Processo Stamina, in Appello chiesti 4 anni per i medici

Un anno e sei mesi oltre a 25 mila euro di multa ciascuno. È questa la pena richiesta dalla Procura generale di Torino nei confronti di quattro medici degli Spedali civili di Brescia accusati di somministrazione di farmaci guasti nell’ambito del caso “Stamina”.

Il presidio sanitario lombardo sperimentò per qualche tempo la controversa terapia patrocinata da Davide Vannoni. I quattro imputati, la ex direttrice sanitaria Ermanna Derelli, l’ex dirigente e referente del comitato etico Carmen Terraroli, la biologa Arnalda Lanfranchi e il pediatra Fulvio Porta, in primo grado erano stati condannati a due anni di reclusione – con pena sospesa – e a 30 mila euro di multa; erano anche stati assolti dalle accuse di associazione a delinquere, abuso d’ufficio e truffa. “Questo è stato un tentativo di far entrare la magia negli ospedali”, sono state le parole di Sergio Bonetto il legale parte civile per Medicina Democratica nel processo riferendosi all’accordo tra l’ospedale e la fondazione di Vannoni per la sperimentazione della controversa terapia. Il pg Daniela Isaia ha chiesto di ridurre la durata della pena perché i fatti commessi prima dell’11 ottobre 2011 sono ormai prescritti.

L’ex principino della coca tra vip e auto di lusso

Cranio rasato, labbra carnose, Enzo Anghinelli si è fatto un nome, nella storia della cocaina a Milano. Una storia lunga, in una città che è considerata da osservatori attendibili e investigatori navigati la nuova capitale europea della coca.

Il nome di Anghinelli è comparso in diverse indagini sul traffico di droga. Il suo gran debutto avviene il 15 novembre 2007, il suo primo palcoscenico è una strana agenzia di autonoleggio di macchine di lusso per i vip, con sede in via Teodosio 64, zona Città studi.

È la “Regina Agency” di Ezio Coletta, un brianzolo cinquantenne che noleggiava auto ai produttori televisivi ed era ben introdotto nel mondo della tv. Nel suo ufficio facevano bella mostra decine di foto con dediche di molti volti noti del mondo dello spettacolo e perfino un Tapiro di Striscia la notizia.

Quando arrivano i carabinieri, oltre al Tapiro trovano 26 chili di polvere bianca, di cui 15 nascosti dentro una grossa Mercedes color oro. Quel giorno beccano anche Enzo, che aveva due chili di coca nelle tasche del giubbotto. Si avvicinavano le feste natalizie e il capodanno, e il suo gruppo stava preparando la riserva di cocaina con cui rifornire le discoteche della città.

Arrestato, Enzo Anghinelli nel 2009 è condannato in primo grado a 12 anni per traffico di droga, che in appello diventano 8. Nel 2011 esce dalla cella, ma l’anno seguente, il 6 marzo 2012, torna in carcere insieme ad altre 44 persone, perché il pm Piero Basilone porta a compimento l’operazione “White”, che nasce proprio nel 2007 e che disegna la mappa del traffico di coca a Milano. Le carte dell’indagine descrivono Anghinelli come un personaggio ben inserito in un gruppo di livello, in grado di importare grandi quantità di polvere bianca direttamente dal Sudamerica.

Tra gli arrestati di quel giorno c’è anche Luigi Magrini, 47 anni, ritenuto vicino ai clan pugliesi della Sacra Corona Unita e alleato con una banda di trafficanti serbi. Nei documenti dell’inchiesta viene definito “fornitore di ingenti quantità di cocaina a esponenti della Sacra Corona Unita”.

Magrini, residente a Settimo Milanese, è figlio d’arte: suo padre, Vito detto “Cavallero”, era il re delle scommesse clandestine sui cavalli e fu arrestato nel 1997, accusato di un doppio attentato incendiario al trotter e al galoppatoio dell’ippodromo di San Siro.

Anghinelli resta in carcere fino all’ottobre 2012, poi continua a scontare la sua condanna con pene alternative. Nel 2014 gli viene rideterminata la pena a 11 anni totali. Chiude del tutto i conti con la giustizia il 23 novembre 2016.

L’avvocato Lino Terranova ha difeso Anghinelli nell’indagine “White” e ora racconta: “Era uscito dal carcere qualche anno fa, dopo essere stato arrestato nel 2007. Voleva uscire dal giro e aveva anche seguito un percorso terapeutico per curarsi dalla dipendenza dalla cocaina. Che io sappia, negli ultimi anni non aveva più avuto problemi giudiziari. Non ho avuto più notizie da lui su problemi giudiziari ulteriori, né sentori di altri problemi. Per questo, ciò che è successo in via Cadore mi ha molto stupito”.

Chissà se dal giro era uscito davvero. O se aveva mantenuto rapporti e affari con altri gruppi, magari meno grossi, meno organizzati di quelli fotografati dall’operazione “White”, che avevano canali diretti con i produttori di coca in Sudamerica. E meno prudenti: capaci di tentare di eliminare un uomo con un’operazione plateale, alle 8 di mattina, in mezzo al traffico e ai bambini che vanno verso le loro scuole.

Far west in centro a Milano, capitale morale della droga

Mentre la Milano visibile e luccicante celebra i fasti della design week, come Londra e più di Londra, la Milano sotterranea ripete riti che neanche a Napoli, neanche a Scampia.

Mancano tre minuti alle 8 quando una moto di grossa cilindrata si affianca a una Ford station wagon nera ferma al semaforo in via Cadore, zona residenziale e semicentrale della città tutta presa in questi giorni dalla frenesia per le feste del mobile e del design.

Il killer, dal sellino posteriore dello scooter, guarda in faccia l’uomo alla guida della Ford, che sta ascoltando la radio ad alto volume mentre aspetta che il semaforo diventi verde. Gli urla: “Sei pronto?”. Poi spara. Saltano due finestrini di cristallo dell’auto. Quattro, cinque, forse sei colpi. Uno lo raggiunge tra il torace e la spalla, un’altro gli si conficca in faccia.

I due dello scooter sgommano via. L’uomo non perde conoscenza. Abbandona la presa sul volante, le braccia distese lungo i fianchi, il busto ancora eretto, gli occhi sgranati, un filo di sangue che gli cola dalla bocca.

Non era “pronto” a morire, Enzo Anghinelli, 46 anni, vittima di una tentata esecuzione in stile mafioso, proprio davanti a un cocktail bar dal nome che suona beffardo: “Pulp”. Arriva a sirene spiegate l’autoambulanza, arrivano le volanti della polizia e gli uomini della Squadra mobile, poi le tute bianche dalla Scientifica. Gli infermieri gli tagliano il piumino nero, lo estraggono dall’auto, lo trasportano al Policlinico in codice rosso, il più grave. Lo operano allo zigomo sinistro per estrargli il proiettile, è in prognosi riservata, ma dovrebbe sopravvivere.

Chi ha sparato voleva uccidere. E non ha scelto un posto a caso. Proprio in via Cadore, a pochi passi dal civico 48 dove è avvenuto l’agguato, vive la madre di Enzo Anghinelli. Una scena da Gomorra nella più europea delle città italiane. Evidentemente gli aggressori conoscevano bene la loro vittima e le sue abitudini. Hanno seguito in moto la sua Ford Focus e al semaforo rosso, all’angolo con via Bergamo, hanno scaricato almeno cinque colpi contro il finestrino chiuso dell’auto. Uno lo ha centrato al volto, è entrato dallo zigomo sinistro dall’alto verso il basso ed è uscito dall’altra parte squarciandogli la guancia.

“Ho sentito quattro esplosioni e poi altre due, mi sono affacciato, qualcuno ha chiesto l’intervento di un dottore e mi sono precipitato giù”, ha raccontato alla Squadra mobile il primo soccorritore, un medico che si trovava in un palazzo vicino. “Ho potuto solo controllare che respirasse, le sue condizioni non mi hanno permesso di fare altro, ho atteso l’ambulanza”.

Al Policlinico, Anghinelli è stato operato, è in condizioni gravi e il suo quadro clinico è ritenuto ancora instabile, tanto che i medici non si sbilanciano con una prognosi. Si sbilanciano invece gli investigatori, coordinati dal pm della Procura di Milano Leonardo Lesti. L’agguato potrebbe essere la “punizione” per un debito di droga. Anghinelli è un noto trafficante di cocaina, nel novembre 2007 è stato arrestato per la prima volta dai carabinieri ed ha scontato una pena di 11 anni di carcere.

Dopo l’agguato, si è riaccesa la polemica sulla sicurezza a Milano. Come già accadde nel novembre di due anni fa, quando un cittadino dominicano fu inseguito e ucciso in piazzale Loreto e il sindaco Giuseppe Sala chiese più militari in città per tenere sotto controllo alcune zone della periferia. In questo caso, il ministro dell’Interno Matteo Salvini è subito intervenuto per dire che a Milano già dallo scorso ottobre ci sono 88 agenti di polizia in più e che altri 487 sono in arrivo. “Nuovi poliziotti assunti con i concorsi banditi dai governi Renzi e Gentiloni”, gli ha ricordato il deputato del Pd Emanuele Fiano, criticando il fatto che il governo abbia “stanziato per il 2019 soltanto 4,9 milioni per nuove assunzioni di poliziotti”.

Uccise e bruciò Sara, 30 anni non bastano. “Nuovo processo”

La condanna a 30 anni di reclusione, stabilita in appello al posto dell’ergastolo, non è sufficiente.

Per la Cassazione ci vorrà un nuovo processo per Vincenzo Paduano, l’ex guardia giurata che nel maggio 2016 stordì, strangolà e uccise la sua ex fidanzata Sara Di Pietrantonio, bruciando poi il suo cadavere. La Corte ha annullato la precedente sentenza, con rinvio a un’altra sezione della Corte d’Assise d’Appello di Roma, accogliendo così il ricorso del procuratore generale che aveva chiesto di ripristinare la pena dell’ergastolo stabilita in primo grado.

Paduano ha ucciso “non per un impeto di gelosia ma per spirito punitivo”, la ricostruzione dell’accusa. Il ricorso di Paduano, che chiedeva le generiche, è stato invece respinto.

“È facile chiedere perdono dopo essere stati condannati all’ergastolo, e non si tratta solo di tardività o di facilità, ma anche di inconcretezza”, aveva detto il procuratore. In aula al momento del pronunciamento della Corte c’era anche la signora Concetta Raccuia, mamma di Sara.

Anas, la cornucopia dei 97 comunicatori

Anche se da quasi un anno e mezzo non è più neanche un gruppo a sé ma solo uno spezzone delle Fs, l’Anas non demorde, non rinuncia ai suoi vecchi vizi e continua a scialare in grande. Soprattutto nell’ambito della comunicazione. Tra l’ufficio stampa che tiene i rapporti con giornali e tv e quelli che aggiornare i bollettini del traffico, l’azienda delle strade ha in organico 78 persone. Che diventano 97 se nel conto si mettono anche gli addetti ai rapporti con le istituzioni. L’ordine di servizio emesso ieri elenca i nomi, i cognomi e gli incarichi ricoperti da ognuno di essi ed è lungo 6 pagine. Qualche esempio: gli addetti al Cciss-Viaggiare informati sono 13, mentre 6 si dovrebbero occupare di Editoria e gestione amministrativa e 4 di Comunicazione interna. Solo per quello che in gergo in azienda chiamano l’Urp (Ufficio rapporti con il pubblico), ci sono 20 persone che dovrebbero rispondere sempre e subito alle segnalazioni e ai reclami degli automobilisti. Ci sono addetti a un non meglio precisato Brand-immagine e a una Corporate Social Responsability di cui si fatica a intuire lo scopo.

Considerando che dal primo gennaio a oggi l’Anas ha emesso 650 comunicati, compresi quelli di poche righe in cui magari si dà notizia della semplice interruzione di una strada, risulta che in quasi 4 mesi ognuno degli addetti all’area comunicazione ha elaborato in media poco più di un comunicato e qualche riga al mese. Alle Ferrovie, che sono la casa madre dell’Anas, l’ufficio stampa è molto più snello: i comunicatori appena una ventina, la metà dei quali addetti alle sedi distaccate, dal Piemonte alla Sicilia, si occupano dell’attività delle circa 60 società del gruppo, di centinaia di stazioni e di una rete di 16 mila chilometri di binari su cui transitano 10 mila treni al giorno. La sproporzione con l’Anas è evidente e appare illogico che una semplice società controllata, una delle decine del gruppo, si avvalga di molte più risorse della holding per tenere i rapporti con l’esterno.

La cornucopia di comunicatori, per la verità, non è una novità per l’Anas. Già ai tempi in cui l’azienda era guidata da Pietro Ciucci, il settore stampa affidato a Giuseppe Scanni era molto curato e zeppo di dipendenti. Un’attenzione particolare, corroborata da ingenti risorse, ovviamente pubbliche, era dedicata alle inserzioni pubblicitarie e agli avvisi di gara, riservati in prevalenza alla stampa considerata amica. Da allora all’Anas si sono susseguiti tanti rivolgimenti, anche se invano, purtroppo, visti i risultati. Allontanato Ciucci, il successore Gianni Armani aveva promesso il repulisti. Che evidentemente non c’è stato. Grazie a una serie di forzature contabili dal gennaio 2018 l’Anas è stata inglobata dalle Ferrovie e anche Armani se n’è andato tra le polemiche dopo aver salutato mettendosi in tasca una buonuscita milionaria. Da allora l’azienda è come sprofondata in un limbo. Al nuovo ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, l’incorporazione dell’Anas nelle Fs non piace e subito dopo la nomina aveva promesso che l’avrebbe smontata in quattro e quattr’otto. È passato più di un anno, la faccenda sembra uscita dai radar e all’Anas continuano a folleggiare come se niente fosse.

“La Vincenzi è colpevole, ma la pena va abbassata”

“La valigia era pronta. Adesso per un po’ dovrò disfarla. Perché se mi condanneranno mi presenterò io in carcere, non mi farò venire a prendere”. Marta Vincenzi, però, non andrà in carcere. Non oggi e nemmeno in futuro. Ieri la Cassazione ha annullato la sentenza d’appello che condannava l’allora sindaco di Genova a cinque anni per l’alluvione del 4 novembre 2011 in cui morirono sei persone.

Un verdetto complesso: Vincenzi condannata, ma processo da rifare. La Cassazione ha rinviato a un appello bis. La Suprema Corte ha confermato le condanne per disastro e omicidio colposi. Ridotta invece la condanna per falso che ora resta limitata a un solo episodio e cioè la presenza di un volontario della Protezione Civile a guardia del torrente Fereggiano (quello che esondò causando il disastro). Il nuovo appello dovrà rideterminare la pena al ribasso. La difesa di Vincenzi spera in una riduzione di almeno un anno che eliminerebbe il rischio di carcerazione (con l’affidamento ai servizi sociali). Considerata l’età dell’ex sindaca, nata nel 1947, la detenzione è un’ipotesi che non esiste più.

Un verdetto accolto con favore dalle famiglie delle vittime: “Siamo soddisfatti. La Cassazione ha cristallizzato e resa definitiva la responsabilità di Vincenzi e degli altri imputati”, commenta Emanuele Olcese, avvocato che rappresenta i familiari di Serenella Costa, la ragazza di 19 anni morta mentre andava a prendere il fratellino a scuola. In quei minuti terribili persero la vita anche Shpresa Djala (29 anni) che cercava di mettere in salvo le sue due figlie: Gioia (di 8 anni), appena presa a scuola, e Janissa di 10 mesi. Anche la quarantenne Angela Chiaramonte tentava di raggiungere il figlio a scuola, mentre Evelina Pietranera (50 anni) aveva appena chiuso la sua edicola.

Un disastro provocato dalle piogge devastanti e dal cemento follemente cresciuto per decenni lungo i corsi d’acqua. Ma, conferma la Cassazione, Genova fu colta colpevolmente impreparata: quando i torrenti inondarono la città centinaia di persone e di bambini appena usciti da scuola rischiarono di essere travolti.

L’accusa di falso è quella che, ovviamente, pesava di più per Vincenzi: “Mi toglieva l’onore. Mi sembrava impossibile: essere condannata per aver taroccato le carte… per che cosa poi? Per il consenso, per essere rieletta? Sulle altre accuse posso non essere d’accordo con la legge, ma ovviamente le accetto”. Il processo, però, non è chiuso: “Non vedo l’ora che finisca. Comunque vada, purché sia finito”. Il momento peggiore? “L’alluvione e la tragedia, ovviamente”, assicura Vincenzi, “Ma sono stati otto anni terribili, dal giorno che mi presentai in aula al processo di primo grado. Mi sentivo addosso gli sguardi e mi dicevo: ‘Se tutti pensano che sono una delinquente allora deve essere vero’. E poi l’appello: quando è arrivata la condanna mi sono sentita crollare il mondo addosso. Lo ammetto, ho sfiorato la depressione, non riuscivo a uscire di casa. Poi per fortuna mi sono fatta forza, ho preso a girare in autobus. E mai nessuno mi ha detto niente. Non c’è mai stato un episodio brutto, anche se magari incontravo gente che mi ritiene colpevole. Ma Genova è fatta così, è una città splendida e civile”.

E pensare che dieci anni fa Vincenzi era il campione del centrosinistra genovese. La chiamavano ‘SuperMarta’, tutti per lei prevedevano un avvenire sulla ribalta nazionale nonostante l’avversione di una parte del suo partito. Poi l’alluvione, le accuse e la sconfitta alle primarie del 2011 (vinse Marco Doria). “Per fortuna in molti mi sono stati vicini, soprattutto la gente comune”. E gli ex colleghi politici? “Sì, anche loro. Ma più gli avversari che i compagni che mi volevano già fare le scarpe prima. Del resto i serpenti sono sempre in casa”.

“Cospirazione contro gli Stati Uniti” ecco i capi d’accusa per l’estradizione

Poggia su un solo capo d’imputazione, per ora, la richiesta degli Stati Uniti alla Gran Bretagna d’estradare Julian Paul Assange: cospirazione a commettere intrusione informatica. L’atto d’incriminazione, elaborato da un Gran Giurì, ripercorre i fatti in 13 punti e poi si articola così:

“A partire dal 2 marzo 2010 e continuando fino al 10 marzo 2010, l’imputato Julian Paul Assange, che sarà dapprima condotto davanti al Distretto orientale della Virginia, consapevolmente e intenzionalmente si è collegato, ha cospirato, si è alleato e si è messo d’accordo con altri co-cospiratori noti e ignoti al Gran Giurì per commettere un reato contro gli Stati Uniti, ovvero: accedere consapevolmente a un computer, senza autorizzazione … , per ottenere informazioni che gli Stati Uniti proteggono contro la divulgazione non autorizzata per ragioni di difesa nazionale e di relazioni esterne, ossia documenti relativi alla difesa nazionale classificati fino al livello “Segreto”; e deliberatamente comunicare, recapitare, trasmettere, e causare che le stesse informazioni siano comunicate, recapitate o trasmesse a persone non autorizzate a riceverle; e deliberatamente trattenere le stesse e omettere di consegnarle al funzionario o impiegato autorizzato a riceverle. C’è ragione di credere che le informazioni così ottenute potrebbero essere usate a danno degli Stati Uniti e a vantaggio di nazioni straniere”. Il Gran Giurì descrive così l’oggetto della cospirazione: “Il principale obiettivo era facilitare l’acquisizione e la trasmissione da parte di Manning di informazioni riservate sulla difesa nazionale degli Usa in modo che WikiLeaks potesse disseminarle sul proprio sito web”.

Quanto ai modi e ai mezzi della cospirazione sono così elencati: “Faceva parte della cospirazione che Assange e Manning usassero il servizio di chat online ‘Jabber’ per collaborare all’acquisizione e disseminazione di documenti riservati e per concordare di violare la password archiviata nei computer del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti connessi al Secret Internet Protocol Network; Assange e Manning prendevano misure per celare Manning come fonte della divulgazione di documenti riservati a WikiLeaks, inclusa la rimozione degli username (nomi utenti) dalle informazioni divulgate e la cancellazione delle chat log tra Assange e Manning; Assange incoraggiavano Manning a fornire informazioni e documenti provenienti dai dipartimenti e dalle agenzie degli Usa; Assange e Manning usavano una speciale cartella su un drop box cloud di WikiLeaks per trasmettere documenti riservati contenenti informazioni relativi alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Come atti a sostegno della cospirazione, il Gran Giurì cita: “Per raggiungere gli scopi e obiettivi della cospirazione, Assange e i suoi co-cospiratori hanno commesso atti intenzionali, inclusi, ma non limitati, ai seguenti: il 2 marzo 2010 circa, Manning ha copiato su un Cd un sistema operativo Linux, per permettere a Manning di accedere a un file informatico del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti accessibile solo a utenti con privilegi di livello amministrativo; l’8 marzo 2010 circa, Manning ha dato ad Assange parte della password archiviata nei computer del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti connessi al Secret Internet Protocol Network; il 10 marzo 2010 circa, Assange ha richiesto a Manning più informazioni sulla password. Assange aveva cercato di violare la password ma diceva di non avere avuto “nessuna fortuna finora”. L’avrebbe avuta di lì a poco e cospicua.

Afghanistan, Iraq e Panama Papers: tutti i “gate” di Julian

Non solo il Russiagate. E non solo Julian Assange: la storia di WikiLeaks è legata, direttamente o indirettamente, a vari altri “gate” e ad almeno altri due personaggi che hanno fatto tremare leader e apparati di mezzo mondo, mettendo in grande imbarazzo la Casa Bianca. Ci sono state le fughe di documenti sulle guerre in Afghanistan e in Iraq e il Cablegate che mise più alla berlina che alla gogna la diplomazia statunitense; e, ancora, il Datagate e i Panama Papers. E, fra i protagonisti, Chelsea – all’epoca dei fatti Bradley – Manning ed Edward Snowden.

La fama del sito e il prestigio di cui ha a lungo goduto e che tuttora gli si riverbera addosso nasce dai “colpacci” del 2010, l’anno d’oro, quando i maggiori giornali di tutto il Mondo mobilitarono, talora coalizzandosi, i loro giornalisti per spulciare quantità enorme di documenti accessibili sul sito di Assange. È per questo che gli Stati Uniti accusano Wikileaks e il suo fondatore, animatore e direttore, d’avere danneggiato la sicurezza nazionale, compromesso le attività di intelligence e messo a rischio sul terreno la vita di militari e agenti, svelando segreti dei conflitti in Iraq e in Afghanistan e rendendo pubblici centinaia di migliaia di documenti sottratti a Pentagono e Dipartimento di Stato. Fin quando Wikileaks metteva a nudo atrocità belliche, o incompetenze e incongruenze diplomatiche, l’opinione pubblica ne sosteneva e pieno l’azione. Le ragioni di sicurezza dell’Amministrazione statunitense – all’epoca, il presidente era Barack Obama – apparivano meno pregnanti del diritto dei cittadini a sapere e del dovere dei giornalisti di smascherare comportamenti talora criminali. Nei primi anni 2000 Time aveva nominato “persone dell’anno” i whistleblowers dello scandalo Enron, i dipendenti che avevano denunciato le magagne della loro azienda. Assange il biondino non è mai stato un personaggio empatico: altero, scostante, sprezzante, disposto a passare sette anni in un carcere neppure dorato – l’ambasciata dell’Ecuador a Londra – piuttosto che difendersi davanti alla giustizia svedese dall’accusa di violenza sessuale mossagli da due donne. Invece, il soldato Manning ha sempre goduto di larghe simpatie nell’opinione pubblica americana e internazionale: lui, il trafugatore dei war logs afghani e iracheni, il transessuale che in carcere cambiò sesso e nome, pronto a pagare per il reato commesso – rubò e rivelò segreti militari, decine di migliaia di documenti ottenuti mentre svolgeva l’incarico di analista di intelligence a Baghdad – e a tornare in carcere il mese scorso pur di non testimoniare contro Wikileaks, dopo essere stato graziato da Obama a fine mandato, nel gennaio 2017. Meno limpida la figura di Snowden, l’ex analista dell’intelligence statunitense, fuggito nel 2014 prima a Singapore e poi in Russia, dove ancora si trova con un permesso di soggiorno e dove nel 2020 potrebbe fare richiesta di cittadinanza. Ma c’è chi dice che Vladimir Putin, fattosi ora paladino della libertà di stampa “pro Assange”, sarebbe disposto a consegnarlo a Donald Trump, come gesto di distensione. Snowden fece esplodere lo scandalo del Datagate, che mise in estrema difficoltà Obama, perché si scoprì che la National Security Agency spiava diversi leader stranieri alleati, fra cui Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Il tecnico informatico, un ex contractor dell’intelligence statunitense, Snowden, le cui motivazioni non sono mai state chiare, rese pubblici i dettagli dei programmi di sorveglianza di massa americani e britannici, tra cui Prism, diffondendoli con la collaborazione di un giornalista di The Guardian, Glenn Greenwald.

All’epoca de Datagate, la stella di Wikileaks aveva già cominciato a offuscarsi: Con Assange più o meno fuori gioco nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, il sito non produsse per qualche tempo scoop memorabili, mentre emergevano legami con siti e media di propaganda russa. Fino al 2016 e alla diffusione di migliaia di mail della campagna democratica di Hillary Clinton, politicamente insignificanti, ma utili per screditare l’avversaria di Trump sul piano della sicurezza e dei gossip.

Quel materiale, fornito a Wikileaks da hacker russi, alimentò la percezione di collusione tra il sito, il Cremlino e la campagna del magnate.

Da Wikileaks al Russiagate. Assange imbarazza Trump

Come un serpente boa, l’inchiesta sul Russiagate, pur formalmente esaurita, continua ad avvolgere nelle sue spire la Casa Bianca. E c’è il rischio che qualcuno ci resti stritolato dentro: Donald Trump corre i rischi maggiori; ma propaggini dell’indagine sfiorano Barack Obama. Un suo ex consigliere, Gregory Craig, è stato incriminato per falsa testimonianza e rischia fino a dieci anni di carcere: avrebbe nascosto agli agenti federali informazioni su un lavoro da consulente del governo ucraino, quasi una fotocopia democratica di quanto già contestato all’ex manager della campagna di Trump, Paul Manafort. I legali di Craig negano ogni accusa. L’ex consigliere di Obama fu indagato pure da Robert Mueller, il procuratore speciale che coordinava le indagini sul Russiagate. Il rapporto finale di Mueller deve ancora essere reso pubblico – lo sarà forse la prossima settimana – dal segretario alla Giustizia William Barr. Barr ne ha finora fornito una sintesi assolutoria, nei confronti di Trump, dall’accusa di collusione con i russi ed è sempre più sospettato di agire da “avvocato del presidente” invece che da ‘avvocato degli americani’.

L’arresto a Londra di Julian Assange riapre vecchie ferite e ripropone vecchi sospetti. L’incriminazione e l’estradizione del giornalista australiano è perseguita da quella parte dell’Amministrazione americana convinta che Trump sia una sorta di agente al servizio del nemico (o che, almeno, sia lì perché ce l’ha voluto Vladimir Putin). L’attuale Amministrazione, invece, è fredda sull’estradizione: se potesse, si eviterebbe volentieri un processo ad Assange da cui s’ignora che cosa potrebbe venire fuori, considerata la natura non adamantina del personaggio.

Alzano la voce i democratici: l’ex biondino ormai canuto “deve rispondere di quello che ha fatto”, afferma Hillary Clinton, che delle rivelazioni di Wikileaks fu vittima a più riprese. “L’arresto – chiarisce l’ex Segretario di Stato – riguarda la complicità nell’hackeraggio di un computer militare per rubare informazioni dal governo degli Stati Uniti”: nulla a che vedere con la libertà di stampa, una preoccupazione che indusse Obama a non procedere contro Assange. Nell’estate 2016, il sito web fondato e diretto dal giornalista australiano, Wikileaks pubblicò migliaia di email hackerate da esperti russi alla commissione elettorale del Partito democratico, la cui pubblicazione, pur senza svelare novità clamorose, imbarazzò la campagna della Clinton. Trump brindò allo scoop e dichiarò “amore” per Wikileaks. Adesso, il suo vice Mike Pence dimostra come i politici siano senza vergogna a ogni latitudine e longitudine, negando che Trump abbia mai manifestato sostegno ad Assange e al suo sito, che “hanno letteralmente messo in pericolo la vita di militari americani” con i file sulla guerra in Iraq e in Afghanistan pubblicati nel 2010: “Gliene chiederemo conto”. Il collegamento tra la campagna di Trump e Wikileaks per la pubblicazione di materiale fastidioso per la Clinton, fornito dai russi, è stato uno dei capi della matassa dell’inchiesta di Mueller, chiusa con diverse incriminazioni, tra cui quelle di 12 agenti russi accusati di hackeraggio ai democratici, ma senza trovare le prove della collusione tra il presidente e il Cremlino e neppure dell’ostruzione alla giustizia da parte di Trump, che auspicava un Russiagate ‘addomesticato’. Fra gli incriminati di Mueller, c’è Roger Stone, spregiudicato e ricchissimo stratega repubblicano, amico e consigliere di vecchia data del magnate presidente: avrebbe mentito all’Fbi su contatti avuti con Assange nel luglio del 2016, discutendo proprio di come danneggiare Hillary. Lo stesso Stone, nell’agosto del 2016, raccontava su Twitter di avere cenato con Assange, che gli disse che “avrebbe continuato a scaricare sugli elettori Usa informazioni che avrebbero fatto ballare la campagna”. Stone, che dopo la pubblicazione delle email aveva definito Assange “il mio eroe”, aveva poi smentito come vanterie le sue stesse parole. Anche il figlio di Trump, Donald jr, che ha avuto un ruolo centrale nella campagna elettorale, ebbe scambi di messaggi con Wikileaks che, il 14 ottobre, chiese, e ottenne, un tweet per pubblicizzare il link con le email dei democratici “per chi ha tempo di leggere di corruzione e ipocrisia”. Altri personaggi del Russiagate, di cui non sono finora emersi collegamenti a Wikileaks, sono l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, il genero del presidente Jared Kushner e l’ex segretario alla Giustizia Jeff Sessions, ciascuno al centro di una spirale dell’inchiesta.

Impronte digitali a scuola per i presidi: “Misura umiliante”

Impronte digitali per i dirigenti scolastici. Così prevede il testo del decreto-concretezza, licenziato dalla Camera in corso di approvazione al Senato. Il decreto intende il lavoro del dirigente scolastico al pari di qualunque altro impiego statale pertanto sottoposto alle nuove indicazioni della ministra Giulia Bongiorno che difende la legge e assicura: “È stata male interpretata e punta invece a garantire trasparenza e sicurezza”. Nel provvedimento, che esclude i docenti, sono rimasti “agganciati” i presidi: una platea di 8mila soggetti chiamati a gestire 42mila plessi scolastici. Dirigenti che dichiarano di sentirsi “umiliati” per la nuova disposizione definita “grottesca” con la quale si certifica di fatto l’avvenuto ingresso a scuola. Dal sito “Dirigenti Scuola” si legge come l’eventuale attuazione dei controlli biometrici sarebbe la prova provata della mancanza di conoscenza, da parte dei parlamentari, del funzionamento delle istituzioni scolastiche, delle funzioni dei dirigenti. In arrivo sulle scrivanie dei massimi rappresentanti istituzionali una lettera in cui verrà espressa l’illusione che per il sistema scuola si potessero profilare dei miglioramenti.