“Con rammarico”: i naufraghi di FI gettano B. a mare

L’ultima dichiarazione d’addio è stata colpevolmente trascurata dai media. Eppure, senza falsa modestia, anche la signora Soccorsa Chiarappa (nome e cognome) da San Severo, ha compiuto la fatale scelta. È cioè passata al nemico: “Da soldatessa dell’esercito di Silvio, da donna che ha impugnato la spada per difenderlo nei momenti più duri, dico che Forza Italia finisce qui”. L’amazzone del Tavoliere ora e purtroppo – insieme alla moltitudine dei naufraghi che hanno toccato terra – se la spassa con Matteo Salvini, selfizzato su facebook, per l’inizio di una nuova, strabiliante storia d’amore.

“Lascio Forza Italia”. Il quinquennio degli addii certo non si conclude con il veleno di Elisabetta Gardini, appena tuffata a mare per raggiungere la scialuppa di Giorgia Meloni, ma la stagione dei traslochi, e tutti con la medesima frase di compunta e dispiaciuta dipartita, inizia con un magnifico duo. Prima monsieur Denis Verdini, archistar della geopolitica berlusconiana, poi Paolino Bonaiuti, essenza di Silvio nei giornali e nella televisione, avviarono, nella devota contrizione, il grande smottamento: “Lascio Forza Italia dopo una lunga e dolorosa riflessione”. Dall’apice la riflessione, per la forza di gravità, è calata in basso. Qui siamo solo per rendere, visto che nessuno testimonia il dolore della truppa, le innumerevoli riflessioni che si fanno diserzioni. Accanto a un Vittorio Sgarbi, multietnico del centrodestra, che chiede a Giorgia Meloni di trovargli posto, dopo aver patìto da Silvio Berlusconi una profonda offesa, nota come “lo schiaffo di Sutri”, la città della Tuscia che lo ha chiamato a fare il sindaco. È successo che Silvio abbia disertato “e per ben due volte”, la cerimonia di intitolazione di un giardino alla compianta mamma Rosa, “benchè – recita il comunicato d’addio sgarbiano – il catering fosse già pronto”. Perso Sgarbi e perso Carlo Alberto Ghidotti, presidente del Consiglio comunale di Cremona: “Non posso far finta di nulla”. E a ragione neanche Giuseppe Graziano, consigliere regionale calabrese, non ha potuto far finta, e poi, come Antonella Patera, consigliere comunale di Como. “Con profondo rammarico lascio Forza Italia. I colleghi mi hanno definita una dei sette sfigati di Como”.

E se è ormai denso di ricordi l’amore sciupato della pitonessa Daniela Santanchè, da tempo fascistizzata, le ferite più recenti che il territorio, questo benedetto territorio, riserva a Silvio e al suo procuratore protempore, il volenteroso Antonio Tajani (il becchino di Forza Italia, dice la Gardini), sono innumerevoli. Tantissimi i fanti che deviano e arretrano, e gli imbarcati che chiedono una scialuppa di salvataggio perchè, anche nel loro piccolo, l’amore per la causa ha un limite. Valeria D’Acunzo, sempre dopo “tormentata riflessione”, lascia il gruppo nel consiglio comunale di Terni, e in Abruzzo Fabrizio Di Stefano, prima deputato e poi senatore, non sente più “lo spirito del centrodestra”. Senza spirito, ma con tanti voti in tasca, diserta.

È dalla periferia che arrivano le sorprese più sgradite, i colpi più dolorosi, gli affetti perduti negli annunci quotidiani. Una moltitudine di senza quid, giudizio avversativo che il Cavaliere usò per tarpare le ali ad Angelino Alfano, ora solo avvocato, avanza.. Cosa dobbiamo dire a Marcello Antonelli, consigliere comunale di Pescara, che ha visto, “stanca, fiacca, ferma Forza Italia e con grande dolore io lascio. Premesso che faccio un ragionamento a 360 gradi”. Pur dimezzando i gradi del ragionamento, il risultato resta disgrazia. Perchè a Taranto il Cavalier Alfredo Luigi Conti non ne vuole più sapere di coordinare il gruppo politico, e a Reggio Calabria Luigi Dattola, consigliere comunale, si trova “veramente a disagio”. Addirittura c’è Nicola Arduino, che avrebbe dovuto essere il faro del partito a Palermo, che si è autoafflitto: “Non mi piace più il partito che sto guidando”. Se lo è detto a se stesso, nella più lacerante autocritica.

Lascia, naturalmente con “grande rammarico” anche Piero Macedonio, medico di Agrigento. Gli italiani non hanno il dovere di saperlo, ma noi abbiamo quello di segnalare che grazie a Macedonio Angelino Alfano esiste: “Io lo lanciai in politica, e so già che Gesù non me lo perdonerà mai”.

In Sicilia è Gianfranco Miccichè a far tribolare: “Ormai è alla fine della sua carriera e fa l’asso pigliatutto. E noi?”

Voi chi? Se anche nel Veneto Massimo Giorgetti, “dopo attenta e dolorosa riflessione”, ha lasciato il gruppo regionale, e Michele Giardino, poveretto, a Piacenza lascia quello del consiglio comunale: “Ho la sensazione di non essere reputato all’altezza di Forza Italia”.

Un popolo in fuga e bisogna trovargli riparo. Luca Marsico non sente più profumo di casa a Varese, Danilo Repetti, già sindaco di Aqui Terme, avverte quello della Lega. E Federico Brizi a Terni, uguale. Antonio Biella non coordina più nel tarantino, E Silvia Sardone, negli ultimi anni ritenuta vera vichinga berlusconiana, ha da tempo cercato un alloggio di fortuna. C’è stato persino l’angolo del dileggio. Pietro Spizzirri, comunque vicecoordinatore dei club di Forza Italia, aveva promosso la corrente “Forza Salvini”. Una vera provocazione. Per fortuna è stato espulso.

Le divise della Polizia sono “Made in Romania”

Le divise delle nostre forze dell’ordine non vengono prodotte in Italia ma in Romania. Sembrerà assurdo, ma la delocalizzazione riguarda anche quelle che spesso, con la fierezza del patriota, indossa il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il settore conta poche aziende che da anni fanno incetta di bandi pubblici per le forniture a Polizia, Carabinieri ed Esercito; hanno la sede perlopiù in Lombardia o in Toscana, ma i loro stabilimenti sono più vicini a Bucarest che a Milano o Firenze. Ed è proprio da lì che sfornano centinaia di migliaia di uniformi con costi ben più bassi di quelli che sosterrebbero qui. Solo che il nostro Stato paga quegli equipaggiamenti come se fossero cuciti e confezionati dentro i confini nazionali.

Questo sistema di fatto permette alle imprese di fare la “cresta” sugli ordinativi ricevuti dalla pubblica amministrazione. Stasera se ne occuperà la trasmissione Report – in onda su Rai Tre alle 21.20 – con un’ampia inchiesta firmata da Emanuele Bellano, con la collaborazione di Alessia Cerantola e Greta Orsi. L’impressione è che attorno agli appalti per la creazione delle divise militari si sia formato una sorta di cartello. E infatti succede spesso che queste gare vengono aggiudicate con ribassi minimi: un esempio di pochi mesi fa è un bando dei Carabinieri diviso in nove lotti, cinque dei quali vinti da aziende con ribassi inferiori all’uno per cento.

Report ha visitato le sedi produttive di alcune tra queste società. La Alfredo Grassi Spa ha ottenuto una commessa per la fornitura di divise al prezzo di 163 euro l’una. Il costo per prepararle nella fabbrica rumena di Targutrotus si ferma però a circa 90 euro. In pratica, un guadagno dell’80% per ogni capo.

Specializzata in tenute mimetiche è la Lovers, che ha 16 dipendenti in Italia e oltre 300 all’estero. Che le forniture per le nostre forze dell’ordine arrivino da Falticeni, nel Nord della Romania, è noto anche ai vertici militari: sono gli stessi colonnelli a recarsi frequentemente in questi stabilimenti per il controllo qualità. E di questo è al corrente anche il sovranista Matteo Salvini, che – rispondendo a Report – ha dato la colpa al fatto che si tratti di bandi europei, promettendo che cercherà di cambiare le regole. Insomma, sanno tutti che queste imprese prendono soldi dai contribuenti italiani per dare lavoro a operai rumeni pagati 290 euro al mese. Lo stesso meccanismo che il governo vuole provare a combattere con il decreto Dignità; le norme anti-delocalizzazione contenute in quella legge non potranno però fare nulla in questo caso, anche perché la Romania è nell’Unione Europea. Il paradosso è che mentre il nostro Stato paga per queste forniture prezzi sproporzionati rispetto ai costi, le nostre forze dell’ordine continuano a lamentare una carenza di divise.

I pm: “Consenso tramite la gestione del personale”

I presunti reati dei direttori dell’Azienda ospedaliera di Perugia, che manipolavano i concorsi per favorire i raccomandati della politica, secondo l’accusa, erano motivati dalla “volontà di ottenere, dai vertici politici regionali, la conferma dell’incarico dirigenziale”. “Proprio nel mese scorso – scrivono i pm nella richiesta di misura cautelare in un passaggio anticipato ieri da La Nazione – la Regione ha avviato la procedura per la nomina dei nuovi direttori regionali”. E per questa nomina i direttori indagati a Perugia avevano presentato la domanda. Se questo è ciò che è già emerso dall’indagine in corso, per la Procura guidata da Luigi De Vichy, in Umbria si profilava un contesto ulteriore. “L’assoluto stato di soggezione – scrivono i pm – alle richieste dei politici regionali di maggioranza più importanti dà conto di come sia impossibile che tali condotte criminose si siano nel frattempo interrotte. Ed anzi proprio l’avvicinarsi di scadenze politiche importanti a livello regionale potrebbe acuire l’esigenza di assicurarsi il consenso elettorale tramite la gestione del personale”.

Il presunto sistema clientelare nella sanità umbra quindi poteva avere connessioni con le imminenti elezioni comunali, ma anche con quelle regionali del prossimo anno.

Sono alcune delle novità emerse dalla richiesta di misura cautelare dei pm nell’ambito dell’indagine che è stata un terremoto in Regione – con la presidente Catiuscia Marini indagata per abuso d’ufficio e rivelazione di segreto – e nel Pd umbro, con l’ex sottosegretario Gianpiero Bocci e l’assessore alla Salute Luca Barberini finiti ai domiciliari. Stessa misura emessa per il direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Perugia Emilio Duca e per quello amministrativo Maurizio Valorosi. Altri sei dirigenti dell’Azienda ospedaliera sono stati sospesi.

Secondo le accuse a Duca si rivolgevano politici e non per segnalare persone a loro vicine da inserire nelle graduatorie di selezione del personale nella sanità umbra. Duca riusciva poi a ottenere dai commissari le tracce da far arrivare in anticipo ai “raccomandati”.

Oggi inizieranno gli interrogatori.

Intanto nella richiesta i pm parlano di un “credito da incassare” per aver gestito il “sistema”, ossia la conferma dei direttori ai vertici della sanità umbra. “È emerso (…) che la spinta a delinquere fosse mossa in larga parte dalla volontà per i direttori di ottenere dai vertici politici regionali – scrivono i pm – la conferma dell’incarico dirigenziale. Nel mese scorso la Regione ha avviato la procedura per la nomina dei nuovi direttori regionali. Duca, Valorosi e Pacchiarini (direttore Sanitario dell’Azienda Ospedaliera di Perugia, anche questi indagato, ndr) hanno già presentato la domanda. È arrivato forse il momento di incassare i ‘crediti’ maturati con la politica in questi anni”.

Meloni accarezza Salvini su tasse e Tav. L’obiettivo: sganciarlo dal Movimento

Un buon risultato alle europee per forzare Matteo Salvini a mollare i 5 Stelle e a tornare al governo con centrodestra. La conferenza programmatica con cui Giorgia Meloni ha lanciato ieri la campana elettorale di Fdi per le Europee è una mano tesa al vecchio alleato leghista, con tanto di carezze a Matteo sui temi che più dividono i gialloverdi. Lo testimonia la presenza a Torino di Massimo Gandolfini, deus ex machina del Family Day e volto del Congresso delle famiglie di Verona, prima ancora delle bordate su Tav, flat tax e alleanze europee. “Più Tav, più infrastrutture, meno tasse” è il mantra della leader, che lancia la convention con l’orgoglio di chi, durante l’avanzata leghista, ha mantenuto i consensi stabili: “Con buona pace di tutti quelli che avevano diagnosticato la nostra prematura sconfitta, Fratelli d’italia c’è”.

E ci sarà soprattutto in caso di vittoria alle urne, sirena ideale per tentare Salvini: “Dopo le elezioni credo sia necessario tornare al voto e creare una nuova maggioranza senza i 5 Stelle. Più forte sarà il consenso per Fdi e più probabile sarà questo scenario. Non chiedo alla Lega di staccare la spina, ma faccio un ragionamento politico”. Come dire: caro Matteo, non ci saranno alternative. D’altra parte c’è una flat tax da fare “subito e per tutti, senza scaglioni”, come invece consigliano i grillini, tacciati a loro volta di essere “non pervenuti”: “Per loro uno vale uno, Merkel vale come i gilet gialli”. Una frecciata sulle amicizie europee – Di Maio incrontrò i vertici dei gilet gialli, prima di dissociarsene – che rimanda a un altro scontro tra 5 Stelle e Lega, accusati dal M5S di essere alleati di partiti negazionisti.

Ma per un Salvini da corteggiare c’è anche un centrodestra in cui c’è spazio per nuovi equilibri. Per questo la Meloni porta al Lingotto Giovanni Toti, un tempo delfino di B. e ora in cerca di aria nuova: “Forza Italia sta con la Merkel, c’è più distanza da FI che dalla Lega sull’Europa – dice la Meloni – noi vogliamo cambiare tutto, compreso il presidente del Parlamento Ue”. Che, segnatamente, è anche il vicepresidente di FI Antonio Tajani. Un attacco che ha costretto i pasdaran forzisti – da Maria Stella Gelmini a Anna Maria Bernini e Maurizio Gasparri – a prendere le difese di Tajani: “Ma la Meloni non era sovranista? – si chiede la berlusconiana Maria Rizzotti – La sua italianità si declina attaccando un presidente italiano? La sua caduta di stile non ci sorprende”. Prove di centrodestra unito.

Condannati e indagati: i politici peggiori siedono nelle Regioni

Catiuscia Marini, indagata per i concorsi truccati nella sanità umbra, è l’ultima dei presidenti di Regione finiti in guai giudiziari. Prima di lei, è lunga la lista di governatori inquisiti o imputati. Alcuni sono stati assolti, altri condannati. Per altri i processi sono in corso. E sono ancor più ricorrenti per i politici regionali che per i parlamentari nazionali.

Abruzzo. Ottaviano Del Turco, governatore dal 2005 al 2008, è stato condannato in via definitiva a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita nel processo sulla Sanitopoli abruzzese. Dopo di lui, Luciano D’Alfonso: indagato più volte, ma sempre assolto, è di nuovo imputato per falso e abuso per Pescara Porto.

Basilicata. È in corso l’udienza preliminare dell’inchiesta sulla sanità lucana. A luglio 2018 portò ai domiciliari l’ex presidente Marcello Pittella (Pd), appena rieletto.

Campania. Il presidente Vincenzo De Luca è imputato (da ex sindaco di Salerno) per falso in atto pubblico per la costruzione di piazza della Libertà a Salerno. È stato invece assolto per la nomina del project manager del termovalorizzatore di Salerno e per il Crescent.

Calabria. La Cassazione ha annullato senza rinvio la misura cautelare nei confronti del presidente della Regione Calabria Mario Oliverio, che resta indagato per abuso d’ufficio e corruzione.

Lazio. Renata Polverini è a processo per appropriazione indebita verso il sindacato Ugl: si dimise da governatore dopo lo scandalo delle spese pazze in consiglio. Indagato, verso l’archiviazione, anche l’attuale governatore Pd Nicola Zingaretti: è accusato di finanziamento illecito. Richiesta di archiviazione per Zingaretti anche per l’accusa di falsa testimonianza al processo “Mafia Capitale”.

Lombardia L’ex presidente leghista Roberto Maroni è stato condannato a un anno di reclusione, pena sospesa, per turbata libertà del contraente per l’affidamento di un incarico in Expo all’ex collaboratrice Mara Carluccio. Si trova invece in carcere l’ex governatore Roberto Formigoni: è stato condannato in via definitiva per corruzione a 5 anni e 10 mesi nel processo per le tangenti dalle cliniche Maugeri e San Raffaele.

Molise. La Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna per abuso d’ufficio in appello per l’ex presidente Michele Iorio, per una vicenda relativa alla gestione dello zuccherificio del Molise.

Piemonte. Roberto Cota, governatore leghista dal 2010 al ‘14, è imputato per Rimborsopoli: assolto in primo grado, in appello è stato condannato a 1 anno e 7 mesi per peculato (mutande verdi e altro).

Puglia. L’ultimo dei governatori indagati è Michele Emiliano: accusato di finanziamento illecito per la campagna elettorale per le primarie Pd del 2017. È stato invece in parte assolto in parte prescritto in Cassazione l’ex presidente Raffaele Fitto, nel processo su un appalto del 2004 da 198 milioni per 11 rResidenze sanitarie assistite. L’ex governatore Nichi Vendola è imputato per concussione al processo per il disastro ambientale dell’Ilva.

Sicilia. L’ex governatore Totò Cuffaro è stato condannato in Cassazione a 7 anni per favoreggiamento a Cosa nostra. Dopo di lui, guai giudiziari anche per Raffaele Lombardo: a luglio 2018 la Cassazione ha annullato (con rinvio a nuovo processo di appello) la sentenza di secondo grado che l’aveva assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e lo aveva condannato a 2 anni per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso.

Valle D’Aosta. Augusto Rollandin, ex governatoredell’Union Valdotaine, fu condannato nel 1994 in via definitiva a 16 mesi di carcere (con interdizione dai pubblici uffici, poi estinta) per abuso d’ufficio. Ma è stato ugualmente rieletto. Di nuovo indagato per l’appalto del parcheggio del nuovo ospedale d’Aosta, è stato assolto in primo e secondo grado. A marzo però è stato condannato a 4 anni e 6 mesi per corruzione: favori in cambio di appoggio elettorale.

Umbria. Prima dell’indagine su Catiuscia Marini&C., era finita nei guai anche l’ex governatrice Pd Maria Rita Lorenzetti (ex presidente Italferr): condanna confermata dalla Cassazione a 8 mesi di reclusione (pena sospesa) per falso ideologico su una delibera del 2009 che autorizzava alcune Asl ad assumere personale; e nuovo rinvio a giudizio per i lavori Tav a Firenze.

Sardegna. Francesco Pigliaru (Pd), finito nel mirino della Corte dei Conti per l’acquisto della Hidrocontrol nel 2006 (quando era assessore della giunta Soru) viene dichiarato prescritto nel 2015. Se la cava con la prescrizione, nel 2018, anche il suo predecessore Ugo Cappellacci (FI), per il filone sull’eolico in Sardegna dell’inchiesta P3; ma viene condannato a 2 anni e 6 mesi in primo grado per il crac della Sept Italia.

Ma mi faccia il piacere

La palla in tribuna. “Il caso Umbria: tutti i partiti facciano i conti” (Claudio Tito, Repubblica, 13.4). Quando arrestano De Vito, “i 5Stelle rubano” (anche se è uno solo) e c’è il “sistema Raggi sotto accusa” (anche se la Raggi non c’entra nulla). Quando in Umbria indagano la governatrice del Pd e arrestano il segretario e l’assessore del Pd, è colpa di “tutti i partiti”.

Scambi di coppia. “E invece Salvini – che si trovava dalla sera prima con la nuova fidanzata Francesca Verdini nella villa di famiglia (di lei) a Pian dei Giullari – chiama al telefono il presidente del Consiglio che ha appena terminato il suo intervento al Festival dell’Economia civile a Firenze. Anche lui è accompagnato dalla fidanzata Virginia Saba” (Repubblica, 1.4). Cioè: Conte ha fregato la fidanzata a Di Maio?

Scambi di accento. “A mia figlia Francesca le ha pigliato così, sapete come sono fatti i figlioli. Certe disgrazie capitano” (Denis Verdini, ex senatore Pdl e Ala, sul fidanzamento tra la figlia e Matteo Salvini, La Stampa, 10.4). Càpitano o Capitàno?

Slurp. “Lei incede a occhi chini e un passo indietro al suo uomo. Matteo Salvini la guida tenendola per mano, quasi la tira. Il piglio, più che da cavaliere, è da condottiero o da capitano. Francesca Verdini, abito nero e poco trucco, da cena elegante, però elegante davvero, entra alla Scala… È il suo debutto da fidanzata ufficiale del ministro a un evento istituzionale. In lungo, spalle e scollatura celati da una pudica stola, schiva con i fotografi… Sembra aver studiato da fidanzata di ministro: ha occhi solo per lui e sorrisi costumati per tutti… La sorpresa dell’esordio ufficiale della coppia, 26 anni lei, 46 lui, sono le effusioni da adolescenti. Lei cerca il contatto spalla a spalla mentre nel foyer brindano col sindaco Beppe Sala, o cerca la sua mano, al concerto diretto da Riccardo Chailly… E tubano. Francesca gli accarezza la spalla, i capelli, lo bacia a più riprese. Qui, la ragazza del passo indietro, con grazia, sorpassa a sinistra il maschio alfa. E le coccole ministeriali, essendo impossibili da ignorare, si fanno argomento di conversazione conviviale… Seguono aneddotica e chiacchiere su lui che è dimagrito perchè Francesca lo fa correre tutte le mattine…” (Candida Morvillo, Corriere della sera, 10.4). E poi dicono che il giornalismo investigativo è morto.

L’autocomplotto. “Zingaretti e Chiamparino, campagna elettorale contro i fantasmi del passato” (La Stampa, 7.4). Ce l’hanno con Zingaretti e Chiamparino?

Colpa di Virginia. “La Raggi riesce a distruggere pure la Maratona” (il Giornale, 8.4). É lei che ha fatto piovere.

Il grillino australiano. “Assange, quell’alleanza nel nome del Web. Con i grillini l’amicizia più antica” (Jacopo Iacoboni, La Stampa, 12.4). Ecco perchè l’hanno arrestato. Ora ci vuole almeno l’ergastolo.

Le fiabe della buonanotte. “Il Pd si spaventò di certe ingenuità di Marino e lo ha abbandonato” (Corrado Augias, Repubblica, 12.4). Ecco finalmente spiegato, dopo quattro anni, perchè Renzi e Orfini fecero fuori Marino col pretesto delle cene a spese del Comune: erano “spaventati di certe sue ingenuità”. Non è meraviglioso?

Senti chi pirla. “Wikileaks e Russiagate, Hillary all’attacco: ‘Assange ha messo in pericolo vite umane’” (La Stampa, 14.4). Invece lei e suo marito, con le loro guerre, ne hanno sterminate a decine di migliaia.

Senti chi sparla. “Altro che cambiamento: torna l’eterno potere italiano” (Marco Follini, ex Dc, ex Ccd, ex Udc, ex Pd, L’Espresso). Ha parlato Che Guevara.

Alberelli/1. “I grillini sono una setta esoterica e anarchica. Quindi contrari alla democrazia e portatori di caos… Mi ribello a un regime. Avverto il dovere di fare da argine ad alcuni passaggi che mettono in pericolo la democrazia. Il referendum propositivo, per esempio” (Francesco Alberoni, neocandidato di FdI a 89 anni, Repubblica, 14.4). In effetti, la prima mossa di ogni dittatore che si rispetti è quella: il referendum propositivo.

Alberelli/2. “E poi le dico: Berlusconi è vecchio” (Alberoni, classe 1929, contro B., classe 1936, ibidem). “A Berlusconi ho scritto diverse lettere, non mi ha mai risposto. Come se fossi morto” (Alberoni, Corriere della sera, 14.4). E se fosse morto lui?

Il titolo della settimana/1. “Smettetela di litigare” (Repubblica, pag. 1, 9.4). Gioco di mano, gioco di villano. Non calpestate le aiuole. E non parlate al conducente.

Il titolo della settimana/2. “Sorpresa, l’evasore tipo è uno straniero. Chi lo dice alla sinistra? A frodare il fisco sono soprattutto gli immigrati” (Libero, 13.4). Quindi Berlusconi l’ha fottuto il fondotinta.

“Renzo Arbore & Friends”, un grazie per avermi accettato come cantante

La pioggia scrosciante non ha impedito che il concerto “Renzo Arbore & Friends” fosse un grande successo: ad assistere allo spettacolo, la sera di venerdì scorso, c’erano oltre cinquemila persone, armate di ombrello. Le note hanno invaso piazza Cavour, a Foggia, arrivando anche a coloro che si sporgevano dai balconi illuminati delle case circostanti. Niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza coloro che hanno contribuito a organizzare questa grande festa in onore del Jazz: in primo luogo Puglia Sounds, il programma della Regione Puglia per lo sviluppo del sistema musicale del territorio. E immediatamente dopo la folta schiera di artisti nazionali che hanno dimostrato di padroneggiare il genere, creando una qualità della musica che è invidiata persino oltreoceano: parliamo dello straordinario collettivo formato dal trombettista Enrico Rava, dal pianista Dado Moroni, dal contrabbassista Rosario Bonaccorso. E ancora, Roberto Gatto alla batteria, Stefano di Battista al sassofono, Enrico Zanisi al piano. Il tutto arricchito dalle performance vocali di Nicky Nicolai e Noemi.

Quest’ultima, nonostante la solida fama nella musica italiana, è stata una sorpresa: ha dimostrato di prestarsi in maniera magistrale ai toni del jazz e del rhythm-and- blues.

Sono stati tutti importantissimi, e li ringrazio per avermi accettato tra loro in qualità di cantante: mi hanno conosciuto in veste di appassionato di swing, in quella di crooner, e adesso hanno assistito anche alla mia versione jazz. Sorprendentemente, mi hanno persino applaudito. Una fonte di soddisfazione enorme deriva dal portare avanti questo genere musicale in una città che si è sempre mostrata reattiva e avanguardista: Foggia, infatti, è stata una delle prime realtà italiane a entrare in contatto con il jazz, che conobbe grazie alla presenza dell’Aeroporto militare di Amendola. Attraverso questo aeroporto militare, che è il più grande d’Italia, gli americani riuscirono infatti a giungere nella città, portando orchestre esperte del genere. I musicisti statunitensi, con le loro note allegre e insolite, furono capaci di coinvolgere e animare il territorio. Da allora, gli abitanti del Comune non hanno più abbandonato queste melodie.

Lo dimostra il fermento culturale del territorio: il concerto di venerdì arriva infatti nel bel mezzo del “Medimex”, il festival che raduna gli appassionati del jazz per 4 giorni di festa, incontri e condivisione (quest’anno si è tenuto dall’11 aprile a oggi).

Oltre ai concerti, è stata organizzata una mostra a Palazzo Dogana dal nome “Patty Boyde and The Beatles”, e un allestimento dal nome “Two for jazz”. Un’altra mostra degna di essere menzionata è quella della Fondazione dei Monti Uniti, che ospita il Fender Vintage Museum con oltre cento esemplari, tra strumenti a corde solid body e amplificatori, costruiti tra il 1951 e il 1974.

In passato il Medimex ha fatto tappa anche a Bari – il suo luogo di nascita – e a Taranto. Sono però particolarmente felice che quest’anno il progetto sia stato ospitato da Foggia: è un premio alla città e allo spirito jazzistico che la anima.

Salone del Libro, incognite e l’arte (vera) di arrangiarsi

Ormai il Salone del Libro di Torino, da qualche anno, è diventato una specie di romanzo d’avventura. Non nel senso del grande romanzo di Alberto Ongaro su Hugo Pratt, Un romanzo d’avventura, per l’appunto, ma in quello molto più italiano dell’incognita perenne, del sempre possibile imprevisto, e ovviamente dell’arte di arrangiarsi, oltre che dei colpi di scena: la guerra (vinta) con Milano, le inchieste della magistratura sulle presunte malversazioni, gli indagati eccellenti (come l’ex sindaco di Torino Piero Fassino). Così, a poco meno di un mese dall’inizio della trentaduesima edizione della fiera del Lingotto, in scena dal 9 al 13 maggio sotto il tema portante di “Il gioco del mondo”, in omaggio a Julio Cortàzar, c’è il pericolo che possa consumarsi senza le tradizionali sale dei convegni, cuore pulsante delle iniziative culturali e spettacolari di Librolandia.

Sarebbe un bel problema, perché significherebbe l’impossibilità di ospitare gli incontri con gli autori, i dibattiti, le lezioni magistrali e via dicendo. In parole povere, vuole dire che non si potrebbero organizzare gli incontri con gli ospiti attesi, da Fernando Savater a Wole Soyinka, al figlio di John Salinger, a chiunque altro attiri pubblico, in qualche altro posto alternativo (alle citate sale) del Lingotto. Tanto che Ricardo Franco Levi, presidente dell’Aie, l’Associazione degli editori italiani rientrata dopo le passate rotture nella cabina di regia del Salone, ha esclamato: “Non posso credere che il problema alla fine non sarà risolto”.

Di certo, c’è un fatto preciso: le sale del Lingotto, da quella “Gialla” alla “Rossa”, dalla “Sala Azzurra” alla “Blu”, non sono di proprietà del Lingotto Fiere, che appartiene al gruppo francese Gl Events, bensì della vecchia Fondazione per il Libro, travolta dai debiti (oltre dieci milioni di euro) e finita in liquidazione. Pertanto sono state messe all’incanto al pari del marchio del Salone, che è stato acquisito, grazie alle fondazioni bancarie torinesi, dall’associazione “Torino, la città del libro”, formata dai fornitori-creditori della vecchia gestione della fiera. Con il marchio, in realtà, erano state messe in vendita pure le quattro sale, con una valutazione di circa 117 mila euro. Il bando, tuttavia, è andato deserto. Nessuno ha presentato offerte per aggiudicarsele. Il commissario liquidatore della Fondazione ha indetto una nuova gara. Il prezzo è sceso a 87.750 euro, con una offerta minima di 65.813 euro.

L’asta si terrà il 18 aprile, con il rischio che, anche questa volta, possa andare deserta. Che cosa succederà in quel caso? Il liquidatore consentirà al Salone di usare temporaneamente gli spazi? Tutti, naturalmente, si augurano che prevalga il buon senso; o che all’ultimo arrivi all’asta il solito cavaliere bianco, sotto le spoglie delle banche, la Fondazione Compagnia di San Paolo o la Fondazione Crt, o di un ente pubblico, tra Comune di Torino e Regione Piemonte, in grado di rilevare gli spazi in questione. Oppure che lo stesso gruppo Gl Events, visto che controlla il complesso fieristico, decida di prendersi in carico la “Sala Gialla” e compagnia. Ma queste sono speranze, non sicurezze. Mentre incredibile, poi, è che nessuno, tra tutti quelli che si occupano della gestione del Salone 2019, si sia posto fin dall’inizio il problema delle sale di Librolandia.

Lo scrittore Nicola Lagioia, direttore culturale della manifestazione, nel frattempo lavora alla preparazione dei contenuti della kermesse, e sulla vicenda degli spazi per ora non dice niente. Però il destino della “Sala Rossa” e affini, su cui Lagioia non può incidere, si prende i titoli nelle pagine di cronaca dei giornali, mettendo in ombra la sua piccola rivoluzione. Nei giorni scorsi, infatti, Lagioia ha dichiarato di avere chiesto alle case editrici di non invitare esponenti politici agli incontri durante il Salone con il pubblico. Una scelta coraggiosa, la sua, affinché il Lingotto non diventi, alla vigilia delle elezioni europee e regionali, una passerella di candidati vari di questa o di quella lista, come è accaduto più volte in passato. Sembra che gli editori, ha detto Lagioia, “abbiano capito lo spirito”. Più difficile sarà che possano capire lo spirito di un Salone, invece, senza posti in cui fare dialogare autrici e autori.

“Per Ronconi sono finito in ospedale e ‘me rode’ per i tanti ruoli da cattivo”

All’improvviso alza lo sguardo, con calma, senza movimenti bruschi, quindi solleva la tapparella a difesa di se stesso, fissa negli occhi l’interlocutore, e diventa ipnotico. Non capita spesso. Si dosa. Perché di solito, mentre parla, Massimo Popolizio guarda in basso o di lato, assorto, sorride della sua vita, delle sue scelte, non maschera un’antica timidezza, e non si sente un “maestro” del teatro (“quelli veri li ho conosciuti”); eppure è l’erede di Luca Ronconi, con lui e per lui ha recitato per venticinque e passa anni fino allo svenimento (“è successo a Torino, ero a pezzi”), ed è uno dei pochi attori e registi a registrare sold out nei grandi teatri italiani e commenti entusiastici dalla critica (è all’Argentina di Roma con Un nemico del popolo). Il cinema lui lo definisce “un bancomat”, pragmatico, i suoi ruoli non sono molti, quei pochi hanno una storia viva, pennellata, e restano, come Vittorio Sbardella ne Il divo, Mussolini in Sono tornato, il presidente della Roma ne Il campione (è nelle sale).

È un bel 58enne.

Migliorato invecchiando.

È un interprete cangiante.

Perché non trovo divertente rappresentare me stesso, anzi non sono in grado, appartengo a un Dna di attore dove i personaggi si costruiscono.

Racconta Marco Bocci: “Quando ero in compagnia con Popolizio e la Melato, i margini per un confronto erano pochissimi”.

Non è una questione di parlare, o di confrontarsi sulla parte, ma di vedere come gli altri la costruiscono; così quando mi dicono “per te Ronconi è stato un padre”, ogni volta penso “è vero, ma ho avuto anche tanti zii e parenti”.

Chi sono i “parenti”?

Penso a Mariangela Melato, Umberto Orsini, Corrado Pani, Anna Maria Guarnieri, e con loro è stato importante guardare come impostavano il ruolo e soprattutto come affrontavano le varie difficoltà che Ronconi piazzava. Alla fine non era solo una scuola di recitazione, ma di vita.

Quali difficoltà?

Lavorare con Ronconi non era una punizione, lui ti allargava il cervello, ma questa apertura non arrivava gratis: ogni volta dovevi dimostrare di essere in grado.

Totalizzante.

Non avevi spazio per altro; sì, sono stato sposato, ma fondamentalmente la mia vita era il lavoro, e non per una questione di successo personale, solo semplice necessità professionale; con lui stavamo sul palco per delle ore.

Infinite…

Alle Olimpiadi di Torino del 2006 ero impegnato con Atti di guerra, spettacolo di nove ore, diviso in tre giorni. Prove lunghissime. Sono svenuto alla fine della rappresentazione, e ricoverato, ero dimagrito undici chili.

Da regista cosa evita degli insegnamenti di Ronconi?

Lo stato oppressivo, cerco di non ripetere l’atteggiamento non produttivo che a volte si instaurava nella compagnia, quando tra gli attori si sviluppava un blocco emotivo di grande paura.

Come mai?

Per stare bene su un palco ci vuole grande energia, però è necessario saperla cavalcare; recitare non è energia a prescindere, come molto spesso vedo negli spettacoli giovanilistici (ci pensa). Ecco, con gli attori vorrei evitare l’errore di non comprenderli; vanno capiti, perché è un mestiere difficilissimo.

Nel cinema spesso i registi parlano della necessità di “coccolare” l’artista.

Lì diventi una star, ci sono altri parametri, differenti coinvolgimenti: devi trovare il rapporto con il regista, sperare nel montaggio o nella luce studiata dal direttore della fotografia; il teatro è più un risultato del collettivo e permettere di mostrare chi sei.

Per alcuni attori il teatro è una forma di terapia.

È vero, però la professionalità è un’altra cosa, e non sono molto d’accordo quando il teatro terapeutico si tramuta in spettacolo; in generale i dolori e le disgrazie personali non vanno esibite, purtroppo qualche regista ci casca.

I suoi colleghi denunciano una situazione disastrosa…

Per molti aspetti è un Far West: chi comincia oggi a frequentare un’accademia, deve avere alle spalle una famiglia, o è quasi impossibile.

Lei l’aveva?

No, sono andato via da casa a 19 anni e non sapevo neanche cosa fosse il palco; il teatro è stato un taxi che mi ha permesso di chiudermi alle spalle la porta dei miei.

Economicamente, come si sosteneva?

Allora c’era un’altra Italia, un altro mondo, altre regole e soprattutto differenti eccezioni a quelle regole: una piccola illegalità bonaria che ti permetteva di sopravvivere.

Come?

Per non pagare la luce mettevamo una pellicola sul contatore, oppure per tre anni ho guidato la moto con il solo foglio rosa, o mi saldavano in nero quando vendevo le pentole; oggi non puoi ingegnarti, siamo tutti controllati.

Si interessava di politica?

(Risposta d’istinto) No. (Risposta ragionata) Nella mia zona, Monteverde (medio borghese), c’erano molti licei, e spesso dai Parioli (molto borghese) arrivavano i fascisti a bordo delle loro Vespe. Stavo lì. Una volta, e avevo 16 anni, mi incazzo per l’aggressione, decido di ribellarmi, quindi raccolgo da terra un sampietrino e mentre stavo per attaccare, arriva la polizia.

E lei?

Mi spavento, non sapevo come muovermi, si ferma un autobus e salgo.

Salvo.

Macché, ero talmente impreparato a certe situazioni, da non buttare la pietra, l’infilo nella tasca del montgomery, e vedo la polizia salire sul mio autobus; mi sono cagato sotto, avevo paura della violenza, e fino ai 17 anni ero piccoletto e magrissimo.

Per questo non picchiava.

E guardavo con ammirazione chi andava in giro con la tonfa (manganello), per me erano dei miti di coraggio.

Altri miti di allora?

In realtà non sono mai stato fan di qualcuno o di qualcosa, però ho affrontato l’autostop per raggiungere Milano e assistere al concerto in memoria di Demetrio Stratos.

Lei era un liceale?

No, studiavo Ragioneria e per volere di mio padre, desiderava qualcosa di spendibile.

Insomma, niente politica.

Frequentavo più una parrocchia gestita da un francescano, padre Raffaele, uomo molto particolare, uno che in Nigeria era stato in galera con Bokassa, uno con due palle che gli fumavano: si era indebitato a vita pur di costruire un campetto da calcio e un teatrino per ragazzi.

Quando ha scoperto le potenzialità della sua voce?

La voce è come una lasagna a strati, carne, besciamella, sfoglia: ogni strato ha un punto differente di intonazione, è il tuo strumento per lavorare, è la somma di tutto quello che hai affrontato nell’esistenza.

Come hanno reagito i suoi al “voglio diventare attore”?

Frase secca: “Vuoi? Se guadagni abbastanza…”.

Ancora pragmatici.

Da loro non ho mai ottenuto nulla, e neanche potevano: mio padre era rappresentante della Miralanza, in casa uno stipendio solo e quattro figli, io il maggiore.

“Bisogna distinguere il mestiere tra abusivi, improvvisati e degni interpreti”, parole sue.

Innanzitutto uno deve individuare qual è il momento della tua vita nel quale comprendi che stai combinando; io cosa era il teatro l’ho capito anni dopo l’accademia, neanche ai tempi di Ronconi ne ero consapevole.

Come arriva la “luce”?

Da solo non puoi comprenderlo, ti aiutano gli sguardi degli altri, cosa intravedi tu nel prossimo; per questo spesso dico agli studenti: “Avere dentro un mondo da esprimere, non vi rende automaticamente attori. Anche mia sorella ha tanto da raccontare, ma è architetto”; la sensibilità e la fantasia sono delle componenti, ma non le uniche.

Il suo momento?

Da un certo punto in poi non ho vissuto una vera giovinezza: in 25-30 anni ho partecipato a più di 30 spettacoli di Ronconi, e altrettanti senza di lui; lì ho capito che il teatro è come il passino del pomodoro, tutti ci si buttano, ma avanzano in pochi.

Selezione dura.

Ronconi diceva sempre: “L’attore non è un mestiere da calcolare in uno, due o tre anni, ma sui venti”. Sono pochi quelli che resistono nel tempo: del mio corso in Accademia siamo rimasti in tre, mentre all’inizio eravamo in 28.

A cosa ha rinunciato?

Non lo so, forse ai figli; o forse il teatro è stato un alibi per non averne, mascherato dalle solite frasi “Sai, sono stanco”; “Lo stipendio non è fisso”; “Chissà che devo fare”; “Sono in tournée”.

Bell’alibi.

Perfetto. E il teatro è in assoluto un alibi: la tournée è una fuga dalla vita, come il set, sei in un’altra dimensione per 12 ore, quindi la realtà diventa quella, ed è sempre una dimensione migliore delle difficoltà quotidiane,

Meglio le coccole del set.

Molti miei colleghi vivono ovattati: ti prendono a casa, ti portano, ti accudiscono, puoi essere capriccioso.

Ha l’angoscia del palco?

La paura ti accompagna, e più sei consapevole e peggio è, mentre da giovani ignori lo spessore della situazione; certe emozioni ho imparato a gestirle, un tempo mi assalivano gli attacchi di panico.

Al cinema interpreta quasi sempre il cattivo.

E me ce rode tanto.

Come mai accade?

Perché ho questa faccia e nel cinema conta tanto; per fortuna ho interpretato pure Giovanni Falcone (Era d’estate, premiato con un Nastro d’Argento) che mi ha riscattato, altrimenti solo fiji de ‘na mignotta; comunque è più semplice la parte del cattivo che il buono; il cattivo piace di più.

Ne Il divo è un grande Sbardella.

Una delle forze di Paolo Sorrentino è quella di saper mischiare attori dimenticati, con altri famosi e altri ancora di provenienza teatrale.

Non ha girato molti film…

Il cinema è un bancomat, o almeno lo era.

La riconoscono per strada?

Quasi mai. Ogni tanto sul taxi a Roma mi chiamano “Terribile”, si ricordano la mia breve parte nel Romanzo criminale di Placido; io non sono Giallini, Accorsi, Favino o Germano, e neanche come le ultime leve di attori; poi non vado in televisione, però ho capito che l’affetto del pubblico accresce molto l’autostima.

L’ego dà energia.

Ci sono colleghi che mi domandano: “Ma tu puoi ancora fare la spesa? Io no…”.

L’ego può buttare giù.

La depressione è endemica nell’attore, non ne ho conosciuto uno che non l’ha affrontata.

Lei?

A quarant’anni, e forte.

“All’attore deve succedere qualcosa, se non succede niente meglio se cambi strada”. Ancora parole sue.

Non sempre, in certi ruoli, in particolare quando è necessario soffrire, dove ti devi massacrare, emaciare, con una consapevolezza: se io piango, non avviene lo stesso in platea.

Quindi?

Sentire le emozioni è utile, governarle è il mio mestiere; e qui ci sono degli equivoci da stroncare all’origine, e quando posso tento di spiegarlo in Accademia.

Stronchiamo.

È una stupidaggine cercare il mondo dentro se stessi, il mondo si cerca fuori; ognuno di noi ha tanti lati interessanti, ma la vita è fuori, piuttosto è necessario copiare, tutti i grandi hanno iniziato così: si individuano i riferimenti e si apprende.

I ragazzi capiscono?

Credono di essere unici, si ritengono la manifestazione più importante del mondo. Non è così. Bisogna rubare dagli altri e metabolizzare, avere la coscienza che il nostro è un mestiere orale, tramandato con il racconto.

Ha mai mandato a quel paese Ronconi?

Abbiamo litigato, eccome; sono arrivato a odiarlo, odio vero, più forte della mia vita; poi con lui non ho mai avuto un rapporto fuori dal palcoscenico, tutto nasceva e moriva in scena, perché è stato uno di quei registi che parlavano poco, preferivano mostrare la parte.

Anche lei così?

Assolutamente, è necessario, e poi non so parlare agli attori, preferisco interpretare tutte le parti.

E non li manda in crisi?

A volte, ma capiscono la mia buona fede ed è molto più chiaro mostrare che spiegare.

È un grande maestro?

Io ho conosciuto i veri maestri, ci ho lavorato, quindi no. Però posso affermare un punto: che so. Qualche cosa la so.

(Pasolini una volta scrisse: “Io so, ma non ho le prove”. Lui sa, e questa volta le prove ci sono)