con gli stessi autori. Due domande a testa, questo prevedeva l’organizzazione, dopo aver letto il libro scelto. Tanta curiosità e tanta cultura. Un successo, nonostante l’attesa di quasi due ore dovuta ad un guasto del pullman sul quale viaggiavano gli scrittori. Sul palco anche Giovanni Solimine e Stefano Petrocchi, presidente e direttore della Fondazione Bellonci che hanno fortemente voluto portare a Casal Di Principe questa iniziativa nel venticinquesimo anniversario dell’uccisione di don Peppe Diana.

La “Rivoluzione normale” nella patria di Gomorra

Il Teatro si chiama della Legalità. È affollatissimo. Ragazzi delle scuole, donne e uomini, giovani e anziani, tantissimi venuti da fuori. Sul palco i dodici scrittori finalisti del Premio Strega. E Renato Franco Natale, medico di 69 anni, sindaco di Casal Di Principe. “Mi tremano le gambe – ammette con l’emozione e il candore di un quindicenne – questa per Casale è una medaglia, un altro passo verso la rivoluzione della normalità. E pensare che da ragazzo andavo ad Aversa, la città a pochi chilometri, a comprare i libri della Garzanti con la fascetta Premio Strega. Oggi gli scrittori sono qui, nel mio paese”.

Il paese di Gomorra, di boss sanguinari dai soprannomi terribili. Il paese dei “casalesi”, la camorra che si fece mafia. Droga, estorsioni, rifiuti e veleni importati dal Nord che hanno ammorbato le terre e i frutti. Ma anche il paese delle medaglie d’oro al valor civile. Don Peppe Diana, Mimmo Noviello, Federico Del Prete, Salvatore Nuvoletta. Un prete, un imprenditore, un carabiniere e un attivista sindacale. Quattro martiri in un paese di 21mila abitanti.

Renato Natale ha il cuore d’oro e il carattere d’acciaio. Recentemente è stato a Padova a parlare agli amministratori del posto in una iniziativa di “Avviso pubblico”. Poteva fare il “personaggio”, parlare di lotta alla camorra e della sua vita. Invece scelse di stupire tutti. “Prima o poi anche voi in Veneto avrete i morti ammazzati per strada. Per anni non vi è interessato un tubo di quello che avveniva giù al Sud, dove abbiamo vissuto la dittatura delle mafie. Non ve ne è fregato nulla della nostra libertà. Ma ora capite che non c’è un noi e un voi. Perché le mafie sono anche qui”. I sindaci si alzarono in piedi per applaudirlo. Renato è stato sindaco nel 1993 per undici mesi. In tasca aveva la tessera del Partito comunista italiano ed era odiato dai vari Bidognetti, Schiavone e compagnia (i capi della camorra dell’epoca). I boss gli scaricavano camion di letame di bufala all’ingresso del Comune e sotto casa sua. Avevano anche deciso di ammazzarlo assoldando un povero cristo albanese. Lo salvò il suo angelo custode e l’amore per il vino del potenziale killer, che, ubriaco, si fracassò con la macchina contro un palo. Da quegli anni Novanta di fuoco, Renato non ha mai mollato. Ha continuato a fare politica a modo suo. Ambulatorio aperto a tutti, bianchi, neri, indigenti e non. E tantissimo volontariato con gli immigrati da medico di frontiera. Cinque anni fa la scelta di candidarsi di nuovo a sindaco con una lista di giovani e persone della società civile anche senza alcuna esperienza politica. Ci conosciamo da tempo e davanti a un caffè, nel nostro bellissimo e musicale dialetto, gli posi la madre di tutte le domande : “Renà, ma chi te lo fa fare?”. La risposta fu secca, netta e bella: “Lo faccio perché si deve fare”. Cinque anni dopo è di nuovo in campo per le elezioni del 26 maggio. “La gente – mi dice – aveva paura di nominare i casalesi. Definirsi in questo modo era come appiccicarsi addosso un marchio d’infamia. Dicevi casalesi e dicevi gomorra. Oggi vengono in centinaia ogni anno a studiare l’uso dei beni confiscati e l’economia sociale che abbiamo sviluppato. Oggi chi dei nostri concittadini si trova in un’altra città, non deve avere più pudore o ritrosia nel definirsi casalese. Lo fa con orgoglio”.

Cinque anni fa il Comune era in disseto finanziario, un terzo della città senza illuminazione, le strade ridotte a discariche anche di rifiuti pericolosi. Ma il dramma di Casale è l’abusivismo edilizio. “Abbiamo ereditato macerie – racconta il sindaco – Il 40% delle case è abusivo, stiamo parlando di 2mila abitazioni in un paese dove il primo Piano regolatore è del 2006. Ogni abbattimento costa sui 100mila euro, e poi c’è il problema di ridare una casa a queste famiglie. Chi paga? Il Comune non può affrontare questa emergenza, è necessario l’intervento dello Stato”.

Macerie e attacchi a mezzo stampa. Una specialità a Casal di Principe che vide vittima eccellente don Peppe Diana, e bersaglio continuo Roberto Saviano. Nel mirino, questa volta, Mirella Letizia, assessore della giunta Natale. “Attaccano noi e la rivoluzione della normalità – ci dice -. Casale è cambiata, qui abbiamo portato le opere più importanti della storia italiana grazie al Museo degli Uffizi. In sei mesi 40mila visitatori, ne hanno parlato giornali come Le Monde, il Times e il New York Times. La camorra dei rifiuti aveva trasformato la città in una discarica, noi abbiamo bonificato 22 siti con amianto, portato la raccolta differenziata dal 12 al 65%. Qui è una guerra continua e non nascondo che spesso ho pianto lacrime di sconforto. Ma se qualcuno tenta di intimidirmi non ha capito nulla di me. Mi ricandido”. In lista anche Bernardo Diana, 25 anni, laureando in giurisprudenza e attivista gay: “Casale deve essere sentita come una casa accogliente per tutti quelli che vogliono restare senza essere costretti ad andar via per una vita migliore”. Attacchi e beni confiscati alla camorra. Dove c’era la famosa villa in stile Scarface di Sandokan, ora c’è un parco giochi per i bambini. “Gestiamo 22 beni confiscati ai boss – dice Peppe Pagano, insegnante e attivista della cooperazione sociale -, abbiamo trasformato i terreni dei boss in aziende che fanno agricoltura di livello, lo spumante delle uve di asprinio è arrivato a Vinitaly. Ogni mese facciamo 112 buste paga e per il 40% si tratta di persone svantaggiate. Insomma, abbiamo dimostrato che si può fare, anche nelle nostre terre. Forse è questo che provoca fastidi. Ma noi andiamo avanti”.

È presto per le liste, ma a Casale la Lega di Salvini tenta la scalata, i Cinquestelle sono spaccati (una parte è con Natale) e la destra tenta una rivincita impossibile. Ma “la rivoluzione della normalità”, dice Renato Natale, “non si ferma”.

Aree protette non protette: rischio ennesima multa Ue

L’aviosuperficie di Scalea (Cosenza) si trova nella Valle del fiume Lao, uno dei 2.300 Siti interesse comunitario (Sic) sparsi per la Penisola, aree in cui, secondo la direttiva europea Habitat del 1992, flora e fauna richiederebbero una tutela particolare. A bloccare l’anno scorso il progetto di trasformare questa pista per velivoli leggeri in un vero e proprio aeroporto, è stata un’indagine della procura di Catanzaro. Per l’appalto, co-finanziato da fondi europei, è indagato, per abuso d’ufficio e corruzione, il presidente della Regione Calabria, Mario Oliveiro, insieme ad altri 15 tra amministratori, tecnici e imprenditori, tra cui il titolare dell’impresa costruttrice, Giorgio Barbieri, ritenuto in rapporti con la cosca Muto di Cetraro. L’Europa in attesa di chiarezza ha bloccato ben 131 milioni di euro di fondi, il finanziamento per tutti i progetti per la Regione Calabria.

L’area calabrese sarebbe dovuta diventare, da 12 anni, una Zona speciale di conservazione (Zsc), vale a dire una zona per la quale la Regione doveva predisporre piani dettagliati e operativi per la conservazione degli habitat naturali. Ma a prevalere sulla diligenza amministrativa in tema ambientale sono stati evidentemente altri interessi. Quello della Valle del fiume Lao è solo uno dei 463 Siti di interesse comunitario per i quali le Regioni secondo la Commisione Ue non hanno ancora provveduto a designare le Zone speciali di conservazione. Un ritardo per il quale la Commissione ha inviato all’Italia il 24 gennaio scorso una lettera di messa in mora, provvedimento che precede la procedura d’infrazione.

Tra burocrazia e interessi (a volte opachi)

Secondo la direttiva Habitat, recepita in Italia solo nel settembre del 1997 (con cinque anni di ritardo), le aree da tutelare, una volta indicate dai paesi membri e adottate dall’Ue come Siti di interesse comunitario devono diventare, “entro il minor tempo possibile”, e comunque non oltre sei anni, Zsc. Nonostante i richiami, a febbraio del 2015 solo 367 siti su 1.880 approvati dalla Ue per i quali era scaduto il termine, erano stati trasformati in Zsc. Circostanza che è valsa una prima lettera di messa in mora. Ora la seconda lettera, in cui non solo si chiede ragione delle Zsc non ancora designate, ma si fa notare che in quelle designate le misure di conservazione sono vaghe e inutili. “La designazione delle Zsc è in capo allo Stato, ma sono le Regioni che devono fare i piani di conservazione”, dice Antonio Nicoletti, responsabile Aree protette di Legambiente, “solo che tra burocrazia inefficiente e desiderio di tenere le mani libere rispetto a progetti che interessano di più, i piani o non si fanno o si fanno solo sulla carta”. A pesare è anche la carenza di personale. Dice Augusto De Sanctis, ambientalista, presidente della onlus Stazione ornitologica abruzzese: “L’Abruzzo, nonostante sia la Regione con la maggiore porzione di territorio che rientra nella direttiva Habitat, il 37% del totale, non ha alle sue dipendenze nessun naturalista”.

Soldi buttati per via delle inadempienze

Il risultato è che, oltre alla tutela della biodiversità, l’Italia perde milioni di fondi europei legati all’attuazione dei programmi di conservazione: fondi strutturali, indennizzi per le attività agricole e via dicendo. Fondi che, paradossalmente, sarebbero andati anche al sito della Valle del Fiume Lao.

In compenso si paga. “Sull’ambiente l’Italia ha il record di infrazioni”, dice Monica Frassoni, co-presidente del Partito Verde Europeo, “dal 2011 abbiamo speso 580 milioni di euro in multe e la voce principale riguarda l’ambiente. Attualmente 17 delle 74 procedure pendenti riguardano inadempienze ambientali. Ma le regioni non se ne curano, visto che a pagare è lo Stato”.

Il ministero dell’Ambiente fa sapere al Fatto che la risposta alla lettera della Commissione è stata inviata il 25 marzo scorso. “Si è evidenziato che lo stato delle designazioni, aggiornato al mese di marzo 2019, era di 2.100 Zsc assegnate e 201 ancora da assegnare. Durante il governo Conte sono state già designate il 60% delle Zsc in attesa”, scrive. L’attività del ministero però non basta, la palla poi passa alle Regioni, e agli interessi locali.

Il vademecum: cosa possiamo fare noi, iniziando da ora

Vale oltre 15 miliardi lo spreco alimentare in Italia, lo 0.88% del Pil, di cui i 4/5 sono rappresentati da quello domestico. I dati sono della Spreco Zero di Last Minute Market e del progetto 60 Sei Zero dell’Università di Bologna e ministero dell’Ambiente. “La percezione degli italiani – spiega Andrea Segrè, presidente di Last Minute Market – è ancora poco consapevole della necessità di una svolta culturale nella gestione del cibo a livello domestico”. Non sprecare il cibo, ma anche e soprattutto l’acqua, fare la raccolta differenziata (anche se non obbligatoria), evitare buste, bottiglie e contenitori di plastica, “basare la propria alimentazione almeno all’80% sui vegetali”, spiega Silvia Goggi: ecco buone e facili abitudini da mettere in atto subito. Altre azioni concrete sono: ridurre il consumo di energia, evitando di lasciare in carica i dispositivi a oltranza, utilizzare termostati intelligenti per il riscaldamento, usare auto elettriche o carpooling, partecipare a gruppi di acquisto locali. L’ultima cosa che possiamo fare? Gli esperti concordano: votare bene. Ovvero votare i partiti con agende ambientaliste, perché la politica può fare la differenza.

L’impatto del clima nel piatto: meno vino e olio. E qualità

Meno vino, meno olio, ma anche meno cereali. Via anche buona parte del pesce, sopraffatto sia dall’overfishing dei nostri mari, ma anche dall’aumento di Co2 nelle acque. Calerà drasticamente, infine, anche la carne, per la cui produzione è richiesta una quantità di acqua che sempre meno potremo permetterci. Così il cambiamento climatico sta arrivando dritto nel nostro piatto. “Ricorda quando, agli inizi del 2019, gli agricoltori sono scesi in piazza? La loro non era una protesta, ma un vero grido di dolore. Solo nel 2018 si è persa la metà delle produzioni di olio di oliva”. Riccardo Valentini è Professore ordinario presso l’università della Tuscia e Direttore Strategico della Divisione Impatti del Clima e Membro del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc). “Se uniamo cambiamenti climatici e agenti patogeni c’è il pericolo reale che scompaia un pezzo importante del nostro paesaggio”.

Anche la vite rischia di subire stravolgimenti. Li ha messi nero su bianco uno studio condotto dalla Fondazione Edmund Mach, l’università di Trento e la Fondazione Bruno Kessler, che ha indagato l’impatto del riscaldamento su cinque varietà di vite in due periodi (2021-2050 e 2071-2099). “Sono lontani i tempi della poesia San Martino quando il ribollir dei tini era a novembre. Oggi la vite ha un ciclo vegetativo sempre più anticipato e un accorciamento del periodo di vendemmia per le cantine”, spiega Andrea Segré, Professore ordinario di Politica agraria internazionale e comparata all’università di Bologna e Fondatore e Presidente di Last Minute Market. “Particolarmente vulnerabili – sottolinea Donatella Spano, Biometeorologo, professoressa all’università di Sassari e membro del comitato strategico del Cmcc – sono proprio le coltivazioni arboree che possono comportare perdite economiche più elevate a quelle erbacee”.

Il problema però, non è solo quello che nel piatto non vedremo più, ma anche il sapore di ciò che mangeremo e, soprattutto, la qualità degli alimenti, ad esempio l’apporto proteico dei cereali: un’incognita per noi occidentali e un dramma per chi nei Paesi poveri si alimenta soprattutto con quelli. Il riso, ad esempio, potrebbe perdere proteine, ferro, zinco e vitamina B con gravi ripercussioni sulla salute di adulti e bambini. “Sto rientrando dalla Terza Conferenza internazionale su Agricoltura e Cambiamenti climatici di Budapest, dove è stato posto l’accento sull’impatto del clima sulla qualità dei prodotti – spiega Donatella Spano – Prendiamo il grano duro: rischiamo di perdere proteine e minerali, e lo stesso vale per prodotti made in Italy come il parmigiano e il grana padano”.

Un discorso simile vale per la consistenza della carne, che potrebbe essere meno proteica, più grassa e scadente. E per le uova che potrebbero cambiare anche di colore e sapore. Mentre il pesce potrebbe, nel 2050, perdere il suo contenuto di fosforo, impoverendosi notevolmente.

In questo scenario poco rassicurante uno spiraglio di speranza c’è. E sta nella convergenza tra una dieta sostenibile per il pianeta e al tempo stesso per la nostra salute. “Cambiare tipo di cibo significa avere quella che si chiama una win win situation, dove cioè tutti ci guadagnano”, spiega la ricercatrice e medico specialista in scienza dell’alimentazione, Silvia Goggi. “Si fa un grande parlare di energie rinnovabili e trasporti elettrici, ma si ricorda poco che scegliere ciò che mettiamo nel piatto, optando per un regime alimentare a base vegetale, è un’azione potentissima a favore del pianeta”.

“Adottare la vera dieta mediterranea e valorizzare la filiera corta, evitando che i prodotti facciano il giro del mondo è già una risposta”, dice a sua volta il professor Segré. La Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana (Ssnv) ha creato un sito (www.mioecomenu.it) per conoscere l’impatto ambientale dei propri pasti, mentre per dare indicazioni a mense aziendali e universitarie su come modificare i propri menu è nato il progetto europeo Su-Eatable Life, finalizzato, spiega Valentini, “a spingere i cittadini europei ad adottare una dieta più sostenibile”.

Questo, dunque, è il nostro futuro vicino: mangiare carne solo la domenica, “scegliere pesci poveri come sgombro e alici”, nota Valentini, riscoprire varietà di frutta magari meno belle ma più resistenti. Una rivoluzione culturale e pratica a portata di mano, ma che va iniziata subito. Il resto, ovviamente, dovranno farlo la scienza e la tecnologia. “Intelligenza artificiale applicata alle colture e sistemi di monitoraggio per un’agricoltura di precisione, che consenta un controllo computerizzato sulla gestione delle colture, ad esempio della fertilizzazione e dell’irrigazione”, dice Donatella Spano.

Molte colture, poi, saranno spostate a diverse latitudini e altitudini, mentre si selezioneranno le specie più resistenti al cambiamento climatico. Oltre alla querelle tra carnivori e vegani, il cambiamento climatico porterà ad una fine delle discussioni ideologiche anche in agricoltura: “È ormai evidente che agricoltura tecnologica, biologica, biodinamica sono forme diverse di un’unica agricoltura, quella che fa bene al pianeta”, conclude Valentini. Il problema ultimo, però, è sempre lo stesso. “Oggi le persone apprezzano i prodotti locali e sostenibili, quello che manca è un approccio sistemico vero, nazionale. Ma qui si tratta di riconvertire tutto il nostro sistema sociale ed economico, per evitare future diseguaglianze e persino emigrazioni a causa degli effetti del riscaldamento su ciò che mangiamo”.

Affari & condanne: la vita nera del Ciarra, il fascista tra Dc e B.

È morto da fascista, e di mattina presto, a casa sua, cioè la clinica romana Quisisana, di cui era proprietario. Giuseppe Ciarrapico aveva 85 anni e veniva chiamato Er Ciarra sin da quando era un balilla del Duce. Non era innamorato della democrazia, come disse anni fa a Pietrangelo Buttafuoco, ma grazie alla democrazia (soprattutto cristiana) la sua smodata passione per la politica fu l’aratro che tracciò il solco degli affari. Ciarrapico fu re delle acque minerali, le terme di Fiuggi; re dei giornali locali in Ciociaria; re delle cliniche; presidente della Roma quando esordì Totti, nel 1993. Ha incarnato come nessuno, e giova ricordarlo oggi che si torna a parlare di fascismo eterno, quell’identità italiana borghese e nera che va da Mussolini alla Dc andreottiana e infine a Berlusconi. Non a caso diceva: “Io vado a Predappio ogni anno. Non è nostalgismo, il fatto è che noi ci siamo”. Ecco, appunto. Fu dichiaratamente missino e democristiano allo stesso tempo e dal 2008 al 2013 fu “nominato” senatore dall’ex Cavaliere grazie al Porcellum.

Vorace con gli affari e verace con il suo romanesco esibito, Er Ciarra ha accumulato cinque condanne: ricettazione per il fallimento della Casina Valadier a Roma; finanziamento illecito ai partiti nell’era di Tangentopoli; bancarotta sia nel processo per il crac del Banco Ambrosiano sia per la sua società di giornali; truffa per 20 milioni intascati indebitabente dal dipartimento dell’editoria di Palazzo Chigi. È stato in galera, agli arresti domiciliari, in affidamento ai servizi sociali. Dal momento che appellava il Duce come “il principale”, questo fu anche il nomignolo che riconobbe a Giulio Andreotti. Per conto del Divo Giulio risolse la mediazione del fatidico lodo Mondadori, nel 1991, tra Carlo De Benedetti (Cir) e B. (Fininvest). I magistrati annullarono la vittoria dell’Ingegnere ed Er Ciarrasi adoperò perché Espresso e Repubblica rimanessero a CDB. Odiava i gay e colpì con una battuta antisemita il traditore Gianfranco Fini. Precisava però di essere un fascista antinazista.

“La morte di Marchionne ha pesato, manca il genio”

Professor Giuseppe Berta, lei è uno degli analisti più attenti delle mosse di Fca. Che idea si è fatto tra voci di vendita, diluizioni, alleanze e rassicurazioni di John Elkann su investimenti e impegno della Famiglia?

Che, alla fine, non sappiano davvero bene che cosa fare e tutto ciò nonostante non abbiano a disposizione, ne sono convinto, molto tempo per decidere. La scomparsa di Sergio Marchionne ha destabilizzato tutto e la sua assenza è evidente.

Insomma, si torna ancora a Marchionne, nove mesi dopo la morte.

Lui avrebbe stupito tutti, come sempre. Avrebbe tirato fuori uno dei suoi conigli dal cilindro, sorprendendo la Borsa e gli stessi azionisti, creato scenari nuovi. La realtà odierna è molto diversa. C’è una catena di comando più ampia che, però, manda segnali contraddittori. Michael Manley, il suo successore, è un buon amministratore di prodotto, basta vedere che cosa ha fatto rilanciando il brand di Jeep, ma non è un manager globale. Poi c’è il direttore finanziario Richard Palmer che ha un peso che prima non avrebbe avuto. Infine, c’è il nuovo protagonismo di Elkann che parla della continuità della dinastia e rassicura sul fatto che le cose vanno bene. Ma non si intravedono azioni concrete che attuino queste premesse e il mercato mondiale dell’auto non conferma l’ottimismo.

Ecco, il mercato dell’auto. Che segnali indica e che condizioni pone al possibile futuro di Fca?

Fca è come una piramide, che sta in piedi grazie alla sua base delle vendite in Usa. La Jeep, appunto, e poi il marchio Ram, ma gli ultimi segnali non sono positivi neppure lì. In Cina tutto si è fermato e il calo è legato alla Maserati. L’America Latina, un tempo strategica per le sorti della Fiat, non funziona più. Infine restano l’Europa e l’Italia, ma qui il saldo negativo è netto. Alfa Romeo e Maserati hanno quasi dimezzato le vendite e il famoso “polo del lusso” si è di fatto arenato: competere con Bmw, Audi e Mercedes ormai è un miraggio. Una realtà disomogenea che rende necessaria una scelta, e in tempi brevi: ma lo ripeto, l’impressione è che non ci siano strategie precise.

Le ipotesi però si susseguono. Peugeot si è fatta avanti ufficialmente, si parla di Renault-Nissan, si tirano in ballo i cinesi di Geely, qualcuno rilancia lo “spezzatino”.

Peugeot, oltre alla famiglia francese, significa anche una proprietà in mano allo Stato transalpino e ai cinesi. Ma se l’interesse è quello di entrare nel mercato Usa passando per Fca, tutto ciò è compatibile con Trump e, in particolare con il Trump che vuole i dazi? Reanult-Nissan mi pare abbia altri problemi, anche di carattere giudiziario. Quanto allo spezzatino torniamo soprattutto a scenari Usa. General Motors potrebbe essere l’interlocutore giusto? Anche questo mi sembra arduo: ha appena chiuso cinque stabilimenti e licenziato, proprio negli Stati Uniti.

E allora?

Vedo uno stallo che confligge però con la necessità di decidere in fretta. Una contraddizione per ora senza sbocco: tra la complessità per Fca di stare da sola, come dichiara continuamente, e la complessità di fare qualcosa. Un qualcosa che si può chiamare alleanza, fusione, diluizione, ma che al momento fa i conti con una realtà molto difficile.

Ritirata Fca: il futuro è il modello Stampubblica

Da Amsterdam, John Elkann ha rassicurato ancora una volta (“Dopo 120 anni, la mia famiglia continuerà a esserci…”): ma nella Torino che non pensa solo al Tav, le sue parole convincono poco. Dove andrà Fca? Anzi, la Fiat: come qui, in molti, si ostinano ancora a dire; per nostalgia e anche con un po’ di rabbia e un po’ di disillusione. E con quale compagnia di viaggio poi, magari vendendo addirittura la propria storia ad altri?

Se provi a chiederlo a chi in Fca, sotto la Mole, ci lavora (o meglio, sta in cassa integrazione) e a chi quei lavoratori vuole ancora tutelare, la risposta è precisa: “È solo questione di tempo e loro, ormai è chiaro, stanno prendendo tempo per poter decidere”. Per farlo, devi andare in via Sagra di San Michele, nella sede della Fiom Piemonte: una ex fabbrica di estintori rifatta secondo lo stile di un’architettura “povera” ma persino elegante, nella periferia che accompagna la città verso la Valle di Susa e la Francia. Giorgio Airaudo, leader storico dei metalmeccanici della Cgil, da una settimana ripete quasi come un mantra la parola “Tesla”, il brand della società californiana di Elon Musk, specializzata in auto elettriche. E dalla quale Fca, come ha anticipato il Financial Times e come ha confermato nell’assemblea di Amsterdam il successore di Sergio Marchionne, Michael Manley, ha comprato i diritti per sottrarsi alle sanzioni che l’attendevano per le gravi insufficienze della sua produzione automobilistica in tema di emissioni di CO2. Il Lingotto era l’azienda messa peggio in Europa e, a partire dal 2020, rischiava multe colossali: ora le sue auto verranno conteggiate assieme a quelle di Tesla, grazie a un escamotage scovato nei regolamenti Ue. A Torino, nel dialetto piemontese ormai quasi dimenticato, lo chiamerebbero un tacon: un taccone, un rammendo.

“Il problema delle emissioni era la vera spada di Damocle per la dirigenza di Fca – spiega Airaudo –; ciò che rendeva tutto difficile e tutto più urgente in vista di una vendita o anche solo di una partecipazione. Con questa mossa si prende invece tempo; secondo me almeno un anno, un anno e mezzo: ma la strada è segnata. Elkann continua a parlare di auto elettrica, in una società che, anche su questo fronte, è all’ultimo posto tra i produttori e, sempre Elkann, continua ad affidare le sorti di Mirafiori proprio al nuovo modello elettrico della 500 Fiat. L’accordo con Tesla, però, è addirittura clamoroso nel suo evidente significato: Fca non investe nulla per recuperare su quei due fronti, emissioni e auto elettrica, e si limita solo a comprare un ‘credito’ da altri per tamponare. Qualcuno ha calcolato che la prima sanzione sarebbe stata di 300 milioni di euro, un margine molto vicino ai veri guadagni europei di Fca di 3-4 anni fa. Le voci parlano di una spesa superiore a quella cifra per acquistare i diritti da Tesla. Manley ha invocato la riservatezza commerciale e si è rifiutato di rivelare il costo dell’accordo. Ha anche aggiunto che esso andrà avanti per gli anni a venire, ma non sappiamo se con un contratto limitato per ora solo a un anno o già vincolante anche per il futuro”.

Messo giù così, allora il problema diventa quello di declinare soprattutto le condizioni delle strategie che verranno. Vendita, alleanza, diluizione della propria partecipazione, joint venture, realizzazione di piattaforme comuni con altri produttori o ancora una volta la sfida di chi corre da solo? L’ultima ipotesi a Torino fa sorridere e, invece, qualcosa di più di un sorriso strappano le altre dichiarazioni dall’Olanda (la nuova sede legale del gruppo, mentre il domicilio fiscale è a Londra) del nipote di Gianni Agnelli e figlio di Alain Elkann: “Fca non è mai stata più forte e così in salute come oggi. Siamo pronti a giocare il nostro ruolo in questa nuova ed entusiasmante era dell’industria dell’auto”. Frasi che, in riva al Po, sono state subito collegate ancora una volta alla tattica attendista di quell’anno e mezzo messo in cascina grazie all’accordo con Tesla: “Che cosa dovrebbe mai dire di diverso Elkann? In realtà, a ben guardare, non sta dicendo nulla: siamo qui, stiamo a vedere, nulla è precluso…”.

Lo scetticismo riguarda soprattutto il “paravento” dell’auto elettrica, sbandierata e vantata da alcuni mesi e non solo per il futuro della Grande Mirafiori (che sta rasentando gli 11 anni di cig ripetuta), ma per quello dell’intero gruppo. E difesa, sino all’alterco mediatico (il segnale di un nervo molto scoperto), persino con l’ex presidente della Fiat (ed ex famiglio di Casa Agnelli) Luca Cordero di Montezemolo che, su Repubblica, aveva ironizzato sull’unico veicolo elettrico attribuibile a Fca, ma targato Ferrari.

L’economista dell’auto Giuseppe Berta è lapidario: “In realtà, la ricerca targata Fca in quel settore è in ritardissimo. La Fiat 500 elettrica? C’è da immaginare volumi di vendita, basta ragionare sui dati Anfia, attorno alle poche migliaia. Nissan, che sta davanti a tutti, ha messo assieme 47 mila vetture elettriche nel 2018. Dire che questo è già il futuro di Fca è un’assoluta esagerazione”. E Airaudo evoca addirittura Umberto Agnelli: “Quanto costa tenere in pedi lo stabilimento di Mirafiori? Lui un giorno uscì allo scoperto e disse: serve una produzione di 200 mila auto all’anno. È vero, tante cose sono cambiate, ma non sembra possibile una rapida espansione di auto elettriche capace di dare garanzie in tal senso”. La disomogeneità del gruppo, infine, con tutta la sua vera forza concentrata negli Usa e una debolezza cronica in Europa, lascia pochi margini per nutrire le stesse certezze di John Elkann.

E allora? Tutte le analisi serie continuano a girare attorno alla sola proposta in campo che abbia i crismi dell’ufficialità. Quella della Peugeot che, nelle settimane scorse, ha parlato con chiarezza della propria disponibilità ad aprire una trattativa. Con un obiettivo non detto, ma facilmente identificabile: usare la testa di ponte di Fca (di Chrysler a dire il vero) per tornare nel mercato statunitense. Una strategia che dovrà affrontare le compatibilità tra il proprio assetto societario (una vera e propria “conglomerata” con la famiglia Peugeot, lo Stato francese e una partecipazione cinese che, come accade per questi grandi investimenti di Pechino, conserva comunque una supervisione anch’essa statale) e le volontà del governo Usa (soprattutto a guida Trump).

“Se l’ipotesi è questa – prosegue Airaudo – la diluizione del controllo di Fca potrebbe essere la soluzione più gradita ad Elkann. All’apparenza, lui sembra resistere e le sue parole su un impegno che dura da 120 anni o certe sue visioni sul futuro del mercato dell’auto sembrano rispondere proprio a questa esigenza. Nello stesso tempo, il segnale di Peugeot, più a che a lui, sembra destinato al resto degli azionisti, i membri dell’accomandita di famiglia. C’è un’assoluta identità di vedute o esistono posizioni pronte a differenziarsi? È un primo passo da parte di tutti e l’accordo con Tesla così come il rinnovo della cassa integrazione consentono di guadagnare il tempo necessario”.

Una possibile diluizione che qualcuno comincia a immaginare, costruendo addirittura una similitudine con qualcosa di particolare già avvenuto all’ombra di John Elkann e nel regno Exor: la fusione del 2017 tra il Gruppo Espresso-Repubblica e quello Itedi-La Stampa-Secolo XIX, diventati Gruppo Editoriale Gedi con la quota più forte saldamente in mano ai De Benedetti. Ma dove Elkann continua ad avere un peso addirittura superiore alla quota reale: lo stesso potrebbe dunque accadere un domani con Fca, realizzando così il Bingo di intascare denaro (l’interesse che sta dietro molti membri dell’accomandita di famiglia), mantenere un certo qual peso o almeno il prestigio, diversificare a quel punto gli investimenti di Exor e, infine, impedire che si parli di fuga degli eredi Agnelli.

“La suggestione Stampa-Repubblica secondo me ha qualche chance di realizzarsi – conclude Airaudo -. A questo punto, però, ciò che non si vede è l’attenzione del governo italiano e delle istituzioni piemontesi attorno a questa vicenda. Se è vero che lo Stato francese ha degli interessi nella Peugeot e che il governo Usa potrebbe voler dire la sua sull’arrivo di marchi a partecipazione cinese, in Italia invece il silenzio su Fca è tombale. In Piemonte la campagna elettorale per le regionali di maggio è tutta concentrata sul Tav e nessuno, a cominciare dal Pd e da Sergio Chiamparino, parla di Fca”. Che nell’area piemontese vale, tra Mirafiori, Maserati di Grugliasco e indotto, almeno 90-100 mila lavoratori.