L’arte di vendere gossip su una vita che non esiste

“Esistono storie che non esistono”, diceva Maccio Capatonda qualche anno fa nell’incipit di un suo famoso trailer. Sembrava una battuta, poi è arrivata la storia del matrimonio di Pamela Prati e abbiamo capito che Maccio aveva ragione. Premetto che per capire qualcosa della vicenda bisogna aver dormito almeno otto ore, non aver consumato alcol negli ultimi due anni e avere il QI di Carlo Rubbia. C’è gente che ha provato a trovare il capo e la coda della storia ma ha rinunciato chiedendo un cubo di Rubik per dedicarsi a imprese più facili. Io stessa, nel tentativo di comprendere questa vicenda, sono stata avvinta da una serie di dubbi indicibili, tra cui – alla fine – quello sull’esistenza della stessa Pamela Prati. Una donna identica dal 1987 e taglia 38 a 60 anni suonati non può esistere davvero, mi sono detta. Ho dovuto chiedere conferma della sua esistenza a Martufello. Che ha confermato.

E nella vita si può dubitare di chiunque, ma di Martufello, Papa Francesco e Alberto Angela mai.

Cercherò quindi di ricostruire la surreale vicenda perché in effetti è la prima gag dell’ex star del Bagaglino che fa davvero ridere. Dopo che avevamo perso le tracce di lei da un po’, a febbraio Pamela Prati annuncia nel programma radio Un giorno da pecora che si sposerà. Ha da poco compiuto 60 anni e tu guarda, proprio a 60 anni, quando ormai aveva perso ogni speranza di incontrare l’uomo giusto, a una festa si è imbattuta in Mark Caltagirone. Che non è uno dei Sopranos né la nuova linea di abbigliamento di Fabrizio Corona, ma un 53enne milionario, laureato, che ha costruito oleodotti in Libia, nonché ospedali e centri commerciali in Corsica e Cina. Il grande business dei centri commerciali in Corsica che ha lo stesso numero di abitanti di Bari, certo. Ma non è finita qui. Nel suo personale 50 sfumature di grigio riscritto da Pingitore, Mr Grey non è solo milionario, bellissimo, generoso, pronto a sposarla e a portarla con lui nelle sue ville sparse per il mondo preferendo Pamelona a tutte le ventenni in circolazione già scartate da Briatore, ma ha anche prole.

Quindi Pamela racconta che hanno due bambini in affido e che si chiamano Rebecca e Sebastian. Dice commossa: “Sebastian ha 11 anni. Ora, c’è anche Rebecca, di sei. Mangia che dio la benedica, è ballerina come me, mi somiglia, ha i miei stessi occhi, i miei stessi capelli. Lui è un principino biondo, con gli occhi azzurri, vuole fare l’astronauta. Mi chiamano mamma e non c’è emozione più bella di sentire la pienezza di quella parola”. E certo. Vedi il caso. Una bambina in affido uguale a lei, con i suoi occhi e i suoi capelli, un eccezionale caso di “dna volatile”, roba che se lo sanno i difensori di Bossetti fanno scrivere la richiesta di revisione del processo a Pamela Prati.

Il bambino biondo con gli occhi azzurri che vuole fare l’astronauta poi è ancora più credibile. Capisco che Pamela è del ’58 ma qualcuno le spieghi che oggi a 11 anni i bambini vogliono fare i calciatori o gli influencer e che più che andare sulla luna vogliono andare nelle tendenze di Youtube. Fatto sta che ci cascano in tanti. Quel Menealo in curriculum avrebbe dovuto suggerire almeno un po’ di prudenza (una che canta “Menealo un movimento nuevo che todo al mondo io insegnerò” è capace di tutto) e invece niente, neppure mezzo dubbio. Pamela va a Domenica in, dalla D’Urso, si fa intervistare da Chi, dal Corriere, da Vanity Fair, vende l’esclusiva a Verissimo, prova l’abito da sposa e dice “Bacio la fede e piango”, “Mi sono già sposata”, “Voglio vivermi la famiglia che ho sempre desiderato”, “Non ho guardato la ricchezza materiale, ma la sua anima”, “Ci siamo amati in altre vite” e in effetti potrebbe anche essere perché chissà quante altre vite si potrebbe essere inventata, a ’sto punto. Poi però i dubbi arrivano.

Dagospia inizia a insinuare che qualcosa non torni finché non pubblica un’email anonima che riassume incongruenze e stranezze. I profili social di Mark Caltagirone non contengono alcuna sua fotografia, ma solo immagini di luoghi da sogno. Il profilo sarebbe stato creato dall’agenzia Aicos Management che è di Pamela Prati e di altre due socie. Il profilo di Mr Grey Mark Caltagirone interagisce “con falsi profili manovrati sempre da uno stesso gruppetto di persone, creati unicamente per accreditare l’esistenza di questi personaggi da soap opera”. Il suo ex fidanzato Luigi Oliva racconta che in realtà Pamela è piena di debiti e le stavano per pignorare casa, allora lei replica che lo querelerà per violazione della privacy, poi nega di essersi già sposata ma giura di aver fatto solo la promessa e a chi le chiede perché lui non si mostri mai e non esista una sola foto che lo ritragga mentre mangia una pizza o beve un mojito in spiaggia, lei risponde che lui è geloso della sua privacy, non ama mostrarsi. E certo, del resto uno schivo si sposa Pamela Prati, mica un’impiegata Decathlon.

Insomma, il dubbio che gira è che i problemi con le banche, Pamela, li sistemi vendendo falsi scoop. E voglio dire, in fondo sarebbe pure più nobile vendere una finta vita privata che quella vera, a ben pensarci. Solo che qui sembra trattarsi più di una vita provata, molto provata, ma andiamo avanti. Al mistero si aggiunge un altro mistero. Dal profilo Facebook di Mark Caltagirone risulta che lo stesso, nel 2017, si sia sposato con la deputata di Fratelli d’Italia, Wanda Ferro. Lei, del resto, gli metteva cuoricini, commentava qua e là, i due parevano essersi tatuati l’uno l’iniziale dell’altra. Contattata per capirci qualcosa, la Ferro fa la vaga: “Mai conosciuto Caltagirone, ci scambiavamo qualche messaggio simpatico su Facebook”.

Torniamo così all’inizio: esistono storie che non esistono. Viviamo in un momento storico in cui dal nulla è possibile inventare qualunque cosa, ma quel qualunque cosa non può durare più di qualche giorno senza essere passato ai raggi X e smentito. Viene fuori che nel 2009 la Prati aveva già avuto un fake matrimonio con l’argentino Sebastian Jabir (Sebastian, lo stesso nome del suo bambino in affido, vedi il caso). Un matrimonio che Pamela ha spiegato così: “Non mi sono mai sposata. Ero stata consigliata male. A un certo punto, mi hanno detto: di’ che ti sei sposata a Las Vegas…”. E lei ha obbedito, insomma. Fortuna che non le hanno ordinato “Di’ che sei un membro di al Qaeda” altrimenti oggi dovremmo andare a riprendercela a Guantanamo.

Insomma, alla fine della storia possiamo trarre tre conclusioni: a) esiste una foto del buco nero, non esiste una foto di Mark Caltagirone b) se i mariti te li inventi e non ci scazzi tutti i giorni per i figli e le bollette a 60 anni resti giovane come Pamela Prati c) ora è arrivato il momento di scoprire se le fidanzate di Gabriel Garko sono mai esistite.

Assange, i media, i Pulitzer mancati e altre belle storie di giornalismo

Com’è noto le autorità britanniche hanno arrestato Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, con l’accusa di aver violato la libertà su cauzione (s’era rifugiato 7 anni fa nell’ambasciata dell’Ecuador, che ora gli ha dato il benservito). Su Assange pende una richiesta di estradizione degli Stati Uniti del marzo 2018. L’accusa, messa in piedi dall’Amministrazione Trump dopo che Obama aveva rinunciato a quella di spionaggio, è aver tentato, fallendo, di aiutare l’ex militare Chelsea Manning ad hackerare documenti segretissimi. In realtà, l’ostilità Usa nasce dalla pubblicazione su Wikileaks nel 2010 di moltissimi file scaricati dal solo Manning sugli abusi a Guantanamo, in Afghanistan e Iraq, ivi compresa l’uccisione di molti civili. Il vero crimine di Assange, però, è aver mostrato l’uso disinvolto di email “classificate” da parte di Hillary Clinton, il che gli ha alienato le simpatie della gauche caviar e dei suoi media di riferimento, motivo per cui ora sui giornali si scrive che è mezzo grillino (sic) e pure “sospettato di essere una spia russa” (da chi?), ovviamente perché avrebbe contribuito all’elezione di Trump, che ora però lo vuole arrestare (boh). “Non di libera cronaca si tratta, ma di intelligence e cyberwar”, chiosava Gianni Riotta giusto prima di lamentarsi che il Pulitzer lo danno ai “leaks delle spie” e non a lui che ha fatto tanto per il giornalismo. Resta una domanda: ma quando questi si commuovevano su The Post e i Pentagon Papers, rubati a McNamara e spiattellati su NY Times e Washington Post, non avevano capito la trama?

Il declino epocale ci costa 50 miliardi in meno ogni anno

Nella surreale discussione sulla legge di Bilancio 2020 (da approvare tra circa 250 giorni) abbiamo capito che bisogna trovare 50 miliardi di euro. Una persona normale fatica a capire se 50 miliardi sono pochi, tanti o troppi. Complica il quadro l’abitudine dei politici di litigare in codice, a colpi di percentuali: del rumoroso pollaio a cui hanno ridotto la politica economica si percepiscono brandelli di slogan e, più che altro, un livello culturale sotto zero. L’unico modo per difendere la capacità di discernimento è distogliere lo sguardo dalla miope rissa quotidiana e rivolgerlo ai veri numeri della crisi.

Secondo i dati Eurostat, nel 2007 il Pil dell’Italia (il prodotto interno lordo, cioè la ricchezza prodotta dal lavoro degli italiani) è stato di circa 1.690 miliardi di euro. Poi è iniziata la crisi e il Pil è sceso: nel 2018 è stato di circa 1.600 miliardi (sono cifre arrotondate, tanto il Pil è stimato statisticamente, è inutile impazzire dietro ai decimali). Se mancano all’appello 90 miliardi di Pil vuol dire che le entrate fiscali, che si calcolano al 50 per cento del Pil, sono state di 40-50 miliardi inferiori a quelle del 2007, e vedete che sono proprio i soldi che mancano. Negli ultimi undici anni il Pil è stato sempre inferiore a quello del 2007, toccando il fondo nel 2013 (sotto dell’8,5 per cento) e poi risalendo lievemente: oggi siamo ancora sotto del 4-5 per cento. Se in questi 11 anni il Pil fosse rimasto sempre uguale al 2007 (crescita zero) l’Italia avrebbe cumulato 1.100 miliardi di reddito in più, e lo Stato avrebbe incassato tasse per 550 miliardi in più, in media 50 miliardi ogni anno.

Se invece dal 2007 a oggi il Pil dell’Italia fosse cresciuto dell’1 per cento all’anno, risultato comunque deludente, ci troveremmo oggi ad aver cumulato un reddito aggiuntivo di 2.200 miliardi di euro, e lo Stato avrebbe incassato più tasse per 1.100 miliardi di euro, circa 100 miliardi ogni anno con i quali si sarebbe potuto raggiungere un comodo avanzo di bilancio. Se prendiamo un dato intermedio tra la crescita zero e la crescita media dell’1 per cento, possiamo calcolare che oggi lo Stato avrebbe in cassa 800 miliardi in più, cioè 800 miliardi di debito in meno. Considerate che in questi 11 anni il debito pubblico è cresciuto di 700 miliardi, e vedete come tutto torna: il debito cresce per le minori entrate, non per lo scialo.

Non è un calcolo complicato, basta conoscere le quattro operazioni per rendersi conto che la malattia italiana non è nella spesa pubblica. Lo Stato italiano ha visto drasticamente tagliate le sue entrate e ha praticato finché possibile l’austerità: ha tagliato le pensioni, la spesa sociale, tutto il tagliabile, al punto che oggi l’Italia è tra i grandi Paesi europei quello con meno dipendenti statali e spesa sociale. La malattia vera è molto più grave: è nell’industria. La produzione industriale è ancora inferiore del 15 per cento a quella del 2007, dopo essere sprofondata fino a meno 25 per cento. Abbiamo gli stessi occupati del 2007 ma il numero di ore lavorate nel 2018 è inferiore del 5 per cento, esattamente come il Pil: non è pigrizia, è sottoccupazione. Siamo in mezzo a un declino epocale dell’economia italiana, iniziato realmente negli anni 80 ed esploso nell’ultimo decennio. Ammesso che sia possibile uscirne, serviranno terapie pluriennali, note e chiare a tutti oltreché condivise. Gli irresponsabili che tentano di far passare come risolutiva la loro lite sulle virgole della flat tax non solo prendono in giro gli elettori ma soprattutto commettono il più odioso dei crimini: ci fanno perdere tempo, solo per catturare qualche zero virgola in più alle Europee.

 

Gesù morendo ha fiato ancora per promettere ai disperati: sarai con me!

Tutta l’assemblea si alzò; lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re. Pilato: Sei tu il re dei Giudei? Ed egli: Tu lo dici. Pilato disse: Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna. Ma essi insistevano dicendo: Costui solleva il popolo, insegnando. Io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo le colpe di cui lo accusate; e neanche Erode. Non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, punito, lo rimetterò in libertà. Ma si misero a gridare: Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba! in prigione per una rivolta, scoppiata in città, e per omicidio. Pilato voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: Crocifiggilo! Crocifiggilo! Ed egli, per la terza volta: Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Insistevano che venisse crocifisso. Pilato decise che la loro richiesta venisse eseguita. Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere. Popolo e donne si battevano il petto. Vi crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Il popolo stava a vedere; i capi lo deridevano: Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto. Sopra di lui c’era una scritta: Costui è il re dei Giudei. Uno dei malfattori lo insultava: Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi! L’altro lo rimproverava. E disse: Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo Regno. Gli rispose: In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso! Gesù, gridando, disse: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo, spirò. Visto l’accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: Veramente quest’uomo era giusto! I conoscenti, e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo (Luca 22,14-23,56).

Egli camminava davanti salendo verso Gerusalemme e la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto. Questo avviene oggi in tutte le chiese del mondo (fatto salvo il calendario), con la benedizione e processione delle palme o degli ulivi. Luca, nella Passione, ci fa assistere allo spettacolo della crocifissione animata dal commovente e umanissimo dialogo tra Gesù e uno dei due malfattori compagni di morte su quel patibolo. Gesù agonizzante pronuncia parole inaudite e piene di eternità per ogni uomo! Il buon malfattore si sente dire che c’è un modo di morire ingiustamente in croce che diviene salvezza per la grazia di Dio misericordioso!

Lui non confermò i beneficati con: la tua fede ti ha salvato? Che cuore e che labbra possono affidarsi a Uno, come Gesù, attanagliato lui stesso dalla medesima tragedia, tra insulti di capi e soldataglia, solo e abbandonato dai suoi? Abbiamo davanti la sofferenza di Dio! Gesù salva? Venuto a cercare e salvare i perduti, ora consegna liberamente se stesso all’infamante fallimento della croce. Che speranza possono riporre in Lui un malfattore e quanti lo seguirono fin dalla Galilea? Isaia ricorda: E fu annoverato tra gli empi (Is 53,12). Gesù, facendo sua la nostra condizione, ci re-immette nel Regno promesso della vita donata per sempre. Persino il centurione dava gloria a Dio: Veramente quest’uomo era innocente. Questa è la grazia-compassione di Dio sperimentata da Zacchèo, dalla samaritana, dal figlio prodigo, dall’adultera, dal buon samaritano e da tutti quanti e noi stessi che incontriamo Cristo solidale con il nostro destino. Le semplici e decisive parole ricordati di me del buon malfattore diventano l’esemplare invocazione di chiunque, uomo e donna i quali sentono soffocarsi la speranza di vivere. La buona notizia di Natale è: Oggi è nato per voi un salvatore (Lc 2,7). A me, a te, ai disperati Gesù morendo ha ancora fiato per promettere: oggi sarai con me! È il racconto della settimana autentica, santa!

*Arcivescovo emerito di Camerino-San Severino Marche

Sindaco di Riace, matto o malfattore

Chi crede ci metta una preghiera. Chi ha ancora rapporti con la politica si dia da fare per salvare Radio Radicale. È l’unica possibilità che ci resta di sapere che cosa accade davvero nella strana vita politico-giudiziaria che stiamo vivendo. Pensate che, senza Radio Radicale, non potremmo seguire il più strano processo della storia italiana, quello in cui Mimmo Lucano, sindaco arrestato, deposto ed esiliato, del paesino non mafioso di Riace, e altre 25 persone, presumibilmente altrettanto colpevoli, vengono rinviate a giudizio per reati come accoglienza a migranti e profughi. Le prove dimostrerebbero che i criminali di Riace accoglievano “gli stranieri” senza notti d’attesa sotto la pioggia, e senza digiuno pubblico e obbligato per i bambini. Il reato si chiama “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, perché così la definiscono i giuristi Bossi e Fini, autori della legge contro l’immigrazione. Come è noto la sola alternativa è la morte in mare, visto che non esistono passaggi legali verso il Paese Italia. Dovete sapere che l’avvocatura dello Stato, a spese nostre, sarà parte civile (vuol dire lavorerà con l’accusa) e lo sarà anche la Prefettura di Reggio Calabria. Senza Radio Radicale non potremo ascoltare i loro interventi contro il sindaco di Riace e i suoi complici, in nome del popolo italiano. Come è noto, tutto ciò avviene nella stessa regione dove fioriscono mafia, camorra, e ’ndrangheta, che però non hanno mai meritato l’attenzione dell’Avvocatura dello Stato e della Prefettura al processo.

Non siete nel torto se pensate che Radio Radicale deve tacere proprio per questo. Certi processi (quante volte l’ha detto Marco Pannella) testimoniano l’accanimento con cui la politica vuole affermare il proprio potere senza il disturbo di cittadini competenti e informati che forse non hanno voglia di essere complici o che comunque potrebbero intralciare con il proprio libero giudizio. Noi (alcuni di noi) diciamo che un Paese come la Polonia, dove gruppi di preti bruciano in strada libri, pubblicazioni e oggetti tra i più vari e fantasiosi, come esempio della punizione divina (e d’accordo con il governo) non tollererebbero di avere, nei sacri confini della patria (prima la Polonia) una Radio Radicale libera e in funzione, che trasmette in diretta. Tutti sanno che nell’Ungheria (prima l’Ungheria) senza giudici e senza libera stampa non sarebbe possibile continuare a trasmettere i programmi di Radio Radicale, aperta a tutti i lati dello spettro politico. Non funziona così il fascismo, e l’Ungheria si vanta di essere un Paese fascista. E come fanno gli omofobi e gli xenofobi e i padroni delle donne (prima gli italiani) a sopportare una radio libera, in diretta, che racconta i fatti, tutti i fatti, tutte le sedute del Parlamento e gli eventi giudiziari che cambiano il Paese. Ecco, i processi. Come fare a non vedere una corsa fra il chiudere le risorse di sopravvivenza dell’unica radio libera italiana (unica perché usa tutta la libertà che la Costituzione garantisce ai cittadini e non solo parti a scelta) e la voglia (la necessità) di non far sapere che – per esempio – il processo al sindaco Lucano e “complici” è una farsa già smontata da altri giudici e da una sentenza della Corte di Cassazione?

È chiaro che si deve impedire che un avvocato dello Stato debba sacrificare la sua statura professionale per dimostrare, ascoltato da tutti, tramite radio, che il rimosso sindaco di Riace ha commesso reati ripopolando di stranieri allo sbando il suo Paese vuoto e rinato, invece di metterlo in vendita, come stanno facendo tanti sindaci di tanti altri borghi e paesi vuoti, nell’Italia vuota.

Pensate al prefetto di Reggio Calabria a cui nessuno dà retta o aiuto quando deve battersi contro il crudele caporalato della sua difficilissima zona (un euro all’ora per ogni africano, per dodici ore di lavoro al sole, finché muore di fatica, di agguati o di baracche incendiate nella notte).

Può un governo che ha montato la situazione descritta e impedito di dare aiuto, allo stesso tempo, montare una persecuzione e mettere in onda la sua politica e la sua giustizia? Radio Radicale deve morire insieme a tutti coloro che ha difeso, e in modo che smetta denunciare.

Resta una domanda estrema ma, temo inutile: non sarebbe questa l’ultima e grande occasione dei 5Stelle di sdoppiarsi dalla gang di Salvini e proclamare che Radio Radicale non si tocca e che ascolteremo insieme, accusa per accusa, il processo al sindaco assolto dalla Cassazione, ma caduto in disgrazia di fronte alla Lega?

Mail box

 

Per il bene del Paese, bisogna investire nella sicurezza

La sicurezza e i controlli nelle nostre città e paesi sono più che necessari soprattutto oggi con l’incremento di tanta delinquenza, malvivenza e criminalità. La strada più difficile da percorrere è proprio quella della sicurezza nel nostro Paese, strada che può diventare percorribile solo se si aumentano i controlli e le Forze dell’Ordine al nord, al centro e in modo particolare al sud. L’Italia non può e non deve essere lasciata in mano a gente che non rispetta le nostre leggi uccidendo anche i nostri carabinieri, poliziotti e finanzieri.

Se si apre una finestra sull’immigrazione e sugli stranieri che vivono in Italia senza permesso di soggiorno e vengono sfruttati dai caporali per avere un posto di lavoro nei campi di raccolta dei pomodori e ortaggi con pochi euro al giorno, è davvero difficile comprendere perché la riduzione delle spese alla sicurezza da parte dello Stato viene sempre a scarseggiare.

Ricordiamo ai nostri governanti che non si può più tagliare sulla sicurezza perché ne va della vita dei cittadini; non si può, ogni giorno, sentire notizie di gente che viene minacciata, spaventata, terrorizzata, picchiata, derubata e uccisa. Il nostro Paese ha bisogno di più uomini e di più mezzi.

Antonio Guarnieri

 

La foto del buco nero ci porta a riflettere sulla vita

Fa enormemente riflettere l’immagine giunta sino a noi grazie agli scienziati astrofisici, del buco nero: con una massa di 6,5 miliardi di volte il Sole e un diametro di 40 miliardi di chilometri. Viene da sorridere a pensarci quanto siamo minuscoli esseri su questo pianeta.

Un pianeta, paragonabile all’immenso universo come un granello di sabbia. E come scarabocchi ci arrabattiamo ogni giorno con le nostre diatribe. Con i nostri conflitti fra inutili esseri umani. Sfide, arrabbiature, egoismi, congreghe di lamentosi omuncoli che si affannano a portare la loro univoca verità nel mieloso cortile della vita.

E invece, grazie a scienziati che in silenzio ogni giorno portano la loro passione nella ricerca, i nostri occhi possono vedere qualcosa di così immenso, di così gioioso. Scopriamo noi stessi in quel buco avvolto da quella luce gialla. L’universo infinito.

I nostri piccoli esami quotidiani diventano granelli nel buio cosmico. Non fa sorridere? Una vita intera per diventare capi o re ed accorgersi poi che basta un’immagine per renderci nulla. E scoprirsi così nel grande calderone della Terra, tutti uguali. Tutti simili. Basterebbe pensarci ogni giorno e forse renderemmo questo pianeta e noi stessi un luogo da amare e preservare.

Come ogni singolo istante della nostra Vita. Quel buco nella Galassia Messier 87 è lo specchio per ritrovarsi. Ma ne saremo capaci?

Angelo Briscioli

 

Le elezioni europee saranno un momento cruciale

Sono curioso di quello che accadrà per le elezioni europee. Aspetto. Credo sarà un punto cruciale per questa fase politica, per le risposte e le valutazioni successive; sarà un punto cruciale per capire come sono state recepite le lotte portate avanti da Cinquestelle, la fatica di questi mesi di coabitazione con un “socio” troppo scomodo come Salvini. Non nego di essere un po’ preoccupato, anche se dall’altra parte le liste presentate dal Pd, mi fanno amaramente sorridere: la sostanza è sempre la stessa, con uomini impresentabili, e accordi di correnti.

Giancarlo Picchia

 

DIRITTO DI REPLICA

Con tutto il rispetto per il professor Pasquino, deve aver letto un altro articolo, oppure si è fermato alla quarta riga. Di “prove concrete”, e non solo “aridissimi numeri”, ne conteneva infatti in abbondanza. Nomi, date, documenti. Casi di buon influsso delle lobby. E casi opposti, cioè di influsso negativo: per i quali abbiamo perfino pubblicato gli emendamenti testuali redatti dai deputati su dettatura delle lobby, veri “copia e incolla”. Ultima annotazione: le 11.801 lobby non sono solo “la cifra riportata da Gabanelli e Offeddu”, ma anche quella certificata dal Registro della Trasparenza, che certo il professore avrà letto.

Milena Gabanelli e Luigi Offeddu

 

In relazione al commento odierno (a firma F. d’E.) pubblicato da Il Fatto Quotidiano a pag. 12 a seguito della mia smentita all’articolo dello scorso 11 aprile dal titolo “Chi si rivede: Alfano da B. ad Arcore per le liste di FI”, smentisco – usando le stesse parole di F.d’E. per facilitarne la comprensione – “di essere stato ad Arcore da Silvio Berlusconi con vari imprenditori”.

Vi chiedo dunque di voler provvedere, ai sensi dell’art. 8 Legge 47/1948, alla rettifica di quanto riportato nel citato articolo nella collocazione prevista dalla legge e con risalto analogo a quello riservato al brano giornalistico cui la rettifica si riferisce (specificamente al risalto dell’articolo di giorno 11), comunicandoVi che, in difetto, intraprenderò le iniziative necessarie volte a tutelare la mia reputazione personale e professionale.

Angelino Alfano

 

Suvvia, avvocato Alfano, non è mica un delitto andare a trovare i vecchi amici.

Fd’E

Europee, torna la figura commovente del candidato

“Ho chiesto a Macron il permesso e lui mi ha detto: vai e corri contro le destre”.

Caterina Avanza, candidata nella lista Pd per le Europee

 

“Lavorerò a fianco degli attivisti. Bisogna stare saldamente in Europa per cambiarla”.

Alessandra Todde, capolista Cinque Stelle alle Europee

 

“Io dalemiano tornato tra i vecchi amici. Il Sud allo stremo ci voterà”.

Massimo Paolucci. Esponente di Articolo 1-Mdp. Candidato nella lista Pd alle Europee

 

“Al servizio dei ragazzi che vogliono salvare il pianeta”.

Pippo Civati, candidato dei Verdi alle Europee

 

A furia di ingoiare liste bloccate, le preferenze non sapevamo più cosa fossero. Con i nomi degli eletti decisi, preventivamente, nelle segrete stanze dei partiti ignoravamo chi avrebbero mandato in Parlamento, al posto nostro. E, per dirla tutta, poco ormai ce ne fregava. Ma ecco che dopo un lungo quinquennio, con il ritorno del voto europeo (e di una democrazia meno affine ai califfati nostrani), su giornali e siti torna a rifiorire un’antica figura, originale e insieme commovente: il candidato volontario. Originale perché, a parte i capilista – unti del Signore (e dei leader) pressoché sicuri di andare a Strasburgo – colpisce che a un numero così cospicuo di coraggiosi venga voglia di impegnare il proprio tempo, la propria tenacia (e supponiamo i propri risparmi) per imbarcarsi nella perigliosa traversata in una delle cinque sconfinate circoscrizioni elettorali. Per tagliare infine, esausti, il traguardo della quasi sicura trombatura. Commovente perché le motivazioni addotte sono quelle che restituiscono fiducia nel genere umano. Ne abbiamo scelte alcune dall’afflato significativo. Quanta sublime umiltà scopriamo in Caterina Avanza che, novella Giovanna d’Arco, invoca e riceve la solenne benedizione di Macron. Che le porge lo spadone con cui mettere in fuga le destre. E che dire del piccolo mondo antico evocato da Paolucci, del suo ritorno tra i dalemiani raccolti, immaginiamo, intorno a un crepitante focolare del “Sud allo stremo”, tutti insieme a darsi coraggio sorseggiando un bicchiere di quello buono. E il vasto e generoso programma di Civati: salvare il pianeta? E il gioco di squadra delle Todde, sicura dell’elezione ma, s’intende, sempre “a fianco degli attivisti”?

Bravi tutti a riscattare finalmente la politica dei buoni sentimenti mentre, purtroppo, saranno in tanti a recarsi alle urne con altri deplorevoli propositi. Gli elettori del Pd per fare la pelle ai grillini. I grillini per fare la pelle ai pidini. I salviniani per fare la pelle a tutti quanti.

Anche l’auto elettrica funziona a sfruttamento

“Qualche volta avevo dolori al petto, altre tossivo sangue, ma dovevo continuare a lavorare per portare in superficie sacchi più pesanti di me. Lavoravo dall’alba al tramonto e guadagnavo pochi centesimi che mi servivano per mangiare”. La testimonianza non è estratta dal diario di un minatore di Birmingham del 18º secolo, ma l’esperienza di Mwiya, 13 anni, che vive a Kolwezi, Repubblica Democratica del Congo.

Il Paese ombelico dell’Africa fornisce da secoli al mondo le materie giuste al momento giusto. Il caucciù, l’oro, il rame, l’uranio, il coltan, solo per citarne alcune che hanno attratto in varie epoche appetiti internazionali e creato profitti spaventosi di cui, però, la popolazione non ha praticamente beneficiato. Da quando al mondo serve il cobalto, il Congo, che garantisce il 60% del fabbisogno mondiale, è divenuto meta di multinazionali che propongono modelli di produzione a metà tra feudalesimo e land-grabbing. Nel giro di neanche 5 anni, hanno causato uno sfruttamento intensivo di terre e popolazione e fatto precipitare il livello delle garanzie e dei diritti indietro di secoli.

Da quando è esploso il mercato delle auto ibride o elettriche, si è scatenata nel mondo la caccia a questo minerale fino a qualche anno fa ignorato. Per produrre la batteria di un’auto elettrica servono circa 9 kg di cobalto (per gli smartphone servono solo 6/7 gr di cobalto, ma sono molto più diffuse). Dunque un costante aumento della forza lavoro e un prezzo in continua ascesa. Mentre scriviamo, la quotazione al London Metal Exchange ha raggiunto i 30.000 dollari a tonnellata. Il prezzo negli ultimi anni è aumentato del 120%. Ma, invece di produrre benessere e sviluppo, questa moderna corsa all’oro sta generando emergenza umanitaria.

“Quando siamo giunti qui – spiega suor Catherine Mutindi, direttrice del Progetto Kolwezi della Fondazione Internazionale Buon Pastore – i genitori dicevano di esser terrorizzati che i figli morissero nei tunnel. Finora siamo riusciti a evitare a 1.800 bambini, molti di 7-8 anni, di finire nelle miniere, ma siamo una goccia nel mare: il primo cambiamento deve essere politico”.

I concittadini di Mwiya, nella regione dell’ex Katanga, l’area dove si concentra la stragrande maggioranza dei giacimenti di cobalto, abbagliati dall’idea di facili ricchezze, si stanno rivolgendo in massa all’attività estrattiva dopo aver abbandonato, anche perché costretti o deportati, campi e bestiame. L’80% è sfruttato in miniere industriali quasi tutte gestite per concessione governativa dalla Congo Dongfang Mining (controllata dalla cinese Huayou Cobalt). Il restante 20% si infila nei cunicoli scavati sotto casa per riportare alla superficie qualche chilogrammo a mani nude con paghe giornaliere che non arrivano a 2 dollari.

Il terminale ultimo delle estrazioni dei bambini di Kolawezi, sono multinazionali delle automobili come Daimler AG, Volkswagen, BYD e dell’elettronica come Apple, Samsung, Huawei, Dell, HP, Lenovo, LG, Microsoft, Sony, Vodafone a cui, dopo essere stato lavorato in gran parte da compagnie intermedie asiatiche, il cobalto viene venduto. Su di loro, e tutta la criminale filiera, dal 2016 è stato puntato il dito di Amnesty International, con il rapporto This is what we die for e il paradosso di compagnie che dicono di combattere il global warming (solo pochi marchi hanno risposto alla sollecitazione di Amnesty e introdotto policy etiche nella propria produzione). “Il luogo che maggiormente sta aiutando a ‘pulire’ il mondo – ha spiegato Anneke Van Woudenberg presidente di Rights and Accountability in Development – è uno dei più inquinati e maledetti della terra”.

“A scuola – sorride Mwiya, ormai inserito nei programmi della Buon Pastore –, oltre alle materie, ci hanno insegnato i nostri diritti. Un bambino non può dormire all’aperto o affamato, non deve esser picchiato né costretto a lavorare. Non ho mai sperato che la mia terra potesse un giorno cambiare, ora, invece, ne sono certo e aiuterò altri bambini a difendere i loro diritti”.

Piazza fissa contro Rama: Tirana vuole le elezioni

La nona protesta di piazza in otto settimane di mobilitazione si svolge sotto la pioggia battente e il crepitare degli slogan: “Rama ha rubato i nostri soldi, Rama ha rubato i nostri voti”.

Lulzim Basha, capo del Partito Democratico e dell’opposizione, sotto la sede sprangata del primo ministro, batte sul tasto delle elezioni anticipate, ma, prima chiede le dimissioni di Rama e, dunque, un governo tecnico.

L’opposizione che due mesi fa ha lasciato il parlamento, rinunciando definitivamente al proprio mandato (i deputati sono stati sostituiti dai primi tra i non eletti), adesso preme perchè le amministrative del prossimo 30 giugno siano abbinate alle politiche. L’accusa è sempre la stessa: “Rama nel 2017 ha comprato i voti con i soldi della droga e della corruzione e, fino a quando sarà lui al governo non ci saranno elezioni pulite”. La Capitale albanese è ancora scossa e la protesta, almeno apparentemente, non c’entra nulla. C’entra la rapina in novanta secondi perpetrata tre giorni fa all’interno dell’aeroporto nazionale “Madre Teresa” a Rinas, periferia nord della città. Il bottino è di dieci milioni di euro e l’opposizione è convinta che questi soldi saranno usati per comprare voti e manipolare le elezioni. Sotto un cielo plumbeo i manifestanti, dopo avere applaudito lungamente le parole di Basha, hanno tentato di abbattere le barriere di sicurezza allestite fin dalla prima mattinata. I poliziotti, in assetto antisommossa, hanno replicato lanciando fumogeni. Immediato il coro: “Rama sei entrato nella storia per avere sparato i lacrimogeni contro la tua gente”.

Confuso tra la folla si nota il vecchio, indomito leader Sali Berisha, mentre qualcuno tra i rivoltosi tenta di abbracciare i poliziotti che fanno cordone davanti all’entrata del palazzo del primo ministro. Molti sono convinti che neppure quelli che li respingono stiano dalla parte di Rama.

Da trent’anni, durante le proteste popolari, si urla “Vogliamo l’Albania come il resto d’Europa” (lo slogan è stato ripetuto anche ieri), ma il Partito democratico, quello di Basha, è convinto più che mai di abbattere il governo di Rama prima in piazza e poi alle elezioni.

Secondo un sondaggio dell’Ipr, un istituto demoscopico italiano, il Partito democratico e Lsi (movimento socialista per l’integrazione) raggiungerebbero il 53 per cento dei voti contro il 44 per cento del Partito socialista di Rama. Dopo la pioggia è calata la notte, ma il numero dei manifestanti non è diminuito. Secondo gli organizzatori ieri c’erano 120 mila persone, un record, considerata la frequenza delle proteste. Si temeva una regressione nel numero dei presenti a causa delle otto agitazioni precedenti e per la ragione che oltre la metà dei partecipanti arrivava da altre città, ben distanti dalla capitale.

Questa mobilitazione anti Rama non è riconducibile solo ad un sostegno verso il Partito Democratico, ma è la dimostrazione che la situazione economica non è buona. I giovani albanesi e non solo emigrano verso la Germania con un visto di lavoro. Ogni giorno, di fronte all’ambasciata tedesca, ci sono file di centinaia di persone. I meno fortunati, invece, tentano qualsiasi strada, da quella dell’asilo a quella della clandestinità, la più pericolosa per la propria vita. C’è chi, per andare in Inghilterra, è disposto a pagare diecimila euro nascosto dentro a un camion.

Fuga da Berlino: è troppo cara

“Berlino non è la Germania” si sente dire da chi abita nella capitale tedesca. Berlino è un’isola felice, un’eccezione che sopravvive da settant’anni, soprattutto nei prezzi degli affitti. O almeno così era fino a qualche anno fa. Ora le cose stanno cambiando rapidamente. Ed è contro la fine di questa eccezionalità nel mercato immobiliare che sono scesi in piazza domenica scorsa circa 25 mila berlinesi – 40 mila per gli organizzatori – in una delle più grandi manifestazioni contro il caro-affitti che la città ricordi. L’obiettivo era raccogliere le firme per un referendum che punta a espropriare i grandi fondi immobiliari che possiedono più di 3 mila unità.

Nella capitale dove fino a 10 anni fa si viveva in 80 mq in pieno centro per 315 euro al mese con affitto bloccato e spese incluse, gli affitti dei privati in media sono quasi triplicati. Il prezzo di acquisto di una casa in città è aumentato del 128% dal 2005 a oggi, secondo l’ultimo studio dell’associazione Sparda Banken insieme all’istituto economico Iw di Colonia. Il dato di partenza è che gli affitti di Berlino, pur nella velocità dell’aumento, rimangono ancora bassi non solo rispetto alle altre capitali europee, ma rispetto al resto della Germania. Come si spiega?

L’“eccezione Berlino” ha diverse ragioni. Intanto fino a pochi anni fa il diritto di locazione tedesco prevedeva che un contratto d’affitto non avesse scadenza. Se non in casi eccezionali, l’inquilino che entrava poteva non uscirne mai. La casa non era pensata come oggetto di investimento o di speculazione, investire i soldi “nel mattone” non era nella mentalità dei tedeschi. C’è poi una ragione storica: Berlino ovest, prima della caduta del muro, doveva essere attraente per sopravvivere. Isolata dal resto della Germania, questa porzione di Ovest affogata nell’Est, coccolava chiunque la visitasse, soprattutto artisti e personalità della cultura. Accoglieva con entusiasmo – e con finanziamenti del governo federale – ogni iniziativa sociale e artistica che contribuisse a tenerla viva. Berlino era un’isola di pacifismo: chi non voleva fare il servizio militare nella Repubblica federale, non doveva fare altro che trasferirsi a Berlino Ovest per essere dispensato. Dopo la caduta del muro e l’inclusione della parte est, la disponibilità abitativa è letteralmente raddoppiata contribuendo a tenere bassi gli affitti e richiamando chiunque ne sposasse lo spirito libertario e bohemien. In quegli stessi anni, però, gli investimenti per la rinata Capitale tedesca hanno iniziato ad affluire massicci. Si dice che la prima a fiutare l’“affare Berlino” alla fine degli anni Novanta sia stata proprio la ’ndrangheta.

Da allora c’è stata una vera corsa all’accaparramento: fondi di investimento di tutto il mondo sono venuti nella capitale in cerca di facili guadagni e rosee prospettive. L’agenzia di intermediazione Grund und Boden ancora pochi anni fa offriva ai suoi clienti di riguardo, durante gli appuntamenti di lavoro, un calice di champagne e un menu a base di palazzi, a partire dalle 15 unità immobiliari in su. Intanto i berlinesi si vedono la città cambiare sotto gli occhi a ritmi vertiginosi e chi non è stato tempestivo nel comprare nell’attimo giusto, ha perso in molti casi la chance di farlo. Cambiare casa ora significa per molti un salto nella povertà, visto che all’aumento degli affitti non è corrisposto un adeguamento dei compensi. “La metà della popolazione di Berlino dice di avere paura di perdere la sua casa”, racconta Rouzbeh Taheri, il promotore del referendum per espropriare i grandi gruppi immobiliari. Le case che potrebbero essere oggetto dell’operazione di esproprio sono tra le 250 mila e le 300 mila. “Non si tratta però di una nazionalizzazione stile Ddr” racconta Taheri, più di una “socializzazione”, cioè il comune dovrebbe comprare per mantenere gli affitti a prezzi calmierati.

“Il nostro esempio è Vienna, dove fino a qualche anno fa si costruivano case sostenibili in rapporto agli stipendi, non la Ddr”, sostiene Taheri. Il paradosso – a noi familiare – è che la società Deutsche Wohnen fino a 15 anni fa era in parte una società comunale la Gsw, poi privatizzata per salvarla dal fallimento. Si tratterebbe quindi di un riacquisto. Il costo di questa operazione si aggira tra i 16 e i 30 miliardi e da un punto di vista giuridico i promotori fanno leva sull’articolo 15 della Costituzione dove si dice che terreni, risorse naturali e mezzi di produzione “possono essere trasferiti alla proprietà pubblica e socializzati per il bene comune”.

L’emergenza abitativa a Berlino è complicata anche dalla mancanza di circa 300 mila alloggi. Il referendum in pochi giorni ha raccolto 15 mila firme e potrebbe costringere la politica ad affrontare il problema.