Fermare, o perlomeno rallentare, la “ghigliottina elettrica” del 2035? Oppure cercare di ribaltare, proprio in questi 15 anni di tempo e proprio sfruttando questa occasione, il declino inesorabile della filiera dell’auto nazionale?
La confusione è grande sotto il cielo plumbeo di un mercato in crisi assoluta in un’Italia dove l’industria dell’auto non ha più un baricentro e una rappresentanza vera, dove la Fiat-Fca che fu è un grande pezzo, ma solo un pezzo (e con più di uno stabilimento troppo vecchio e troppo grande, a cominciare da Mirafiori) del colosso Stellantis, che è invece tutto francese per management, supremazia di piattaforme, ricerca, idee, innovazione e, soprattutto, per controllo proprietario e con lo Stato transalpino azionista forte. Gli ultimi dati sulle vendite sono di qualche giorno fa: il Centro Studi Promotor prevede un 2022 ancora in profondo rosso e in linea con un 2021 che ha fatto segnare un debole +5,7% sul 2020, ma un -23,8% sul 2019 prima del Covid.
Così, senza un padrone “italiano”, senza una leadership interna del settore (senza più gli Agnelli, salvo un po’ di flebile lobbying dei loro giornalisti), la discussione sul tramonto del motore termico e la sua sostituzione con quello elettrico o con l’opzione futuribile dell’idrogeno, resta affidata ad alcune associazioni industriali del Nord, preoccupate per l’indotto dell’auto, o di antiche sigle di rappresentanza del nostro “sistema automotive” di un tempo. Il bersaglio dichiarato è il recente pronunciamento del Cite (Comitato interministeriale per la transizione ecologica) a favore del blocco dei veicoli con motori termici a partire dal 2035: rispettoso di un’indicazione dell’Ue, ma in attesa della fondamentale ratifica del nostro Parlamento.
Qual è la sostanza del “niet” arrivato dagli imprenditori di Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto? “L’orizzonte del 2035 è inattuabile allo stato odierno. Senza l’indicazione di un’alternativa, o quantomeno l’introduzione di un principio di gradualità, la strada tracciata dalla Ue comporterà il blocco degli investimenti nei motori a combustione oltre alla sostanziale chiusura del mercato. Solo in Italia si rischiano di bruciare oltre 70 mila posti di lavoro entro il 2030. L’attuale scadenza rischia di mandare ko il 50% del settore della componentistica”.
Posti di lavoro da difendere, dunque: un argomento polemico inconsueto per gli imprenditori e che dovrebbe trovare, invece, il fiero consenso dei sindacati. Ma non è proprio così, almeno ad ascoltare il segretario piemontese della Fiom. Giorgio Airaudo, che parla dalla ex capitale della Fiat e dalla regione che ospita ancora la metà della produzione della componentistica italiana dell’auto: “Non credo che la richiesta del rinvio o addirittura della sospensione della transizione verso l’elettrico entro il 2035 sia la carta giusta da giocare. Non è fermando la storia che si salvano quei 70 mila posti che stanno già precipitando, non è allungando il brodo della transizione che si risolve il problema. Gli altri produttori stanno già correndo e gli stessi azionisti francesi di Stellantis, con l’appoggio dello Stato francese, stanno facendo la stessa cosa: il 2035 è domani mattina. Qui tocca al governo intervenire, facendo quello che non ha fatto finora e che nel passato non ha fatto nessun governo italiano. Ma un tempo c’erano gli Agnelli e la Fiat: ci si affidava a loro, lasciandoli fare. Era già sbagliato allora, ma oggi comunque tutto questo è finito”.
La Francia è l’esempio virtuoso di ciò che l’Italia non sta facendo e non solo per “l’inciampo Stellantis”. “Là il Pnrr è stato accompagnato da un piano per l’auto, qualcosa che Macron e il suo ministro Bruno Le Maire hanno trattato con Peugeot, prima dell’acquisto di Fiat-Fca, e con la stessa Renault, nella quale lo Stato è altrettanto azionista. Per esempio, è stata programmata la conversione, mantenendo anche i livelli occupazionali, di uno stabilimento che produceva motori in uno destinato alle batterie. E in quel piano si definisce il futuro elettrico, sino a spingere Carlo Tavares, l’ad di Stellantis, a dire che, entro il 2030, il 70% delle vendite del gruppo saranno sull’elettrico”.
L’accusa di Airaudo è quella di “una schizofrenia assoluta nei comportamenti italiani. Non esiste un tavolo unico dove si discutano le sorti dell’intero settore. Ce n’è uno per la componentistica, ma poi manca in quella sede l’unico produttore in Italia, che peraltro ha cuore e cervello a Parigi e che in Francia ha già concordato che cosa vuol fare per la transizione elettrica. Non è una questione di campanilismo, ma di realtà: se non ottieni che Tavares spieghi che cosa intende fare in Italia, che modelli e che produzioni intende realizzare da noi, tutta questa discussione diventa senza prospettive. La fusione tra Peugeot e Fca dovrebbe assicurare risparmi per 5 miliardi. Lo stanno facendo su tutto: in Polonia, per esempio, hanno tagliato i costi della mensa abolendo addirittura i succhi di frutta. Ma il vero risparmio avverrà razionalizzando le produzioni, riportando nelle fabbriche parte delle forniture esterne. Il primo allarme per la componentistica è questo”.
A dire la verità, anche il nuovo gruppo nato con l’annessione di Fca in Peugeot non è oggetto di un intervento organico del governo. “La tattica che si sta usando è quella dei singoli petali della margherita. Un incontro per ridurre da due a una le linee produttive di Melfi, un altro per la chiusura dello stabilimento di Grugliasco intitolato all’Avvocato Agnelli”. E anche la destinazione dell’impianto di Termoli per realizzare la “giga-factory” delle batterie sembra per il momento dimenticata. “Noi abbiamo perso la battaglia perché fosse realizzata a Torino e desse speranza a Mirafiori. Si è scelto uno stabilimento del Sud ed è importante. Per ora, però, assistiamo a uno stallo. Non vorrei che la giga-factory italiana, presentata come la terza di Stellantis in Europa con quelle che si stanno allestendo in Francia e in Germania, diventasse l’ultima in ordine di tempo”.
Dunque, non una semplice richiesta di rinviare l’appuntamento del 2035, ma piuttosto puntare sul futuro elettrico proprio per definire le sorti dell’auto. “Draghi e Giorgetti per ora non hanno riempito il vuoto della scomparsa di Fca e degli Agnelli, non hanno saputo diventare interlocutori di Tavares. Nel recente Trattato firmato con Macron, si è parlato di Stellantis, il più grande affare tra Francia e Italia degli ultimi anni? Sono state chieste garanzie per l’occupazione in Italia? Il rischio è che la prevalenza dei francesi sia netta, come è accaduto con Fincantieri e gli impianti di Saint-Nazaire. Intanto, i segnali che arrivano per il mantenimento della progettazione in Italia sono brutti. La fuga dei cervelli da Mirafiori, gli ingegneri e i tecnici, non si ferma: chi può scappa. L’azienda aveva già definito 800 esodi incentivati, ora se ne sono aggiunti altri 400”.
Servirebbe un tavolo complessivo, ma anche un’anagrafe di quello che oggi i funzionari del Mise ammettono di non conoscere: che cosa esiste già in Italia proiettato sul motore elettrico, a cominciare dalle aziende chimiche che producono materiali per le batterie. “Pensare a un piano che accompagni la transizione energetica a una transizione sociale, con riconversioni di impianti, formazione dei dipendenti. La vicenda delle dislocazioni, per, mi fa pensare che discorsi come questo non interessino al governo. Quello che non ha senso, comunque, è mettersi contro la storia, magari chiedendo di mantenere la produzione dei motori termici per approdare infine a quelli a idrogeno. Gli esperti ci dicono oggi che quel tipo di alimentazione riguarderà i grandi mezzi di trasporto e non le vetture, mentre le proiezioni più aggiornate spiegano che nel 2030 solo l’% dei veicoli (ma per il trasporto pesante) userà l’idrogeno. E forse serve ripensare il Pnrr, specie in tema di idrogeno e di gasdotti. A meno che, dopo aver lasciato fare per decenni solo alla Fiat, su questi temi si sia deciso di lasciar fare solo all’Eni…”.