Ragazzini di 15 anniche minacciano, aggrediscono e insultano con toni razzisti altri ragazzini e bimbi rom, alcuni piccolissimi, di 6 o 7 anni. È successo a Napoli, venerdì sera, nella bella e centrale piazza Dante, a due passi dai teatri e dalle librerie degli intellettuali. Domattina sarà formalizzata in polizia municipale una denuncia coi dettagli dell’accaduto. Vittime, 7 bambini rom e due mamme. L’episodio è avvenuto all’uscita del cinema Modernissimo, dove il gruppo si era recato a vedere il film Hellboy nell’ambito di un progetto comunale di inclusione sociale della comunità rom. Bimbi e madri erano in compagnia di due operatrici della Dedalus, la cooperativa che gestisce le attività di supporto scolastico ed extrascolastico alle famiglie rom ospiti del campo comunale di via del Riposo. Secondo la ricostruzione delle operatrici, quattro ragazzini napoletani hanno sputato addosso e lanciato pietre contro i bimbi e le mamme al grido di “jatevenne (andatevene, ndr) a casa vostra”, inseguendoli fino a un bar di piazza Dante dove hanno trovato rifugio e la protezione dei titolari. “Le operatrici di Dedalus mi hanno avvertito subito – dice Laura Marmorale, assessore ai diritti di Cittadinanza – e domattina le accompagnerò a presentare la denuncia. Abbiamo preferito fermarci un attimo perché siamo tutti molto scossi . C’è chi sta creando artatamente un clima di odio, violenza e discriminazione, legittimando i più biechi istinti”. “I ragazzini che ci hanno aggredito avevano all’incirca 15 anni – spiega Daniela Montagnana di Dedalus – se la sono presa prima con una mamma con un carrellino che aveva fatto la spesa, ed era visibile la sua origine rom, e poi coi bambini. Dovevamo riaccompagnarli a via del Riposo ma la metropolitana era chiusa, e i ragazzini ci hanno inseguito per circa 500 metri, minacciando di usare i coltelli. I nostri bambini erano terrorizzati e in quella situazione abbiamo preferito rifugiarci in un bar e chiamare un taxi”.
L’Alto Adige all’avanguardia: sugli abusi sessuali nelle parrocchie indaga la Diocesi
Nel solo 2018 nella Diocesi di Bolzano e Bressanone undici persone, di cui sette donne, hanno denunciato il loro passato di minorenni vittime di violenze sessuali. In sei circostanze gli autori erano religiosi, in tre casi sacerdoti diocesani della regione autonoma mentre i rimanenti sono avvenuti in contesti non ecclesiastici.
Le vittime si sono rivolte al centro contro gli abusi della città istituito all’interno del Centro pastorale diocesano e Ivo Muser, vescovo di Bolzano e Bressanone, ha visitato il centro, ascoltato gli operatori, ringraziandoli.
Tutto ciò non appare però solo come un gesto simbolico. Facile rendersene conto rileggendo le parole del Vescovo: ”Dobbiamo ascoltare e prendere sul serio le storie che ci raccontano le vittime” parla di ferita, di piaga nelle famiglie, all’interno delle parrocchie ma soprattutto di tutte le strutture ecclesiastiche. Sottolinea tutte.
Il centro aperto nel 2010 dalla Chiesa in Alto Adige è un progetto unico nel suo genere. All’accoglienza e all’ascolto infatti gli operatori laici fanno seguire l’orientamento anche verso figure professionali specifiche messe a disposizione dalla Caritas o altre strutture territoriali. Questo sportello centrale, inoltre, funge da collettore rispetto ai centri di ascolto sparsi nelle parrocchie delle due città.
“Dobbiamo essere umili e andare tutti nella stessa direzione” il commento dell’alto prelato “abusi sessuali e ogni altra forma di violenza non possono essere più considerati un tabù”. Tutte le testimonianze – verificate –, sono state raccolte nella relazione annuale redatta dal servizio specialistico della Diocesi contro le violenze, racconti diventati un documento ufficiale al quale il Vescovo non si è sottratto anzi ha rilanciato annunciando l’intenzione di istituire una commissione indipendente di esperti con il compito di chiarire e definire le necessarie misure di sostegno alle esigenze delle vittime minori o no, ma pur sempre vulnerabili.
“Sono convinto che l’abuso sessuale sia uno dei peggiori crimini di sempre perché distrugge l’anima di un essere umano innocente”. Durante l’incontro si è parlato delle questioni connesse alla colpa personale e strutturale, alla responsabilità e trasparenza ma soprattutto è stato riferito della necessità di attualizzare standard comuni (o linee guida) validi per ordini e congregazioni della regione che secondo quanto emerso dal colloquio hanno garantito piena collaborazione.
A tutto ciò Ivo Muser aggiunge di voler costruire nuovi percorsi nel rapporto tra Diocesi e chi subisce infine quella richiesta diretta, avanzata dal Vescovo, affinchè il dibattito sia aperto e onesto “questa attenzione alle vittime ha avviato un processo di ripensamento sia nella Chiesa che nella società. Indipendentemente dal fatto che si tratti di violenza fisica o psicologica”.
Matteo vs Raggi: “Degrado a Roma” Lei: “Pensi a lavorare”
Matteo Salvini torna ad attaccare Virginia Raggi e la giunta capitolina. Mentre sul circuito cittadino dell’Eur sfrecciano i bolidi della Formula E, il vicepremier critica la gestione della capitale da parte della giunta M5s. “Un giorno ogni tanto – ha detto il leader della Lega – Roma è positivamente al centro dell’interesse del mondo. Spero che continui a esserlo tutti i giorni della settimana e non soltanto per i topi, la sporcizia, per le metropolitane ferme e per il caos nelle periferie. Io vengo a sostenere il futuro. Non posso essere io a pulire la città, tenerla ordinata. Il problema non è la Lega, quando ci sono state le ultime elezioni comunali io invitai a votare la Raggi se ricordate. Pensavo che i 5 Stelle avrebbero fatto di più a Roma”. La sindaca ha replicato invitando il titolare del Viminale a realizzare “risultati”. “Invece di parlare di Roma si occupi della sicurezza. Visti i fatti di cronaca di questi giorni, mi sembra di poter dire che non manchi il da farsi. A ognuno il suo lavoro. Parla di tutto ogni giorno in tv ma mi sembra che non passi mai ai fatti. Fa piacere – aggiunge – che sia passato dal chiedere ‘Vagoni della metro senza terronì a riconoscere che, grazie a noi, si guarda finalmente al futuro. Il ragazzo sta crescendo”.
Il “chiacchierone” ha sparato perché si sentiva braccato
Erano circa le 9.30 di ieri mattina quando la pattuglia dei carabinieri della stazione di Cagnano Varano usciva per un ordinario controllo. A bordo dell’auto il 46enne maresciallo maggiore Vincenzo Carlo Di Gennaro e il 23enne Pasquale Casertano, carabiniere presente in quella stazione da qualche mese. Nella piazza principale del piccolo centro garganico, i due militari notano Giuseppe Papantuono, un pregiudicato del posto che solo qualche giorno prima era stato sottoposto a una perquisizione per droga.
I due agenti, da una prima ricostruzione, hanno affiancato il pregiudicato che attraversava a piedi la piazza. Alla richiesta dei documenti Papantuono ha estratto una pistola calibro 9 esplodendo l’intero caricatore all’indirizzo dei due carabinieri, colpendo sia il maresciallo, in pieno petto, che il militare alla guida, raggiungendolo all’addome e al braccio con due pallottole.
Casertano comprende sin da subito la gravità delle condizioni del maresciallo e nonostante sia ferito, riesce a dare l’allarme via radio per poi precipitarsi con l’auto verso la postazione del 118 a poche centinaia di metri dalla piazza principale di Cagnano. Per il maresciallo Di Gennaro non c’è stato niente da fare. Era già morto nell’abitacolo dell’auto di servizio. L’altro carabiniere, salvo per miracolo, è stato invece soccorso e trasportato nell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di S. Giovanni Rotondo dove è stato sottoposto ad un intervento chirurgico per estrarre una pallottola.
Esplosi i colpi di pistola, Papantuono ha tentato la fuga ma è stato bloccato dopo pochi metri da un’altra pattuglia dei carabinieri, sopraggiunta sul posto dopo la richiesta di aiuto.
Giuseppe Papantuono era conosciuto in paese come una testa calda, chiamato “Chiacchiared” (chiacchierone), proprio perché spesso si scontrava animatamente con le persone del posto anche per futili motivi. Il soggetto era ben noto alle forze dell’ordine che lo avevano già arrestato per reati legati allo spaccio nel 2011. Nel 2017 era stato arrestato per lesioni aggravate e porto abusivo di un coltello. In un commento a caldo il comandante provinciale dei carabinieri, Marco Aquilio, ha precisato: “È una persona censurata, a noi già nota. Stiamo facendo tutto il possibile per assicurarlo alla giustizia con tutti gli elementi più solidi che possiamo raccogliere”.
Papantuono non sembra però collegato direttamente ai clan della mafia garganica che gestiscono il traffico di droga nel Foggiano. Aveva un giro tutto suo, pur avendo dei riferimenti nei clan locali per l’approvvigionamento degli stupefacenti.
Non vi erano, secondo le prime ricostruzioni, motivi personali che lo legavano al maresciallo Di Gennaro, né all’altro carabiniere coinvolto, si sentiva però braccato a tal punto da non poter agire liberamente. Questa situazione, secondo indiscrezioni, era emersa già precedentemente in alcune affermazioni in pubblico da dove si intuiva una sua personale avversione contro i carabinieri a causa dei ripetuti controlli.
Ha probabilmente sparato con la volontà di colpire un carabiniere a caso, non Di Gennaro in particolare, che prestava servizio nella cittadina di Cagnano Varano dal 2013. Nonostante la sua città di nascita fosse San Severo, distante una quarantina di minuti da Cagnano, il maresciallo aveva deciso di vivere a Cagnano per esigenze di servizio In paese lo ricordano come un militare dai grandi valori e di spiccata umanità. Anche i colleghi lo ricordano come “la bontà fatta persona” che si evinceva anche dal suo impegno nel mondo del volontariato e nella sua profonda devozione a San Pio da Pietrelcina. Ai suoi colleghi aveva confidato che era in procinto di decidere insieme alla sua ragazza la data delle nozze.
Salvini: “Assassino infame”. E invoca la pena di morte
“Io sono contro la pena di morte, ma un infame che ammazza un uomo che sta facendo il suo lavoro, non merita di uscire di galera fino alla fine dei suoi giorni”. Lo dice in un tweet Matteo Salvini, commentando l’uccisione di un maresciallo dei carabinieri, nel Foggiano a Cagnano Varano: Vincenzo Di Gennaro, che aveva 46 anni ed era originario di San Severo. Ma più delle parole – mentre il premier Conte sceglie di andare a far visita al secondo carabiniere ferito – vale la foto, anzi le foto, che il ministro dell’Interno posta sia su Twitter che su Facebook. Mostra il pregiudicato 64enne Giuseppe Papantuono, la faccia insanguinata, tenuto a terra sull’asfalto da un agente che gli pone un ginocchio sulla schiena. Un’altra foto postata dal Ministro stringe sul primo piano dell’uomo arrestato per l’omicidio sempre a terra. Sullo sfondo, il volto del carabiniere ucciso. In Italia la pena di morte non è possibile, visto che è stata abolita dalla Costituzione per tutti i reati comuni e militari commessi in tempo di pace. Ma l’affermazione del ministro dell’Interno brilla per ambiguità: quel “ma” subito dopo la dichiarata contrarietà alla pena di morte ha l’effetto di sdoganare un tabù e nello stesso tempo di solleticare l’elettorato più sensibile a questi temi. In linea con le battaglie portate avanti dalla Lega per una legge sulla legittima difesa che ne allarga ancora le maglie e quella sulla castrazione chimica per gli stupratori (per ora fallita). Un modo per adombrare la possibilità di fare qualcosa che in Italia in realtà non si può fare, mentre si dice che in realtà non si vuole fare.
E la foto rinforza il messaggio. Tocca ad Andrea Ostellari, presidente della Commissione Giustizia del Senato, ribadire: “La Lega è contro la pena di morte, ma chi uccide o compie reati gravissimi, merita pene severe, senza sconti”. E ancora rivendicare le riforme fatte dalla Lega: “Se il criminale che ha ucciso un servitore dello Stato sarà riconosciuto colpevole, come spero, di omicidio aggravato grazie alla nostra riforma del rito abbreviato, sarà quello che si merita: l’ergastolo”.
Oggi l’avvenuta abolizione della pena di morte rappresenta una delle condizioni per l’adesione di nuovi membri all’Unione europea. Ma Viktor Orban più volte si è espresso a favore. E in Francia Marine Le Pen, l’alleata europea numero uno di Matteo Salvini, al’’indomani della strage di Charlie Hebdo, aveva chiesto un referendum per la reintroduzione della pena di morte nel suo paese (dove è abolita da 30 anni). L’allora vicepresidente leghista del Senato, Roberto Calderoli, aveva detto di “fare sue” le parole della Le Pen affermando che “in guerra a un bandito bisogna rispondere con un bandito e mezzo”.
La presidente Marini: “Io estranea, ma fatti gravi: voglio la verità”
“Dichiaro sin da ora assoluta estraneità con riferimento alla mia posizione che mi vede tra gli indagati. La situazione è sconcertante, se confermata, molto grave per la nostra Regione”. In una conferenza stampa convocata all’indomani delle notizie sull’inchiesta che la vede indagata, la presidente della Regione, Catiuscia Marini, nega il suo coinvolgimento e auspica un rapido chiarimento. “Lo scenario che si evince da questa indagine – ha aggiunto – rafforza un interesse mio nella mia qualità di presidente a una presa di conoscenza puntuale di fatti e atti perché, se confermata l’ipotesi accusatoria, questi rappresenterebbero un gravissimo vulnus sulla gestione della sanità di questa Regione”. Intanto, però, da Roma arrivano gli ispettori: “Nelle prossime ore invieremo una task force del ministero della Salute in Umbria per capire la sicurezza delle cure nella regione e la situazione dell’ospedale di Perugia; ma crediamo anche che sia necessario effettuare una verifica straordinaria della qualità di tutti i reparti degli ospedali”, ha detto la ministra Giulia Grillo.
Indagata la governatrice
Abuso d’ufficio, rivelazione del segreto d’ufficio, favoreggiamento e falso sono le ipotesi di reato nell’inchiesta su presunte irregolarità commesse in un concorso per assunzioni in ambito sanitario. La presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini (Pd) è indagata per rivelazione di segreto e abuso d’ufficio. Da venerdì, inoltre, sono ai domiciliari Gianpiero Bocci, segretario del Pd umbro ed ex sottosegretario, e l’assessore regionale alla Salute, Luca Barberini. Stessa misura emessa dal gip Valerio D’Andria per il direttore generale dell’Azienda ospedaliera Emilio Duca e quello amministrativo Maurizio Valorosi.
L’indagine della Procura di Perugia, partita a fine 2017, ha svelato l’esistenza di un “sistema” clientelare in cui esisteva una “generalizzata disponibilità a commettere illeciti all’interno dell’azienda ospedaliera da parte di coloro che si occupano delle procedure di selezione”.
Non solo Pd: sulla sanità umbra c’è l’ombra della massoneria
Al tavolino della sanità umbra, per spartirsi i concorsi truccati, sedevano in due: la politica e la massoneria. In almeno tre occasioni, nelle intercettazioni captate dalla Guardia di Finanza e allegate agli atti d’indagine, i riferimenti alla massoneria sono espliciti. Non a caso la procura guidata da Luigi De Ficchy, nella richiesta d’arresto di circa 500 pagine menziona gli “interessi clientelari” ma precisa: non soltanto di “matrice politica”. Se poi vi sia stato un nesso tra ambienti politici e massonici lo si potrà scoprire anche con gli interrogatori previsti da domani mattina.
Di certo, per ora, c’è che il Pd umbro è stato falciato dalle indagini. Il segretario regionale del Pd Gianpiero Bocci è da due giorni agli arresti domiciliari, insieme con l’assessore regionale alla Salute Luca Barberini (Pd), che intanto si è autosospeso dal partito. Per l’accusa hanno condizionato più di un concorso. “La stabile utilizzazione delle funzioni e del ruolo istituzionale, rivestito per finalità illecite”, scrive il gip Valerio D’Andria, “convincono della necessità di una misura cautelare di tipo detentivo”. Funzioni e ruolo. Per Bocci non v’è alcun ruolo amministrativo: la sua funzione è esclusivamente politica. È segretario del partito di maggioranza. Eppure questa funzione convince il giudice “della necessità di una misura cautelare di tipo detentivo”: il fallimento politico è evidente.
Barberini e Bocci secondo le accuse indicavano i soggetti da favorire e ricevevano una “pronta risposta” da parte di Emilio Duca, direttore generale, e Maurizio Valorosi, direttore amministrativo dell’azienda ospedaliera di Perugia. Lo stesso accadeva anche con la governatrice Catiuscia Marini. Anche lei indagata per concorso in abuso d’ufficio, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e falso ideologico. In un’occasione viene intercettata mentre parla di concorsi col direttore generale: “Duca – si legge negli atti – riferisce a Marini di avere le ‘domande’ in vista dello scritto”. “Qui ce so’ le domande”, dice Duca, “tra quelle lì… sta tranquilla”. La prova scritta si terrà 5 giorni dopo e Duca consegna un foglio a Valentino Valentini, segretario della Marini, al quale “viene affidato il compito di portarlo a una donna (…)”. Il 25 maggio, dopo le prove del concorso, Duca “ribadisce la necessità di portare avanti le persone raccomandate da Bocci, Barberini e Marini e di ‘gonfiare’ in particolare la valutazione di una delle candidate” che, secondo una dirigente, “aveva grossi problemi”. Qui si apre uno scenario meschino: la dirigente Rosa Maria Franconi “evidenzia” che c’è un “candidato che aveva fatto bene ma non era tra quelli segnalati”. Duca la tranquillizza, “avrebbe pensato a inserirlo nell’altra procedura”, per le “categorie protette”.
Ecco, neanche i concorsi per le categorie protette, che per legge sono riservati a persone disoccupate con disabilità, venivano risparmiati dal “sistema”. Parliamo di persone con una invalidità superiore al 45 per cento, non vedenti, sordi, gente vittima di un handicap permanente. Per far valere il proprio diritto, a quanto pare, era necessaria anche la segnalazione giusta e l’ingresso nelle “liste” predisposte dal “sistema”.
L’inchiesta ha messo nel mirino 8 concorsi nell’azienda sanitaria di Perugia. “Un sistema illecito – scrive il gip Valerio D’Andria – che in assenza di interventi dell’autorità giudiziaria è destinato a proseguire”. E tra questi 8 concorsi si contano anche selezioni per le “categorie protette”. Per esempio il concorso pubblico, del luglio 2017, “per la copertura a tempo indeterminato di 4 unità per assistenti amministrativi”. “Sin dall’inizio – scrive il gip – la procedura è condizionata dalle segnalazioni provenienti da Marini, Barberini, Bocci (…). Al fine di (…) garantire a quattro candidati la vittoria del concorso, Duca e Valorosi ottengono dalla accondiscendente presidente della commissione le tracce delle prove scritte e del questionario, nonché le domande della prova orale. I fogli che contengono tali preziose informazioni sono poi consegnati ai politici sopra indicati affinché li facciano avere ai candidati”. E chi non assecondava il “sistema” era destinato a “una bastonata di quelle forti, che si fa male”.
È il caso del primario del reparto di Pediatria, Susanna Maria Esposito, che entra in conflitto con la dirigenza amministrativa dell’azienda sanitaria per la presenza, in reparto, di Antonio Orlacchio, professore associato di genetica medica, arrivato nel 2015, quindi prima che Esposito diventasse primario. Dopo un esposto anonimo, il Nas dei carabinieri avvia un’indagine per verificare un’eventuale “truffa ai danni dello Stato” considerato che Orlacchio non svolgeva in reparto “alcuna attività”. Orlacchio e Duca forniscono agli inquirenti le loro spiegazioni: la soluzione, da transitoria s’era protratta indefinitamente con danno professionale per lo stesso Orlacchio. Il punto, però, è che Esposito spiega in procura “di aver sottoscritto una valutazione positiva di Orlacchio solo perché pressata (anche con minacce di conseguenti provvedimenti disciplinari in caso contrario) dalla dirigenza amministrativa (…) con la promessa che la situazione della collocazione di Orlacchio sarebbe stata risolta”. Ed per questi contratsi che, secondo l’accusa, nel 2018 viene formulata una contestazione disciplinare nei confronti di Esposito che viene anche accusata di essere stata assente dal reparto in alcuni giorni in cui risultava formalmente presente. Risultato: sospensione dalle funzioni per 4 mesi e 350 euro di multa. Ma le intercettazioni svelano il retroscena: Valorosi sostiene che a Esposito bisogna dare “una bastonata di quelle forti, che si fa male”. E Duca sollecita un dirigente: “tu controlla i tabulati orari … Diama’, fatti mandare i tabulati orari dell’ultimo anno e mezzo …”. “È finita”, commenta Esposito al fattoquotidiano.it, “ora sono più serena, perché in questi mesi mi hanno molto provato”. E il suo avvocato, Carlo Tremolada, conclude: “Non l’hanno bastonata per favorire qualcun altro, ma perché si rifiutava di piegare il capo. E si sono vendicati”.
Raggi a Stoccolma, Maglie in Usa e Castelli a Bruxelles – Gonne d’acciaio
Sono gonne d’acciaio. Convinte, decise, allungano il passo senza mai guardarsi dietro. A volte ribelli, sempre ribalde, non conoscono accomodamento se prima, interna corporis, non hanno avviato l’analisi completa della situazione, e delle conseguenti condizioni migliorative. Le donne d’Italia illustrate per brevi radiografie.
Vicedir. gen. Bankitalia
Alessandra Perrazzelli
Conosce bene Corrado Passera con cui ha lavorato in Intesa Sanpaolo; conosce bene Carlo De Benedetti, con cui ha lavorato in Olivetti. Ha scucito quattro miliardi di lire come risarcimento danni alla Telesystem di Arturo Artom; ha guidato Barclays Italia, ha presieduto Valore D, associazione di 150 imprese italiane ed estere impegnate a promuovere le donne in posizioni apicali. Più gonna d’acciaio di così non ce n’è.
È lei la guida futura del Pd.
Ministra della Difesa
Elisabetta Trenta
Non sbaglia un congiuntivo – in dissenso con il proprio partito, il M5S – e parla fluentemente in russo, in inglese e perfino in arabo. Capo di un dicastero d’impronta maschile, Trenta ha dovuto gestire la nuova nomina del capo di Stato Maggiore della Difesa e risolvere la questione degli aerei F-35 con gli Usa. Oltre al rancio – sempre ottimo e abbondante – ha discusso con la truppa di uranio impoverito, equipaggiamenti e caserme. Schietta e dritta rintuzza spesso Matteo Salvini, una volta anche Giulia Bongiorno in tema di castrazione chimica e ha rimproverato Virginia Raggi – sua collega di partito – per le buche di Roma su cui perfino i cingoli dei carrarmati sbiellano.
Pronta per fare la ministra della Guerra, altro che Difesa.
Scienziata
Fabiola Gianotti
Portavoce del gruppo che ha scoperto la particella compatibile col bosone di Higgs, è la prima donna italiana a dirigere il Cern, la seconda donna italiana tra le cento più influenti nel mondo secondo Forbes. Non conosce altro che la fisica, con la quale è legata sentimentalmente fin dalla prima infanzia. Iconic woman, forse bionica, è nella condizione di dirigere contemporaneamente tre ministeri o assolvere alle funzioni di due e più vicepremier.
Atleta
Bebe Vio
Prima nella storia dello sport a vincere le Paralimpiadi nel fioretto con quattro protesi artificiali, Bebe rende oro quel che tocca e le vittorie di squadra con lei valgono il doppio. Quando furono realizzate le prime protesi, simile alla dea Atena, ebbe ad abbagliare tutti col suo braccio armato. Il suo motto: “La vita è una figata”. Ama frapporre fra sé e le difficoltà della vita tutti gli ostacoli possibili e superarli – siano essi una patente, la burocrazia delle regole sportive o una laurea – al modo dei supereroi, o dei semidei e comunque come la dea qual è capace di fare un tutt’uno sia delle discipline olimpiche che delle paralimpiche. Viaggia verso Tokyo 2020 e diventerà la campionessa assoluta. L’urlo finale a occhi strizzati è la sua firma.
First Sciura
Chiara Bazoli
Bazoli, basta la parola. Già figlia, nonché compagna, è individuata dal popolo nell’essere lei erede del più autorevole e illuminato dei banchieri milanesi e partner del più atteso tra i papi stranieri della sinistra. Sulla bionda Bazoli – nella miscela inarrivabile che salda il cattolicesimo adulto del padre con il provincialismo del sindaco di Milano, il suo compagno – come il confetto Falqui può dirsi “basta la parola!”. Il rito ambrosiano in lei si eleva al massimo grado dello chic capace com’è – in pieno inverno, alla prima della Scala – di indossare sandali aperti e sfidare così la temperatura della città di cui è regina equosolidale in radzmir, sovrana multiculturale con spacco laterale e piume, nonché blasone di democrazia e laicità col maxi fiocco sul retro.
Manco a dirlo, diventerà First Lady.
Anchorwoman
Maria Giovanna Maglie
Destinata alla striscia quotidiana d’informazione nel serale di Rai1, pur richiesta dalla rete, Maglie – che disdegna Chanel n.5 preferendo il Napalm al mattino – non ha ottenuto questo spazio. Troppi i veti politici interni alla maggioranza di governo e però MGM già veleggia verso ben più impegnativi approdi. Retroscena s’impone e qui si dà notizia di una potente arrabbiatura di Donald Trump in persona, definitivamente stanco di Armando Varricchio, l’ambasciatore italiano a Washington che ha trasformato la sede in una sorta di loft a uso di liberal e radical manco ci fosse già Michelle Obama alla Casa Bianca. Il presidente degli Stati Uniti, dunque, consultandosi con Flavio Briatore, ha richiesto al premier Conte lei e solo lei quale titolare della sede diplomatica. Di questo passo diventerà governatrice dello Stato sovranista e populista di New York.
Vicemin. dell’Economia
Laura Castelli
Unica donna a sedere al tavolo gialloverde del Contratto di governo, Castelli ha avuto il titolo di lady della sua regione, il Piemonte, avendo conquistato l’unico seggio nominale per il M5S, il suo partito. Caratteraccio come pochi – del suo sangue siciliano fa stillare quello fumantino dei Vespri – va di fioretto con il ministro Giovanni Tria ma non disdegna il martello della più spietata polemica. Continuamente trollata dai liberisti illiberali che ne sviscerano ogni radice quadrata, qualunque algebra e qualsiasi trigonometrica incursione nei bilanci, Castelli fa di ogni assalto social un esercizio di furiosa pazienza: l’acqua la bagna, infatti, ma il vento l’asciuga. Se l’economia va male il problema è dell’economia, e questo lo dice lei. Da viceministro s’è fatta carico, rimanendoci impigliata, degli infiniti nodi del Reddito di cittadinanza.
Diventerà Commissario Ue.
Attrice
Pilar Fogliati
La sua indiscussa bravura attoriale fa da controprova della qualità della Silvio D’Amico, la scuola d’arte drammatica a Roma dove ha studiato e che nulla ha da invidiare – in prestigio e formazione – alle altre accademie di recitazione nel mondo. Sofisticata e charmante sul modello di una Audrey Hepburn, elegante e disinvolta nella noncuranza propria della donna che vive il mondo, Fogliati è popolarissima più di una Chiara Ferragni se già il suo profilo di Instagram totalizza oltre 34 mila seguaci (cui si aggiungono altre due unità adesso, ovvero noi che firmiamo questo breve catalogo delle donne d’acciaio). Irresistibile il suo video dove con goldoniana levità espone le parlate romanesche e proprio lì, ridendo, chi ascolta capisce di stare attraversando con lei un trattato di antropologia. Mito della commedia qual è, condurrà il sabato sera di Rai1 con un maschietto a far da valletto nella prossima stagione ma diventerà – a teatro, e al cinema – la nuova Monica Vitti.
Imprenditrice
Simona Ercolani
Ceo e direttore creativo di Stand by Me, la società di produzione televisiva ormai diventata nello schermo – per autorevolezza ma buon per lei non nei guadagni – quel che l’Adelphi è nell’editoria, Ercolani è il risultato di un’altra tra le più sane scuole di formazione in Italia: il partito comunista. Da giovane militante, raccogliendo con una telecamera le testimonianze dei militanti riuniti al congresso nazionale del partito, realizza un documentario che sarà seme del suo futuro da autore televisivo capace di spaziare dalla regia di Storie Vere – un successo di Rai3 – al Festival di Sanremo. Suo è il format di Sfide, suo – è nelle sue mani – il bandolo di una rete che mette insieme Rai, Mediaset, Fox, A&E e Discovery. Il suo più difficile ma riuscito prodotto è Jams andato in onda su RaiGulp, una serie tivù sulle molestie sessuali sui minori destinata al pubblico dei bambini.
Abilissima anche in politica diventerà amministratore delegato di Mediaset (nonché proprietaria del marchio Forza Italia).
Sindaca di Roma
Virginia Raggi
Si è aggiudicata (offerta al massimo ribasso), in un appalto disertato dalla concorrenza, il governo di Roma. Dopo un primo momento di legittimo straniamento, è iniziato un secondo e infine un terzo. Il fatto è che la città, rognosa come poche ma soprattutto dispettosa, ha iniziato a bucarsi come un tossicodipendente di borgata. Virginia è ricorsa dapprima a cure palliative, poi ha dato fiducia, specialmente nella raccolta dei rifiuti, alla profilassi omeopatica. Roma è bellissima, ha detto Casaleggio per rincuorarla. Lei non ci crede troppo, e non vede l’ora di candidarsi in Svezia, al municipio di Stoccolma. Gli svedesi sono molto meno zozzi.
Danzatrice
Eleonora Abbagnato
La prima italiana a essere etoile dell’Opera di Parigi è nota ai più per il suo carattere di ferro. Ha combattuto il dolore con l’ambizione. Decisa, determinata, talentuosa, non sbaglia mai obiettivo. Poche volte nella vita ha dovuto cambiare idea. Le è solo capitato di sposare un calciatore, e aveva giurato che mai sarebbe accaduto, e per di più biondo, e aveva giurato che avrebbe fatto l’amore solo con i bruni. Siciliana di piena bellezza e alto garbo, ha un ultimo risultato da raggiungere: sostituire l’eterno Leoluca Orlando come sindaco di Palermo, e affidare a suo marito Federico Balzaretti (del resto a Parigi la politica si fa in coppia) la rifondazione del Movimento per le Autonomie dell’indimenticabile Raffaele Lombardo.
(2/ fine)
Meloni, le foibe e il maledetto Pelé
La malizia si sa, è nell’occhio di chi guarda. Così venerdì, Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, passando per la Capitale, ha fotografato un manifesto che segnalava un appuntamento a Roma Est per festeggiare il 25 aprile. Ha postato indignata la foto su Facebook: “Indecenti i manifesti apparsi oggi a Roma: la memoria dei martiri delle foibe viene calpestata e oltraggiata per attaccare degli avversari politici. Sono schifata e chiedo all’amministrazione M5S di rimuoverli”. In verità il cartello richiama, come spiegano gli organizzatori della manifestazione, uno storico manifesto socialista realizzato da Ettore Vitale nel 1973. Quella che per Meloni è una foiba, per Vitale era un velo nero (simbolo del fascismo). Nella versione del 2019 tenuto assieme dallo scotch giallo e verde. Simbolo di 5S e Lega, per gli organizzatori. Estrema offesa al Brasile di Pelé e Zico per i primi (maliziosi) commentatori al post della Meloni.