Il vicepremier del Qatar domani dal premier Conte

Domani il presidente del Consiglio riceverà a Palazzo Chigi il vice-premier e ministro degli Esteri di Doha, Mohammed bin Abdulrahman al Thani (che dovrebbe arrivare già oggi a Roma), titolare del dossier libico, e il vice premier del governo di Tripoli Ahmed Maitig, esponente di Misurata, la città che con le sue milizie a sostegno del governo di accordo nazionale sta dando il contributo più importante alla controffensiva. Nella stessa giornata, il premier potrebbe avere contatti telefonici con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e con il presidente russo Vladimir Putin.

Sul terreno, a nove giorni dall’inizio dell’offensiva, le forze del generale Khalifa Haftar continuano ad arrancare, e il fronte degli scontri resta a una trentina di chilometri da Tripoli e sarebbe in corso un’“importante controffensiva” delle forze che sostengono il governo di accordo nazionale di Fayez Sarraj. Fonti libiche ieri smentivano le notizie secondo cui gli uomini dell’Esercito nazionale libico agli ordini dell’uomo forte della Cirenaica starebbero entrando a Tripoli. I combattimenti continuano a far peggiorare la situazione dei civili con oltre diecimila sfollati.

Dietro il caos di Tripoli c’è il cambio di linea dell’America sull’Italia

Nella resa dei conti in corso in Libia si intrecciano dinamiche geopolitiche complesse. La maggior parte delle analisi si concentrano sul duello tra il presidente Serraj e il maresciallo Haftar, evidenziando come alle loro spalle si intravedano, rispettivamente, il nostro Paese e la Francia. Purtroppo c’è di più. Nella nostra ex colonia, sono entrati in crisi gli accordi di Skhirat con i quali, stante Barack Obama alla Casa Bianca, si decise di attribuire la legittimità internazionale a un esecutivo emanazione di forze riconducibili all’Islam politico. Serraj ebbe una copertura dalle Nazioni Unite, ma decisivo in suo favore fu l’appoggio degli Stati Uniti, oltre alla protezione ravvicinata di mezzi italiani e inglesi. Il “governo di accordo nazionale” in realtà non riuscì mai a stabilire il proprio controllo su tutta la Libia. Vi si sottrasse persino Misurata, baluardo della Fratellanza Musulmana libica e sede di una importante minoranza etnica turca, malgrado formalmente riconoscesse Serraj.

Rifiutarono la soluzione trovata a Skhirat tutti coloro che vi videro un pregiudizio per i propri interessi. Gli egiziani, in primo luogo, in quanto ormai ferocemente ostili all’Islam politico, ma anche i paesi del Golfo accomunati dallo stesso sentimento, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, dei quali è evidente l’impegno contro Tripoli anche in queste ultime settimane. La Francia, che aveva optato per Serraj, iniziò a remare contro. Si realizzò comunque un fragile equilibrio, con i due blocchi coagulatisi attorno a Tripoli e Tobruk che si equivalevano.

Tale situazione è però cambiata alla fine del 2015, quando anche l’Italia di Matteo Renzi si allineò a Serraj e si distanziò dalla Cirenaica, poco prima che in Egitto si verificasse l’odioso assassinio di Giulio Regeni. Si noti come di questo omicidio fosse vittima un italiano, che studiava in Inghilterra e si appoggiava all’American University del Cairo. Quando invece in Libia eravamo prossimi ai filoegiziani anti-islamisti di Tobruk, il Consolato generale d’Italia al Cairo subì un attentato di matrice jihadista mentre da Tripoli il libico Gwell ci inondava di migranti.

Ad alterare lo scenario sono state soprattutto due circostanze. In primo luogo, la freddezza dimostrata da Obama nei confronti del leader egiziano Al Sisi dopo il colpo di Stato contro il presidente eletto Mohammed Morsi che ha indotto l’Egitto dei militari ad attuare un riavvicinamento alla Russia del quale è un aspetto anche la recente vicinanza di Mosca ad Haftar.

La sconfitta di Hillary Clinton e l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump hanno poi innescato una profonda trasformazione della politica mediorientale e nordafricana degli Stati Uniti. È venuto meno l’appoggio trasversale offerto all’Islam politico da Obama e ha preso forma al suo posto un disegno di restaurazione dell’ordine intorno a due pivot: l’Egitto di Sisi e l’Arabia Saudita di re Salman e Mohammed bin Salman. Una fotografia – scattata nel 2017 a Ryad poco dopo il discorso con il quale il tycoon aveva chiesto ai cosiddetti Paesi arabi moderati di spazzare via i jihadisti – ha cristallizzato il nuovo dato geopolitico, mostrando Trump, Sisi e Salman con le mani protese su un globo luminoso.

Che il riorientamento della politica mediorientale statunitense finisse con il riverberarsi anche in Libia era inevitabile. Ci si può casomai chiedere perché il vecchio approccio obamiano sia sopravvissuto così tanto all’avvento di Trump. La spiegazione va cercata nell’esigenza americana di non indebolire un’Italia che appariva utile al contenimento dell’asse franco-tedesco in Europa. La politica di Washington nei confronti della Libia è da tempo una derivata della sua strategia europea e ha risentito di tutte le sue successive rimodulazioni, in parte a loro volta esito delle giravolte compiute dal presidente francese Emmanuel Macron negli ultimi due anni.

È purtroppo forte la sensazione che la benevolenza americana nei nostri confronti stia adesso venendo meno per effetto dell’entrata del nostro Paese nelle Vie della Seta cinesi, per quanto si sia fatto molto per cercare di attenuare le preoccupazioni americane nei confronti dell’influenza acquisita su di noi da un rivale strategico di Washington.

Se l’avanzata di Haftar godesse veramente di una benedizione da parte di Trump e se a questo cambio di cavallo da parte americana in Libia seguissero altre mosse ostili – come i dazi che potrebbero abbattersi sull’agroalimentare italiano, colpendo quasi cinque miliardi di nostre esportazioni – forse s’imporrebbe una riflessione sulle implicazioni degli sviluppi dati alle nostre relazioni con Pechino. Dobbiamo correre ai ripari, prima che sia troppo tardi.

Sudan e il finanziamento italiano al regime morente

Il 7 marzo il Sudan era in pieno caos. Da poco meno di 4 mesi nelle piazze di Khartoum i dimostranti chiedevano le dimissioni del presidente dittatore Omar Al Bashir, al potere da quasi trent’anni anni, grazie a un colpo di Stato. Eppure quel giorno il nostro ministero dell’Ambiente rende operativo un accordo firmato nel novembre 2016 (alla fine del governo Renzi) con il Sudan e si impegna a versargli, attraverso la Fao, un milione e 611 mila 877 euro. Il finanziamento riguarda iniziative e aiuti per la protezione e la cura del bestiame e misure per mitigare i cambiamenti climatici. Un progetto abbastanza complicato, da attuare in un Paese corrotto fino al midollo dove i posti di potere, quelli in cui si può sifonare con una certa facilità denaro, anche quello degli aiuti, fino a ieri erano in mano al clan del presidente Al Bashir, ricercato dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja i crimini di guerra durante la guerra in Darfur. Non è un mistero che il regime del generale-presidente-dittatore a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 abbia dato ospitalità a Osama Bin Laden, che ha abitato a Khartoum fino al 1996, e in quel periodo ha tessuto la sua tela terroristica sfociata con gli attentati alle ambasciate Usa di Nairobi e Dar Es Salaam, il 7 agosto 1998. I morti furono oltre 200. Allora perché tanta solerzia nel finanziare con oltre un milione e mezzo di euro un governo con questi precedenti?

Oltretutto il comunicato che annuncia l’aiuto richiama all’attenzione “la decennale e fruttuosa cooperazione tra la Fao e il governo del Sudan”. Ma la partnership non è stata del tutto produttiva. Alla fine degli anni ’80 inizio anni ’90 quando infuriava la guerra con il sud del Paese, l’Italia era costretta a pagare la tassa di importazione sul cibo che donava alle popolazioni colpite dalla carestia: cioè tassa sugli aiuti.

In quegli anni il Fai, Fondo Aiuti Italiani guidato da Francesco Forte, aveva regalato camion e macchine movimento terra che erano state riconvertite a uso militare. Per non parlare di alcuni silos per cereali, rosicchiati dalla sabbia del deserto e dal sole a Nyala, capitale del sud Darfur. Il 7 marzo parecchi analisti avevano pronosticato la caduta del regime. Il sospetto è quel denaro non fosse destinato a fini umanitari ma piuttosto a finanziare i janjaweed i criminali paramilitari filogovernativi “diavoli a cavallo” che hanno terrorizzato e sterminato le popolazioni in Darfur ora assoldati dal governo di Bashir con finanziamenti anche europei per il controllo della frontiera settentrionale del Sudan per la caccia ai migrati.

A Khartoum intanto i dimostranti continuano a occupare le strade attorno al quartier generale dell’esercito e hanno ottenuto le dimissioni dei primi due leader militari che si erano insediati dopo il colpo di Stato (troppo legati al vecchio regime) e la cancellazione del coprifuoco, violato nei giorni scorsi.

Reddito, Di Maio: “Avanzeranno centinaia di milioni”

I 5,6 miliardi di euro di fondi predisposti nel Decretone per il reddito di cittadinanza avanzeranno. Ne è certo Luigi Di Maio, che ha parlato di “centinaia di milioni di euro” di surplus, derivanti dal fatto che non si arriverà mai al 100% delle richieste. Un tesoretto che dovrebbe andare alle agevolazioni per le famiglie con figli. Secondo gli ultimi dati diffusi, sono 806.878 le domande arrivate all’Inps nel primo mese di avvio della misura di contrasto alla povertà, con una netta prevalenza di Campania (137.000 istanze) e Sicilia (128.000 istanze). Ma è probabile che una parte rilevante delle domande venga rigettata per mancanza dei requisiti. Intanto se da lunedì 15 aprile arriveranno le prime risposte a chi ha chiesto il reddito di cittadinanza entro marzo, è dall’inizio di maggio che verrà predisposta la carta sui cui caricare i soldi per il beneficio. Appaiono invece più lunghi i tempi per l’inserimento al lavoro dei beneficiari del reddito non occupati. Governo e Regioni hanno raggiunto un accordo tecnico sul ruolo dei navigator e a breve dovrebbe essere pubblicato il bando con i requisiti per far parte delle 3.000 persone che dovranno fare assistenza tecnica ai centri per l’impiego.

In Venezuela l’Italia tenta la trattativa che piace agli Usa

L’Italia prova a giocare il suo ruolo (e la sua partita) nella vicenda venezuelana. Come annunciato nell’intervista al Fatto dal premier Giuseppe Conte, domani e dopodomani il suo consigliere diplomatico, Piero Benassi, sarà a Caracas insieme al Nunzio apostolico, Aldo Giordano.

Tra gli incontri in programma, prima di tutto quelli con le comunità italiane: nel paese ci sono 160mila nostri connazionali ai quali verranno illustrate una serie di misure (tra le quali, i servizi consolari e il sostegno alla distribuzione dei medicinali).

Ma la missione di Benassi è soprattutto politica. E parte dal ribadire un assunto di fondo che il premier tiene moltissimo a far passare: l’Italia non appoggia Nicolas Maduro e la sua posizione non può essere riassunta come una semplice equidistanza tra lui e Juan Guaidò. Ma è più articolata: l’Italia non riconosce l’elezione di Maduro presidente, riconosce viceversa l’Assemblea nazione come organo democraticamente eletto e nello stesso tempo non riconosce Guaidò come presidente autoproclamatosi (cosa che invece hanno fatto gli Usa). Insomma, dopo una iniziale posizione pro Maduro, almeno da parte dei 5Stelle, il governo ha corretto il tiro, anche per evitare attriti con gli Usa cercando però una soluzione diplomatica alla crisi di Caracas . Il nostro Paese è per far svolgere nuove elezioni, stessa linea della Santa Sede e dell’Onu.

L’agenda di Benassi rispecchia questa posizione: dovrebbe incontrare Guaidò, mentre non vedrà Maduro, ma uno dei rappresentanti del suo governo, oltre ad alcuni rappresentanti dell’Assemblea nazionale. Va ricordato in questo contesto che si sono incontrati proprio a Roma a marzo, l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Venezuela, Elliot Abrams e il vice ministro degli Esteri russo, Sergey Riabkov. Che hanno visto proprio Benassi.

Ici sulla Chiesa, i Comuni in ordine sparso

Habemus tassam: la Corte di Cassazione dà ragione al Comune di Livorno e stabilisce che le Sorelle dei Poveri di Santa Caterina da Siena e le Suore Trinitarie, due istituti religiosi della città, dovranno pagare l’Ici – la vecchia imposta sugli immobili – non versata tra il 2004 e il 2009. Altrimenti, ci sarebbe “un aiuto di Stato che potrebbe falsare la libera concorrenza”. La sentenza rappresenta una vittoria importante per il Comune, ma non la prima: un’analoga vicenda del 2015, sulle scuole livornesi di Santo Spirito e Immacolata, aveva costretto il Vaticano al pagamento della stessa imposta. Un precedente storico in materia. Livorno è solo l’ultimo risultato di una lunga e complessa vicenda che coinvolge Stato, Chiesa e Bruxelles e a cui negli ultimi mesi il governo sembrava voler mettere mano, salvo poi disinteressarsene.

Riavvolgiamo il nastro. Lo smisurato patrimonio immobiliare dello stato pontificio aveva goduto per decenni dell’esenzione dalla tassa comunale. Dalla sua introduzione, nel 1992, l’Ici non è mai stata imposta agli edifici di proprietà del Vaticano che non ospitavano attività commerciali. L’onere fiscale della Chiesa, già blando, viene ulteriormente alleggerito nel 2005, quando il governo Berlusconi esonera dal versamento anche le strutture in cui si svolgono attività a fini di lucro. Nel 2008, con il governo Prodi arriva l’escamotage: l’Ici viene imposta solo alle attività “prevalentemente” a fini di lucro. Insomma, bastava un luogo di culto all’interno degli stabili per esonerare dal pagamento alberghi, case di cura et similia.

Due anni dopo, l’Antitrust Ue apre un’indagine che si conclude nel 2012 con la contestazione per aiuti di Stato illegali al Vaticano. Col governo Monti, nello stesso anno, si torna alle origini: gli unici edifici che possono scampare all’Imu, l’imposta succeduta all’Ici, sono quelli in cui non si svolgono attività lucrative. Cosa accade, a quel punto, ai mancati versamenti accumulati fino ad allora? Niente. In teoria lo Stato doveva recuperare le somme, ma Bruxelles abbraccia la versione secondo cui l’ammontare dovuto sarebbe “impossibile da stimare”, a causa della mancata disponibilità di dati per quantificare le cifre corrette. La Corte di giustizia europea decide quindi di chiudere la questione nel 2016, salvo poi riaprirla con una sentenza, giunta qualche mese fa, che ribalta le carte in tavola. Il 6 novembre 2018, infatti, il Tribunale Ue accoglie il ricorso della scuola Montessori di Roma e di un piccolo Bed & Breakfast di San Cesareo, imponendo alla Chiesa di pagare l’imposta per il periodo che va dal 2007 al 2011, e imponendo allo Stato di recuperare tutte le somme arretrate senza accampare la scusa della mancanza dei dati. Secondo una stima dell’Anci, l’Associazione Comuni Italiani, la cifra ha nove zeri: si parla di un minimo di 4 miliardi, e di un massimo di cinque.

La strada che porta al recupero di queste cifre da capogiro è ancora lunga: dopo la sentenza della Corte Ue, il governo ha fatto filtrare di voler varare una specie di pace fiscale, una sanatoria per permettere al Vaticano di chiudere il contenzioso pagando una parte del dovuto. La stima prevista era di circa 1 miliardo, lontana dai 5 dei calcoli dell’Anci, ma sempre meglio di niente. Di questa norma, però, se ne sono perse le tracce e oggi il governo non ne parla più. E così i singoli Comuni – come Livorno – sono costretti a fare da sé.

Salvini contro Conte: vuole fermare la flat tax

Quando Matteo Salvini ha letto l’intervista del premier Giuseppe Conte sul Fatto Quotidiano di ieri prima si è trincerato dietro un “no comment” poi, nel pomeriggio, ha cambiato idea e la sua dichiarazione diventa l’attacco più frontale mai sferrato all’inquilino di Palazzo Chigi: “Abbassare le tasse e semplificare la vita agli italiani non è un capriccio della Lega, ma un’emergenza per famiglie e imprese, un dovere previsto nel contratto di governo. Se qualcuno rallenta la Flat Tax non danneggia Salvini o la Lega, ma danneggia il governo e l’Italia intera. Flat Tax subito, già da quest’anno, gli italiani ci chiedono coraggio”.

Nella sua intervista al Fatto, Conte aveva presentato una linea opposta: “Siamo determinati a procedere, ma dobbiamo operare in un quadro di compatibilità con la finanza pubblica, contrastando con la massima determinazione l’evasione e l’elusione fiscale per liberare risorse da investire in questo progetto. Questa riforma va attuata per gradi: con la manovra dello scorso dicembre abbiamo realizzato un primo significativo tassello e continueremo a operare in via progressiva investendo le risorse che via via si liberano”.

Quando si promette di finanziare una misura di spesa, quale è un taglio fiscale, con gli introiti della lotta all’evasione, il messaggio è chiaro: significa non attuarla mai. La Commissione europea, tra l’altro, di solito non accetta entrate per definizione incerte come quelle dal contrasto al sommerso come copertura. La posizione di Conte è che la flat tax (in realtà una riduzione di imposta per le famiglie del ceto medio) si può introdurre solo quando ci saranno i soldi. Salvini invece sostiene che prima si approva, poi si cercano le risorse per gestirla, magari anche in deficit.

Nel Documento di economia e finanza appena approvato dal governo, c’è una stima precisa degli introiti dalla lotta all’evasione: 19,2 miliardi di euro nel 2018. Tanti soldi, che però comprendono praticamente tutta l’attività di riscossione: 11,4 miliardi versati con i modelli F24 a seguito di atti emessi dall’Agenzia delle entrate, 1,8 miliardi dell’attività di “promozione della compliance” (l’Agenzia manda una lettera segnalando anomalie, il contribuente può correggere prima della contestazione formale), altri 5,7 miliardi arrivano dai ruoli riscossi dalla famigerata ex-Equitalia, che ora si chiama Agenzia delle entrate – Riscossione. Questi soldi già affluiscono nel bilancio dello Stato, contribuiscono a finanziare le attuali voci di spesa. Quindi quale sarebbe l’extra-gettito utilizzabile per finanziare i tagli di imposta previsti da una flat tax? Difficile dirlo.

Se si considera la variazione sull’anno precedente – di quanto è aumentata la riscossione – lo scenario è poco incoraggiante per Salvini: il gettito nel 2018 è stato addirittura in calo del 4,5 per cento rispetto al 2017. Ma anche se, per una remota ipotesi, nel 2019 il gettito dovesse aumentare diciamo del 10 per cento, questo significherebbe che per la flat tax ci sarebbero meno di 2 miliardi a disposizione. Briciole.

Nessuno conosce i dettagli e soprattutto i costi dell’ultima versione della flat tax proposta dalla Lega, un prelievo ridotto per le famiglie con un reddito complessivo inferiore ai 50.000 euro (complesso da applicare anche perché l’Irpef, l’imposta sul reddito, è individuale e non familiare). Di sicuro non è un intervento da pochi miliardi. Poiché nella legge di Bilancio 2020 il governo deve già cercare 23 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva (e forse anche i 18 per compensare le privatizzazioni non fatte nel 2019), gli ultimatum di Salvini equivalgono alla richiesta che il governo sfondi ogni parametro europeo, spingendo il rapporto tra deficit e Pil sopra il 4 per cento, con inevitabili procedure di infrazione e tensioni sui mercati. Chissà se e quanto durerà la ferma opposizione di Conte.

Calci da un compagno di classe: in ospedale bimba di nove anni

Una bimba di 9 anni finisce per 18 ore al pronto soccorso dopo essere stata presa a calci alla pancia da un compagno di classe delle elementari che l’aveva presa di mira da tre anni. Sull’episodio, sul quale indaga la Procura che ha in mano il referto medico ha avviato accertamenti anche la dirigente scolastica. L’unica a parlare, al momento, è la mamma della vittima che frequenta la terza elementare: “Ho chiesto più volte alle insegnanti di intervenire, senza però ottenere nulla”. La donna, riferendo le parole della figlia, ricostruisce l’accaduto. “La bimba era in bagno, si stava lavando le mani al termine delle lezioni – racconta – quando il solito compagno di classe l’ha prima spinta violentemente da dietro, facendole sbattere la pancia contro il lavandino, poi l’ha picchiata sul corpo e sulla testa, facendola andare a sbattere contro un armadio e finendo per darle un calcio in mezzo alle gambe”. Poco dopo l’aggressione la madre è stata chiamata da un’insegnante che le ha detto che la figlia stava molto male: “Già avevo detto alle insegnanti che c’erano dei problemi con questo bambino – ripete la donna – ma in risposta a queste segnalazioni avevo sempre ottenuto risposte che minimizzavano”.

Anvur, arriva Livon dal ministero. Il “controllore” diventa direttore

L’anvur, la discussa Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e di ricerca, cerca il suo nuovo direttore. Quello attuale, Sandro Momigliano, è in scadenza e c’è la fila davanti alla sede di via Ippolito Nevio a Roma. La poltrona è ambita per l’importanza del ruolo, e dell’Anvur: tra le varie competenze dell’ente pubblico c’è infatti anche la nota e criticatissima Vqr (la Valutazione della qualità della ricerca), che influenza la distribuzione dei fondi statali agli atenei italiani. Senza dimenticare l’aspetto economico: si parla di circa 165 mila euro (lordi) l’anno di stipendio.

A fine gennaio l’Agenzia aveva pubblicato un interpello per trovare il profilo giusto. Sono state vagliate le domande e individuata una short-list di 6 candidati, il 27 marzo sono stati fatti dei colloqui, c’è già il vincitore: a quanto risulta al Fatto Quotidiano, il presidente Paolo Miccoli ha proposto il nome di Daniele Livon, che è stato approvato all’unanimità dal consiglio direttivo. Tutto (quasi) fatto.

C’è un piccolo problema, però: Livon è anche l’attuale direttore generale del Ministero dell’Istruzione proprio per l’università, carica che dovrà lasciare per andare all’Anvur, che dal Miur è vigilato. Un bell’intreccio. Curriculum inappuntabile, proviene dall’Università di Udine (come l’ex presidente dell’Agenzia, Fantoni), ed è entrato al Miur nel 2011 sotto la gestione Gelmini. Negli ultimi 8 anni, in virtù delle sue funzioni, è stato l’uomo che ha dovuto supervisionare le attività dell’Agenzia. C’era una questione d’opportunità da valutare? Evidentemente no per i vertici dell’Anvur, che hanno pensato proprio a lui per l’incarico. Il “controllore”, insomma, diventa il direttore.

“Ridateci il Bocia in curva”. Gli ultrà atalantini in marcia per il leader “pluridaspato”

“Chi ha le bombe carta se le tenga in tasca e le riporti a casa”. Prima di lanciare un coro, un ultras avverte i suoi sodali. Niente scherzi. È una manifestazione pacifica, fatta di cori e striscioni, birre e fumogeni blu, quella che hanno fatto ieri i tifosi dell’Atalanta nel centro di Bergamo. Non volano insulti e la polizia è quasi assente: ci sono alcune pattuglie della municipale per il traffico e gli agenti della Digos, ma nessun reparto mobile. Da Cosenza e da Terni sono arrivati anche i supporter delle tifoserie gemellate, tutti qui per gridare “Claudio libero”. Claudio è Claudio Galimberti, 46 anni, conosciuto come il “Bocia”. Da 25 anni non può entrare negli stadi e alcuni recenti provvedimenti prolungano questo suo allontanamento fino al 2023: “È il leader della nostra curva nonostante da anni lui non venga più in balconata”, spiega Giambattista Valota, uno dei ragazzi della Curva Nord. “Per alcuni è un fratello, per alcuni è un padre”, spiega Raffaele dei “Vecchio Stampo”, ultras della Ternana. C’è anche l’ex sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, che ricorda il suo impegno per ricostruire lo stadio dopo il terremoto. I cori risuonano fino davanti al municipio, dove il “Bocia”, via telefono, ringrazia tutti. A presenziare per lui ci sono i familiari e l’avvocato, Federico Riva: “Era diffidato per gli incidenti di Atalanta-Catania del 2009. La diffida doveva scadere nel 2014 – spiega -. Però per via di una condanna del Tribunale di Pordenone è finito in blacklist”. Quella sentenza poi è stata annullata ed è stata archiviata la denuncia per “l’episodio della porchetta”, quando consegnò agli agenti della Digos la testa del maialino cucinato dagli ultras. Voleva essere goliardico, ma è stato denunciato per oltraggio e diffidato: “La denuncia è stata archiviata per la tenuità del fatto”, aggiunge. “Claudio ha sbagliato, ha ammesso e ha pagato, ma sta pagando più del dovuto”, conclude Daniele Belotti, deputato della Lega da sempre legato alla curva.