Da Amsterdam, John Elkann ha rassicurato ancora una volta (“Dopo 120 anni, la mia famiglia continuerà a esserci…”): ma nella Torino che non pensa solo al Tav, le sue parole convincono poco. Dove andrà Fca? Anzi, la Fiat: come qui, in molti, si ostinano ancora a dire; per nostalgia e anche con un po’ di rabbia e un po’ di disillusione. E con quale compagnia di viaggio poi, magari vendendo addirittura la propria storia ad altri?
Se provi a chiederlo a chi in Fca, sotto la Mole, ci lavora (o meglio, sta in cassa integrazione) e a chi quei lavoratori vuole ancora tutelare, la risposta è precisa: “È solo questione di tempo e loro, ormai è chiaro, stanno prendendo tempo per poter decidere”. Per farlo, devi andare in via Sagra di San Michele, nella sede della Fiom Piemonte: una ex fabbrica di estintori rifatta secondo lo stile di un’architettura “povera” ma persino elegante, nella periferia che accompagna la città verso la Valle di Susa e la Francia. Giorgio Airaudo, leader storico dei metalmeccanici della Cgil, da una settimana ripete quasi come un mantra la parola “Tesla”, il brand della società californiana di Elon Musk, specializzata in auto elettriche. E dalla quale Fca, come ha anticipato il Financial Times e come ha confermato nell’assemblea di Amsterdam il successore di Sergio Marchionne, Michael Manley, ha comprato i diritti per sottrarsi alle sanzioni che l’attendevano per le gravi insufficienze della sua produzione automobilistica in tema di emissioni di CO2. Il Lingotto era l’azienda messa peggio in Europa e, a partire dal 2020, rischiava multe colossali: ora le sue auto verranno conteggiate assieme a quelle di Tesla, grazie a un escamotage scovato nei regolamenti Ue. A Torino, nel dialetto piemontese ormai quasi dimenticato, lo chiamerebbero un tacon: un taccone, un rammendo.
“Il problema delle emissioni era la vera spada di Damocle per la dirigenza di Fca – spiega Airaudo –; ciò che rendeva tutto difficile e tutto più urgente in vista di una vendita o anche solo di una partecipazione. Con questa mossa si prende invece tempo; secondo me almeno un anno, un anno e mezzo: ma la strada è segnata. Elkann continua a parlare di auto elettrica, in una società che, anche su questo fronte, è all’ultimo posto tra i produttori e, sempre Elkann, continua ad affidare le sorti di Mirafiori proprio al nuovo modello elettrico della 500 Fiat. L’accordo con Tesla, però, è addirittura clamoroso nel suo evidente significato: Fca non investe nulla per recuperare su quei due fronti, emissioni e auto elettrica, e si limita solo a comprare un ‘credito’ da altri per tamponare. Qualcuno ha calcolato che la prima sanzione sarebbe stata di 300 milioni di euro, un margine molto vicino ai veri guadagni europei di Fca di 3-4 anni fa. Le voci parlano di una spesa superiore a quella cifra per acquistare i diritti da Tesla. Manley ha invocato la riservatezza commerciale e si è rifiutato di rivelare il costo dell’accordo. Ha anche aggiunto che esso andrà avanti per gli anni a venire, ma non sappiamo se con un contratto limitato per ora solo a un anno o già vincolante anche per il futuro”.
Messo giù così, allora il problema diventa quello di declinare soprattutto le condizioni delle strategie che verranno. Vendita, alleanza, diluizione della propria partecipazione, joint venture, realizzazione di piattaforme comuni con altri produttori o ancora una volta la sfida di chi corre da solo? L’ultima ipotesi a Torino fa sorridere e, invece, qualcosa di più di un sorriso strappano le altre dichiarazioni dall’Olanda (la nuova sede legale del gruppo, mentre il domicilio fiscale è a Londra) del nipote di Gianni Agnelli e figlio di Alain Elkann: “Fca non è mai stata più forte e così in salute come oggi. Siamo pronti a giocare il nostro ruolo in questa nuova ed entusiasmante era dell’industria dell’auto”. Frasi che, in riva al Po, sono state subito collegate ancora una volta alla tattica attendista di quell’anno e mezzo messo in cascina grazie all’accordo con Tesla: “Che cosa dovrebbe mai dire di diverso Elkann? In realtà, a ben guardare, non sta dicendo nulla: siamo qui, stiamo a vedere, nulla è precluso…”.
Lo scetticismo riguarda soprattutto il “paravento” dell’auto elettrica, sbandierata e vantata da alcuni mesi e non solo per il futuro della Grande Mirafiori (che sta rasentando gli 11 anni di cig ripetuta), ma per quello dell’intero gruppo. E difesa, sino all’alterco mediatico (il segnale di un nervo molto scoperto), persino con l’ex presidente della Fiat (ed ex famiglio di Casa Agnelli) Luca Cordero di Montezemolo che, su Repubblica, aveva ironizzato sull’unico veicolo elettrico attribuibile a Fca, ma targato Ferrari.
L’economista dell’auto Giuseppe Berta è lapidario: “In realtà, la ricerca targata Fca in quel settore è in ritardissimo. La Fiat 500 elettrica? C’è da immaginare volumi di vendita, basta ragionare sui dati Anfia, attorno alle poche migliaia. Nissan, che sta davanti a tutti, ha messo assieme 47 mila vetture elettriche nel 2018. Dire che questo è già il futuro di Fca è un’assoluta esagerazione”. E Airaudo evoca addirittura Umberto Agnelli: “Quanto costa tenere in pedi lo stabilimento di Mirafiori? Lui un giorno uscì allo scoperto e disse: serve una produzione di 200 mila auto all’anno. È vero, tante cose sono cambiate, ma non sembra possibile una rapida espansione di auto elettriche capace di dare garanzie in tal senso”. La disomogeneità del gruppo, infine, con tutta la sua vera forza concentrata negli Usa e una debolezza cronica in Europa, lascia pochi margini per nutrire le stesse certezze di John Elkann.
E allora? Tutte le analisi serie continuano a girare attorno alla sola proposta in campo che abbia i crismi dell’ufficialità. Quella della Peugeot che, nelle settimane scorse, ha parlato con chiarezza della propria disponibilità ad aprire una trattativa. Con un obiettivo non detto, ma facilmente identificabile: usare la testa di ponte di Fca (di Chrysler a dire il vero) per tornare nel mercato statunitense. Una strategia che dovrà affrontare le compatibilità tra il proprio assetto societario (una vera e propria “conglomerata” con la famiglia Peugeot, lo Stato francese e una partecipazione cinese che, come accade per questi grandi investimenti di Pechino, conserva comunque una supervisione anch’essa statale) e le volontà del governo Usa (soprattutto a guida Trump).
“Se l’ipotesi è questa – prosegue Airaudo – la diluizione del controllo di Fca potrebbe essere la soluzione più gradita ad Elkann. All’apparenza, lui sembra resistere e le sue parole su un impegno che dura da 120 anni o certe sue visioni sul futuro del mercato dell’auto sembrano rispondere proprio a questa esigenza. Nello stesso tempo, il segnale di Peugeot, più a che a lui, sembra destinato al resto degli azionisti, i membri dell’accomandita di famiglia. C’è un’assoluta identità di vedute o esistono posizioni pronte a differenziarsi? È un primo passo da parte di tutti e l’accordo con Tesla così come il rinnovo della cassa integrazione consentono di guadagnare il tempo necessario”.
Una possibile diluizione che qualcuno comincia a immaginare, costruendo addirittura una similitudine con qualcosa di particolare già avvenuto all’ombra di John Elkann e nel regno Exor: la fusione del 2017 tra il Gruppo Espresso-Repubblica e quello Itedi-La Stampa-Secolo XIX, diventati Gruppo Editoriale Gedi con la quota più forte saldamente in mano ai De Benedetti. Ma dove Elkann continua ad avere un peso addirittura superiore alla quota reale: lo stesso potrebbe dunque accadere un domani con Fca, realizzando così il Bingo di intascare denaro (l’interesse che sta dietro molti membri dell’accomandita di famiglia), mantenere un certo qual peso o almeno il prestigio, diversificare a quel punto gli investimenti di Exor e, infine, impedire che si parli di fuga degli eredi Agnelli.
“La suggestione Stampa-Repubblica secondo me ha qualche chance di realizzarsi – conclude Airaudo -. A questo punto, però, ciò che non si vede è l’attenzione del governo italiano e delle istituzioni piemontesi attorno a questa vicenda. Se è vero che lo Stato francese ha degli interessi nella Peugeot e che il governo Usa potrebbe voler dire la sua sull’arrivo di marchi a partecipazione cinese, in Italia invece il silenzio su Fca è tombale. In Piemonte la campagna elettorale per le regionali di maggio è tutta concentrata sul Tav e nessuno, a cominciare dal Pd e da Sergio Chiamparino, parla di Fca”. Che nell’area piemontese vale, tra Mirafiori, Maserati di Grugliasco e indotto, almeno 90-100 mila lavoratori.