Ladri in salute

Chi ancora si meraviglia per il sistema criminale scoperchiato dalla Procura di Perugia sui concorsi, le nomine e le assunzioni nella Sanità umbra, con l’arresto del segretario regionale Pd Gianpiero Bocci e dell’assessore Luca Barberini e la perquisizione della governatrice Catiuscia Marini, dovrebbe ricordare quel che accadde a Milano 24 anni fa. Era il gennaio 1995 quando una giornalista del Corriere, Elisabetta Rosaspina, chiamò una sua fonte in Regione Lombardia per avere notizie sulle nomine alle Asl. La fonte rispose di non poter parlare, perché impegnata nella riunione decisiva sui nuovi direttori generali e sanitari delle aziende ospedaliere. Ma, pensando di metter giù la cornetta, premette per sbaglio il pulsante “vivavoce”. Così la cronista ascoltò in diretta il mercato delle vacche trasversale, senza riuscire a distinguere le voci dei “progressisti” del Ppi e del Pds e da quelle dei leghisti (alleati nella strana giunta del bossiano Arrigoni). “Noi vi lasciamo Magenta e ci portiamo a casa Vimercate”. “Molla Cernusco e facciamo un discorso su Garbagnate”. “A Lecco mandate chi volete, ma non un pidiessino, sennò Cristofori ci resta di merda”. “Se non mi date il Gaetano Pini, mi dimetto e fate la giunta con il Pds”. “Se Piazza va a Lecco e Berger al posto di Grotti, mettiamo Arduini a Milano 2, ma Riboldi resta fuori”. “A Cernusco sono d’accordo di mettere un Pds e Grotti su Milano 6”. “Posso chiedere ai pidiessini di spostarsi da Cernusco a Garbagnate”. Alla fine due voci tirarono le somme:

“Dunque, a Milano, su 17 Usl e 8 ospedali, il Ppi ha 5 Usl e 2 ospedali, mi pare ragionevole”. “Voi chiudete con 2 ospedali, San Carlo e Fatebene, e 3 Usl, noi con 3 ospedali e 5 Usl, la Lega con un ospedale e 6 Usl, il Pds 2 più 2”.

La cronaca politica diventò presto cronaca giudiziaria: quasi tutta la giunta finì rinviata a giudizio. Ma il 1° luglio 1997, prima delle sentenze, il Parlamento a maggioranza centrosinistra ma anche coi voti del centrodestra, provvide a salvare tutti depenalizzando l’abuso d’ufficio non patrimoniale. Al giudice non restò che prosciogliere tutti gli imputati perché il reato non c’era più: se il pubblico ufficiale commette un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio, ma non si riesce a dimostrare che ne abbia avuto un vantaggio quantificabile in denaro, non rischia più nulla. Legalizzati i favoritismi, le lottizzazioni, i nepotismi, i concorsi truccati. È la tipica reazione della politica agli scandali. Anziché rimuovere gli indagati, riformare le norme e le prassi che li inducono in tentazione, rendere più difficile commettere illeciti e più facile scoprirli, si aboliscono i reati e tutto continua come prima.

Fra i miracolati dalla controriforma del ’97 c’era l’ex assessora lombarda alla Sanità, Patrizia Toia, 47 anni, ex Dc passata al Ppi. Che, anziché accendere un cero alla Madonna e ritirarsi a vita privata, fece carriera: parlamentare dell’Ulivo, sottosegretaria nel governo Prodi-1, ministra nei governi D’Alema e Amato, eurodeputata dell’Ulivo e poi del Pd per altre tre legislature dal 2004 a oggi, è stata appena ricandidata da Zingaretti alle Europee per la quarta volta, a 69 anni. Ieri abbiamo pensato a lei, a quelli come lei e a chi li ha sempre protetti e promossi, leggendo le desolanti intercettazioni di Perugia, dove i vertici del Pd pilotavano (“un sistema illecito che andava avanti da sempre”) non solo le nomine dei vertici delle Asl, ma anche i concorsi per primari, medici, ausiliari, infermieri, barellieri e persino i posti riservati ai disabili, ciascuno col suo raccomandatore politico, o massonico, o curiale: “Non riesco a togliermi le sollecitazioni dei massimi vertici di questa Regione a tutti i livelli. Ecclesiastici… ecumenici, politici, tecnici. Se no a ’st’ora c’avevo messo le mani sulla gastro… altro che disposizioni di servizio dell’altra volta… Tra la massoneria, la curia e la giunta, non me danno tregua. È la Calabria unita”. Poi abbiamo letto le solite giaculatorie dei pidini: “Fiducia nella magistratura”, “certezza dell’estraneità”, “fare chiarezza”. E anche i soliti commenti finto-indignati dei leghisti che, nelle regioni dove governano, sono finiti spesso e volentieri in scandali analoghi e ora invocano il voto in Umbria per prendere il posto degli avversari e fare più o meno le stesse cose.

Non risultano infatti, 25 anni dopo lo scandalo lombardo (il primo di una lunga serie, finita per ora con l’arresto di Formigoni), proposte di riforma del Pd, di FI o della Lega per liberare la Sanità pubblica dal giogo dei partiti: i quali, per legge, decidono chi deve dirigere le aziende sanitarie e poi, siccome l’appetito vien mangiando, si spartiscono pure primari, medici, infermieri e centralinisti. Eppure la gran parte degli scandali che in questi 25 anni hanno decapitato le giunte regionali riguardavano proprio la Sanità, una delle poche voci di spesa pubblica che ha mantenuto intatto il suo budget (110 miliardi e rotti l’anno): Formigoni in Lombardia, Cuffaro in Sicilia, Del Turco in Abruzzo, Fitto in Puglia, Pittella in Basilicata. Nel 2008 la guerra per bande in Campania fra mastelliani e bassoliniani (“trovatemi un ginecologo dell’Udeur!”) coinvolse la famiglia e il partito di Mastella e portò alla caduta anticipata del governo Prodi-2. Tutti sanno che le Regioni, col monopolio della Sanità, sono il primo focolaio di corruzione d’Italia. Ma ai partiti va benissimo così, perché la Sanità col suo indotto è una grande mammella di fondi pubblici da succhiare per le campagne elettorali, nonché di assunzioni e favori per comprare voti. Quindi, per favore, lorsignori ci risparmino almeno i finti stupori. D’ora in poi solo chi presenterà e voterà una riforma che smantella le Regioni, costruisce un federalismo comunale e riporta la Sanità in mano allo Stato avrà diritto di parola. E di indignazione.

Basta con la nostalgia e il buonismo, ci vuole coraggio e occhio sul Paese

Quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte giovedì è salito sul palco per parlare dell’industria cinematografica e televisiva nel convegno organizzato da Francesco Rutelli con la Confindustria, ho temuto il solito discorso di prammatica. Invece ha stupito centinaia di partecipanti dicendo cose non banali, a partire da una citazione di Akira Kurosawa, l’indimenticabile autore di film straordinari, che ha definito il cinema un grande crocevia dove convergono talento, industria, denaro, competitività. Al termine del discorso di Conte, ho avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere e mi ha sorpreso sentirlo affrontare con sapienza temi che di solito i politici non conoscono, specie quando si parla di cultura. Il pensiero va ad Andreotti quando se la prese con il neorealismo sostenendo che i panni sporchi si lavano in famiglia e non in pubblico. Ho avuto la sensazione che alcuni oratori succeduti poi a Conte siano rimasti fermi alla nostalgia. Per esempio Fedele Confalonieri, che ha definito “predatori” i nuovi player, da Netflix ad Amazon, solo perché fanno concorrenza a una televisione incapace di trasformarsi e destinata a soccombere. Non è un caso se quest’anno l’Oscar sia andato a un film prodotto da Netflix, vedi appunto Roma. Non è lamentandoci del futuro che cinema e tv potranno competere. Risibile è la pretesa di chi critica le produzioni che raccontano il male, da Romanzo Criminale a Gomorra. Sono invece tra i pochi nostri titoli di successo internazionale. È come se si condannasse Martin Scorsese perché fa film con protagonisti gangster e mafiosi. Rutelli, che da presidente dell’Anica ha risvegliato un’associazione dormiente, si è dimostrato abile timoniere sterzando verso una serie di oratori i quali hanno rivelato dati interessanti. L’economista Andrea Montanino ha sottolineato la debolezza dell’industria audiovisiva italiana, che rischia di diventare “un boccone molto appetibile” qualora non riesca ad attrezzarsi di fronte al nuovo che avanza. Nel giro di un decennio il digitale trasformerà così tanto cinema e tv da non riconoscerli più. Siamo pronti? Temo di no, se è vero che l’età media dei nostri produttori è più prossima ai 60 che ai 30, mentre in America è il contrario. Per parlare ai giovani, che hanno ormai abbandonato in massa la tv e in gran parte anche il nostro cinema, occorre parlare il loro linguaggio, altrimenti dialogheremo solo con i cinemorenti e i telemorenti come li chiama qualcuno. Se davvero vogliamo competere non dico con l’America, che è parecchi anni avanti, ma almeno con l’Europa, dobbiamo imbracciare l’arma del coraggio, abbandonare il buonismo e raccontare il Paese per quello che è, con le periferie che scoppiano, la gente che non arriva a fine mese, la vecchia politica che arranca. Dare la parola ai giovani, questa dovrebbe essere la nostra missione. Li vediamo mai apparire in tv, quelli veri non quelli camuffati? Li vediamo mai protagonisti al cinema? Vedete mai parlare della scuola e dell’università senza sproloquiare? Invece di esaltare improbabili preti, suore, poliziotti e carabinieri, dovremmo realizzare film come quello su Stefano Cucchi. Perché la Rai non ha sentito il dovere di produrlo e lo ha finanziato invece Netflix? Sarebbe questo il servizio pubblico? Non sarà un caso se la nostra produzione, dice il rapporto Anica, occupa gli ultimi posti delle statistiche. La Francia è all’ottavo posto, noi al 22°. Per fortuna sono emersi alcuni dati incoraggianti. L’occupazione femminile è salita di 3 punti percentuali rispetto alla media nazionale di altri settori. Forse il fatto di essere scesi molto in basso fa ben sperare. Significa che rimboccandosi le maniche si può solo salire, mentre chi è troppo in alto rischia invece di scendere.

“Rebecca” e “Gli uccelli”, quei romanzetti per sartine

C’è stato un tempo in cui le opere di Daphne du Maurier erano sanzionate dalla critica con giudizi impietosi. Confinata nel recinto infetto della narrativa romantica, i suoi romanzi non erano che “destinati alle sartine assetate di sentimentalismo”. Oggi, nel trentesimo anniversario della sua scomparsa (moriva il 19 aprile 1989), la du Maurier, dopo una stagione di riscoperta, è autrice di culto e la sua bibliografia riposa sugli scaffali della letteratura tout court. È una parabola comune a tanti altri autori di genere. Da noi una decina di romanzi della scrittrice inglese è ora nel catalogo de Il Saggiatore.

Nata a Londra nel 1907, figlia di due attori teatrali, la du Maurier ha legato vita reale e finzione alla Cornovaglia, scenario ricorrente dei suoi romanzi: le scogliere, il mare forte, le costruzioni in pietra, i piccoli porti, le taverne antiche. Nella penisola britannica molti tour turistici sono organizzati proprio come itinerari tematici a lei dedicati. Tappa obbligata a Fowey, in una casa elisabettiana, Menabilly, che è stata l’ispirazione per “Manderley”, magione dei coniugi de Winter nel fortunato Rebecca, la prima moglie. Pubblicato nel 1938, il romanzo fu subito un successo clamoroso, orchestrato mirabilmente con tutti gli elementi del gotico: suspense, evocazioni paranormali, delitti, ambiguità sessuali e soprattutto la casa, personaggio vero e proprio al pari degli individui. I lettori furono conquistati dal mistero legato appunto a Rebecca, apparentemente irreprensibile prima moglie deceduta dell’aristocratico Maxim de Winter che sposa in seconde nozze una giovane dama di compagnia, la quale è costretta a convivere con lo spettro di Rebecca. Il finale rivelerà una verità sconvolgente sia su Rebecca e sia su Maxim, non esattamente il ritratto di una coppia felice e integra. Due anni dopo, nella primavera del 1940, in pieno conflitto mondiale, irrompe sugli schermi la versione cinematografica firmata da Alfred Hitchcock. Il maestro del brivido aveva già diretto in precedenza un film sempre tratto da un romanzo della du Maurier, La taverna della Giamaica, ma nulla di paragonabile al trionfo di Rebecca, che vince l’Oscar come miglior film. La coppia di attori protagonisti, Laurence Olivier e Joan Fontaine, interpretano una storia angosciante e claustrofobica che resta nella storia del cinema. In effetti è il grande schermo a proiettare nell’immaginario collettivo molte delle storie scritte dalla du Maurier. La sua reputazione di autrice non è in discussione, ma certo il cinema ha contribuito a mantenere vivo il suo nome anche quando la carriera letteraria ha subito insuccessi e periodi di oblio. Sempre Hitchcock rende immortale un’altra sua fatica: un racconto di una quarantina di pagine che la du Maurier pubblica in una raccolta del 1952. Il regista è ispirato da Gli uccelli che appunto traduce in un film nel 1963, la cui trama si discosta dall’originale ma che conserva tutto l’orrore della natura in rivolta contro l’uomo. Sebbene la du Maurier debba a Hitchcock la sua fama mondiale e il regista a sua volta debba alla scrittrice due capolavori della sua filmografia è bene ricordare che il rapporto tra i due non fu mai idilliaco. Lei lamentò sempre che “quell’ometto calvo e dalle labbra tumide, per niente cordiale” non l’avesse mai omaggiata pubblicamente.

Goffredo Fofi scrisse qualche anno fa che l’abilità della scrittrice inglese “è rendere il fantastico quotidiano e plausibile, dunque più inquietante”. Vero. E ad accrescere l’angoscia sono i suoi finali irrisolti e aperti. Le sue storie non si esauriscono, quasi a voler suggerire che il mistero e dunque la verità delle relazioni umane può essere solo sfiorata. Singolare nemesi per un’autrice reputata a suo tempo sdolcinata e che invece oggi leggiamo come specchio delle nostre paure più profonde.

Blob, 30 anni. Oggi la lava ha digerito la televisione

Butta là il sibillino enrico ghezzi (iniziali minuscole d’ordinanza, ndr) alla conferenza stampa per i trent’anni di Blob: “Il tempo è finito: la scomparsa del tempo permette allo spazio di manifestarsi”. Boh. Il cortocircuito spazio-temporale non è chiarissimo, ma Wikipedia viene in aiuto, pubblicando giorni prima delle celebrazioni ufficiali il seguente testo: “Per il trentennale di Blob, nel 2019, la Rai ha trasmesso, domenica 14 aprile, una puntata speciale”. Capita anche questo, parlando di Blob: che il futuro diventi passato, che a Bin Laden sorridano i monti, come a Heidi, e che la colite delle sciure del mercato rimandi al salutismo di Hitler in quota.

Tutto si tiene, alto e basso, sonno e veglia, tragedia e commedia, e tutto scorre in Blob, una metamorfosi – ovidiana o kafkiana che sia –, un gioco, un cortocircuito permanente, cristallizzatosi in paradigma televisivo, ma ormai anche in “modo di dire e di essere”.

Andato in onda per la prima volta il 17 aprile del 1989 – stesso anno in cui cadevano muri e nascevano altri sovversivi come i Simpson –, Blob festeggia i suoi primi 30 anni di vita e le sue oltre 9.268 puntate. La Rai sta per dedicargli cinque appuntamenti speciali: la seconda serata di domani – come anticipato da Wikipedia – sarà interamente spesa per il programma; mercoledì, giorno dell’anniversario, dieci clip invaderanno il palinsesto di Rai 3; giovedì ci sarà un focus sulle video-strisce politiche; Fuori Orario renderà un omaggio in sei serate e in estate è prevista, infine, una lunga maratona di incursioni.

Com’è noto, il nome della trasmissione è mutuato da un film horror fantascientifico del 1958 – The Blob (Fluido mortale) –, mentre l’idea è di Angelo Guglielmi, allora direttore di Rai 3, e di ghezzi, Marco Giusti et al.: proprio ieri su Dagospia è andata in scena una piccola polemica sulla paternità, del nome almeno, attribuita a Giusti, “cancellato vergognosamente non solo dai titoli ma anche dalla celebrazione del trentennale”. Va detto, però, che il critico è stato più volte menzionato e ringraziato in conferenza stampa, nonostante lui e ghezzi non si parlino da anni.

Sul parto del programma, poi, Guglielmi ha raccontato un altro aneddoto ancora: “Mio figlio leggeva sul manifesto il Mattinale, una miscellanea di titoli ed editoriali di altri quotidiani. Perché non fai questa rubrica in tv?, mi disse, e così lanciai la sfida a ghezzi, che entro 30 giorni mi presentò il progetto, invero molto diverso dallo spunto originario. Così la televisione ha prodotto il suo mito: si chiama Blob, ed è un dio – come tutti gli dèi – punitivo, che sfida l’uomo con le sue cattiverie. Blob non ci lascia mai in pace: ci sfotte, ci prende per il sedere, ma ha la furbizia e la malizia di farci sorridere, come una barzelletta intelligente. È divertente e severissimo: è la tv che oltraggia la tv”.

Metatelevisione, surrealismo, dadaismo, situazionismo, patafisica, pirateria visionaria… le etichette si sprecano e, comunque, scivolano addosso allo sgusciante e proteiforme programma, afono, ibrido e fatto della stessa sostanza dei sogni, in un montaggio vertiginoso e mostruoso che mixa il crollo delle Torri gemelle e gli stacchetti trash, la cucina e l’aborto, Piazza Tienanmen e Benigni, il dramma e la farsa, il pop e la catastrofe…

“Ah, se si potesse diventare un pellerossa…”, ghezzi legge Kafka, e più che spiegare cos’è o cosa non è Blob, spariglia ulteriormente le carte: “È un’immagine: dura pochissimo, ma mostra un mondo. Il codice è lo spazio, non il tempo. Capire l’immagine è capire che non c’è nulla da capire. Blob ha il pregio di essere un antidoto a se stessi, un gioco”, mentre altre volte aveva definito la “sua” creatura “un sasso nelle mutande della Rai; un catastrionfo; un territorio senza qualità”.

Per il direttore di Rai3 Stefano Coletta “Blob è una creatura psicotica, va oltre l’onirico e ha un meccanismo produttivo anarchico (la squadra attuale è di 18 autori, compreso ghezzi, un produttore esecutivo, un responsabile di progetto e due montatori, ndr). Dall’approccio cinefilo degli inizi si è contaminato in questi anni con la rete: Blob è una icona, un pezzo di storia della televisione italiana, una perla da difendere contro tutto e tutti perché, per un direttore, sono anche beghe”. Il caso più eclatante risale al 2002, pochi mesi dopo il tristemente famoso “Editto bulgaro”: allora si gridò alla censura (di Saccà, ai tempi dg Rai) per un Blob monografico su Berlusconi. Negli anni, poi, in tanti protestarono, litigarono o negarono i diritti di immagine, da Adriano Celentano a Nanni Moretti a papa Wojtyla. Il dio capriccioso è sempre andato di traverso. Anche ai pontefici.

Jovanotti suona sui monti. Come è caduto in alto!

È abbastanza comico che il cantore del politicamente ecumenico Jovanotti, tre metri sopra Moccia e una spanna sopra Walter Vetroni, sia riuscito a scontentare qualcuno, addirittura a far imbufalire Reinhold Messner, fisicamente, simbolicamente e foneticamente il suo opposto. Eppure, con la trovata di apparecchiare il Beach Party a 2.275 metri di altitudine, il rapper dei Baci Perugina ha pestato una cacca, seppure di cacca di vacca alpestre. È vero, non è il primo concerto che si tiene sul Plan de Corones, colonizzato dal turismo e devastato dal cemento, ed è vero che, ha assicurato Jova, il concerto sarà “nuovo ma anche antichissimo” (Walter approva), “goduria collettiva, ma anche economia circolare e comportamenti eco-sostenibili” (Walter in deliquio). Insomma, lui dà il buon esempio, e allora daje, basta avere un palco biodegradabile, istituire la differenziata e il Corones diventerà meglio del Meazza. Messner però non ne fa una questione tecnica, bensì concettuale. Ci sono cose che non si riciclano e diventano precedenti, come invadere le giogaie di “watt e piedi che ballano sulla terra nuda”. Se il Plan de Corones è già contaminato non è un buon motivo per tirare lo sciacquone. L’alta montagna è il simbolo – e il luogo fisico – della solitudine, del silenzio, del raccoglimento, via di scampo dalla massificazione forzata che ci insegue ovunque. Forse leggendo Rigoni Stern, Primo Levi e Buzzati, Jovanotti si potrebbe ricredere: mio Dio, come sono caduto in alto!

Rifondare la Rai per rafforzare la coesione sociale

“La formazione di una coscienza civile, da sempre riconosciuta nella tradizione della televisione pubblica, può essere garantita soltanto dalla Rai”
(da “Ricostruiamo la politica” di Francesco Occhetta Edizioni San Paolo, 2019 – pag. 104)

Mentre i dioscuri della maggioranza giallo-verde imperversano sulle reti della Rai sovranista sotto la presidenza di Marcello Foa, tanto da provocare i richiami dell’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni e le critiche dell’opposizione nella Commissione parlamentare di Vigilanza, arriva in libreria un saggio che collega la riforma del servizio pubblico alla coesione sociale, intitolato Ricostruiamo la politica (Edizioni San Paolo). L’ha scritto Francesco Occhetta, padre gesuita e notista politico di Civiltà Cattolica, offrendo un’ampia riflessione sulla travagliata stagione che l’Italia sta vivendo, fra l’incognita dei populismi e un’alternativa possibile.

Non è certamente un caso che il tema si trovi al centro del libro, come a sostenere che la Rai rappresenta, o meglio dovrebbe rappresentare, il perno dell’identità nazionale e della convivenza civile. Quasi una camera di compensazione, insomma, per superare i contrasti e le divisioni e per tenere il Paese più unito. È proprio questa la funzione istituzionale che il servizio pubblico radiotelevisivo ha esercitato fin dalla sua fondazione, omologando la lingua, la cultura e il costume degli italiani.

Non si può dire, purtroppo, che sia così ancora oggi. La Rai sovranista divide anziché unire. Esalta ed esaspera le contrapposizioni invece di contribuire a ricomporle in una visione di società meno conflittuale e più omogenea. Certo, le colpe sono innanzitutto di una politica che da una parte e dall’altra si alimenta di propaganda, alza sempre più i toni, istiga i conflitti sociali e generazionali, rischiando di fomentare la rabbia e l’odio. Ma nel contesto attuale il ruolo della televisione pubblica assomiglia più a quello del piromane che a quello del pompiere.

Ha ragione allora padre Occhetta a dire che occorre far passare l’informazione – essenza stessa del servizio pubblico – dalla trasmissione unilaterale “modello broadcasting” alla condivisione fondata su logiche di sharing. E perciò l’autore del saggio invoca una “Rai educante” piuttosto che una “Rai insegnante”, capace di “tirare fuori” risorse, innovazioni e valori dai cittadini e dalla società. È proprio in una prospettiva del genere che si può rifondare quella che è pur sempre la più grande azienda culturale del Paese, trasformandola in uno “schermo potenziato”, “luogo ed ecosistema”, “un ambiente che accolga esperienze di giornalismo virtuoso” per costruire democrazia e coesione. Una “grande agorà” virtuale, dunque, affrancata magari dalla subalternità alla politica, come strumento mediatico di aggregazione sociale e di crescita civile.

Merita di essere citato testualmente il decalogo che padre Occhetta consegna ai professionisti dell’informazione e può valere non solo per quelli radiotelevisivi: “Educare il proprio giornalismo a correggersi, rettificarsi e scusarsi; affinarlo nei contenuti e nei modi; vietare le forme di pubblicità occulta; liberare il giornalismo dall’essere megafono servile della politica; favorire il fatto che si parli di più e meglio di Europa; essere trasparenti nelle assunzioni, nelle nomine e nelle retribuzioni; premiare il merito; motivare i delusi; investire in cultura e non sprecare le risorse”. E insomma, per riassumere con le parole di Paolo Ruffini, primo laico nella storia della Chiesa a diventare responsabile per le comunicazioni del Vaticano, “raccontare la realtà e parlare chiaro come dovere etico”.

Il Daspo urbano nella Firenze del Pd “leghista”

Firenze al tempo della Lega: in tutti i sensi. Il prefetto Laura Lega ha deciso di applicare i “daspo urbani” creati da Marco Minniti e ampliati da Matteo Salvini: a Firenze vengono individuate 17 “zone rosse” dalle quali le forze dell’ordine potranno allontanare coloro che siano stati denunciati per alcuni reati (spaccio, reati contro la persona, danneggiamento e commercio abusivo). Le zone rosse comprendono anche “musei e altre aree di interesse turistico”. È una misura già applicata in moltissime città italiane, ed è una misura clamorosamente incostituzionale. Perché limita la libertà personale senza passare dalla decisione di un giudice: è un ritorno ai confini o agli esili decisi dal potere esecutivo. Una misura che ereditiamo direttamente dal fascismo.

E per un’altra evidente ragione: per essere allontanati non serve una condanna, basta una denuncia. Qualche associazione coraggiosamente impegnata per le libertà costituzionali, o la candidata della sinistra Antonella Bundu, potrebbero simbolicamente denunciare il prefetto Lega o il sindaco Nardella per qualcuno di quei reati (spaccio di… retorica securitaria?), ottenendo il paradossale e clamoroso risultato di farli allontanare dalle zone rosse. Già, il sindaco Nardella. Coerentemente con la sua politica di sgombri di case occupate (in una città che non ha dimenticato il sindaco Giorgio La Pira, che al contrario sequestrava le case sfitte per darle a chi non ne aveva) e di sostegno esplicito alla linea Minniti, Nardella ha applaudito all’ordinanza “leghista”. A Firenze come è noto si vota a maggio per il sindaco, e il plauso di Nardella si è immediatamente confuso con quello del candidato del centrodestra, il “cattolicone” Ubaldo Bocci, già presidente di Unitalsi. Questo totale accordo tra centrosinistra e destra su un tema cruciale come la privazione incostituzionale della libertà personale in nome della sicurezza (che significa sostanzialmente l’espulsione della sofferenza sociale dalla città vetrina) è il dato politico fondamentale che ha costruito e legittimato l’egemonia culturale di destra. Non si riesce a spiegare al Pd che facendo politiche di destra, spiana la strada alla vittoria della Lega. Per rimanere in Toscana: a Pisa è stata la giunta del Pd a fare analoghi “daspo urbani”; e subito dopo la Lega ha vinto le elezioni.

A Firenze, però, questo non succederà. Per la banale ragione che Salvini ha deciso di non prendersela, forse in attesa di prendersi la Regione Toscana l’anno prossimo. In riva d’Arno si continua ancora con la formula del vecchio centrodestra pattizio: vige ancora un patto del Nazareno, l’antica pratica consociativa per cui il potere appartiene ad un’unica oligarchia che solo nominalmente si divide in schieramenti elettorali. Tanto per dire, il debole candidato Bocci ha aperto la sua campagna “contro” Nardella ricordando il proprio “sì” al referendum renziano!

Tutti ricordano che quando l’“avversario” di Renzi era il buon portiere della Fiorentina Giovanni Galli, la moglie di Denis Verdini organizzava le cene elettorali… per Renzi. Già, perché il garante dell’unico blocco di potere fiorentino è sempre stato lo zio Denis, ed è evidente che il neosuocero di Matteo Salvini è riuscito ancora una volta a imporre la sua fruttifera pax florentina, benedicendo di fatto un Nardella bis che avverte del tutto omogeneo ai suoi interessi. Sui grandi affari fiorentini – come il nuovo aeroporto scempia-ambiente, la cui società è presieduta da Marco Carrai – Nardella e Bocci sono perfettamente d’accordo: la città della rendita è l’altra faccia della città della repressione contro i poveri cristi, che non vogliamo più nemmeno vedere nella zona rossa dello storytelling del Rinascimento. E forse la prossima ordinanza sarà per censurare gli affreschi di Masaccio alla Cappella Brancacci, dove i mendicanti e i marginali hanno una dignità che a Palazzo Vecchio non si riconosce da troppo tempo.

La reazione a catena del caso Assange

L’arresto di Julian Assange, giovedì mattina nell’ambasciata dell’Ecuador dove era rifugiato da sette anni, è una notizia più che inquietante, se l’arresto sarà seguito da un’estradizione negli Stati Uniti. Sono in gioco diritti fondamentali dei giornalisti, concernenti il rapporto con le fonti delle loro indagini e in modo speciale con i whistleblower (informatori segreti).

Per quanto riguarda l’Unione europea, è messo in questione il progetto di direttiva concernente la protezione dei whistleblower e del loro anonimato, il cui scopo è – tra l’altro – quello di evitare la criminalizzazione dei giornalisti che si rifiutano di rivelare le proprie fonti. Il testo finale della direttiva – oggetto di un lungo negoziato tra Commissione, Parlamento e Consiglio – sarà votato nella plenaria di Strasburgo la settimana prossima. È sperabile che sarà salvato un punto cruciale difeso dal Parlamento: la possibilità, per l’informatore, di procedere alle sue rivelazioni facendo ricorso non solo a canali interni ma anche esterni.

È grazie alla piattaforma WikiLeaks e a Julian Assange che l’opinione pubblica mondiale è venuta a conoscenza dei crimini di guerra commessi dalle forze armate Usa in Afghanistan e Iraq, oltre che delle torture inflitte ai detenuti di Abu Ghraib e Guantanamo. La verità sui crimini in Iraq e Afghanistan fu rivelata grazie a centinaia di migliaia di registrazioni fornite ad Assange da Chelsea Manning, ex analista militare dell’esercito statunitense divenuta whistleblower. Chelsea Manning fu arrestata nel 2010, e nella prigione subì torture. Fu liberata nel 2017 perché Obama giudicò sproporzionata la pena che le era stata inflitta (35 anni di carcere duro). Nel marzo scorso è stata di nuovo incarcerata, perché si era rifiutata di testimoniare contro WikiLeaks e Assange, giudicando inaccettabile un “grand jury” le cui procedure prevedono udienze non pubbliche.

Basta percorrere i principali capi di accusa formulati dalla Corte distrettuale statunitense, e pendenti su Assange, per capire che la libertà di stampa e la sua indipendenza dal potere politico sono gravemente minacciate (https://www.justice.gov/usao-edva/press-release/file/1153481/download). Secondo il giudizio di numerosi giuristi, interpellati in particolare dal sito Intercept, le seguenti accuse sono globalmente invalide:

1) L’accusa di “cospirazione contro lo Stato, legata al fatto che Assange incoraggiò Manning a fornire informazioni e registrazioni provenienti da dipartimenti e agenzie degli Stati Uniti”. L’accusa non regge, secondo i giuristi in questione, perché la funzione del giornalista consiste precisamente nell’incoraggiare le fonti a fornire informazioni di pubblico interesse sulle attività del proprio governo.

2) “È parte della cospirazione il fatto che Assange e Manning adottarono misure atte a occultare la figura di Manning come fonte della divulgazione a WikiLeaks di registrazioni riservate”. Proteggere l’anonimità delle fonti è un caposaldo del giornalismo investigativo, online o cartaceo che sia (fra qualche giorno tale protezione sarà obbligatoria, una volta recepita la direttiva Ue). Se l’anonimità non fosse garantita nessuna fonte segreta uscirebbe allo scoperto, i whistleblower sarebbero in pericolo e la stampa non sarebbe il “cane da guardia” che deve essere in democrazia.

3) “È parte della cospirazione che Assange e Manning fecero ricorso al servizio online Jabber – e a Dropbox – collaborando nell’acquisizione e disseminazione di registrazioni riservate”. Jabber e Dropbox sono strumenti indispensabili nelle comunicazioni fra giornalisti e whistleblower.

Una considerazione a parte va fatta sulle vicende giudiziarie in Svezia, che vedono Assange accusato di stupro. Anche la Svezia infatti chiede l’estradizione: l’accusa è stata nel frattempo archiviata, ma gli avvocati della presunta vittima hanno chiesto la riapertura del processo. L’estradizione in Svezia può avere la sua ragion d’essere, ma a una condizione: che sia del tutto separata dalle questioni poste dalla giustizia americana e legate alle attività investigative di WikiLeaks. La posizione del Partito laburista su questo punto è corretta: nulla da dire su eventuali processi in Svezia, come peraltro già accettato a suo tempo da Assange, ma a condizione che non implichino l’estradizione negli Stati Uniti per imputazioni non inerenti a qualsiasi altro caso giudiziario.

 

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Definire Salvini “un influencer” significa sottovalutarlo

Giovedì sera il salone di rappresentanza della Provincia di Frosinone era gremito di gente accorsa ad assistere allo show di Matteo Renzi. Al di là della condivisione o meno delle sue idee, Renzi è un protagonista del dibattito pubblico nazionale per quello che dice, senza se e senza ma, e per lo stile con cui lo dice. Proprio per questo, una cosa mi ha colpito molto ieri sera: la fragilità con cui ha giudicato il personaggio Salvini: “Un influencer che non ce l’ha fatta, o meglio una Chiara Ferragni che non ce la fa”. In realtà, Salvini più che influenzare, oggi consente. Consente, cioè, lo sdoganamento nel dibattito pubblico di pensieri, parole e azioni chiaramente incompatibili con la democrazia repubblicana. Retrocedere Salvini a influencer come fa Renzi significa sottovalutarlo gravemente. Salvini, infatti, è il vero leader di un fenomeno politico finalmente nazionale che tiene insieme i caratteri storici della lega, cultura del fare di tipo aziendalista e autonomia territoriale per i più forti, con atteggiamenti fascistoidi, cioè che vogliono somigliare al fascismo, come un androide con l’uomo, e con tensioni profondamente irrazionali. È un fenomeno a cui bisogna prestare molta attenzione, anche perché la coscienza politica non si forma solo attorno ai temi dell’economia e dello spread: spesso, in realtà, è aiutata a formarsi molto di più dal sentimento che da tutto il resto. E il fenomeno di cui parlo di sentimento ne ha tanto da spandere a destra e a sinistra, facilitato dall’assenza assoluta di altri sentimenti che non siano quelli del “far bene i conti dello stato”. È per questo che Salvini cresce tanto nei sondaggi. Ma questa oggi è una preoccupazione più di Zingaretti che di Renzi.

Francesco Garofani

 

La Guerritore si rende conto dei disastri della Fornero?

Monica Guerritore ha fatto, l’altra sera a 8 e mezzo, un intervento decisamente irritante sulla legge Fornero e quota 100, che solo chi non ha mai lavorato tutti i giorni, con ferie limitate, permessi inesistenti e lavori logoranti può non conoscere. Forse non ci si rende conto che la revisione della legge Fornero avrebbe dovuto essere un baluardo della sinistra, mentre a quanto pare i politici di sinistra sono capaci di difendere solo i loro privilegi, vitalizi compresi, senza provare vergogna alcuna. Quanto al fatto che una volta in pensione si possa fare qualche altro lavoretto per arrotondare le misere pensioni percepite dopo 40 anni di contributi, non vedo proprio dove sia il problema. Non è quello che fanno i politici?

Albarosa Raimondi

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione all’articolo pubblicato da Il Fatto Quotidiano il giorno 11 aprile a firma di Fabrizio d’Esposito dal titolo “Chi si rivede: Alfano da B. ad Arcore per le liste di FI”, smentisco categoricamente ogni riferimento relativo a ipotesi di mio personale coinvolgimento in ambito politico.

Non ho alcuna intenzione di candidarmi, né di suggerire candidature ad alcun leader politico o di partito. Sono uscito definitivamente dal campo della politica militante lo scorso anno e in questi mesi ho mantenuto un rigoroso riserbo per concentrarmi esclusivamente sull’attività di avvocato. Silenzio che purtroppo sono costretto a interrompere per smentire pettegolezzi privi di fondamento riportati dal vostro giornale senza una accurata verifica con la parte interessata.

Angelino Alfano

 

Tuttavia lei non smentisce, gentile avvocato Alfano, di essere stato ad Arcore da Silvio Berlusconi con vari imprenditori, in linea con il suo nuovo lavoro di consulente di uno studio legale. Evidentemente lei e l’ex Cavaliere nei vostri incontri siete riusciti a tenere ben distinte la sfera degli affari e quella della politica, come del resto è tradizione cristallina da 25 anni a questa parte di Berlusconi e del berlusconismo.

Fd’e

 

In riferimento all’articolo pubblicato su il Fatto Quotidiano del 6 aprile 2019 dal titolo “Telco, la lenta crisi tra esuberi e ristrutturazioni” Ericsson precisa che le informazioni contenute nel testo non sono attuali e che non è in corso alcuna procedura di esubero.

A livello mondiale, il piano di riduzione dei costi da 10 miliardi di corone svedesi, avviato da Ericsson nel secondo trimestre 2017, si è concluso a metà 2018. A livello nazionale segnaliamo che nel mese di marzo 2019 non c’è stata alcuna tensione nella sede di Genova e che non c’è alcuna procedura di esubero in corso né tantomeno le 67 lettere di licenziamento riportate nell’articolo. L’ultimo piano di esuberi di Ericsson risale al 2018 e si è concluso con uscite volontarie ed incentivate.

Ufficio stampa Ericsson Italia

 

Prendo atto della precisazione e me ne scuso con la società e con i lavoratori. I quali, tuttavia, continuano a non sentirsi rasserenati dal progetto avviato poco più di un anno fa. In particolare, come riferiscono i sindacati in una nota congiunta, a destare preoccupazioni è la cessione del ramo d’azienda (Network Build & Field Services) costituito da poche settimane in seno a Ericsson Telecomunicazioni spa che sarà da questa ceduto a Ericsson Services Italia.

PDR

Baciare i piedi. Un gesto francescano che inchioda i potenti cristiani sudsudanesi

Ho visto Papa Bergoglio inchinarsi e baciare i piedi al leader dei sudsudanesi. Un gesto mirato a chiedere la pace di quella nazione devastata dalla guerra, che tuttavia ha generato non poche polemiche, specialmente sui social. Secondo voi, il papa ha fatto bene? Oppure un leader della religione cristiana non dovrebbe lasciarsi andare a dimostrazioni di sottomissione, in particolare rispetto a personalità politiche?

Giuseppe D’Amico

 

Salva Kiir e gli altri leader sudsudanesi, ospitati dal Papa nella residenza vaticana di Santa Marta per i riti spirituali in questo periodo pasquale, sono cristiani. Per ciò (e per oneri e onori prodotti dal petrolio) le province meridionali del Sud si sono distaccate – con una guerra civile iniziata in epoca coloniale e conclusasi nel 2005 – dal resto del Paese a maggioranza musulmana. Mentre a Khartoum i militari deponevano il trentennale presidente al Bashir, il papa imponeva il suo fuoriprogramma per inchiodare Kiir e i vicepresidenti del più giovane Stato (e la cui popolazione, ma non la sua classe governante, è tra le più povere) del mondo agli impegni assunti per riappacificarsi una volta per tutte. Perché Kiir e Riek Machar da ex guerriglieri del movimento di liberazione popolare, una volta ottenuta l’indipendenza, hanno litigato furibondamente per la supremazia della nazione nuova di zecca, mandando in malora i principi cristiani che tanto hanno favorito l’indipendenza da Khartoum (e tuttora fanno del Sud Sudan obiettivo di molteplici progetti umanitari da parte di associazioni e ong cristiane). Perciò il Papa si prostra ai loro piedi mentre i sudanesi si piegano imbarazzati: sanno di non poter più scampare al giudizio dei loro cittadini e degli estimatori del pontefice. In Italia dalle chat elettroniche delle madri di scolari più o meno credenti su su (o giù giù) fino ai luoghi deputati al dibattito virtuale continuo s’è discusso se Francesco abbia messo a repentaglio scadendo nel ridicolo con il suo gesto (scomodando anche la sua contrarietà a farsi baciare l’anello per motivi igienici: degli altri, non suoi) oltretutto nei confronti di persone che in passato hanno di certo commesso crimini. Tra pochi giorni Bergoglio bacerà i piedi a poveri e migranti a San Pietro, e se una cosa questo pontefice non ha mai lesinato è l’agire proprio come l’iconico Francesco in ogni occasione pubblica. Baciare i piedi è molto meglio che occuparsi delle beghe interne vaticane, per le quali Bergoglio pare aver chiesto aiuto anche all’emerito Ratzinger, che forse invidia e vorrebbe imitare.

Stefano Citati