Liste, dopo Salvini pure Meloni svuota gli azzurri

Si terranno aperte fino all’ultimo, lunedì sera. Con inserimenti e rimozioni al foto finish. Parliamo delle liste per le Europee di Forza Italia, dove ieri è scoppiato il caso Elisabetta Gardini, che però non è l’unico intoppo che sta mandando in fibrillazione il vertice del partito berlusconiano, alle prese con un’emorragia di candidati e di voti, verso Fratelli d’Italia e Lega. “Lascio perché non mi riconosco più in questo partito”, ha detto Gardini, europarlamentare uscente. In realtà, raccontano fonti forziste, il problema è di posti: nel collegio dove sarebbe stata candidata, quello del Nord Est, il più votato dopo Silvio Berlusconi probabilmente sarà Herbert Dorfmann, euro parlamentare uscente di Svp, con cui Fi ha stretto un accordo in Alto Adige. Insomma, il seggio di Gardini sarebbe saltato e addio Strasburgo. Ora al suo posto il partito azzurro potrebbe candidare la coordinatrice del Friuli, Sandra Savino.

Tra liti e ripicche anche personali, i problemi sono di due tipi. Innanzitutto di posti. Ora Fi vanta 11 deputati europei, ma con una percentuale intorno al 10% (se tutto va bene) gli eletti a questo giro saranno uno per collegio, magari due nel Sud e nelle Isole. In tutto 6-8 posti. In secondo luogo, FdI e Lega stanno facendo campagna acquisti tra i forzisti portatori di voti. Salvini, per esempio, nel collegio Nord Ovest candiderà l’ex azzurra Silvia Sardone, la più votata alle ultime regionali in Lombardia (11 mila preferenze), che ha lasciato il gruppo azzurro a luglio e il 26 maggio correrà per la Lega. Lo stesso sta facendo Giorgia Meloni, che candiderà due ex europarlamentari azzurri: Raffaele Fitto e Stefano Maullu.

Poi c’è Giovanni Toti, che oggi sarà a Torino a inaugurare la conferenza programmatica di FdI, dove saranno ospiti anche Giulio Tremonti e il leader del family day Massimo Gandolfini. Domani, invece, Toti sarà ad Albano Laziale per la campagna di Alfredo Antoniozzi, altro ex forzista candidato per FdI, dopo il limbo nell’Ncd di Angelino Alfano. Insomma, alle Europee il governatore ligure sembra giocare per tutti tranne che il suo partito. Nel Lazio, inoltre, per Fratelli d’Italia (che avrà in lista pure Francesco Alberoni) c’è aria di candidatura pure per Andrea Augello o Roberta Angelilli, entrambi ex An transitati nel Pdl.

“Sono liste deboli, i nomi che portano voti sono pochi. Con il sistema proporzionale e le preferenze, un partito in crisi avrebbe dovuto schierare molti suoi big. E invece qui rischiamo di prendere batoste pure dalla Meloni…”, sussurra un parlamentare azzurro per nulla contento di come stiano andando le cose. Giovedì, all’ufficio di presidenza che avrebbe dovuto mettere la bollinatura finale alle liste, Berlusconi non si è visto. Tutto è stato lasciato nelle mani di Antonio Tajani che però, secondo alcuni, sta peccando di eccessiva leggerezza.

Comunque Fi ricandiderà tutti gli uscenti, tranne Alberto Cirio, candidato governatore in Piemonte, e appunto Gardini. Per gli azzurri ci saranno i lombardi Lara Comi e Massimiliano Salini. Nelle isole a contendersi i seggi saranno Salvatore Cicu, Saverio Romano, Giovanni La Via e Giuseppe Milazzo. Nella circoscrizione Sud saranno candidati poi Innocenzo Leontini, Fulvio Martuscello, Barbara Matera e Aldo Patriciello. Sempre nel Mezzogiorno ecco pure il redivivo ex segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, l’ingegnere Antonio Ilardi e l’imprenditrice Fulvia Michela Caligiuri. Poi c’è la new entry Irene Pivetti: ancora non si sa se correrà nel Nord Est o nel Nord Ovest. Berlusconi, dicevamo, è sparito di nuovo, ma non sembrano confermate le voci di altri problemi di salute. Ieri l’ex Cav ha avuto una lunga telefonata con Alessandra Mussolini per convincerla a candidarsi dopo il suo addio a Fi nel luglio scorso. Missione, sembra, riuscita.

La ministra Grillo: “Spezzare il legame poltrone-politica”

Sull’affaireumbro è intervenuta anche la ministro M5S della Salute Giulia Grillo: “Spezzare il legame politica-poltrone è una nostra battaglia storica che acquisisce ogni giorno più significato alla luce di episodi come questo. Le indagini faranno il loro corso e non entro nel merito specifico, ma voglio ribadire l’urgenza di riaffermare che la trasparenza, il merito e l’assenza di conflitti di interesse sono punti di partenza necessari e imprescindibili per ogni nomina nella sanità”. Sceglie Facebook la ministro, per intervenire con un lungo post sulla vicenda: “Andiamo avanti con la nostra battaglia – aggiunge – per un sistema sanitario pulito, efficiente e all’altezza del compito a cui la nostra Costituzione lo ha chiamato in difesa del diritto alla salute per ogni cittadino”. Anche Di Maio, capo politico dei 5Stelle, è intervenuto sull’inchiesta: “Quel che è accaduto in Umbria è molto grave, lo è soprattutto perché parliamo di sanità, della salute delle persone, su cui per anni la politica ha speculato senza mostrare vergogna. Dobbiamo togliere la sanità pubblica dalle mani dei partiti”.

L’ex sottosegretario avvertì gli indagati

L’inchiesta che ieri ha terremotato la politica umbra ha un bizzarro sapore di déjà vu: e non solo perché i concorsi truccati, questa l’accusa principale dei pm di Perugia, sono ormai un genere letterario a se stante nella cronaca giudiziaria, ma anche per un’accusa “secondaria” di favoreggiamento che ricorda persino in alcuni particolari il caso Consip, almeno per la parte che riguarda l’ex ministro Luca Lotti e altri accusati di aver avvertito gli indagati dell’inchiesta in corso (quel caso è fermo alle richieste di rinvio a giudizio).

Il centro di questa vicenda è Gianpiero Bocci, sottosegretario all’Interno nei governi Letta, Renzi e Gentiloni (fino al 1° giugno 2018) e da dicembre nuovo segretario regionale del Pd (ieri Luca Zingaretti ha nominato commissario del partito il suo ex sfidante, Walter Verini). Bocci, classe 1962, enfant prodige democristiano in Umbria, sindaco del suo comune a soli 22 anni, poi transitato nel centrosinistra via Ppi e Margherita lungo tutto il cursus honorum politico fino al Parlamento e al governo, è accusato di aver “raccomandato” l’assunzione di alcune persone in tre concorsi e, appunto, di favoreggiamento.

La cosa è andata così: scrive il Gip, in buona sostanza, che l’ex sottosegretario informò il direttore della Azienda ospedaliera di Perugia Emilio Duca “per mezzo del direttore amministrativo Maurizio Valorosi dell’esistenza di attività d’intercettazione all’interno della citata struttura ospedaliera, comunicando a quest’ultimi che gli strumenti di captazione erano stati attivati in occasione dell’intervento dei Vigili del Fuoco di Perugia”. Insomma, Bocci avvertì i manager sanitari – i quali secondo l’accusa gli avevano fatto qualche favore – che i pm gli avevano fatto piazzare le cimici negli uffici e che lo avevano fatto durante alcuni controlli anti-antrace dei pompieri.

E siccome è il particolare che fa la delizia dell’intenditore converrà ricordare che il sottosegretario al Viminale aveva proprio la delega ai Vigili del fuoco, coi cui vertici intratteneva rapporti cordialissimi: come Il Fatto scrisse all’epoca, per andare a votare a casa sua al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 si fece accompagnare proprio da un elicottero dei pompieri su cui viaggiava pure il comandante nazionale del corpo Gioacchino Giomi (collocato a riposo a fine 2018).

Torniamo all’inchiesta e ai suoi paralleli con Consip: un membro del governo avvisa gli indagati e lo fa anche un generale dei carabinieri, Pasquale Coreno, che non solo rivela l’esistenza delle cimici agli indagati, ma gli spiega – scrive il Gip – “le modalità con le quali parlare al telefono in caso di intercettazioni”, suggerendogli anche “di cambiare quanto prima i telefoni cellulari”. Il generale, indagato per favoreggiamento, è nominato in una intercettazione per l’assunzione della “sorella della nuora” (ma i pm su questo non ipotizzano reati).

Il direttore dell’azienda ospedaliera Duca, come fece in Consip Luigi Marroni, il 19 luglio 2018 fa bonificare gli uffici da una ditta specializzata e trova le cimici: la fattura da 1.342 euro la intesta all’azienda opedaliera. E per questo lo accusano pure di peculato.

I “concorsi truccati” nella sanità umbra: ecco il sistema Pd

“Non riesco a togliermi le sollecitazioni dei massimi vertici di questa Regione a tutti i livelli. Ecclesiastici – omissis – ecumenici, politici, tecnici. Se no a st’ora c’avevo messo le mani sulla gastro… altro che disposizioni di servizio dell’altra volta (…) Tra la massoneria, la curia e la giunta (…) non me danno tregua. E la Calabria Unita”. Così il 6 giugno 2018 parlava Emilio Duca, direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Perugia, l’uomo al quale – secondo le accuse dei pm di Perugia – si rivolgono politici e non solo per segnalare persone a loro vicine da inserire nelle graduatorie di selezione del personale nella sanità umbra.

Ieri Duca è finito agli arresti domiciliari insieme al direttore amministrativo Maurizio Valorosi, all’ex sottosegretario all’Interno Gianpiero Bocci e all’assessore alla Salute Luca Barberini (che annuncia le sue dimissioni). Altri sei dirigenti dell’Azienda ospedaliera sono stati invece sospesi. Sono gli esiti di un’inchiesta in cui è indagata per abuso d’ufficio e rivelazione di segreto d’ufficio anche la governatrice umbra Catiusca Marini.

Procediamo con ordine. L’indagine, partita a fine 2017, ha svelato l’esistenza di un “sistema” clientelare in cui esisteva una “generalizzata disponibilità a commettere illeciti all’interno dell’azienda ospedaliera da parte di coloro che si occupano delle procedure di selezione”.

Duca e Valorosi, in questo sistema, secondo il gip Valerio D’Andria, “interessati al soddisfacimento delle esigenze politiche”, facevano da tramite con alcuni componenti delle commissioni d’esame per ottenere le tracce che poi sarebbero state consegnate ai candidati “segnalati”. Secondo le accuse, Barberini avrebbe interferito in quattro concorsi e Bocci in tre. L’ex sottosegretario avrebbe anche passato agli altri indagati informazioni sull’indagine e per questo è accusato anche di favoreggiamento.

Sono otto le procedure, secondo l’accusa, “condizionate”. Tra queste anche quella per l’assunzione di quattro assistenti contabili indetta nell’aprile del 2018. Una procedura, secondo il gip, “condizionata dalle segnalazioni provenienti da esponenti politici, Catiuscia Marini, Luca Barberini, Gianpiero Bocci e Moreno Conti”, quest’ultimo “componente della direzione regionale del Pd”.

“Al fine di raggiungere il fine prefissato di garantire a quattro candidati la vittoria del concorso – continua l’ordinanza – Duca e Valorosi ottengono dalla accondiscendente presidente della commissione le tracce delle prove scritte e del questionario, nonché, le domande della prova orale. I fogli che contengono tali preziose informazioni sono poi consegnati ai politici sopra indicati affinché li facciano avere ai candidati”. Le tracce del concorso, secondo quanto dice Duca intercettato, dovevano finire anche all’ex sottosegretario: “Anche Bocci è a Roma, me lo ha detto lui, ora gli mando un messaggio e domani pomeriggio… gli porto le domande”. Il 10 maggio quindi la presidente della commissione consegna “a Duca una busta” con i contenuti della prova. Quello stesso giorno il manager sanitario va in consiglio regionale dove incontra la governatrice Marini.

La conversazione tra i due viene intercettata: “Il Duca riferisce alla Marini di avere le ‘domande’ in vista dello scritto (‘qui ce so le domande… sta tranquilla’) che ci sarà tra cinque giorni” e poi consegna un foglio al suo segretario “al quale viene affidato il compito di portarlo a una donna”, una delle “segnalate”. È poi in una intercettazione del 25 maggio che Duca “ribadisce la necessità di portare avanti le persone raccomandate da Bocci, da Barberini e dalla Marini e, dunque, di ‘gonfiare’ in particolare la valutazione di una delle candidate”.

“Sono assolutamente tranquilla e fiduciosa nell’operato della magistratura – ha detto ieri la governatrice Marini –, nella certezza della mia totale estraneità ai fatti e ai reati oggetto di indagine”.

Ici, Cassazione: “No esenzione per scuole degli istituti religiosi”

L’ISTITUTO SUORE TRINITARIE e le sorelle dei poveri di S. Caterina da Siena dovranno pagare l’Ici per il periodo di imposta che va dal 2004 al 2009. A stabilirlo la quinta sezione civile della Corte di Cassazione che ha accolto il ricorso presentato dal Comune di Livorno. L’amministrazione contestava la sentenza d’appello della Commissione tributaria regionale del 18 marzo 2013 che aveva stabilito come le due scuole materne paritarie (di proprietà dei due istituti religiosi) sarebbero dovute essere esentate dal pagamento della tassa comunale. Ma secondo la Cassazione quella sentenza non avrebbe tenuto conto di una serie di disposizioni, tra cui la decisione 2013/284 della Commissione europea, che prevede che l’esenzione dell’Ici prevista in favore degli enti non commerciali può essere applicata solo agli immobili destinati allo svolgimento di attività non economica, svolta cioè o a titolo gratuito o dietro a un compenso solo simbolico. Ma non solo: secondo la Corte l’eventuale esenzione dal pagamento con riferimento alle due scuole paritarie si configurerebbe addirittura come un aiuto di Stato che potrebbe quindi falsare la libera concorrenza.

Toninelli: “Senza di me Salvini non avrebbe fatto nulla”

“Senza di meSalvini non avrebbe fatto niente. Ma non vado in giro a dirlo, non m’importa nulla. L’importante è che ci siano meno morti e meno barconi che partono dalle coste libiche”, ha detto ieri sera il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Danilo Toninelli, ospite di Accordi e Disaccordi sul Nove.

“L’errore più grande che ho fatto? Non so qual è: lo saprò quando non avrò più questa impostazione mentale di fare tutto per il bene dei cittadini e inizierò a pensare un po’ ai cazzi miei”, ha detto il ministro a proposito del futuro: “Mi auguro di riuscire a recuperare il lavoro di padre che sto facendo malissimo: mi importa poco di quello che farò, ho imparato a vivere alla giornata. Sicuramente rimarrò in un contesto politico, non devi essere sempre un frontman: puoi sempre aiutare gli altri stando dietro. La regola dei due mandati è sacrosanta”. “Lei comprerebbe oggi un’auto elettrica, magari con i bambini come il sottoscritto che fa viaggi lunghi, e che c’è una colonnina per la ricarica ogni 200 chilometri? La comprerò, come gli altri cittadini, quando avrò contribuito a creare le condizioni per le colonnine per la ricarica”.

Upb: “Rialzo del Pil dello 0,1%. Primi timidi segnali di ripresa”

Dopo due trimestri che avevano fatto presagire il rischio di una recessione, “l’economia italiana mostra i primi, timidi, segnali di ripresa”. Nel primo trimestre del 2019 infatti “si attende una variazione congiunturale del Pil dello 0,1%, spinta prevalentemente dalla ripresa della manifattura”. Lo scrive l’Ufficio parlamentare di bilancio, nella nota congiunturale del mese di aprile. Dopo i dati positivi sulla produzione industriale che a febbraio è tornata a crescere (+0,8% e +0,9% su base annua) dopo quattro mesi di cali consecutivi, arriva un altro segnale di risveglio. “Se e quanto questi segnali ancora caratterizzati da una forte incertezza, indichino una netta inversione del ciclo economico è tutto da verificare”, avverte però la nota dell’Upb. ”Anche perché – sottolinea – l’eredità del 2018 sembra destinata a pesare sulle prospettive di crescita economica che, nel breve termine, restano deboli”. Tuttavia la debolezza dell’attuale fase congiunturale, spiega l’Upb, “sembra proseguire e si riflette anche sulle stime di breve termine, per le quali l’attività economica avrebbe recuperato nei primi mesi dell’anno solo lievemente”. Sulle previsioni di aprile infatti gravano “diversi rischi“. Il contesto internazionale, si avverte nel focus, “potrebbe risentire di nuove restrizioni agli scambi, oltre che di rischi specifici in Cina e nel Regno Unito“. Quindi la guerra dei dazi e la Brexit restano pericoli, così come l’andamento dello spread: “L’economia italiana resta inoltre esposta alla volatilità dei rendimenti sui titoli del debito pubblico”.

“Il caos a Tripoli può spingere sui barconi anche molti libici”

Presidente Conte, dopo la vostra telefonata Angela Merkel si è schierata pubblicamente contro il generale Haftar. Abbiamo un alleato contro la Francia?

Con la cancelliera ci siamo aggiornati sulla crisi: anche lei è molto preoccupata e condivide la nostra linea secondo cui l’opzione militare non può essere una soluzione. Lavoreremo insieme nell’ambito della Ue per perseguire una linea comune ed evitare che si proceda in modo disordinato.

Sentirà anche Macron?

Ci sentiremo senz’altro, i nostri staff si aggiornano costantemente.

Per anni l’Italia ha sostenuto il governo di Al Sarraj, unico interlocutore per la nostra diplomazia. Ora è Haftar l’uomo forte della Libia?

Quello di Sarraj è l’unico governo che è sempre stato riconosciuto dalla comunità internazionale. Da quando il mio esecutivo ha iniziato a occuparsi del dossier libico, ho subito acquisito la consapevolezza che non è però pensabile una soluzione del conflitto senza interloquire con tutti gli attori che hanno un ruolo, locali o internazionali. E Haftar ha sempre avuto un ruolo importante, in particolare in Cirenaica. Noi parliamo con tutti gli attori sul terreno, in base a un approccio inclusivo, avendo come obiettivo il pieno rispetto delle prerogative e il benessere del popolo libico. Per questo ho voluto coinvolgere Haftar nella conferenza di Palermo e l’ho incontrato a Bengasi e ricevuto a Roma.

Repubblica scrive che lei ha incontrato nei giorni scorsi una delegazione di Haftar a Roma. Di cosa avete discusso?

Confermo l’incontro. Mi è stata consegnata una lettera personale del generale Haftar, a conferma della fiducia che ha nei miei confronti. Io ho chiesto ai suoi emissari aggiornamenti sulla situazione sul terreno. Loro affermano di voler liberare il Paese dalle formazioni terroristiche e operare una unificazione delle forze armate e di sicurezza. Io ho ribadito la mia ferma opposizione a una deriva militare che farebbe ulteriormente soffrire la popolazione civile già provata. Ho ribadito la mia disponibilità a mantenere aperto ogni tipo di dialogo utile a pervenire a una soluzione politica.

Sulla Stampa un retroscena attribuisce al ministro dell’Interno Salvini interlocuzioni con il vicepremier Maitig, che con la Brigata di Misurata è il vero garante del governo Sarraj. Può essere lui il perno di un nuovo assetto?

Il dossier libico lo coordino personalmente da Palazzo Chigi e farò in modo di evitare che si proceda con iniziative che potrebbero soggettivizzare il conflitto in corso. L’Italia non scommette sull’uno o sull’altro attore. Noi scommettiamo sulla volontà del popolo libico di vivere in pace e godere delle risorse del proprio territorio. Detto questo, Misurata è una realtà di primo piano, anche militare, nell’assetto del Paese. L’opinione pubblica si concentra sul binomio Haftar-Sarraj ma la situazione è più complessa.

Nella prima fase della crisi ha stupito il silenzio della Farnesina. Ieri, dopo la riunione con i ministri Moavero e Trenta, il sottosegretario Giorgetti e l’intelligence lei ha istituito un gabinetto di crisi. Cosa cambia?

Non è che la Farnesina e Moavero siano mai stati estromessi da un percorso che, ancor prima di Palermo, ci ha visti coinvolti come governo nel tentativo di perseguire la stabilizzazione della Libia. I vari ministri hanno sempre interloquito, ciascuno per le rispettive competenze, con i rispettivi omologhi anche recandosi in Libia. Quello libico è un dossier strategico per l’Italia e io l’ho seguito personalmente per assicurare che le iniziative assunte sui vari fronti si inquadrassero in una strategia ben precisa.

Questa nuova fase di conflitto in Libia farà ripartire i barconi dei migranti? E noi potremo chiudere i porti a chi scappa da una guerra?

C’è il serio rischio che si sviluppi una crisi umanitaria che finirebbe per sfinire una popolazione già provata da otto anni di instabilità. In caso di conflitto armato, potrebbero interrompersi le rotte libiche interne di migranti provenienti da altri Paesi, in particolare dell’Africa subsahariana. Ma da Paese perlopiù di transito, la Libia diventerebbe un Paese di partenza delle migrazioni. Questo metterebbe a dura prova un sistema di accoglienza che non funziona ancora a livello europeo e che stiamo cercando di modificare a Bruxelles. Inoltre, salterebbero tutte le iniziative bilaterali e multilaterali che abbiamo sin qui promosso in una logica di cooperazione con i Paesi di partenza e di transito.

Che conseguenze ci saranno per i soldati e il personale italiano sul terreno?

Tutte le nostre unità sono impegnate a promuovere la stabilità del Paese svolgendo un ruolo fondamentale e universalmente apprezzato. Per ora il nostro personale militare e diplomatico rimane pienamente operativo, ma siamo pronti a intervenire per tutelare la loro sicurezza in qualsiasi momento.

Molti analisti attribuiscono l’attuale caos anche a un disimpegno degli Stati Uniti, reazione alla scelta dell’Italia di aderire alla Via della Seta della Cina. All’inizio delle ostilità, gli Usa hanno ritirato il loro contigente dalla Libia. Ci hanno lasciati soli?

Non c’è nessun disimpegno degli Stati Uniti: per Washington il dossier libico non può avere l’interesse prioritario che riveste per l’Italia. Quel quadrante è oggetto di attenzione degli Stati Uniti soprattutto per il contrasto al terrorismo e la possibile influenza russa. Mentre storia e geografia impongono all’Italia di rimanere in prima linea, cosa di cui lo stesso presidente Trump mi ha dato atto.

Forse nei rapporti con gli Usa ha pesato anche la posizione poco chiara del governo sulla crisi del Venezuela.

Gli Usa sono un nostro partner strategico, c’è un costante aggiornamento a tutti i livelli. La nostra posizione sul Venezuela è stata sin dall’inizio molto chiara. La prossima settimana il mio consigliere diplomatico sarà in missione in Venezuela insieme al nunzio apostolico per incontrare esponenti del governo e delle forze di opposizione e svolgere un’opera di mediazione che possa accelerare il risultato di nuove elezioni presidenziali, credibili e trasparenti. E di questo gli Stati Uniti e i componenti del gruppo di contatto sono stati avvertiti e confidano che la nostra posizione equilibrata possa offrire un contributo alla soluzione di questa crisi.

La Francia invece è un nostro avversario strategico?

Non ho motivo di pensare che la Francia possa avere interessi differenti dalla stabilità e dal pieno recupero della Libia a una prospettiva di sviluppo e di benessere della popolazione. Una Libia instabile non può certo consentire alla Francia di perseguire eventuali interessi economici nazionali. Nel passato sono stati commessi errori di cui non consentiremo la ripetizione.

L’altro fronte su cui lei è impegnato è quello della politica economica: dal Def presentato non si capisce dove troverete 23 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva.

Per evitare l’incremento dell’Iva dobbiamo operare una spending review alla quale già stiamo lavorando, efficace ma oculata, in modo da colpire le spese superflue e non ostacolare la crescita. Possiamo lavorare anche a una più attenta rimodulazione delle tax expenditures. Confidiamo nella possibilità che le misure già varate e in corso di introduzione possano contribuire a una ripresa economica superiore a quella che ci viene accreditata da alcuni analisti. Sottolineo che secondo l’Eurostat, l’Italia ha dato il maggior contributo, 35,7 per cento, alla produzione totale dell’Eurozona nei primi due mesi del 2019. La produzione industriale è cresciuta per due mesi consecutivi, dello 0,8% a febbraio e dell’1,9 per cento a gennaio. Non credo che avremmo ottenuto questi dati se ci fossimo appiattiti su politiche di austerity.

Un po’ di austerity l’avete fatta anche voi: il Def conferma 17,5 miliardi di tagli lineari alle spese in tre anni, anche a università e ricerca.

Abbiamo sempre agito coerentemente dimostrando che vogliamo tenere i conti in ordine. Segnali incoraggianti vengono anche dal commercio estero. A febbraio 2019 le nostre esportazioni in Cina sono aumentate del 2,5 per cento rispetto a febbraio 2018. E si profila uno scenario ricco di opportunità, visti anche gli accordi sottoscritti nell’ambito della Via della Seta.

Si parla di flat tax. Ma sulla base dei conti che avete prospettato non è immaginabile alcun intervento dai costi importanti per il bilancio pubblico. Sarà una flat tax simbolica o a saldo zero?

Stiamo lavorando a un’ampia riforma che ha l’obiettivo di alleviare il carico fiscale soprattutto per famiglie e ceto medio. Siamo determinati a procedere, ma dobbiamo operare in quadro di compatibilità con la finanza pubblica, contrastando con la massima determinazione l’evasione e l’elusione fiscale per liberare risorse da investire in questo progetto. Questa riforma va attuata per gradi: con la manovra dello scorso dicembre abbiamo realizzato un primo significativo tassello e continueremo a operare in via progressiva investendo le risorse che via via si liberano. Quando andremo a regime, confidiamo che un peso fiscale più leggero possa aiutarci nel contenere le aree di evasione fiscale così che questa riforma possa autofinanziarsi nel tempo.

A proposito, quando verranno riviste le soglie di punibilità per i reati fiscali così da introdurre le “manette agli evasori” sempre rinviate?

Vogliamo rivedere le soglie che in passato erano state abbassate e il ministro della Giustizia Bonafede è al lavoro su questo. Nei prossimi mesi ne discuteremo al fine di individuare e applicare le soluzioni più persuasive.

È proprio sicuro che sarà lei a gestire la prossima legge di Bilancio?

Non “la prossima”, ma “le prossime”.

Assange chi?

Julian Assange non è un giornalista in senso classico, anche se ha scritto molto e fatto tv. È principalmente un attivista e un pirata informatico, che si dichiara anarchico, cyberpunk, cultore della trasparenza assoluta e a ogni costo, cofondatore nel 2007 del sito Wikileaks, cioè del principale collettore mondiale di documenti, cablogrammi e corrispondenze top secret carpiti con ogni mezzo lecito e illecito dai database di governi, diplomazie, istituzioni pubbliche e private. Per questo è ricercato in mezzo mondo: per fargli pagare tutti i segreti che ha spifferato. Da sette anni era barricato nell’ambasciata dell’Ecuador – di cui aveva ottenuto la cittadinanza – a Londra, dov’era approdato come rifugiato politico. Ma poi aveva dovuto sottrarsi a una mandato di cattura dalla Svezia per reati sessuali (accuse, poi ritirate, relative a rapporti consenzienti, ma non protetti, con due sue amanti) e l’Ecuador gli aveva concesso l’asilo politico. L’altroieri il governo di Quito gliel’ha revocato, dando il via libera a Scotland Yard, che l’ha arrestato: non più per le accuse svedesi, ormai cadute, ma per quelle inglesi (violazione della libertà vigilata) e soprattutto americane. Gli Usa hanno chiesto di estradarlo per la presunta cospirazione con Chelsea Manning, la militare-transgender che nel 2010 trafugò migliaia di documenti riservati dai database del governo mentre era analista dell’intelligence durante la guerra in Iraq. Ed è stata condannata a 35 anni, mentre Assange ne rischia fino a 5 per averla aiutata.

In questi 12 anni Wikileaks ha sputtanato decine di governi occidentali e non, con le parole e i documenti dei loro stessi membri. Ha smascherato le imposture, le menzogne e le ipocrisie di centinaia di potenti, mettendo in scena le oscenità che questi ipocriti bugiardi dicevano e facevano dietro le quinte (ob scaenam). E ha fornito ai giornalisti i materiali da raccontare, analizzare e commentare: in questo senso, più che un giornalista, era una “fonte”, o un fornitore di “fonti”. Che nessuno poteva smentire, perché erano tutti documenti ufficiali e autentici. Se sappiamo molto, se non tutto, sulle porcherie e le menzogne organizzate per giustificare le guerre in Afghanistan e in Iraq, ma anche sui segreti del Vaticano, sui doppi e tripli giochi delle diplomazie americane ed europee, sulle menzogne di B. e dei suoi compari, giù giù fino alle doppiezze dell’Amministrazione Obama e alle email borderline di Hillary Clinton, lo dobbiamo ad Assange e alla sua ciurma di pirati. Per questo Julian era ed è più temuto di qualunque giornalista: “Carta canta e villan dorme”.

Qui però erano in molti a non dormire ai piani alti dei palazzi del potere mondiale, al pensiero di quel che avrebbe potuto pubblicare Wikileaks. E di quanti altri portali come quello potevano sorgere per emulazione se lui non avesse subìto una punizione esemplare, ben più terribile della reclusione in una stanza di pochi metri quadri di un’ambasciata, che servisse di lezione a tutti. L’altroieri l’ora della vendetta è arrivata, grazie alla viltà di Lenín Moreno, il presidente dell’Ecuador che si è genuflesso a Washington e gli ha ritirato lo status diplomatico, ancora bruciato dalle rivelazioni di Wikileaks sulla corruzione sua e della sua cricca. Il fatto che Trump ora finga di non conoscere Assange (“Non so nulla di Wikileaks e dell’arresto, non mi interessa”), dopo averlo magnificato in campagna elettorale al tempo dell’Hillary-gate (“I love Wikileaks”, “Adoro leggere Wikileaks”), dimostra che è difficile etichettarlo come amico di quello o nemico di quell’altro: quelli come lui sono una minaccia per chiunque sia al potere. E le proteste del governo russo per “la libertà e i diritti violati” fanno ridere, al pensiero di come li violenta da sempre il regime di Putin, anche se vale la logica “il peggior nemico del mio nemico è mio amico”. Ma fanno altrettanto scompisciare i tentativi di screditare Assange come collaborazionista putiniano o addirittura come “spia russa” (Andrea Romano, il genio del Pd) solo perché le sue rivelazioni hanno indebolito gli Usa e i loro alleati: a meno che non si voglia sostenere che chiunque critichi o smascheri un governo occidentale è al soldo di Mosca.

Ma l’allergia dei politici di ogni risma e colore per Wikileaks è comprensibile: solo chi non mente mai ed è sempre coerente, cioè chi non detiene il potere, può permettersi di non temerlo. Dunque nessuno scandalo se in tutta Europa, a parte outsider di sinistra come Mélenchon e Barbara Spinelli, e in Italia i 5Stelle, nessuna voce critica s’è levata contro lo scempio del diritto internazionale perpetrato dal governo May. Ciò che stupisce e disgusta è il silenzio di giornalisti, editori e giuristi, del tutto impermeabili a questo attacco contro la libertà di stampa e al grido d’allarme dell’avvocato americano di Assange, Barry Pollack: “I giornalisti di tutto il mondo dovrebbero essere molto preoccupati da queste accuse penali senza precedenti, perché minano il diritto della stampa a proteggere le proprie fonti confidenziali”. In effetti dovrebbe preoccuparsi chi ancora pensa che il giornalismo debba pubblicare tutto ciò che è vero, senza riguardi per nessuno. Ma non è questo il caso del 90 per cento del giornalismo italiota, allergico alle notizie e infatti ormai tutto contro Assange, o indifferente. Compresi i giornali che fino all’altroieri, obtorto collo, ne riprendevano gli scoop. La minzion d’onore va a un povero acchiappafantasmi (perlopiù russi) e sparabufale (perlopiù americane e renziane) de La Stampa che, anziché difendere una persona arrestata per aver illuminato il mondo con migliaia di verità in più, stila la lista di proscrizione dei pochi reprobi che hanno osato incontrarla e ringraziarla. Vergogniamoci per lui.

Un tempo la scuola non era luogo di fatiche

Dietro ogni parola c’è una storia. A svelarcela è Marella Nappi che per “Einaudi Ragazzi” ha appena pubblicato Che bella parola con le illustrazioni di Sara Not. Un libro per andare all’origine delle parole di ieri e di oggi. E così scopriamo che “scuola” che di solito i ragazzi associano a pena, obbligo e ansia in realtà deriva dal greco “scholè” ed era un tempo beato da trascorrere lontano da fatiche e preoccupazioni. I Greci e i Romani quando avevano dei momenti liberi si dedicavano all’“otium” che non era il dolce far niente ma l’esercizio della mente considerata un’occupazione piacevole.

Tra le parole c’è anche “Europa”: il nostro vecchio continente, infatti, era una bella principessa fenicia che suscitò l’interesse di Zeus. Per avvicinarla il padre degli dei si trasformò in un magnifico e docile toro bianco cui Europa non esitò a montare in groppa. Tra le curiosità spunta “dedalo”: oggi viene usato per indicare un intreccio di strade ma all’origine Dedalo era un leggendario scultore e architetto. La sua opera più celebre fu il labirinto del palazzo di Cnosso, nell’isola di Creta. L’ingegnoso artista lo costruì per conto del re Minosse che vi fece rinchiudere il Minotauro.