Hellboy, il fumetto infernale e perfetto di Mike Mignola non invecchia mai

L’effetto più apprezzato del boom dei film di supereroi al cinema è che gli editori hanno un incentivo a ristampare le storie migliori dei personaggi protagonisti degli adattamenti. Ieri è uscito il (secondo) film dedicato a Hellboy diretto da Neil Marshall e la Magic Press coglie l’occasione per mandare in libreria uno splendido volume Omnibus, il primo di una serie, dedicato alla creatura infernale di Mike Mignola, nata editorialmente nel 1994. Proprio all’apice del momento più favorevole per i comics di supereroi, quando sembrava che niente di originale potesse essere ancora scritto, 25 anni fa Mike Mignola lancia per Dark Horse una nuova serie. Il protagonista è una specie di demone evocato per sbaglio dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, è un bambino rosso dalle corna mozzate e con uno strano braccio che usa come arma, invecchierà molto lentamente, trasformandosi in un quasi-supereroe al servizio di un ufficio che si occupa di vicende paranormali. Hellboy attinge alle solite fonti di ispirazione di tutti i fumettisti horror – Mary Shelley, Edgar Allan Poe, H. P. Lovecraft – ma mescola gli ingredienti con una originalità che risulta ancora oggi sorprendente. Hellboy è una serie che alterna verbose riflessioni sull’occulto a spettacolari scene di azione che esaltano il disegno di Mignola, incredibilmente capace di creare un’oscurità cupa ma anche divertita, ironica. Hellboy assomiglia a certi gol in rovesciata che vengono ritrasmessi senza che nessuno si annoi a rivederli. È il gesto tecnico perfetto, a volte così perfetto da sembrare quasi un esercizio di stile. Ma uno stile notevole. E l’edizione della Magic Press, dopo anni di libretti dalla periodicità incerta, esalta tutto questo in un volume definitivo.

 

Con Leonardo a lezione dal Verrocchio

Il sistema scolastico italiano non è certo dalla parte dei maestri: deprezzati dalle lungaggini della burocrazia, il loro ruolo ricorda pallidamente la centralità culturale tributata da Socrate: “Il maestro ispira”. È forse per tale guasto dei nostri tempi, per lo svigorimento di una maschera sociale tanto esemplare, che dell’imperdibile grande mostra Verrocchio – Il maestro di Leonardo (a cura di Francesco Caglioti e Andrea De Marchi) non è stato molto apprezzato il titolo, che – c’è da dirlo – occhieggia furbescamente alle commemorazioni dell’artista vinciano (che parrebbe oscurare il maestro).

Eppure, il messaggio dell’esposizione è chiaro: nulla per Leonardo sarebbe stato possibile, se non attraverso l’exemplum di Andrea di Michele del Verrocchio (1435 circa-1488). È lui il genio, il reale simbolo di una universalità artistica: fu difatti grande plasticatore, metallurgo, scultore del marmo, pittore, disegnatore, architetto, musico e questa prima monografica dedicatagli rende giustizia all’eclettico talento dell’artista fiorentino, che trasformò la bottega medievale nell’accademia rinascimentale, ed esaltò il classicismo – l’amore per l’infinito dettaglio e la geometria suprema dell’insieme – nella Maniera moderna.

In realtà, dalla Firenze medicea, fu il maestro di tutti. E nelle undici sezioni della mostra, i molti capolavori del Verrocchio dialogano con i suoi diretti e indiretti discepoli: l’etereo busto della Dama dal mazzolino (1475) si specchia in uno studio di Braccia e mani femminili di Leonardo (1519) come pure impressiona l’accostamento tra la sua luminosa Madonna col bambino e due angeli (1470) con l’omonimo e contemporaneo dipinto di Botticelli; sempre degli stessi anni sono la Madonna col bambino di Pietro Perugino e la Madonna in adorazione del Bambino di Domenico del Ghirlandaio, che portano gli insegnamenti del Verrocchio in Umbria e a Roma (dove poi parteciperanno ad affrescare le pareti della Cappella Sistina). La retrospettiva rende conto nelle sale del Bargello anche della produzione scultorea del Verrocchio, in bronzo con il gruppo Incredulità di San Tommaso (1467-88) e in terracotta policroma con Resurrezione di Cristo (1470).

Ma qui spicca di nuovo Leonardo: una Madonna col bambino in terracotta prestata dal V&A Museum di Londra, e lì esposta come opera di Antonio Rossellino, sembrerebbe l’unica scultura giunta fino a noi attribuibile all’allievo da Vinci, che ancora vuol togliere la scena al proprio maestro.

Verrocchio – Il maestro di Leonardo Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 14.7

Ascoltate l’amore prima che piova

Sebbene il mare sia ciò che tutto anima e intorno al quale tutto ruota, sa di pioggia, più che di salsedine, l’esordio di Francesco Longo. Pioggia d’autunno. Mese “ingannevole come una caramella al rabarbaro”. Gocce pingui e scroscianti, che lavano via quanto di più intimo e prezioso possediamo: i “giorni felici dell’estate”. Reale e simbolica. Una sorta di ‘pioggia nel pineto’ – fisica o immaginaria – avvolge, irrora e punteggia sguardi, pensieri, silenzi, parole dette o solo vagheggiate da Michele, protagonista e voce narrante. Esordio delicato, intenso, travolgente. Per la filigrana della scrittura: intima e a tratti poetica; per la forza di sentimenti, tanto più forti quanto più acerbi o, addirittura, inespressi; per la potenza delle onde della “Grande Mareggiata da Sud”, che i giovani surfisti della “Baia di Santa Virginia” sognano, attendono, temono. Ineludibile momento della verità. Costringe a capire di che pasta si è fatti. E, soprattutto, per chi o per cosa valga davvero la pena tuffarsi. Letteralmente, nel loro caso. Metaforicamente, nel nostro. Sulle coste di una “California” – mediterranea e tropicale, familiare e selvaggia – a solo un’ora di treno da Roma, sta per abbattersi la “tempesta perfetta”. Il gruppo di amici si ritrova per vivere il più classico e dilaniante tra i riti di passaggio: quello dalla vitalità “dionisiaca” dell’incoscienza (“nessuno voleva parlare di futuro”) al regime normalizzante e soffocante della consapevolezza (“si preparavano a diventare cardiologi di reparto negli ospedali, notai con le targhe di ottone fuori dalla stanza, avvocati di studi rinomati”). Apparteniamo a una specie davvero strana: la natura ci lascia assaporare l’ebbrezza del volo libero e colorato delle farfalle, la società ci obbliga a rientrare nel bozzolo e ritornare bruchi. “È possibile accettare che gli anni del gruppo della Baia non tornino più?”. Si respira una fragranza lontana di Finzi-Contini. Non tanto per il nome della protagonista – Micol – o il fatto che anche lei sia ebrea. Leggi razziali, guerra mondiale e deportazioni sono, per fortuna, lontani anni luce dal presente dei ragazzi della Baia. La loro spensieratezza – fatta di bici, spiaggia, bagni, ping-pong, tennis, limonate e canzoni intorno ai falò – riecheggia, però, quella dei loro coetanei ferraresi. Una cenere di serenità sotto la quale cova la brace di una minaccia imminente. Non sarà tragedia ma il cielo “gronda sciagura”. Solo l’amore potrebbe evitarla. Se solo Michele ascoltasse quando Micol gli parla o parlasse quando lei lo ascolta. Nodo inestricabile. Più tiri, più si stringe.

Resta la più dolorosa delle nostalgie: quella per le cose che avrebbero potuto essere e non sono mai state. “È arrivata la fine del mondo ed è bellissima”, dice Valentina. “E che si fa?”, risponde Michele. Preparate la tavola. Tocca a tutti, prima o poi, un muro d’acqua da affrontare. Solo un consiglio: nel caso incrociaste due occhi accesi da “minuscole screziature d’oro”, simili a quelle che si scoprono osservando la superficie della Luna con un telescopio, smettete di cercare: avete trovato l’amore. Continuando, rischiate solo una cosa: perderlo.

 

Hoffman e Servillo recitano per Carrisi

Dustin Hoffman recita da qualche settimana a Cinecittà con Toni Servillo ne L’uomo del labirinto, un noir realizzato da Gavila con la produzione esecutiva di Colorado Film e diretto da Donato Carrisi dopo l’adattamento del suo romanzo omonimo sulla misteriosa scomparsa di una giovane donna rapita da uno psicopatico. Il film verrà distribuito da Medusa come già avvenuto per La ragazza nella nebbia, l’opera prima dello scrittore e regista pugliese sempre interpretata da Servillo e premiata con il David di Donatello e venduta in 25 Paesi.

Due interpreti di grande talento come Giuseppe Battiston e Stefano Fresi, il primo nato a Udine 50 anni fa e il secondo romano di 44 anni, reciteranno finalmente insieme e potranno provare le loro distinte doti e personalità agli spettatori più distratti che confondono uno con l’altro per il comune aspetto corpulento e l’innata simpatia. Accadrà ne Il grande passo, opera seconda del 32enne Antonio Padovan realizzata in questi giorni in Polesine. I due attori saranno due fratelli molto simili nell’aspetto ma diversissimi che non si sono praticamente mai conosciuti e vedranno offrirsi dalla vita l’occasione di avvicinarsi diventando protagonisti di un’impresa sorprendente.

I gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo torneranno presto sul set dopo l’ottima accoglienza riservata alla loro opera prima La terra dell’abbastanza alla Berlinale e al Sundance Film Festival dove il loro regista di culto Paul Thomas Anderson ha voluto conoscerli elargendo entusiasta consigli per una nuova sceneggiatura. Il secondo film dei registi romani trentenni si chiamerà Ex vedove e sarà un western al femminile ambientato nell’800 in Calabria.

 

L’illusionista Gaetano Triggiano e il suo one-man show “muscolare”

Il suo spettacolo è puro entertainment, all’americana: ci sono le performance di magia – alcune davvero mozzafiato –, il dialogo con il pubblico, con un notevole lato comico e coinvolgente e perfino una sorta di cabaret smart, in particolare un racconto di un corteggiamento con la magia. L’illusionista Gaetano Triggiano è autoironico, il suo rapporto con il pubblico è parte integrante dello spettacolo, l’interazione è totale. Dopo le date sold-out di Milano arriverà a Roma al Teatro Brancaccio oggi, domani e domenica, a Napoli al Teatro Politeama il 3, 4 e 5 maggio, a Genova il 9 e Montecatini l’11, poi nuovo tour ad ottobre. La direzione artistica è di Arturo Brachetti. La parte centrale è quasi un invito a decifrare la sua magia pur mantenendone, di fatto, l’alone di mistero. Lo chiamano il David Copperfield europeo: “Per me è stato un modello all’inizio della carriera”, racconta l’illusionista, “da lui ho assorbito lo studio dei dettagli, della musica e delle luci. Essere paragonato a lui mi lusinga ovviamente, anche se il mio stile è più pop-rock e moderno con una particolare attenzione all’arte teatrale”. Oltre un’ora e mezza di one man show, con uno sforzo fisico notevole: “La fantasia è il primo ingrediente per alimentare stupore e incanto. Non mi pongo limiti razionali anche se c’è sempre da affrontare il gap della realizzazione. Ci vuole impegno fisico e concentrazione, da tenere per tutto il tempo dello show: l’illusionista non può permettersi distrazioni ed errori”.

Da dove arriva l’ispirazione per i suoi numeri? “Alcune performance nascono per esigenza, altre per caso. Ogni illusione nasce da una suggestione, dall’emozione che voglio trasmettere al pubblico. La molla che voglio far nascere allo spettatore è “cosa accadrebbe se”, l’attesa. Sono un attento osservatore con un animo da bambino, un bugiardo che vuole regalare stupore e meraviglia. Diventano adulti solo coloro che non riescono più a sognare: il mio compito è portare tutti in un mondo parallelo in cui realtà e illusione si fondono e si confondono”.

 

Martone sbrina il “Tango glaciale”

Cosa è rimasto di Tango glaciale a 36 anni di distanza, ora 37? Tutto, ma in proporzioni ribaltate: poco tango, molto glaciale, come prevedibile in un’operazione di sbrinamento teatrale. Firmato da Mario Martone, e riallestito grazie al progetto “RIC.CI – Reconstruction Italian Contemporary Choreography”, lo spettacolo chiude la tournée a maggio: più danza che prosa, più musica che drammaturgia, per ricostruire la trama è saggio affidarsi alle parole del regista, anche perché le poche che si ascoltano in platea sono schegge di greco antico, inglese, tedesco… Di che parla quindi il pur afono Tango glaciale (adesso in modalità reloaded)? Dell’“attraversamento di una casa da parte dei suoi tre abitanti; dal salotto alla cucina, dal tetto al giardino, dalla piscina al bagno: un’avventura domestica che si trasforma continuamente proiettandosi nel tempo e nello spazio”.

Protagonisti dell’incalzante allucinazione sono due uomini e una donna, ora coinvolti in una sparatoria tra spie, ora affaccendati con l’aspirapolvere e la spazzatura, ora trasformati in discoboli e vestali, ora spiaggiati ai bordi di piscinette-discarica, ora flirtanti, ora scatenati in balli sotto la doccia… Anche gli oggetti hanno un’anima danzerina qui: automobili che si tuffano nell’acqua, cieli stellati e cadenti, ammiccanti ragazze-manichino, sassofoni volanti, mobili gioiosamente distrutti. La scena più divertente (di dodici; un cambio scena ogni cinque minuti circa) resta, però, quella in mezzo alla natura: una coreografia a ritmo con le cesoie dei giardinieri e buffe maschere orientali di elefanti e tigri.

“Spettacolo-manifesto” del 1982, Tango glaciale era allora interpretato da Andrea Renzi, Tomas Arana e Licia Maglietta (della storica compagnia napoletana Falso Movimento), mentre ora in palco ci sono Jozef Gjura, Giulia Odetto e Filippo Porro, ottimi danzatori, discreti attori. Il grosso dell’ensamble si nasconde, però, dietro le quinte con notevole e raffinatissimo lavoro delle maestranze: Raffaele Di Florio e Anna Redi, che curano il riallestimento; Alessandro Papa, che firma le elaborazioni videografiche; e poi gli interventi pittorici di Lino Fiorito; i cartoons di Daniele Bigliardo; le parti cinematografiche di Angelo Curti e Pasquale Mari; la colonna sonora di Daghi Rondanini; i costumi di Ernesto Esposito.

La pièce va forte e veloce in nemmeno un’ora di recita: sembra un videoclip degli anni Ottanta, lisergico, colorato, straniante, ironico, edonista, psichedelico, quasi – sempre parola del regista – “un’opera di fantascienza, come certi racconti di Ray Bradbury”. Forse il limite dell’operazione è proprio questo: aver fissato su palco, come una novella su carta, un lavoro per sua natura cangiante. Una volta sbrinato, il Tango si è subito, di nuovo, cristallizzato, imbalsamato, immortalato, dando l’impressione di assistere a un pezzo di museo più che di teatro.

Roma, Teatro India, fino a domenica; Udine, Palamostre, 17 aprile; Fano, Teatro della Fortuna, 8 maggio; Modena, Teatro Pavarotti, 9 maggio; Milano, Teatro Franco Parenti, dal 14 al 19 maggio

 

Oro verde: anche gli indios muoiono per avidità

Anche la droga ha una storia, e a scriverla in Colombia sono gli indigeni wayuu, che negli anni 70 alla domanda degli hippie americani risposero, sventurati loro. Bonanza marinbera il periodo, il deserto de La Guajira il luogo, cannabis la sostanza. Il talentuoso colombiano classe 1981 Ciro Guerra, a quattr’occhi con l’esordiente Cristina Gallego, rolla immagini e alluma poetica: Oro verde – C’era una volta in Colombia per l’Italia, Birds of Passage in originale, buono per la shortlist del miglior film straniero agli ultimi Oscar e una pletora di riconoscimenti.

Presiederà la giuria della 58esima Semaine de la Critique a Cannes, sta montando Waiting for the Barbarians, tratto da J.M. Coetzee e interpretato da Johnny Depp, Mark Rylance e Robert Pattinson, viene dal successo de L’abbraccio del serpente (2015), Guerra è uno dei meglio registi under 40 al mondo, e qui (di)mostra perché: gangster per movimento, spirituale per tempo, estatico per immagine, Oro verde riscrive il genere noir, come diversamente fece Gomorra di Matteo Garrone nel 2008.

Per entrambi il modello, e l’antagonista, è Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, perché la tensione simbolica è condizione antropologica: “Ha anche qualcosa dei western, della tragedia greca e dei racconti di Gabriel García Márquez, i film di genere sono diventati gli archetipi leggendari della nostra era”.

Non è punto d’arrivo, ma di partenza per Guerra, che tra madre padrona (Ursula, Carmiña Martínez), genero traccheggiante (Raphayet, José Acosta) e figlia ignava (Zaida, Natalia Reyes) castiga le geometrie omicide del (neo)capitalismo e stigmatizza la precarietà strutturale dei wayuu, al contempo vittime, complici e carnefici.

“Intuizione contro ragione, innocenza contro vendetta, parola contro onore, tutto per raccontare l’immane sciagura che ci avrebbe maledetto per sempre”, però senza moralismi né infingimenti, bensì giusta distanza (campi lunghi), composizione dell’inquadratura (democratica) e profondità di campo (e di sentire).

Non si ammazzano così anche gli uccelli, e a venire strozzato è proprio lo jayeechi, l’endemico canto degli uccelli: non si muore per amore, ma per avidità, convenienza e colpevole e mistificante ancoraggio alle origini, incarnato da Ursula. Non si salva nessuno, eccetto il film: Guerra baratta estetica per etica, canta funebre e sussulta immaginifico. Il bello è comunque morale, perché esplicitamente indifferente, uguale nella vita e nella morte, giusto persino, e indelebile: Zaida che danza e incalza Raphayet nel prologo è la più splendida sequenza dell’anno.

Sì, Oro verde è sfidante, parlato indigeno (sottotitolato) e spagnolo (doppiato), agito secondo codici di genere (Hollywood) e disegnato da civiltà primitiva (Colombia), quindi attualissimo e vetusto insieme: Ursula impera, Zaida subisce, Raphayet si prova, e noi a tirar le fila tra enciclopedia e poesia. Da vedere, anzi, contemplare.

 

Fermi tutti: ora la Tate impone la visione lenta

La Tate di Londra si è accorta che i visitatori guardano le opere esposte per non più di 8 secondi e perciò, nel giubilo degli ambienti intellettuali rispettabili, ha approntato una guida allo slow looking, sguardo lento, sul filone molto sofisticato dello slow food. Chiediamo subito: la fruizione distratta è una colpa del visitatore? In parte sì, da quando al cospetto di dipinti e monumenti ci lasciamo nevrotizzare dalla bramosia testimoniale dei selfie. Epperò spesso sono gli stessi curatori di mostre a incoraggiare il binge watching, l’abbuffata bulimica di opere d’arte radunate tutte insieme secondo logiche puramente pubblicitarie in contesti stranianti, dove esse appaiono spaesate, nude e violate. In questo filone da fast looking, si ricorda una mostra di fine 2009 alla Galleria Borghese che esponeva insieme il seducente orrore di Caravaggio e la psicosi carnale di Bacon in una luce splatter e feroce da macelleria. L’entrata a numero controllato consentiva ai visitatori pochi secondi per osservare i dipinti, davanti ai quali si doveva passare in fretta come davanti alla mummia di Lenin, al fine di consentire il deflusso della folla sopravveniente, tipo percorso Ikea.

Ultimamente, questa diseducazione è incoraggiata da larghi e prestigiosi settori dell’intellighenzia: si pensi alla polemica che è seguita al diniego del ministro Bonisoli allo spostamento delle Sette Opere di Misericordia di Caravaggio, una pala d’altare del 1607, dal Pio Monte della Misericordia al Museo di Capodimonte, a Napoli. L’appello di 100 intellettuali all’interno di una campagna martellante del solito “partito del Sì” perché il ministro consentisse il prestito, occulta nell’elogio acritico della mobilità dell’arte la sua trasformazione in prodotto a disposizione di chi paga per vederlo, come se fosse logico che sulle ali del denaro esso vada incontro a chi lo desidera, come fosse ordinato su Amazon, invece di venire omaggiato nella sua sede protetta. Nel caso, si preferisce esporre il dipinto a potenziali traumi pur di consentire ai visitatori pigri di ingurgitare quanto più possibile Caravaggio in un’unica sessione, come nei ristoranti all you can eat, evitando loro la seccatura di percorrere a piedi i due chilometri che separano i due siti.

Certo, come fa notare Vittorio Sgarbi, sarebbe coerente imporre a Capodimonte la restituzione della Flagellazione di Caravaggio alla chiesa di San Domenico Maggiore, al cui altare appartiene. Ma questa schizofrenia non è un argomento a favore dello spostamento, semmai ne è una incontrovertibile critica. Tutto il sistema dei prestiti costringe curatori (o, come si dice oggi, valorizzatori) e conservatori allo scontro tra fisica e promozione. Si arriva al paradosso per cui un capolavoro viene protetto con grande dispendio di denari e tecnologie contro umidità, furti, incendi, terremoti, frane, urti e alluvioni, ma è continuamente esposto alla smaniosa mano del marketing e alle fantasie dei valorizzatori, perché distratti visitatori possano guardarlo per qualche secondo. Si tratta della stessa frenesia marketologica che indusse l’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi a forare i dipinti del Vasari a Palazzo Vecchio per scovarvi una lucrosissima battaglia di Anghiari di Leonardo, che però non c’era. Abbiamo negli occhi molta più Gioconda riprodotta e virtuale di quella reale, e unica, che si può vedere al Louvre per pochi minuti e una volta o due nell’arco di tutta una vita. In ciò la Tate arriva con 80 anni di ritardo rispetto alle riflessioni di Walter Benjamin sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. La pedagogia della Tate rivela una provinciale dabbenaggine quando suggerisce di mettere una “sveglia al telefono” per guardare i dipinti per i 10 minuti raccomandati (lo scrittore Thomas Bernhard trascorreva intere giornate nella Pinacoteca di Vienna a guardare sempre gli stessi capolavori, e confessava di non averli capiti), nonché una natura pubblicitaria nei consigli politicamente corretti come “non isolarsi”, godere “dell’ambiente circostante”, ascoltare il “rumore degli altri visitatori che chiacchierano” (come se non bastasse la canea dei social network).

Alla nostra classe dirigente e all’intellighenzia che le regge il moccolo piace molto disporre dell’arte, che è di tutti, ai fini della “crescita” (tutto ciò che è possibile tecnicamente, è un progresso); non è un caso se sono gli stessi che plaudono all’iniziativa della Tate sospirando “ah quanto sono colti e sensibili gli inglesi, è proprio vero che i dipinti vanno guardati per dieci minuti”.

I “tre tenori tv” al Costanzo show esalano aromi termali

La costanza di Maurizio Costanzo è ammirevole. Ma l’ultima stagione del Costanzo show esala un aroma termale agli antipodi delle risse e degli Uno contro tutti che furono. Ora siamo all’Uno per tutti, conversione degna dell’Innominato, siamo allo scambio di superlativi, come si è visto ieri nella celebrazione dei “tre tenori” Gerry Scotti, Paolo Bonolis e Carlo Conti. Siccome la serata d’onore al cubo duplicava quella dedicata nel 1998 a Raimondo Vianello, Corrado e Mike Bongiorno, il confronto è fatale. Vent’anni fa, pur in declino, la tv era ancora il focolare elettronico della famiglia italiana, i suoi divi erano amati davvero come parenti lontani, zii d’America. Quelli di oggi sono altra cosa, nella migliore delle ipotesi artigiani della qualità apprezzati dai nonni, ma pressoché ignoti ai nipotini. Detto ciò, Gerry Scotti ha fatto suo lo stile Corrado, bonomia taragna al posto dell’ineffabile sfottò, ma stessa empatia con i concorrenti (i concorrenti sono il segreto di tutti e due). Il ragionier Conti è una perfetta combinazione di Pippo e Mike, 50 di affidabilità, 50 di inossidabilità, zero per cento di originalità, vista a ragione come un pericolo mortale. E questo ci porta a Bonolis: il più originale, il più ambizioso, il più estroso dei tre tenori 2.0, eppure finito a celebrare (e vantare!) i siparietti più volgari dell’etere. Uno stile Bonolis non è mai nato, e forse nella tv dell’ultimo ventennio non poteva nascere. Altro che ciao Darwin; ciao Core.

Salvini è come B: stesse vaccate sulla Liberazione

Noi pensavamo che sulle vaccate a tema 25 Aprile Berlusconi fosse imbattibile. Negli anni d’oro il Cavaliere non ci ha fatto mancare nulla: una serie gloriosa di supposte gaffe (c’era ancora il pericolo comunista). La meglio figuraccia l’ha fatta all’alba del millennio, quando a Porta a Porta Fausto Bertinotti ricordò la storia dei fratelli Cervi “uccisi dai fascisti”. B, in anticipo di 19 anni sulle recenti dichiarazioni confuse, ribatté prontamente: “Sarò felicissimo di andare a trovare papà Cervi, nobilissima figura che ha tanto sofferto”. Bertinotti gli fece notare che purtroppo la cosa era impraticabile dato che papà Cervi era morto da tanto tempo e i suddetti fratelli Cervi erano stati uccisi nel ’43.

Sappiamo che il supereroe di quel fumetto che si chiama esecutivo giallo-verde (Matteo Salvini) è più il tipo da “bella zio” che da Bella ciao. Tuttavia il prossimo anniversario della Liberazione (festa nazionale voluta dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, non proprio un pericoloso stalinista) lo troverà (anche noi siamo stupiti) ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio. Nonostante questo (che gli deve sembrare un particolare del tutto trascurabile), Salvini ha annunciato che non parteciperà alla Festa per la Liberazione. “La lotta a camorra, ’ndrangheta e mafia è la nostra ragione di vita. Il 25 aprile non sarò a sfilare qua o là, fazzoletti rossi, fazzoletti verdi, neri, gialli e bianchi. Vado a Corleone a sostenere le forze dell’ordine nel cuore della Sicilia”.

Come se partecipare alla commemorazione della Liberazione fosse in competizione con qualcosa (e comunque, non ci fosse stata la Resistenza, e dunque la Liberazione, non ci sarebbe l’Italia per come la conosciamo). La cosa farebbe ridere, se non facesse già piangere. Urge un ripassino di Storia: la Liberazione dal nazifascismo è una festa antifascista, e di qui non si scappa. Come lo è la nostra Costituzione (su cui pure Salvini ha teoricamente giurato, speriamo dopo averla letta). Non c’è la par condicio tra partigiani e nostalgici del regime, e nemmeno la gara mafia-liberazione: almeno non dovrebbe esserci, sopra i cinque anni. E non vale nemmeno dire (si sente anche questo, purtroppo) che la festa è “divisiva”: se accade è perché le “alte cariche dello Stato” (quelle che dovrebbero partecipare alle commemorazioni ufficiali, tra l’altro) non conoscono la Storia, o non la rispettano. È stato dopo il 25 Aprile che l’Italia, spezzata in due dal ’43 (la Sicilia dove Salvini andrà, era stata liberata dagli Alleati) è tornata a essere una Nazione unita. L’altro vicepremier, Luigi Di Maio, ha detto che invece sarà presente alle commemorazioni. Primi commenti: litigano su tutto, e il più nuovo “i 5Stelle si spostano a sinistra”. Ma questa, che è una delle nostre vicende più politiche, non ha più a che a fare con la politica.

È vero che l’antifascismo è stato ridotto a una bandierina (scritta avvistata su un muro della Prenestina qualche giorno fa: “Monogamy is the new fascism”) da gente che tira fuori l’insulto massimo quando non ha più argomenti, però non si può nemmeno accettare che il vicepresidente del Consiglio tratti con questa sufficienza i fondamenti della nostra Repubblica (e le persone che hanno reso possibile uscire da una dittatura). Una volta c’era il senso delle istituzioni (e anche il caro vecchio consiglio della nonna: prima di parlare conta fino a dieci), oggi c’è l’algoritmo delle convenienze: in maggio si vota in 34 Comuni siciliani. E così si spiega l’ultima uscita di Salvini.

Fischia il vento dell’ignoranza e infuria la bufera degli opportunismi: di rotto non abbiamo solo le scarpe.