Settimana quirinale, un viavai di api operaie tra Patrioti e comunisti

IL PATRIOTA POTREBBE TORNARE UTILE…All’ombra del Quirinale, un viavai di api operaie si affanna solerte nel tentativo di procacciare un presidente della Repubblica al proprio alveare. Tra un ronzio e l’altro questa settimana si è sentita pronunciare più e più volte la parola ‘patriota’. Il sostantivo, immesso nel dibattito da Giorgia Meloni che ha detto di volere al Colle un patriota, ha generato perplessità, ironie, dubbi, rimproveri. Ma una delle considerazioni più interessanti che ne è scaturita viene dall’autodifesa con cui la leader di Fdi ha replicato alle polemiche: “Non ho capito tutto questo dibattito che si è scatenato: la risposta naturale sarebbe stata che la Meloni ha detto una banalità… Il tema della difesa dell’interesse nazionale è una necessità, ma non significa che gli altri siano nemici del Paese. A sinistra si considerano più patrioti europei e io più patriota italiana. E non vuol dire che loro non siano italiani o che io non sia europea”. Se le cose stiano effettivamente così, se in questo consista una delle principali differenze identitarie tra la destra e la sinistra di oggi, se l’estensione geografica del concetto di patria rappresenti per i progressisti il senso attuale del progresso, se il perimetro di una nazione in quanto tale costituisca un valore assoluto solo per i conservatori: ecco, queste sono alcune delle domande che emergono dall’apologia che la Meloni ha fatto della sua scelta semantica. Se il risultato involontario di questa sortita, fosse una riflessione seria in questa direzione, forse il ‘patriota’ non sarebbe comparso invano.

N.C.

PUNTUALIZZAZIONI NECESSARIE In attesa delle riflessioni più ampie che dovranno venire, una risposta tanto sagace quanto consapevole al patriota di Giorgia Meloni l’ha data intanto Stefano Fassina, ristabilendo un perimetro storico dal quale non si può prescindere per stabilire chi davvero faccia il bene degli Italiani: “(I patrioti) sono stati innanzitutto i partigiani comunisti, socialisti, cattolici, repubblicani, liberali che hanno liberato l’Italia da quella corrente della destra nazionalista che è stata il fascismo. Al Quirinale deve andare un o una patriota, quindi per dettato costituzionale non un nazionalista”. Questo intanto è un fatto.

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Sperone sindacale Maurizio Landini spiega il perché di uno sciopero contestatissimo: “In alcuni momenti la maggioranza che è così vasta ha preferito trovare una soluzione al suo interno piuttosto che discutere con le parti sociali, come accaduto sul Fisco: e questo sta determinando una lontananza tra i bisogni del Paese reale e la politica, che si sta sempre più chiudendo al suo interno e non si pone il problema che ormai metà del suo corpo elettorale non va a votare e non si sente rappresentata da questa politica”. Che in un Paese in cui governano tutti insieme, in cui all’opposizione c’è un solo partito, dove la partecipazione è ridotta all’osso, che esistano corpi intermedi in grado di coinvolgere i cittadini e fare da pungolo a chi detiene il potere, è sempre una cosa buona.

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Evasione. Si contesta chi fa sciopero però si protegge chi non paga le tasse

Mentre si criticano i sindacatiper avere avuto il coraggio, solo loro, di indire uno sciopero generale contro il governo e i partiti per il disinteresse sostanziale mostrato verso i lavoratori e le loro difficoltà, si nota invece un sempre rinnovato interesse verso altri lavoratori ai quali bisogna andare in soccorso proponendo ogni tre per due il rinvio delle cartelle esattoriali, i vari stralci a saldo possibilmente a zero e tagli delle tasse che, con l’evasione che c’è, mi domando se poi vengono pagate.

Fabio De Bartoli

 

Ma Che cosa c’è dentro il buco nerodell’evasione fiscale? Al fondo c’è lo Stato che emigra dai suoi doveri, rinuncia ad adempiere ai suoi obblighi, rendere equa e solidale la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, ai servizi pubblici, alle necessità comuni. L’assenza è purtroppo figlia di una precisa scelta politica, perché è certo che la tecnologia rende ormai completamente tracciabili le attività economiche di ciascuno e conseguentemente tracciati i patrimoni. Non c’è dunque difficoltà nella ricerca e nell’identificazione di chi froda. Lo Stato si astiene, lascia che solo alcuni paghino e tanti invece no, perché sceglie di non dare dignità alla giustizia fiscale. È lo Stato e chi lo rappresenta a rinunciare al dovere di chiedere. È il Parlamento che promuove sistematicamente campagne per il condono delle cartelle esattoriale, il rinvio sine die di pagamenti dovuti. La burocrazia inefficiente, l’amministrazione poco trasparente quando non collusa, i servizi scadenti quando proprio assenti, sono insieme causa ed effetto di chi sceglie di violare le norme convinto dell’impunità. L’impunità che regala lo Stato agli evasori ha la radice nella opinione prevalente della rappresentanza politica, a sua volta espressione di una società che non crede nel principio dell’equità. Che sente nemico lo Stato. E infatti, ricordate? Silvio Berlusconi che da premier illustrava la necessità di evadere, la legittimità a farlo? Bisogna dire che l’ascesa al potere del signor B. è stata largamente apprezzata da una quota di italiani che per molti anni è stata maggioranza. B. era l’Italia, incarnava le virtù e soprattutto i vizi, e gli italiani, nella loro prevalenza, si specchiavano in lui. Ora il signor B. è candidato alla presidenza della Repubblica. Tutto si tiene.

Antonello Caporale

Altro che Corea. Ma quale Squid Game, qui abbiamo di meglio: lo Zebra Game

Tempi duri per “Squid Game” (“Il gioco del calamaro”), la serie televisiva made in Sud Corea più seguita di sempre. Da qualche tempo il mondo ha scoperto infatti una serie italiana partita a fari spenti, “Zebra Game” (“Il gioco della zebra”), prodotta dalla Federazione Italiana Gioco Calcio, che in un battibaleno si è imposta a sorpresa all’attenzione di tutti scalando le classifiche in ogni Continente. Nella prima serie da poco conclusa e considerata già oggi cult si narrava la storia del calciatore uruguaiano Luis Suarez (nome di fantasia) che desiderando trasferirsi in Italia per giocare nel club della Zebra (nome di fantasia) sosteneva e superava un esame di lingua italiana completamente truccato grazie alla mobilitazione di cielo & terra. Per fargli avere la cittadinanza italiana venivano scomodati i vertici dell’Università per Stranieri di Perugia, il Ministro dei Trasporti Paola De Micheli (nome di fantasia) e persino il capo di gabinetto del Viminale cui il ministro chiedeva: “La Zebra vuole Suarez, si può accelerare?”.

Sullo sfondo, sinistra e aggettante, si stagliava la figura della Zebra, entità nient’affatto misteriosa che però, a dispetto delle puntigliose indagini dei magistrati, di intercettazioni telefoniche e ambientali, di registrazioni video e interrogatori, riusciva nell’impresa – considerata impossibile – di scampare a qualunque sanzione grazie alla Procura Federale che 15 mesi dopo lo scandalo riteneva di non intravedere alcuna sua chiara responsabilità. E sì, forse c’era stata un’iniziativa avventata di qualche avvocato discolo dello studio legale; forse gli avvocati della Zebra avevano una squadra di calcetto e volevano Suarez centravanti per vincere la sfida con gli architetti, ma come si dice in questi casi: e che sarà mai!, so’ ragazzi, capita a tutti di fare pasticci. L’importante è sfoderare il gran finale che non t’aspetti (e ti conquista): tutto archiviato, nessun colpevole, la Zebra è salva, vai con la nuova serie.

Ecco. Sperando di non indisporre gli aficionados, siamo in grado di spoilerare la trama essenziale della seconda serie di “Zebra Game”. In un torneo calcistico organizzato dall’Uefa e chiamato Champions League (nome di fantasia), la Zebra viene accoppiata agli ottavi di finale al Villareal (nome di fantasia), avversario sulla carta non irresistibile. La Zebra è tuttavia reduce da una serie impressionante di flop proprio in questo torneo e passare il turno è considerato dal suo management obiettivo irrinunciabile. Che fare dunque? Anche se il Villareal non è il Brasile di Pelé, i suoi tre punteros Gerard Moreno, Danjuma e Yeremi Pino (nomi di fantasia) un po’ di paura la incutono; ecco allora che la mattina del match di ritorno, il 16 marzo 2022 (data di fantasia), alcuni avvocati dello studio legale della Zebra intrufolatisi nelle cucine dell’hotel che ospita gli spagnoli mettono il Guttalax nel cappuccino dei bomber che, causa diarrea, sono costretti a dare forfait. Ne nasce uno scandalo mondiale, gli inquirenti rinviano a giudizio i presunti responsabili “in qualità di legali incaricati dalla società Zebra quali concorrenti morali e istigatori” della vicenda ma alla fine, ancora una volta, la Procura Sportiva ritiene di non dover intervenire perché “dalla documentazione ricevuta non sono emersi elementi sufficienti per ritenere provate condotte illecite rilevanti di dirigenti o comunque tesserati”. Tutt’a posto insomma.

Bello no? Sì, ma succede solo in “Zebra Game”.

 

Identità e asterischi. I diritti non si devono imporre. E per favore non chiamatemi car*

Ebbene sì. Ho firmato la proposta di istituire su Trenord Ferrovie lombarde, delle carrozze speciali per sole donne. La petizione l’ha lanciata via change.org una giovane donna lombarda. Il motivo? Due aggressioni, in un caso anche violenza sessuale, in una stazione e su un treno delle ferrovie regionali sulla tratta Milano-Varese. Chi ha lanciato la petizione – è evidente – ritiene che le carrozze solo per donne siano un modo per salvarsi dal ripetersi futuro di questi episodi. Poiché gli uomini che vi entrassero sarebbero immediatamente riconoscibili – per definizione – per le loro pessime intenzioni. Con seguito di allarme automatico. Ho firmato di slancio, senza pensarci, parteggiando d’istinto per il più debole. Come altri, quasi mille firme in due giorni.

Se chi è più esposto alla violenza, mi sono detto, chiede questo scudo perché non garantirglielo? Poi ho riflettuto due minuti. E ho pensato che i sostenitori e soprattutto le sostenitrici della parità di genere mai avrebbero immaginato un giorno una carrozza di genere, solo per le donne. Chissà perché ho rivisto Rosa Parks. Una specie di apartheid, come ha commentato lo stesso presidente della Regione Attilio Fontana. E in effetti come è possibile concepire una carrozza che fa a pugni con l’idea suprema che uomini e donne e portatori di ogni orientamento sessuale abbiano il diritto di viaggiare insieme e frequentare gli stessi luoghi? Per difendere le donne occorre una vigilanza assidua sui treni. Obiezione: ma non c’è personale sufficiente. Per difendere le donne occorre una grande offensiva di persuasione verso gli uomini, occorre un cambiamento culturale, come si dice sempre, “a 360 gradi”. Obiezione: ma occorre tempo e intanto? Ecco perché, qui e adesso, la soluzione un giorno obbrobriosa è apparsa sensata e culturalmente legittima.

Ed è qui che cade la pera in una società dove i diritti paiono talora inventati in provetta e sempre meno messi a confronto con la realtà o il contesto. La bontà dei mezzi con cui si difendono i grandi princìpi dipende infatti da tante cose. Vedo ad esempio che all’università di Pisa stanno progettando per la prossima primavera di usare bagni “neutri”. Non più sagome di uomini e donne sulle porte. Perché la divisione suona discriminazione, separazione. Anche qui quando ho letto ho approvato d’istinto. Poi mi sono ricordato di quando l’Italia iniziò a respirare un po’ di libertà sessuale, e di quando al pensionato studentesco della Bocconi, dove vivevo, le barriere tra ala maschile e ala femminile franarono come le mura di Gerico. E i bagni divennero a ingresso libero per tutti. “Neutri”, insomma.

Ecco, non è che tutte le mie coetanee ne fossero felici, tirava spesso un’aria di imbarazzo. Così ho chiesto ad alcune mie ricercatrici se l’innovazione pisana abbia il loro consenso. Risposta: se lo fanno qua a Milano, piuttosto vado fuori in un bar. Interessante. Ho pensato allora anche a come risponderebbero le file di signore che attendono il loro turno in autogrill o in aeroporto. Ben separate e attente a non confondersi con i “signori”. Vedete un po’ come funzionano i diritti, tra una loro difesa disperata attraverso la segregazione e una loro ricerca sofisticata con la parificazione (dei generi) nei luoghi a un tempo pubblici e dell’intimità. Mi vado convincendo in realtà che vi sia un unico modo di dar fondamento e forza ai diritti: rispettare le opinioni dei loro titolari. Chi vuole i bagni neutri li ottenga e li frequenti. Chi vuole i bagni di genere li difenda. Si chiama laicità. E questo vale anche per altre pratiche. Chiedetemi ad esempio se sono contento di sentirmi chiamare car*. No, manco per idea, mi offendo, la mia identità non è un asterisco. A questo non era ancora arrivata nemmeno la burocrazia più ottusa e spersonalizzante. Sono gli scherzi del diritto da provetta…

 

Vaticano. In una faida tra “cardinaloni” la soluzione del caso Orlandi: il giallo del magistrato che indagò

L’ultimo retroscena dell’infinito mistero di Emanuela Orlandi l’ha rivelato pochi giorni fa Giancarlo Capaldo, già procuratore aggiunto di Roma che ha gestito inchieste importanti, compresa quella sulla ragazza di 15 anni rapita nella Capitale il 22 giugno 1983. Un caso senza soluzione e che nei decenni ha mescolato le trame vaticane intorno allo Ior; l’attentato a Giovanni Paolo II; la banda della Magliana; i servizi segreti e la pedofilia.

Il magistrato ha affidato ad Andrea Purgatori (Atlantide su La7) il nuovo colpo di scena sul rapimento del 1983: nel 2012 due emissari dell’allora papa Benedetto XVI lo contattarono per l’incredibile vicenda della tomba di Enrico “Renatino” De Pedis nella basilica di Sant’Apollinare, vicino a piazza Navona. De Pedis era il boss della banda della Magliana e la tumulazione fu autorizzata a suo tempo, nel 1990, dal vicariato di Roma. I due emissari ratzingeriani chiesero a Capaldo, che in quel momento era reggente della Procura, “la riesumazione del corpo di De Pedis e di eliminare dalla basilica un cadavere troppo ingombrante”.

Per tutta risposta, il magistrato disse che anche la famiglia della ragazza sparita nel 1983 aveva diritto a ritrovare la pace con la verità su Emanuela. Così l’incontro fu aggiornato ma tutto naufragò, a detta di Capaldo, sia per la nomina di Pignatone a capo della Procura sia perché dopo un anno Benedetto XVI si dimise anche a causa di Vatileaks 1. In attesa, allora, che il magistrato oggi in pensione riveli – se convocato dai suoi colleghi italiani o del Vaticano – i nomi dei due emissari, va aggiunto che lo stesso Capaldo ha scritto un giallo sul caso Orlandi, da poco in libreria. S’intitola La ragazza scomparsa (Chiarelettere, 181 pagine, 16) e ha come protagonista un detective particolare: il principe romano Gian Maria Ildebrando del Monte di Tarquinia, ricco e pieno di tempo libero.

Il principe tenta di aiutare la vedova di un industriale italiano a recuperare i soldi del marito – che ha fatto fortuna in Brasile – su un conto cifrato dello Ior. Su quel conto però sono transitati milioni di dollari ed euro per operazioni “sporche” e segrete, tra cui quella per mantenere il silenzio sulla scomparsa di Eloisa Oderisi (stesse iniziali di Emanuela Orlandi) avvenuta a Roma il 22 dicembre 1977. Di scoperta in scoperta, l’aristocratico investigatore troverà la verità in un manoscritto dell’industriale: Eloisa era la “favorita” del cardinale segretario di Stato, Carlo Mei, e fu fatta rapire su ordine di un cardinale avversario per questioni di politica estera. La ragazza venne poi rilasciata ma non tornò in famiglia. Morì tempo dopo e fu sepolta segretamente in un convento della Capitale.

Il principe va dal papa (suo amico) e questi lo rimanda a un cinico cardinale francese che impone una verità di comodo da riferire all’opinione pubblica: Eloisa fu rapita e uccisa per errore perché “ritenuta a torto la fidanzatina del rivale di un boss della banda della Magliana” e il corpo si trova nel cimitero di un paesino della campagna romana. E il Vaticano è estraneo a tutto. Capaldo colloca il rapimento sotto il pontificato di San Paolo VI (1977) ma è evidente il riferimento al cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato dal ’79 al ’90 e in precedenza “ministro” degli Affari esteri della Santa Sede.

 

Cloud nazionale. Il pasticcio di Sogei mostra ancora una volta che il governo tifa per Cdp-Tim

Dopo averlo fatto slittare di 7 mesi, il ministro per l’Innovazione tecnologica Vittorio Colao ha promesso di pubblicare entro gennaio 2022 il bando di gara per la realizzazione del Polo strategico nazionale (Psn) per il cloud della Pubblica amministrazione grazie ai 2 miliardi stanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Lo scopo è far migrare i dati più sensibili delle amministrazioni centrali, cioè ministeri e agenzie (entro il 2025), e poi quelli della P.A locale. Ma a un mese dalla nuova scadenza c’è un solo elemento sicuro: il piano resta appannaggio della cordata pubblico-privata Tim e Cassa depositi e prestiti col supporto di Sogei (la società del ministero dell’Economia che già si occupa dei servizi digitali) e Leonardo (l’ex Finmeccanica, sempre controllata dal Tesoro), che sembra più nelle grazie del governo. Da quando il Fatto Quotidiano ha rivelato, a metà settembre, che dal gabinetto del ministro dell’Economia sono arrivate pressioni informali sul Poligrafico dello Stato (che è di proprietà del Tesoro) per invitarlo a recedere dal proposito di presentarsi in cordata con Fastweb alla gara per il cloud, l’unica novità è che negli scorsi giorni sono stati ritirati per volontà del governo due identici emendamenti di Italia Viva e Lega che chiedevano di risolvere l’anomalia di Sogei che potrebbe svantaggiare le altre cordate: Almaviva-Aruba e Fastweb-Engineering.

Andiamo con ordine. I due emendamenti, presentati alla Camera al dl per l’attuazione del Pnrr da Marco Di Maio (Iv) e Massimiliano Capitanio (Lega), puntavano il dito contro un elemento che emerge dalla gara per il Polo strategico. La gara prevede infatti un progetto di partenariato pubblico-privato (Ppp): i privati siglano una partnership con una società a controllo pubblico. Il problema è che Sogei sarebbe il partner naturale di tutte le cordate, per il ruolo che già ha per legge sul cloud pubblico.

Questo ruolo è stato dato alla società in house del Tesoro dal decreto legge 179 del 2012, articolo 33-septies, che ha formalizzato uno status speciale, individuando la società come “uno dei poli strategici per l’attuazione e la conduzione dei progetti e la gestione dei dati, delle applicazioni e delle infrastrutture delle amministrazioni centrali di interesse nazionale”. Così, per ovviare a questa criticità, e permettere a Sogei di restare nella cordata con Tim-Cdp, il Tesoro ha deciso di intervenire nel decreto Recovery cancellando questo status di Sogei. Ma la decisione non è piaciuta a Italia Viva e Lega, che hanno chiesto di ripristinarlo sottolineando “l’esigenza di non cambiare le regole del gioco in corsa”. A criticare l’intervento del Tesoro è stata anche la Cinque Stelle Mirella Liuzzi che in un Question time alla commissione Trasporti ha rilevato che “sarebbe stata maggiormente appropriata una procedura di gara di tipo aperto piuttosto che la procedura adottata, che rischia di non far rispettare le milestone europee” e dunque di far perdere le risorse dedicate dal Pnrr, criticando la metodologia usata del partenariato pubblico-privato con la quale, ha ipotizzato Liuzzi, si è perso troppo tempo, e ha raccomandato di continuare a mantenere alta l’attenzione sul dossier Tim. La partita è aperta, ma governo e Tesoro non si comportano da arbitri.

 

Gli esperimenti di Erdogan con la lira affossano la Turchia

Nelle scorse settimane le banche centrali di tutto il mondo hanno mandato segnali che la fase di eccezionale espansione monetaria volge ormai al termine. Alcune hanno già da tempo iniziato ad aumentare i tassi ufficiali d’interesse, quelli a cui le banche commerciali possono rifinanziarsi e che costituiscono la base di riferimento con la quale vengono decisi i tassi d’interesse sulle principali operazioni di prestito, dai mutui ai finanziamenti alle imprese, dai prestiti al consumo a quelli obbligazionari. Solo una si muove in decisa controtendenza: la banca centrale della Repubblica di Turchia. Con la decisione di venerdì scorso di ridurre ancora i tassi di 100 punti base, il taglio messo in atto da ottobre è di 500 punti base, dal 19% al 14%. La conseguenza principale di questa strategia è stata la fuga dei capitali e il crollo del cambio della lira, che da inizio anno ha perso oltre il 50% del valore sul dollaro, più del 10% solo nell’ultima settimana.

L’avversione del Presidente Erdogan agli alti tassi d’interesse e a chi ci specula non è certo una novità. Nel 2018, alle prese con l’ultima delle numerose crisi valutarie del Paese, definì i tassi d’interesse come la madre di tutti i mali. Varie volte ha dichiarato che secondo il suo modo di vedere gli alti tassi d’interesse non sono la conseguenza dell’elevata inflazione, ma la sua causa. La singolare visione del Sultano è che in un’economia come quella turca, che deve importare la gran parte delle materie prime e che ha la gran parte del debito privato e pubblico denominata in valuta estera, la riduzione dei tassi d’interesse possa far crescere l’economia senza ripercussioni, aumentarne il livello di investimento e la capacità produttiva, riducendo così l’inflazione e le rendite finanziarie improduttive.

In attesa che si manifestino questi effetti, la conseguenza immediata però, come abbiamo detto, è stata la perdita di valore della moneta. I capitali esteri continuano a fuggire e i turchi, per quanto è ancora loro consentito, preferiscono accumulare risparmi in dollari o euro, piuttosto che in lire. Con il deprezzamento della valuta aumenta però il costo delle importazioni, che contano un terzo del pil. Questo si ripercuote sui prezzi alla produzione, cresciuti del 55% in un anno, e su quelli al consumo, con l’inflazione che dovrebbe superare il 30% all’inizio del 2022. Se questa situazione avvantaggia le imprese esportatrici, che con il cambio deprezzato riescono a riguadagnare competitività, effetti pesanti si stanno manifestando sulla popolazione e sulle imprese che operano nel mercato interno.

La scorsa settimana hanno fatto il giro del mondo le immagini delle lunghe code ai chioschi che distribuiscono il pane a prezzi calmierati. Ci sono proteste sempre più numerose nella capitale Ankara e ad Istanbul contro il carovita. La DİSK, uno dei principali sindacati, ha richiesto che il salario minimo passi da 2826 lire a 5200 lire per compensare dell’aumento dei prezzi dei beni primari. Giovedì Erdogan ha annunciato che verrà aumentato “solo” del 50%, a 4250 lire. Un aumento che, se da una parte non sarà in grado di far recuperare la perdita di valore in dollari dei salari, dall’altra butterà ancor più benzina sul fuoco dell’inflazione, dato che le imprese che operano sul mercato interno, vedendosi aumentare il costo del lavoro rialzeranno i prezzi di vendita, rischiando di avviare ripercussioni a cascata verso una spirale prezzi-salari di tipo sudamericano.

La paura di una corsa fuori controllo dei prezzi ha contagiato anche la borsa, che venerdì è stata chiusa per due volte in un’ora, dopo un crollo del 9%. A questo punto il timore che la situazione possa scappare di mano è fondato. La crisi valutaria del 2018 è stata risolta prima prosciugando le riserve valutarie e poi con una decisa stretta monetaria che fermasse la fuga dei capitali. Ora le riserve non sono più così numerose e Erdogan sembra determinato a non fermarsi. Se le cose non cambiano velocemente, però, non ci sarebbero molte alternative alla chiusura del mercato dei capitali, bloccando i deflussi di valuta. Una soluzione che avrebbe ripercussioni pesanti sull’economia turca e la taglierebbe fuori dai mercati.

L’esperimento turco potrebbe così concludersi con una soluzione che sconfesserebbe il consenso emerso nel campo dell’economia internazionale dall’esperienza delle crisi valutarie di fine secolo scorso e che attribuisce ai Paesi dotati di cambio flessibile una certa autonomia nel fissare il tasso d’interesse anche in presenza di libera circolazione dei capitali. Come ha scritto il Financial Times: “Se non fosse per il dolore e la sofferenza inflitti a 84 milioni di persone, questo sarebbe un affascinante esperimento economico”.

L’identikit del rider: ha 50 anni, laurea, figli e ansia sul futuro

Nelle pubblicità delle app delle aziende che consegnano cibo a domicilio, i rider sono sempre giovani, di bell’aspetto, con il look un po’ hipster, sportivi e soprattutto felici di quello che fanno. Nei sondaggi finanziati e apparecchiati dalle stesse imprese, vengono fuori percentuali bulgare di gradimento delle condizioni di lavoro offerte, della cosiddetta flessibilità. È un racconto patinato che però viene ribaltato dalle ricerche indipendenti, dalle quali emerge – ovviamente – che in realtà chi trasporta pizze e sushi in bicicletta, e in generale chi opera attraverso le piattaforme digitali, percepisce la sua situazione come molto precaria e avverte per questo un rischio di rimanere disoccupato molto più alto di chi svolge altri mestieri. Insomma, gli impieghi nella gig economy risultano molto più “appetibili” per chi è in uno stato di necessità piuttosto che per gli appassionati di ciclismo desiderosi di gestire in autonomia il proprio tempo.

Lo conferma un articolo firmato da tre studiosi – Valeria Cirillo, Dario Guarascio e Fenizia Verdecchia – apparso sulla rivista dell’istituto pubblico di ricerca Inapp. Sono state intervistate circa 7.500 persone – non solo rider – sparse tra Italia, Germania, Spagna, Francia, Olanda, Polonia, Romania, Slovacchia, Svezia e Portogallo. Il primo risultato riguarda la tipologia di rapporto di lavoro adoperata dalle piattaforme: in tutti i Paesi tranne la Polonia è prevalente quella “non standard”. In pratica la maggior parte degli addetti è a tempo determinato, part time o inquadrato come autonomo. Insomma, le forme diverse dal più tutelato tempo pieno e indeterminato.

Se restiamo sull’esempio dei rider, infatti, in genere le multinazionali non li assumono, ma stipulano con loro contratti di collaborazione autonoma, senza stipendi orari e con retribuzioni commisurate al numero di consegne effettuate. Ed è proprio questa una delle caratteristiche magnificate dalla propaganda delle multinazionali: la libertà di scegliere quando lavorare, la possibilità di auto-determinarsi senza l’assillo di turni prestabiliti dall’azienda; vantaggi per i quali si dovrebbe essere pronti a sacrificare la sicurezza economica. La subordinazione accusata di essere una specie di prigione dalla quale evadere.

La narrazione per cui i rider vivono questa situazione come un’opportunità e non come un problema è nettamente sconfessata dalla ricerca. Il 69,2% dei lavoratori su piattaforma si è detto “molto preoccupato” di cadere nella disoccupazione nei successivi dodici mesi, mentre solo il restante 30,8% è “poco preoccupato”. Quello che potremmo ribattezzare, semplificando, il “tasso di ansia” è superiore rispetto a quello dei lavoratori non standard in generale: tra loro quelli molto timorosi di restare senza lavoro si “fermano” al 65,7%. Decisamente più bassa, seppur significativa, è invece la paura registrata tra gli addetti con contratti standard, che presentano una percentuale del 54,2%.

Ma chi sono questi lavoratori su piattaforma? Sono davvero tutti ragazzi tra i venti e i trent’anni atletici e sorridenti? Non sempre, anzi la percentuale che si colloca tra i 36 e i 55 anni è rilevante in tutti i Paesi. In Italia, per esempio, in quella fascia si raggiunge il 49,1% degli occupati, a fronte del 42% di under 35. Il 50% ha una laurea mentre il 45,5% si è fermato alle superiori. Molto rilevante è la presenza di stranieri, cioè quelli nati in un Paese diverso da quello in cui lavorano: mentre nel totale degli intervistati questa si ferma al 7,7%, tra i lavoratori su piattaforma arriva al 13,3% considerando chi svolge quell’impiego come attività principale.

E ancora: sempre in Italia, il 40,2% è sposato o convivente con figli, ma i ricercatori definiscono “rilevante notare come una quota non marginale di non-standard worker e di lavoratori delle piattaforme rispetto alla quota di intervistati sia single con a carico dei figli, sottolineando quindi ancora una possibile relazione tra situazioni di fragilità socio-economica, partecipazione all’economia delle piattaforme e avere un contratto non tradizionale”.

Le piattaforme, insomma, non sembrano la nuova frontiera dell’occupazione, ma un settore nel quale si annida una fetta molto vulnerabile della forza lavoro. Su questa consapevolezza, due settimane fa la Commissione europea ha approvato la direttiva che imporrà alle piattaforme di assumere come dipendenti i rider e tutti i “falsi autonomi” impiegati. Basterà dimostrare l’esistenza di due tra i tanti indicatori di subordinazione elencati nel provvedimento e scatterà l’obbligo di regolarizzare.

In Italia solo Just Eat ha garantito contratti da dipendenti ai suoi fattorini, le altre proseguono con il modello del precariato estremo, forti di un contratto di comodo firmato con il sindacato Ugl e ancora applicato nonostante sia stato bocciato da magistrati del lavoro e amministrativi, oltre che dal ministero del Lavoro.

Il piano green è ambizioso, ma l’Ilva ha finito i soldi e le banche non si fidano

Un’esposizione di circa 1 miliardo di euro, tra oneri finanziari, debiti e fornitori da pagare a cui vanno aggiunti 430 milioni di investimenti l’anno per realizzare il piano industriale che dovrebbe rendere l’ex Ilva di Taranto una fabbrica “decarbonizzata”. Il progetto da 4,3 miliardi di euro in 10 anni, però, al momento è una sorta di “santo Graal”: tutti ne parlano, pochi lo cercano, nessuno l’ha ancora trovato. Per gli eletti che hanno potuto visionare il documento, però, il piano è ambizioso. Forse troppo ambizioso vista la situazione particolarmente delicata in cui si trova lo stabilimento siderurgico gestito da Acciaierie d’Italia, la joint venture tra il colosso Arcelor Mittal e lo Stato italiano attraverso Invitalia.

Secondo quanto svelato al Fatto da fonti aziendali, la situazione finanziaria è critica. Gli impegni già presi da Acciaierie d’Italia per trasformare l’ex Ilva da fabbrica dei veleni ad acciaieria green è di circa 1 miliardo: i 400 milioni versati dallo Stato la scorsa estate per entrare con il 40% nella holding di controllo sono stati bruciati nei primi due mesi e più o meno la stessa cosa accadrebbe se Invitalia versasse gli altri 600 milioni previsti per ottenere il 60 percento delle quote. La seconda tranche di fondi statali, però, è prevista per il 2022 ed è difficile che possa essere versata prima di quel periodo. Le banche hanno chiuso i rubinetti: l’ex Ilva avrebbe bisogno di un rapporto normale con quel mondo, dato che per sopravvivere le servono almeno 450 milioni di euro di linee di credito, ma gli istituti bancari non si fidano e concedono prestiti a scadenza quasi immediata e i fidi devono essere ripianati nel giro di poche settimane. Insomma al momento Acciaierie d’Italia “non è bancabile” come dicono gli esperti del settore. Solo alcuni fondi speculativi si sono fatti avanti, ma per ora non siamo ancora alla disperazione che possa condurre a un passo del genere.

Anche la produzione è drasticamente calata per la grave situazione degli impianti: le avarie hanno bloccato completamente l’Altoforno 4 che ripartirà nel 2022 sottraendo alla produzione circa 2mila tonnellate di acciaio al giorno. Afo1 e Afo2 lavorano a intermittenza per le numerose fermate non programmate. E così il 2021 si chiuderà con 4 milioni di tonnellate di acciaio, la metà delle 8 milioni annue previste dal piano industriale. Oltre alla quantità anche la qualità del prodotto è peggiorata visto lo stato produttivo degli impianti. Il player tecnico, la multinazionale dell’acciaio Arcelor Mittal, non ha intenzione di investire neppure un euro: una situazione paradossale dato che al momento, pur controllando ancora la maggioranza della società operativa, si sta disimpegnando. Del resto questo quadro farebbe particolarmente comodo alla multinazionale franco-indiana che, grazie anche alle difficoltà dell’Ilva, riesce a tenere alto in Europa il prezzo dei coils.

Negli anni, infatti, lo stabilimento tarantino è sempre stato un calmieratore dei prezzi, specie sul mercato italiano: dall’acciaio ionico arrivava parte della competitività dell’industria della componentistica auto del nord Italia, che ora si è assai ridotta.

Per portare avanti l’ex Ilva, insomma, si naviga a vista. Senza un’idea chiara e soprattutto senza un lavoro di coordinamento di forze che, per iniziare, coinvolga le banche attorno alla questione tarantina. Se lo Stato vuole davvero che Ilva sopravviva è necessario un intervento politico ad alti livelli: il ministero del Tesoro, in primis, dovrebbe interloquire col settore bancario per costruire un consorzio e finanziare l’operatività quotidiana della fabbrica, che può andare avanti solo se produce mentre si investe per il futuro. Insomma, con questa fotografia e senza un intervento serio dello Stato, l’attività non riuscirà a durare a lungo.

Non ci soldi più soldi, l’Ilva del dopo Mittal è in ginocchio: con una lettera inviata nei giorni scorsi ai lavoratori, la società ha annunciato che non si farà più carico neppure dei tamponi necessari per entrare nello stabilimento. Ma le difficoltà derivano anche dalla separazione dei ruoli societari: Mittal non investe ma controlla la società operativa, lo Stato mette il denaro ma è fuori dalla gestione esecutiva.

Il futuro annunciato dal presidente Franco Bernabè ai sindacati è fatto di produzione con forni elettrici e pre-ridotto, tecnologia che potrà sfruttare anche l’idrogeno se dovesse arrivare a costi sostenibili, cosa che non avverrà prima di un decennio. Il presente, invece, è una fabbrica in ginocchio operativamente gestita da un colosso che resta l’unico che macina utili mentre lo Stato, i lavoratori, l’ambiente e gli abitanti di Taranto continuano a rimetterci.

La sfida dell’elettrico al 2035 che l’industria vuole sabotare

Fermare, o perlomeno rallentare, la “ghigliottina elettrica” del 2035? Oppure cercare di ribaltare, proprio in questi 15 anni di tempo e proprio sfruttando questa occasione, il declino inesorabile della filiera dell’auto nazionale?

La confusione è grande sotto il cielo plumbeo di un mercato in crisi assoluta in un’Italia dove l’industria dell’auto non ha più un baricentro e una rappresentanza vera, dove la Fiat-Fca che fu è un grande pezzo, ma solo un pezzo (e con più di uno stabilimento troppo vecchio e troppo grande, a cominciare da Mirafiori) del colosso Stellantis, che è invece tutto francese per management, supremazia di piattaforme, ricerca, idee, innovazione e, soprattutto, per controllo proprietario e con lo Stato transalpino azionista forte. Gli ultimi dati sulle vendite sono di qualche giorno fa: il Centro Studi Promotor prevede un 2022 ancora in profondo rosso e in linea con un 2021 che ha fatto segnare un debole +5,7% sul 2020, ma un -23,8% sul 2019 prima del Covid.

Così, senza un padrone “italiano”, senza una leadership interna del settore (senza più gli Agnelli, salvo un po’ di flebile lobbying dei loro giornalisti), la discussione sul tramonto del motore termico e la sua sostituzione con quello elettrico o con l’opzione futuribile dell’idrogeno, resta affidata ad alcune associazioni industriali del Nord, preoccupate per l’indotto dell’auto, o di antiche sigle di rappresentanza del nostro “sistema automotive” di un tempo. Il bersaglio dichiarato è il recente pronunciamento del Cite (Comitato interministeriale per la transizione ecologica) a favore del blocco dei veicoli con motori termici a partire dal 2035: rispettoso di un’indicazione dell’Ue, ma in attesa della fondamentale ratifica del nostro Parlamento.

Qual è la sostanza del “niet” arrivato dagli imprenditori di Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto? “L’orizzonte del 2035 è inattuabile allo stato odierno. Senza l’indicazione di un’alternativa, o quantomeno l’introduzione di un principio di gradualità, la strada tracciata dalla Ue comporterà il blocco degli investimenti nei motori a combustione oltre alla sostanziale chiusura del mercato. Solo in Italia si rischiano di bruciare oltre 70 mila posti di lavoro entro il 2030. L’attuale scadenza rischia di mandare ko il 50% del settore della componentistica”.

Posti di lavoro da difendere, dunque: un argomento polemico inconsueto per gli imprenditori e che dovrebbe trovare, invece, il fiero consenso dei sindacati. Ma non è proprio così, almeno ad ascoltare il segretario piemontese della Fiom. Giorgio Airaudo, che parla dalla ex capitale della Fiat e dalla regione che ospita ancora la metà della produzione della componentistica italiana dell’auto: “Non credo che la richiesta del rinvio o addirittura della sospensione della transizione verso l’elettrico entro il 2035 sia la carta giusta da giocare. Non è fermando la storia che si salvano quei 70 mila posti che stanno già precipitando, non è allungando il brodo della transizione che si risolve il problema. Gli altri produttori stanno già correndo e gli stessi azionisti francesi di Stellantis, con l’appoggio dello Stato francese, stanno facendo la stessa cosa: il 2035 è domani mattina. Qui tocca al governo intervenire, facendo quello che non ha fatto finora e che nel passato non ha fatto nessun governo italiano. Ma un tempo c’erano gli Agnelli e la Fiat: ci si affidava a loro, lasciandoli fare. Era già sbagliato allora, ma oggi comunque tutto questo è finito”.

La Francia è l’esempio virtuoso di ciò che l’Italia non sta facendo e non solo per “l’inciampo Stellantis”. “Là il Pnrr è stato accompagnato da un piano per l’auto, qualcosa che Macron e il suo ministro Bruno Le Maire hanno trattato con Peugeot, prima dell’acquisto di Fiat-Fca, e con la stessa Renault, nella quale lo Stato è altrettanto azionista. Per esempio, è stata programmata la conversione, mantenendo anche i livelli occupazionali, di uno stabilimento che produceva motori in uno destinato alle batterie. E in quel piano si definisce il futuro elettrico, sino a spingere Carlo Tavares, l’ad di Stellantis, a dire che, entro il 2030, il 70% delle vendite del gruppo saranno sull’elettrico”.

L’accusa di Airaudo è quella di “una schizofrenia assoluta nei comportamenti italiani. Non esiste un tavolo unico dove si discutano le sorti dell’intero settore. Ce n’è uno per la componentistica, ma poi manca in quella sede l’unico produttore in Italia, che peraltro ha cuore e cervello a Parigi e che in Francia ha già concordato che cosa vuol fare per la transizione elettrica. Non è una questione di campanilismo, ma di realtà: se non ottieni che Tavares spieghi che cosa intende fare in Italia, che modelli e che produzioni intende realizzare da noi, tutta questa discussione diventa senza prospettive. La fusione tra Peugeot e Fca dovrebbe assicurare risparmi per 5 miliardi. Lo stanno facendo su tutto: in Polonia, per esempio, hanno tagliato i costi della mensa abolendo addirittura i succhi di frutta. Ma il vero risparmio avverrà razionalizzando le produzioni, riportando nelle fabbriche parte delle forniture esterne. Il primo allarme per la componentistica è questo”.

A dire la verità, anche il nuovo gruppo nato con l’annessione di Fca in Peugeot non è oggetto di un intervento organico del governo. “La tattica che si sta usando è quella dei singoli petali della margherita. Un incontro per ridurre da due a una le linee produttive di Melfi, un altro per la chiusura dello stabilimento di Grugliasco intitolato all’Avvocato Agnelli”. E anche la destinazione dell’impianto di Termoli per realizzare la “giga-factory” delle batterie sembra per il momento dimenticata. “Noi abbiamo perso la battaglia perché fosse realizzata a Torino e desse speranza a Mirafiori. Si è scelto uno stabilimento del Sud ed è importante. Per ora, però, assistiamo a uno stallo. Non vorrei che la giga-factory italiana, presentata come la terza di Stellantis in Europa con quelle che si stanno allestendo in Francia e in Germania, diventasse l’ultima in ordine di tempo”.

Dunque, non una semplice richiesta di rinviare l’appuntamento del 2035, ma piuttosto puntare sul futuro elettrico proprio per definire le sorti dell’auto. “Draghi e Giorgetti per ora non hanno riempito il vuoto della scomparsa di Fca e degli Agnelli, non hanno saputo diventare interlocutori di Tavares. Nel recente Trattato firmato con Macron, si è parlato di Stellantis, il più grande affare tra Francia e Italia degli ultimi anni? Sono state chieste garanzie per l’occupazione in Italia? Il rischio è che la prevalenza dei francesi sia netta, come è accaduto con Fincantieri e gli impianti di Saint-Nazaire. Intanto, i segnali che arrivano per il mantenimento della progettazione in Italia sono brutti. La fuga dei cervelli da Mirafiori, gli ingegneri e i tecnici, non si ferma: chi può scappa. L’azienda aveva già definito 800 esodi incentivati, ora se ne sono aggiunti altri 400”.

Servirebbe un tavolo complessivo, ma anche un’anagrafe di quello che oggi i funzionari del Mise ammettono di non conoscere: che cosa esiste già in Italia proiettato sul motore elettrico, a cominciare dalle aziende chimiche che producono materiali per le batterie. “Pensare a un piano che accompagni la transizione energetica a una transizione sociale, con riconversioni di impianti, formazione dei dipendenti. La vicenda delle dislocazioni, per, mi fa pensare che discorsi come questo non interessino al governo. Quello che non ha senso, comunque, è mettersi contro la storia, magari chiedendo di mantenere la produzione dei motori termici per approdare infine a quelli a idrogeno. Gli esperti ci dicono oggi che quel tipo di alimentazione riguarderà i grandi mezzi di trasporto e non le vetture, mentre le proiezioni più aggiornate spiegano che nel 2030 solo l’% dei veicoli (ma per il trasporto pesante) userà l’idrogeno. E forse serve ripensare il Pnrr, specie in tema di idrogeno e di gasdotti. A meno che, dopo aver lasciato fare per decenni solo alla Fiat, su questi temi si sia deciso di lasciar fare solo all’Eni…”.