Cosa fatta capo non ha

Roma, domenica pomeriggio: una donna-iena insulta due ragazzi che, in una strada semideserta del centro, osano camminare senza mascherina. Quelli accennano a rispondere che sono all’aperto senza folla intorno. Ma poi, terrorizzati dal climax vocale dell’erinni, estraggono di tasca l’ffp3, mentre quella si allontana maledicendo la gioventù di oggi. Uno mi riconosce e mi chiede chi ha ragione. Panico. Controlliamo sul loro smartphone (io ho un vecchio Nokia), digitando su Google le parole chiave. Apriti cielo: c’è tutto e il contrario di tutto. Il sindaco che annuncia l’obbligo di mascherina, ma solo nelle vie dello shopping e nei giorni delle feste; articoli che dicono che è già in vigore, altri che lo sarà, altri che scatta tra poco; dichiarazioni dell’assessore regionale che chiede al governo di fare di più (ma di più rispetto a cosa? boh). Alla fine facciamo la media e ci regoliamo sul buonsenso: mascherina solo in luoghi affollati, con buona pace di Mrs. Iena.

Quando si insediò il governo Draghi, ci fu assicurato che questi erano Migliori, mica come i peggiori di prima: questi parlano solo a cose fatte, basta annunci, detti e contraddetti, cacofonie di esperti veri o presunti che vanno in tv a spacciare opinioni per leggi e disorientano la gente. Invece, mai visto tanto casino. Ah, quelle belle conferenze stampa quotidiane di Borrelli, affiancato ora da Brusaferro, ora da Locatelli, ora da Rezza! E quegli appuntamenti serali o notturni con Conte che, a ogni dpcm, ci metteva la faccia e veniva a spiegarci cosa aveva fatto e perché, cosa dovevamo fare e perché. Ora Draghi fa piovere tutto dall’empireo, forse perché nessuno riuscirebbe a spiegare – restando serio – astruserie come il combinato disposto fra Green Pass per lavorare (o Super turbo diesel) e il tampone per vaccinati alle frontiere. Meglio non metterci la faccia per non perderla e mandare avanti i ministri che non decidono nulla. E briglia sciolta al Cts, dove non si trovano due scienziati che la pensino uguale; più il viceministro Costa e il sottosegretario Sileri (cane a gatto); più i consulenti di Speranza: Ricciardi (mai d’accordo con Speranza) e Zampa (sempre d’accordo con Speranza); più Rasi, “consulente di Figliuolo” (tra virgolette per evitare querele dall’interessato, che si spera non sia mai d’accordo col generalissimo, ma non ce lo dica per carità di patria); senza contare l’esercito di virologi ed epidemiologi sfusi. A sentirli parlare, c’è chi s’è convinto che da settembre abbiamo l’immunità di gregge, che siamo primi al mondo per vaccini e ultimi per morti e contagi, che il vaccino rende invulnerabili e i tamponi sono una cosa brutta. Infatti ora sente parlare di tamponi ai vaccinati e sta pensando seriamente al suicidio.

Anno 2021, il “Parasite” è dentro il cinema coreano

Se due indizi fanno una prova, la Corea del Sud non ha eguali nel panorama audiovisivo attuale. Nel biennio 2019-2020 Parasite di Bong Joon-ho ha infilato una teoria di record: il primo film sudcoreano Palma d’Oro al festival di Cannes, il primo film sudcoreano candidato agli Oscar, il primo film di lingua non inglese ad aggiudicarsi la statuetta più ambita, Best Picture, nonché con regia, sceneggiatura originale e film internazionale a centrare uno storico poker. Un’eccezione culturale con munifiche ricadute economiche: budget di circa undici milioni di dollari, ne ha incassati 225 in tutto il mondo, di cui sei in Italia. Nemmeno il tempo di stropicciarsi gli occhi, ed ecco per formato espanso e canale streaming il bis: fenomeno di costume (e polemiche) globale, Squid Game di Hwang Dong-hyuk è diventata la serie più vista su Netflix, stracciando nei primi ventotto giorni di programmazione gli ottantadue milioni di visualizzazioni di Bridgerton con centoundici. E, anche qui, imponenti risultati economici: 900 i milioni di dollari di ricavi stimati per il servizio streaming. Un primato facilmente estendibile al K-pop dei BTS, ma che sullo schermo appare ancor più incontrovertibile: la Corea regna sovrana, in barba – da Trieste in giù noi ne abbiamo fatto un’assoluzione a prescindere… – all’ostacolo linguistico.

Le ragioni del K special sono molteplici, Sabrina Baracetti, direttore artistico del preminente Far East Film Fest di Udine, chiama in causa “una politica governativa fatta di investimenti milionari e fede nel potere salvifico della cultura” e dietro la facilità e felicità di export trova “una formula vincente, l’equilibrio perfetto tra dimensione popolare e attitudine commerciale”, che si esplica nella “rielaborazione dei generi (soprattutto l’action, il noir, il melodramma) e l’attenzione alle pulsioni pop del grande pubblico”. Il titolo della rinascita all’alba del Terzo Millennio è JSA – Joint Security Area di Park Chan-wook, un dramma politico e sentimentale ambientato sul confine tra le due Coree destinato a sintetizzare la formula del contemporaneo successo: “Immediatezza dei sentimenti (poter ridere e piangere nella stessa scena!), seduzione, audacia e coolness, corroborata di colori, corredi e outfit assolutamente riconoscibili, a cominciare dai blazer e dalle cravatte strette e lunghe ‘più nere del nero’ dei noir made in Seoul”. Grande esperta di cinema orientale, consulente dei festival di Toronto e Roma, Giovanna Fulvi retrodata l’incubazione della grandeur al 1993: “Sopyonje di Im Kwon-taek, il primo titolo coreano a superare un milione di entrate”. Rispetto alla fortuna di Squid Game, rammenta “l’enorme popolarità raggiunta dalle serie coreane in Cina alla fine degli anni ‘90, che darà origine alla cosiddetta Hallyu, ossia – è la crasi di Han e Liu – Korean wave” e segnala un illustre precedente: “Il serial My Love From the Star del 2013, capace – ma ha spopolato nell’Asia intera – di quattordici miliardi di visualizzazioni in Cina”. Se il Covid s’è fatto sentire al box office nazionale, giacché dal miliardo e 525 milioni di dollari del 2019 si è passati ai 289 del 2020 e i 359 fin qui rastrellati quest’anno, le buone nuove tanto per cambiare arrivano dalla dogana: a Pechino è appena uscito Oh! Moon-Hee di Jung Se-kyo, che non fa notizia per i 172mila dollari incassati, ma perché è il primo film made in Seoul distribuito in Cina dalla messa al bando del 2016, conseguente al dispiegamento del sistema antimissile americano Thaad in Corea. Del resto, la geopolitica è della partita, e non da oggi: “Giappone, Cina, Usa, la Corea è stata terra di conquista anche culturalmente, ma con un significativo distinguo: il cinema ha tenuto alta la bandiera, incarnando l’identità nazionale”. E ora è tempo di raccolto, complici condizioni generali favorevoli – “Di base i coreani parlano un discreto inglese, leggono molto, sono abili informatici e lavoratori indefessi” – e un comparto audiovisivo “proattivo, modellato per star-system e fandom sulla Hollywood classica”.

Insomma, Parasite, “frullato di generi molto nuovo e particolare”, e Squid Game, “non è così originale, ricorda da vicino il nipponico Battle Royale (200) di Kinji Fukasaku, con Takeshi Kitano: in patria l’exploit internazionale ha sorpreso”, non fanno primavera, perché la bella stagione – osserva Fulvi – dura da vent’anni: “Non c’è paragone, è la prima industria audiovisiva al mondo. Una supremazia fatta anche di autori: Park Chan-wook (la fondamentale Trilogia della Vendetta), il compianto Kim Ki-duk (Ferro 3, il Leone d’Oro Pietà), Bong Joon-ho (in carnet anche Okja, il primo e fin qui unico titolo Netflix in Concorso a Cannes), Lee Chang-dong (Burning, tratto da Murakami), Hong Sang-soo, Im Kwon-taek, chi altri ha una squadra così?”.

 

Cristo non si ferma a Napoli Il 25 nasce a Secondigliano

Dove nasce Gesù, sabato prossimo? Non nelle chiese che “rigurgitan salmi di schiavi e dei loro padroni”. Non in quelle dove si celebra l’alleanza tra trono e altare, “a messa con Salvini”. E nemmeno in quelle cariche di ori, donazioni, canti spettacolari. Perfino l’arte, quando è ridotta a puro bene di consumo per pochi, sembra avere poco a che fare con il Dio che si spoglia di ogni privilegio e di ogni bellezza per assumere la fragilità e il dolore della natura umana. Racconta l’evangelista Luca che quando “alcuni gli fecero notare come il tempio fosse adorno di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: ‘Verranno giorni in cui di tutte queste cose che voi ammirate non sarà lasciata pietra su pietra che non sia diroccata’” (21, 5-6).

I discepoli fermano Gesù, lo invitano a sostare e a guardare, osservare, notare l’architettura, l’arte, l’ornato, le suppellettili sacre e gli oggetti del culto. Gesù risponde prendendo le distanze da questo sguardo estetico (“queste cose che voi ammirate”), e invitando a sua volta a guardare: ma con un altro sguardo. Sembra di poter dire: non con uno sguardo verso il passato, ma con uno rivolto al futuro. Gesù scuote i discepoli perché vedano qual è il vero Tempio, cioè il suo stesso corpo. Egli non detesta affatto il Tempio di pietre: anzi, ne difende la dignità con straordinario zelo, espellendone coloro che lo riducono a merce. La lezione è duplice, e straordinariamente importante non solo su un piano religioso: la bellezza non riguarda le pietre, ma le persone. Il messaggio è chiaro anche per il nostro tempo laico: quando tuteliamo un “bene culturale”, quando vogliamo provare a rendere più bella una periferia urbana non lo facciamo per i diritti di queste cose (che non hanno diritti, e sono morte: inanimate), ma lo facciamo per i diritti degli umani le cui vite sono determinate, nel male e nel bene, da queste cose.

E allora penso che quest’anno Gesù nascerà a Secondigliano. Sì, “tra il salotto buono della città di Napoli e la periferia delle Vele, in un cono d’ombra civico, istituzionale e mediatico”. Là dove vive “la generazione cresciuta a pane e faida, che ha vissuto in casa propria una vita da esule. Quelli che hanno sempre dovuto portare altrove le proprie idee e le proprie competenze perché nati in un posto privo di luoghi ed occasioni”. Sono parole dei ragazzi del Larsec, il Laboratorio di Riscossa Secondiglianese che abbiamo conosciuto qui sul Fatto, e che dal 2014 hanno “deciso che era venuto il momento di riprendersi le strade dopo anni in cui era impossibile girare per via della faida di camorra più violenta degli ultimi trent’anni”. Il Mezzogiorno, la periferia, i giovani: la somma di tutto quello che l’Italia che si specchia nel governo dei Migliori rimuove e dimentica. Tra le tante cose che il Larsec ha fatto e sta facendo (unico polo associativo in un territorio di 42.000 abitanti), c’è anche la riapertura periodica della minuscola chiesa di San Carlo al Ponte, nel cuore di Secondigliano: una cappella secentesca, senza capolavori ma carica di storia. Proprio davanti al suo altare si sposano, il 17 aprile 1791, Pasquale d’Errico di Miano, che ha una piccola fabbrica di maccheroni, e Maria Marseglia di Secondigliano, che tesse la felpa. Il secondo dei loro nove figli è Gaetano: vuole diventare prete, ma i suoi non hanno soldi per iscriverlo al seminario. E così ogni giorno cammina per chilometri, facendo la spola tra il centro e la sua periferia. Il riscatto è lo studio: un anno di logica e metafisica, un anno di fisica, circa tre anni di matematica, due di diritto di natura, tre anni e più di diritto civile e canonico e quattro anni di teologia dogmatica.

E poi una vita spesa per Secondigliano: considerato santo da tutti, saranno infine Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a metterlo davvero sull’altare. Tra le tante cose che san Gaetano d’Errico fa per la sua gente c’è la costruzione di una chiesa, l’Addolorata. Oggi potrebbero essere la Curia e il Comune di Napoli ad affidare San Carlo proprio al Larsec, che da tempo si batte perché riapra stabilmente come centro non solo di culto, ma anche di conoscenza e riscatto.

C’è un filo, in tutta questa storia: la costruzione e il recupero di una chiesa. Perché le antiche chiese italiane (piccole o grandi, ignote o celeberrime) rappresentano un perentorio, struggente invito alla conversione collettiva: in senso laico, terreno. Umano, prima che religioso. Esse chiedono il cambiamento radicale dei nostri pensieri, delle nostre scale di valori, delle nostre sicurezze. Con la loro gratuità, contestano la nostra fede nel mercato. Con la loro apertura a tutti, contraddicono la nostra paura delle diversità. Con la loro dimensione collettiva, mettono in crisi il nostro egoismo. Con la loro povertà, con il loro abbandono, testimoniano contro la religione del successo. Tra le chiese, magari chiuse e vuote, in cui Gesù nascerà, quella di San Carlo al Ponte di Secondigliano ha un posto speciale.

Unesco. Ricamo palestinese e lingua araba beni culturali

L’agenzia culturale delle Nazioni Unite, l’Unesco, ha aggiunto la calligrafia araba e il ricamo palestinese alla sua lista del patrimonio culturale immateriale. La calligrafia araba è stata aggiunta all’elenco a seguito di una richiesta congiunta di 16 paesi arabi tra cui Arabia Saudita, Egitto, Giordania e Palestina, con Riyad in testa all’iniziativa. “La fluidità della scrittura araba offre infinite possibilità, anche all’interno di una singola parola, poiché le lettere possono essere allungate e trasformate in numerosi modi per creare motivi diversi”, si legge in una dichiarazione sul sito dell’Unesco .

L’Arabia Saudita ha accolto con favore l’elenco e ha affermato che la forma artistica è un “aspetto prezioso dell’autentica cultura araba”. L’artigianato era uno dei tanti elementi culturali della regione aggiunti dall’agenzia delle Nazioni Unite, inclusa anche la tradizione palestinese del ricamo, nota come tatreez. “L’arte del ricamo in Palestina: pratiche, abilità, conoscenze e rituali” è scritto nella motivazione per l’inserimento nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità, durante il suo sedicesimo vertice, attualmente in corso a Parigi, Francia. Tatreez è l’arte di cucire a mano modelli e motivi con fili dai colori vivaci sui vestiti. Le cuciture possono includere “una varietà di simboli tra cui uccelli, alberi e fiori”, ha spiegato l’Unesco. Motivi e colori ricamati variano da un’area all’altra, riflettendo le caratteristiche uniche dei villaggi e delle città palestinesi. Ogni città ha il proprio stile di modelli e utilizza una raccolta su misura di fili da utilizzare in tatreez. I palestinesi fanno risalire le loro pratiche di ricamo, così come i loro thobes (vestiti), agli antichi antenati cananei e fenici. Dalla guerra del 1967 e dalla successiva occupazione israeliana di Gerusalemme Est, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, la pratica del ricamo è stata ripresa tra i rifugiati palestinesi per enfatizzare la loro identità politica e nazionale. “Il ricamo”, afferma la dichiarazione dell’Unesco, “è una pratica sociale e intergenerazionale, poiché le donne si riuniscono nelle case degli altri per praticare il ricamo e il cucito, spesso con le loro figlie”.

 

Il Paradosso di Bezos: più soldi guadagna, più è antipatico

Secondo Jeff Bezos, il 20 luglio 2021 è stato il giorno più felice della sua vita: il fondatore di Amazon aveva appena compiuto in 10 minuti e 10 secondi il primo volo spaziale umano a bordo del razzo New Shepard, costruito dalla sua azienda Blue Origin. Un sogno d’infanzia che si è realizzato, ma non solo. Due settimane dopo aver lasciato la presidenza esecutiva di Amazon, l’uomo più ricco del mondo (200 miliardi di dollari) ha concretizzato un progetto finanziato da più di dieci anni dai profitti sfrenati generati dalla sua piattaforma di distribuzione, lanciata nel 1994. La crisi sanitaria del Covid ha ulteriormente rafforzato il suo potere: nel 2020, il gruppo ha più che raddoppiato i suoi profitti (21,3 miliardi di dollari). Con una capitalizzazione di mercato di quasi 1.800 miliardi di dollari, si avvicina al Pil italiano in valore.

Ma non ci sono solo i numeri. Il giornalista Brad Stone, specializzato nella Silicon Valley, parla di “paradosso Amazon”: “Man mano che il valore del gruppo aumenta, la sua immagine si deteriora”, ha scritto sul New York Times. I suoi metodi di gestione che non rispondono alle preoccupazioni ambientali attuali, il modello di consumo sfrenato che veicola, le tecnologie di sorveglianza che applica ai dipendenti, sono sempre più criticate, anche nel mondo politico. E se, paradossalmente, la crisi sanitaria, che ha segnato l’apice del modello Amazon, segnasse anche l’inizio di una messa in discussione del suo modello? In soli tre decenni, Amazon ha costruito un impero tentacolare. Nata per vendere libri online, la piattaforma ora vende di tutto e ovunque, tranne in Cina, e domina il settore dell’e-commerce. Secondo le stime della società eMarketer, Amazon controlla il 41% delle vendite online negli Stati Uniti. Per ampliarsi, il gruppo ha deciso di far concorrenza alla grande distribuzione, aprendo negozi fisici nel settore alimentare. Ha costruito milioni di metri quadrati di magazzini. Ha acquisito una flotta di aerei e cargo per distribuire i suoi prodotti al minimo costo. Ma il cuore del gruppo è Amazon Web Services (Aws), l’organismo che ha progettato il cloud che permette di archiviare i dati dei clienti e quindi di sviluppare servizi di marketing e di vendita di dati personali al mondo della pubblicità. Investendo più di 20 miliardi di dollari nella ricerca, Amazon è ormai presente nella robotica, nella costruzione di droni, nella sicurezza, nella produzione di streaming e serie tv. Ha comprato gli studi Mgm e il Washington Post. Per anni, i governi degli Stati Uniti hanno guardato alla sua espansione con benevolenza, persino con ammirazione. Ma le cose sono cambiate. A fine novembre una maggioranza bipartisan di democratici e repubblicani ha deciso di sostenere in Senato una nuova regolamentazione per contrastare le pratiche anti concorrenziali dei colossi digitali. Il rischio è reale. Il 9 dicembre, l’Antitrust in Italia ha condannato Amazon a una sanzione da 1,1 miliardi di euro per abuso di posizione dominante. Ecco perché, secondo l’associazione OpenSecrets, Amazon ha speso più di 15,3 milioni di dollari quest’anno in azioni di lobbying sul Congresso per cercare di mandare in fumo questi progetti. Dal 2019 gli azionisti hanno cominciato a valutare gli investimenti con criteri ambientali e Bezos ha cambiato strategia. Nel 2020 ha annunciato la creazione di una fondazione per la protezione dell’ambiente. Ma per i suoi detrattori non bisogna farsi ingannare. Il modello Amazon si fonda infatti su una sola strategia, detta dell’one click: tutto è fatto per semplificare l’acquisto e quindi per favorire gli acquisti compulsivi, facendo quasi dimenticare al cliente che alla fine deve pagare.

Milioni di clienti hanno acconsentito di lasciare gratuitamente i propri dati personali. Ora Amazon dispone di un database straordinario. Nel 2015 ha iniziato a vendere l’altoparlante intelligente Alexa, che consente ai clienti di ordinare a voce i prodotti e i servizi venduti da Amazon. Nei suoi negozi fisici sta sperimentando il riconoscimento facciale per fare la spesa senza passare dalla cassa. Ha anche creato un marketplace dove tutti i produttori, grandi o piccoli, possono, a pagamento, registrare i propri prodotti sulla piattaforma. Ma il marketplace ha spalancato le porte alla frode: secondo un rapporto di Attac, l’Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie, la Francia perde tra 2 e 5 miliardi di euro all’anno di Iva. Per l’Ispettorato delle finanze di Parigi, il 98% dei fornitori stranieri sulle piattaforme di e-commerce evade. Il marketplace è diventato anche un luogo privilegiato per le contraffazioni. Il Wall Street Journal ha rivelato che 4.152 prodotti in vendita sul sito Amazon sono stati dichiarati non sicuri o vietati da varie agenzie di controllo statunitensi. Almeno 2.000 giocattoli e farmaci non includevano gli avvertimenti sui rischi per i bambini. Il gruppo aveva all’epoca cominciato a escludere una serie di prodotti non regolamentari. Ma il dubbio si è ormai insinuato tra i clienti: si può ancora comprare a occhi chiusi? Il 29 novembre, l’Agenzia federale Usa per il diritto del lavoro ha ordinato l’organizzazione di un nuovo voto sull’opportunità di creare un sindacato in un magazzino Amazon in Alabama. Il gruppo pensava di essersi lasciato il movimento sindacale dietro le spalle, dopo una prima vittoria di aprile. Ma questa volta ha il governo federale contro: Joe Biden intende aiutare i sindacati a radicarsi nelle aziende come Amazon e Uber che hanno costruito imperi sulla precarietà dei dipendenti. Jeff Bezos è stato pioniere. Molti suoi ex collaboratori lo descrivono come un capo visionario, ma anche senza scrupoli, che trasforma i dipendenti in robot, imponendo ritmi infernali. In media in Francia i lavoratori dei magazzini Amazon non reggono più di due anni e mezzo. Durante l’epidemia, i dipendenti in Francia e negli Usa hanno denunciato i metodi del gruppo che li ha costretti a lavorare a dispetto di tutte le norme sanitarie. Col timore della carenza di manodopera dovuta al Covid, Amazon ha deciso di far evolvere la sua politica sociale. In Texas ha aumentato la retribuzione oraria a più di 15 dollari, oltre il minimo legale. Bezos intende addirittura promuovere una nuova immagine del gruppo per fare di Amazon “il miglior datore di lavoro del mondo”. Ma a New York, dove voleva installare la sua nuova sede, ha incassato un brutto colpo. “Perché dovremmo sovvenzionare la sede di Amazon se guadagna miliardi e non paga le tasse?”, gli hanno risposto i newyorkesi. Bezos ha dovuto quindi rivedere i suoi piani al ribasso: aprirà una nuova struttura solo ad Arlington, nella periferia di Washington.

Non pagare le tasse, ma reclamare finanziamenti pubblici, fa parte della sua filosofia. Se Bezos ha scelto di lanciare la sua azienda a Seattle, non è per la vicinanza con Microsoft, ma perché la tassazione qui è più accomodante. Da allora, il gruppo ha sviluppato l’arte dell’evasione fiscale: sottovalutazione dei profitti nei Paesi in cui realizza le vendite, diritti esorbitanti sulle proprietà intellettuali, apertura di sedi nei paesi dalla fiscalità più “comprensiva” e collocazione dei flussi finanziari nei paradisi fiscali. Per anni è riuscito a non pagare un dollaro di tasse negli Stati Uniti. In Europa, la sua sede è in Lussemburgo, con cui ha negoziato accordi fiscali segreti dal 2003. Le sue attività legate al cloud sono in Irlanda. Malgrado le minacce della Commissione Ue, Amazon continua a evadere prendendo in giro tutti. Come ha rivelato il Guardian, nel 2020 ha realizzato 44 miliardi di euro di vendite, più di 12 miliardi rispetto all’anno precedente. Tuttavia, ha dichiarato una perdita di 1,2 miliardi di euro, cosa che gli ha permesso di non pagare tasse. Negli ultimi dieci anni, ha versato solo 3,4 miliardi di dollari di tassa sul reddito delle società nel mondo, mentre ha generato entrate per 961 miliardi di dollari e profitti per 26,8 miliardi di dollari, secondo la fondazione Fair Tax. Le nuove regole fiscali sulle multinazionali adottate dal G20 quest’estate non dovrebbero cambiare nulla: ufficialmente, l’aliquota fiscale mondiale di Amazon è del 15%, pari al livello fissato dal nuovo regolamento.

 

Resa dei conti per gli abusi: il Papa indaga sulla Spagna

Fino a ieri sugli atti di pedofilia commessi dal clero spagnolo su migliaia di bambini vigeva il silenzio: quello reo delle gerarchie religiose, quello afflitto delle vittime inascoltate o nascoste nel loro doloroso segreto. A romperlo è stato il meticoloso lavoro di 15 solerti giornalisti del quotidiano spagnolo El País, che dal 2018 hanno cominciato a raccogliere, città dopo città, di regione in regione, storie e testimonianze di quanti sono stati violentati dai sacerdoti dal 1943 al 2018. Nel dossier di 385 pagine sono minuziosamente catalogati 251 casi di violenza commessi dai preti spagnoli negli ultimi 80 anni. Degli abusatori, appartenenti a 31 diocesi e 31 ordini religiosi, hanno parlato le loro vittime: sono 1237, ma la cifra è in aumento.

Il “dossier spagnolo” lo ha consegnato direttamente nelle mani di Papa Francesco, mentre l’aereo del Pontefice volava dalla Grecia di ritorno su Roma, Daniel Verdu, da cinque anni corrispondente di El País in Italia e al Vaticano. Un gesto che è stato l’atto finale di un lavoro collettivo dei reporter che tre anni fa hanno cominciato a chiedersi perché mancava una banca dati degli abusi commessi dai religiosi del loro Paese. Sono quei giorni, dice Verdu, che “vale la pena fare il giornalista e pensi che questo mestiere serva ancora a qualcosa”.

Per fare giustizia serve venire alla luce: “Molti abusati hanno bussato alle porte della chiesa per anni, hanno collezionato false promesse, sono stati ingannati”, dice Verdu. Che il report arrivasse sotto gli occhi di Francesco senza passare per altre mani era una condizione posta da quanti hanno trovato la forza di parlare: “Non è una forma ortodossa, ma le vittime si fidano ormai solo del Papa, era una delle premesse per aprire un’inchiesta di cui solo noi abbiamo i nomi, volevamo essere sicuri che ci fosse una responsabilità diretta del Vaticano”.

Molti dei reporter storie di abusi le avevano sentite da amici e conoscenti. Tre anni fa però hanno cominciato a interrogarsi sull’inesistenza di un archivio ufficiale che catalogasse le violenze dei presbiteri su minori: “Così abbiamo aperto una mail: abusos@elpais.es”. Il risultato è stata l’esplosione, inizialmente digitale, di quel silenzio obbligato: “Ci hanno scritto migliaia di persone”. Sono emersi i nomi dei primi 25 religiosi.

Nei collegi, nei seminari, nelle sale buie delle sacrestie dove erano costretti a calare il capo i chierichetti. “Ovunque ci fosse contatto tra preti e bambini”. Come scrive El País, quello della pedofilia dei preti spagnoli, era un “secreto a voces”, un falso segreto di cui tutti sapevano “ma facevano finta di niente”. Come in Usa e Francia, le denunce venivano insabbiate, i pedofili trasferiti di diocesi in diocesi. “In un Paese cattolico come la Spagna” vige la cultura del “facciamo finta che non è successo niente: le famiglie più umili si vergognavano, le vittime portavano dentro il loro dolore per anni, il clero invece ha omesso tutto in una maniera volontaria e mafiosa. Con quella mail le vittime hanno visto la possibilità di parlare in massa”, dice Verdu.

“Il nostro obiettivo è che la Spagna crei una commissione indipendente come hanno fatto in Usa o in Germania: non ci sono motivi per pensare che nel nostro Paese ci siano meno casi di quelli scoperti a Parigi”. Ai due confini esterni di Madrid, il Portogallo avvia le sue indagini, mentre la Francia ha confermato che sono state almeno 218mila le vittime di abusi dei religiosi dal 1950 ad oggi. Germania, Belgio, Irlanda hanno cominciato a scavare nei segreti dei loro uomini di Dio da quando gli Stati Uniti hanno cominciato nel 2002.

Il Vaticano ha reagito pronto ed immediato: Papa Francesco ha subito dato solidarietà alle vittime e incaricato dell’indagine la Congregazione per la Dottrina della fede, istituzione guidata dal gesuita spagnolo Luis Ladaria. La Conferenza episcopale spagnola è rimasta invece in silenzio, chiusa nel suo tradizionale mutismo, “confermando il timore delle vittime che non si fidano più della cupola ecclesiastica”. Anche se i vertici religiosi iberici hanno visto in questa inchiesta una “battaglia ideologica anti-clericale” di El País, dice il corrispondente di aver incontrato “ religiosi, pochi ma presenti, che ti ringraziano e si impegnano in questa lotta e ti aiutano. È difficile trovarli, ma io ho avuto la fortuna di incrociarne alcuni”. Degli abusi dei preti spagnoli ora parla il mondo e “vedremo cosa succederà domani”, dice Verdu: “Potrebbe esserci un effetto-chiamata, altre vittime potrebbero sentirsi libere di raccontare la loro storia: la nostra mail è ancora aperta e funzionante”.

Profumo di Natale. Quanto è simpatico il caldarrostaro che intende “rapinarmi”

Passeggio e mi perdo per le strade del centro, che buono il profumo dell’inverno! Un misto di legna bruciata e aria di neve, anche se a Roma non nevica mai, ma questa città a Natale è bellissima. Quest’aria di ottimismo mi fa sentire bene, le luci mi ubriacano. Noto ogni dettaglio degli addobbi, la città è diventata come un enorme giocattolo. E io ritorno un po’ bambina. Un manichino spoglio mi guarda insistentemente, oddio sembra magico perché ovunque io mi sposti il suo sguardo mi segue, svagato, come il mio in questa passeggiata prenatalizia. Mi incanto a vedere dei giapponesi alle prese con le loro polaroid, fotografano tutto, i vigili, le macchine ferme in divieto, persino le multe sui parabrezza! Il Comune però potrebbe chiudere un occhio a Natale. Che simpatico che è il caldarrostaro, lo adoro, avvolto in un cappottone pesante, con gli stivali infangati di uno che è appena arrivato dai monti dell’Abruzzo, magari guidato dagli zampognari che sono la colonna sonora del Natale. Che simpatico il caldarrostaro! Sembra una figurina del presepe. Non riesco a vederlo in faccia, è coperto da un passamontagna di lana, il mantello che sa di neve e di monti e di antiche transumanze, i guanti con le dita libere per cuocere meglio le sue caldarroste che saltano sul fornello scoppiettando qua e là: “Vorrei 2000 lire di castagne, in un cartoccio caldo” – “ Con 2000 lire gliene posso dare due!” – “ 1000 lire a castagna?” – “È il prezzo di mercato!” – “ Purtroppo seguo poco il mercato delle caldarroste” – “ Signorina il mercato globale è quello di far soldi al solo scopo di fare soldi, aumentare i prezzi è alla base dell’economia. Mi scusi devo chiudere, ho la Mercedes in doppia fila” Ecco perché porta il passamontagna, non per il freddo, ma come nella migliore tradizione dei rapinatori professionisti. Che simpatico il caldarrostaro!

 

El Alamein. La tragica commedia delle guerre coloniali come se fosse un romanzo di Salgari

Una battaglia (nel libro Sui campi di battaglia di Giovanni Verusio, Passigli Editori) è come una cattedrale: un’opera ispirata da una cultura complessa che esige dettagli anche minimi e occasionalmente li cambia, ma mira a rappresentare un pezzo di civiltà, nel momento in cui conquista o sottomette o libera una parte del mondo.

L’analogia della cattedrale serve a richiamare il lavoro di cura, arte e dettaglio che non mancano mai nelle due opere, la costruzione creativa e la guerra. Sono entrambe operazioni composte di complessi montaggi di tante parti diverse, proposte, sostenute, realizzate da talenti diversi (generali, architetti) , che non si considerano co-autori e il più delle volte non sanno di esserlo. La loro bravura viene di volta in volta chiamata o respinta non in relazione a quel dettaglio d’opera ma a certe sue conseguenze che il co-autore non può conoscere o valutare.

Verusio per esempio fa notare che nella celebre battaglia di El Alamein, gli italiani, sconfitti, perdono la Libia, ma gli inglesi, vincitori, perdono molto di più: l’Egitto e il Canale di Suez. L’opera di Verusio copre però un territorio storico e culturale molto più vasto. L’autore ha la trovata di fingere che si debba a Emilio Salgari e a Le Tigri di Monpracen l’ipirazione a usare la battaglia (assalto, imboscata, abbordaggio, ma anche collaborazioni, alleanze, e progetti concordati) come racconto culturale di epoche e Paesi. In realtà tocca punti fondamentali mai prima messi in rapporto di causa ed effetto. Uno è la guerra coloniale. Bisogna dare un senso alla più strana delle battaglie: Paesi fortissimi che ingaggiano lunghe guerre con pomposi ma deboli imperi coloniali, spesso con vittorie costose anche di vite umane, per ragioni insensate).

L’altra è lo scontro fra potenze coloniali per annettere territo rirubati l’uno all’altro. Verusio però tiene troppo al tema della battaglia come opera per fermarsi alla fase avventurosa della guerra coloniale. Il bisogno dell’autore di sapere e di far sapere sulla battaglia spinge il lettore a ricordare dettagli paurosi della Seconda guerra mondiale .

È cambiato il modo di morire ed ed è cambiato il modo di uccidere. Ma sopratutto entra sulla scena della battaglia (e della guerra) la massa della popolazione civile, esposta deliberatamente alla distruzione. Non è una storia a lieto fine, quella delle battaglie e della loro evoluzione.

Ma Verusio, autore di una prima parte quasi lieve e persino un po’ ironica sulle guerre salgariane e coloniali, entrando nel nostro tempo non ha esitato a narrare la tragedia.

 

Sui campi di battaglia Giovanni Verusio, Pagine: 360, Prezzo: 24, Editore: Passigli

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Da dov’è che è uscito fuori l’Innominabile

A Prodi, qualche anno fa, fu chiesto se Renzi fosse figlio del Pd. Lui ebbe a rispondere: “Non sono un ginecologo”. Bella battuta in perfetto stile andreottiano, anche se bisogna sottolineare che per essere padri non serve essere ginecologi. Questo per dire: non sarebbe opportuno comprendere le cause originali dell’esistenza politica di Renzi, per evitare ancora certi fenomeni? Non è che sarebbe utile, almeno a questo scopo, che il Pd cercasse di uscire da quella palude destrocentrista senza alcun senso politico? Purtroppo, il fatto è che proprio dal Pd, e dal suo magma, che tutto ha avuto origine…

Gianluca Pinto

 

Draghi dimostri di tenere al Paese, non alla carica

Credo che per l’acclamato Draghi sia venuto il momento di mostrare con i fatti l’autenticità del suo spirito di servizio alla nazione, peraltro mai esplicitamente dichiarato, rinunciando al guizzo presidenziale a favore della meno prestigiosa posizione attualmente occupata. Probabilmente si trattava di un percorso concordato, ma nessuno dei machiavelliani contraenti poteva prevedere l’evolversi di un così ingarbugliato scenario politico. Il soggetto è stato abile a salire su tutti i diretti sfrecciatigli davanti, aiutato da indubbie capacità ma pure da una sorte sfacciatamente favorevole; ma non bisogna dimenticare che i veri grandi uomini si sono sempre distinti per il supremo sacrificio nell’ora più buia, non certo per le fughe di comodo verso lidi tranquilli. Un capitano che si rispetti non lascia la truppa mentre infuria la battaglia.

Gianni Baiano

 

Farsi vaccinare è un sano atto di sincero altruismo

Anche mettere il casco in motorino è un atto di sano egoismo, che tuttavia non porta all’intasamento delle strutture sanitari; al contrario del sano egoismo di vaccinarsi contro il Covid, che porta a declassare l’epidemia Covid a semplice epidemia influenzale. Da questo punto di vista vaccinarsi è, anche se indirettamente, un atto di altruismo.

Paolo Malberti

 

Le mascherine che in tv sono sempre sotto il naso

Spesso nei telegiornali e in altri programmi vengono trasmesse interviste a persone che indossano male la mascherina (tanti la tengono sotto il naso). Secondo me il giornalista dovrebbe informare l’intervistato che se non copre anche il naso, l’intervista non verrà mandata in onda. E questo al fine di educare i telespettatori, i quali altrimenti si sentono legittimati a comportarsi nello stesso modo.

Claudio Carlisi

 

Le critiche ad Amazon sanno un po’ di ipocrisia

Quando tanti anni fa iniziai a usare Amazon per i miei acquisti, mi sembrò di sognare. Avevo la garanzia che, in caso di acquisto sbagliato o di oggetto non perfettamente funzionate, anche dopo un anno dall’acquisto, mi restituivano tutti i soldi spesi senza battere ciglio. Purtroppo, abbacinato da ciò, non ho minimamente pensato alle condizioni di lavoro di tutta la filiera dei lavoratori coinvolti nella vendita e nella consegna. Ripensandoci però, non ho mai considerato neanche le condizioni di lavoro dei “mono-dipendenti” dei negozi dei centri commerciali. Sono sempre giovani, almeno da trent’anni a questa parte. Oltre a vendere sempre col sorriso, devono fare cassa e tenere pulito il negozio, probabilmente mangiano sempre un panino, nascondendolo da qualche parte. Orario di lavoro? Contratto nazionale, e quindi anche se vengono trattati da schiavi, va bene così, senza ferie, permessi, malattie ecc. Poi possiamo passare alla moralità di una azienda come Amazon, che tratta in quel modo i lavoratori e che paga le tasse come previsto dalle leggi europee che, se non sbaglio, vengono utilizzate da tutti. Ah, la moralità! Vogliamo parlare delle industrie farmaceutiche che, in una pandemia, pretendono di far valere le leggi del capitalismo? Io capisco una piccola percentuale, che consenta un minimo di guadagno, ma arrivare al punto che ci sono nazioni nel mondo che, non potendo permettersi l’acquisto dei vaccini a certi prezzi, finiscono per non vaccinare la propria popolazione, contribuendo così a far continuare quella pandemia che farà guadagnare le industrie farmaceutiche. Possibile che non ci sia un politico che denunci questo orrore? Non sarà che, a pensar male, ci si azzecca in pieno? E allora? Allora Grillo vaffanculo, e viva Berlusconi, patriota e presidente di questa Repubblica!

Maurizio Mariotti

The names of pizza (crazy) ovvero di Roma, ostaggio di strafalcioni anglofoni

Bocciati

Un journal branché. Grazie a un’intera pagina su Repubblica (sic) apprendiamo che Briatore aprirà in via Veneto la sua pizzeria: Crazy pizza (doppio sic). “L’Italia non è un Paese accogliente per chi voglia fare impresa, però quando uno ha una visione, un’idea così potente, alla fine può fare impresa anche qui. E la mia idea è eccezionale, potentissima: in Italia non esiste niente del genere”. E’ pieno di pizzerie, gli dicono. “È pieno di Pizza Antonio, Pizza Giuseppe. Non c’è un brand” (triplo sic). E cosa c’è dietro questo brand? “Vede, la pizza è uno street product , di solito te la portano su tavoli spogli o non apparecchiati, te la buttano là con un servizio approssimativo, roba che non ti invoglia a rimanere nel locale. Noi abbiamo pensato di fare una pizzeria chic, branché . Serviamo ottime pizze, in un posto elegante, con un servizio impeccabile. La pizza è un prodotto importante, ma è presentato in modo cheap , noi gli abbiamo creato intorno un environment diverso”. Noi sempre Michele a Forcella. Ma soprattutto: in che enviroment è finita Rep? Devono essersene accorti pure loro, visto che, nei giorni successivi all’uscita dell’intervista, sul sito sono spuntati podcast e commenti di “rettifica” (se così la vogliamo chiamare). Da la gauche caviar a la gauche pizza!

Caporetto-Lega. A Pallanza la scuola media Luigi Cadorna ha deciso di cambiare nome e di intitolarsi a Gino Strada. La giunta comunale di Verbania ha espresso in una delibera parere positivo alla proposta di intitolare la scuola al medico fondatore di Emergency scomparso in agosto, sostituendo il nome del generale, capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano durante la Grande Guerra. Il capogruppo della Lega in consiglio comunale ha chiesto che la decisione “venga portata in consiglio con un ordine del giorno” perché “è necessario che venga aperta la discussione e che ognuno si prenda di conseguenza la responsabilità politica di una simile scelta”. Il cambio di denominazione non sarebbe altro che “un’operazione architettata dal Pd cancellare la storia di Cadorna. Siamo indignati perché il vero fine è quello di eliminare a posteriori la storia d’Italia”. Ora, come i lettori di questa rubrica sanno, noi siamo contrarissimi a quella cazzata che passa sotto il nome di cancel culture. E ben per questo vorremmo ricordare alla Lega che Cadorna non è proprio un esempio di milite valoroso. Il generale, insieme al comandante Luigi Capello, è stato individuato dagli storici come il principale responsabile di Caporetto. Disastro di cui si occupò una commissione d’indagine istituita all’inizio del 1918, dal ministro Vittorio Zuppelli. Nelle carte della Commissione si può leggere che tipino era… Uno che addossò ai soldati la responsabilità della disfatta e che decise di non aiutare i suoi uomini caduti nelle mani del nemico (unico caso tra i paesi coinvolti nel conflitto) per evitare che chi era rimasto sul fronte preferisse la prigionia alla guerra.

Non classificati

Scrittori e popolo. “Chi è cresciuto a Roma Nord ha fatto il Vietnam”. La frase che ha lasciato una scia di meme sul web, Fanpage se l’è fatta spiegare meglio intervistando Pietro Castellitto. Che ha detto: “Il paradosso è che quella frase era legata a una certa ferocia di Roma Nord, un certo classismo, la difficoltà di instaurare rapporti sinceri sotto lo stesso tetto”. E poi: “Ci sono tanti paradossi dietro questa vicenda, i meme erano anche divertenti poi però è subentrata l’invidia sociale che è opposta alla lotta di classe. L’invidia sociale presuppone che c’è un nemico fuori, che ci serve per non chiarirci tra di noi, nella nostra intimità”. Non era meglio lasciar perdere le analisi socio-politiche, Piè?

Tu vo’ fa l’americano. “My names is Roma” anziché “My name is Roma”. È lo strafalcione che si legge verso la fine del video con cui la Capitale si candida per ospitare l’Expo del 2030 pubblicato sul profilo Facebook del sindaco Roberto Gualtieri. La prossima volta famolo in italiano.