Ma che invasione: i nomadi sono 180 mila persone

Caro direttore, temo proprio che gli italiani stiano sprofondando in un mare di ignoranza… con qualche lacuna (come sarcastico diceva Mario Missiroli di un noto collega). A sentire la tv, da una parte sembriamo un Paese omicida e femminicida come nessun altro, dall’altro una contrada invasa da torme di zingari e di nomadi che rubano, borseggiano, estorcono, spadroneggiano, violentano. A Roma poi per poco non si impossessano in massa dei quartieri periferici e del Campidoglio. Ma quanti sono i cosiddetti “nomadi” in Italia? A Roma?

In tutta Italia vengono stimati in 160-180.000 unità, con qualche incremento dopo l’ammissione di Romania e Bulgaria nell’Unione europea. Dietro la sigla di “nomadi” – ormai decisamente invecchiata visto che in gran parte sono stanziali – c’è un mosaico di popolazioni che comunque si rifanno alla cultura “romanì” ricca di tradizioni lontane. A Roma risultano 6.659, lo 0,22 per cento dei romani, mentre a Torino e a Napoli sono lo 0,26 per cento di quei residenti. Nessuna invasione quindi.

Anzi, fra i Paesi europei più importanti siamo quello che ne ospita di meno: in Spagna, dal grande passato gitano, sono fra i 650 e gli 800.000 dei quali 70.000 (di cui 12.000 stavano nei campi) nella sola Madrid che ha gli stessi abitanti di Roma, più o meno, e dove scene di rigetto o addirittura di razzismo sobillate dalla destra fascista non ci sono state. Anche per un solo alloggio popolare, com’è successo l’altro giorno a Casal Bruciato. E a Roma i nomadi sono, come ho detto, undici volte meno che a Madrid: 6.659 in tutto, ma chi glielo spiega nel mare di ignoranza con qualche lacuna? Pensare che la Municipalità di Madrid ha abbandonato la politica dei campi nomadi – la quale produce, secondo la stessa Onu, segregazione e degrado inesorabili – chiudendone 110 e passando dal 2011 ad una strategia di inserimento, di inclusione nei quartieri cittadini, con investimenti importanti, certo, in corsi di educazione e di formazione, con risultati eccellenti. Un modello per l’Europa.

In Francia sono all’incirca il doppio che da noi: 280-340.000 unità, in Gran Bretagna attorno a 240.00, nella piccola Grecia risultano più o meno come in Italia. Ma, mentre da noi rappresentano lo 0,26 per cento della popolazione, in Grecia ne costituiscono il 2 per cento, una bella differenza. In Italia poi la metà dei nomadi presenti è a tutti gli effetti cittadino italiano e 4 su 5 ormai hanno una casa. Il problema vero rimane il loro basso grado di scolarizzazione: soltanto il 38 per cento dei loro ragazzi in età scolare frequenta le lezioni. Appena 107 erano registrati alle superiori. Ovviamente questa condizione di semianalfabetismo pesa molto sulle possibilità di occupazione, anche se oggi il 40 per cento di Rom, Sinti, Camminanti, ecc. ha un lavoro stabile. Ma nell’Unione europea questa quota sale al 60 per cento. L’Italia ha poi attinto ai fondi europei per le politiche di integrazione dei nomadi? Pare di no. Forza Casa Pound e Forza Nuova!

Le lobby non fanno male all’Europa

Il numero molto elevato di lobby che “premono” sulle istituzioni europee, in particolare, sui commissari e sugli europarlamentari, costituisce un segnale doppiamente positivo. Da un lato, l’Unione europea si rivela, ma tutti dovrebbero saperlo da tempo, un luogo di vivacità imprenditoriale, professionale, commerciale molto diversificato e dinamico. Dall’altro, risulta limpidamente che nell’Ue esiste pluralismo, possibilità di accesso alle istituzioni, grande democraticità, persino sostanziale trasparenza.

Chi sostiene, come sembrano fare Milena Gabanelli e Luigi Offeddu (“Il peso delle lobby sulle scelte europee”, Corriere della Sera, 8 aprile 2019, p. 13), che le lobby influenzano indebitamente le decisioni europee, dovrebbe portare non solo aridissimi numeri, ma prove concrete di direttive formulate dai Commissari e di leggi approvate dagli europarlamentari sulla base di richieste avanzate da specifiche lobby. Fermo restando che accesso alle sedi decisionali non significa affatto influenza, meno che mai preponderanza, è decisivo per qualsiasi critica e denuncia che i fatti siano raccontati con precisione e appaiano probanti. Forse, è prima di tutto molto utile descrivere il contesto nel quale si situa l’azione delle lobby europee.

L’Unione europea è un sistema politico dove vivono e lavorano più di 500 milioni di persone. È fatta di 27 Stati-membri ciascuno dei quali ha, in materia di procedure decisionali e apertura ai gruppi di interesse, sue tradizioni, una sua legislazione, un più o meno alto (spesso basso) grado di accettazione di politiche competitive e di espressione di interessi e delle rispettive organizzazioni. A loro volta, in partenza ciascuno degli europarlamentari non può che essere influenzato da quanto ha conosciuto e sperimentato nel suo paese, dalle pratiche colà diffuse e dalle esigenze che immediatamente percepisce una volta entrato nel Parlamento europeo a contatto con parlamentari di partiti affini o no provenienti da altri paesi, ugualmente “segnati” dalle loro esperienze nazionali, politiche e professionali. Comprensibilmente, nessuno di loro è in grado di conoscere il tessuto economico della maggior parte degli altri Stati-membri e le modalità di organizzazione e di espressione degli interessi.

Quando si confronta con le disposizioni legislative formulate dalla Commissione, ciascuno degli europarlamentari, in particolare i più attivi, ma anche coloro che si rendono conto della complessità delle tematiche, cercheranno di documentarsi al massimo anche rivolgendosi alle lobby oppure, altrettanto spesso, accettando di incontrare i lobbisti che ne fanno richiesta. Costoro hanno informazioni e le forniscono, ovviamente sempre sottolineando quegli elementi che sono per loro particolarmente importanti. Non è affatto semplicistico sostenere che è proprio la molteplicità delle lobby che consente agli europarlamentari (e ai commissari) di esporsi ad altri punti di vista, di soppesarli, confrontarli, valutarli in maniera sostanzialmente non diversa da quello che succede nei contesti nazionali che, però, sono di più facile comprensione per coloro che vi hanno fatto politica e/o svolto una professione.

Un discorso molto simile vale per tutti i commissari. Dovendo formulare politiche e prendere decisioni che riguarderanno ventisette Stati (e l’Unione nel suo complesso), ciascuno di loro ha assoluto bisogno di un surplus di informazioni e conoscenze. In parte le trarranno dai loro rispettivi gabinetti, plurinazionali, se costruiti con acume e accuratezza. Naturalmente, anche quei funzionari avranno attinto informazioni dalle lobby. In parte, presteranno ascolto direttamente ai lobbisti cercando un equilibrio fra le fonti, senza privilegiare nessuno. Talvolta, però, il “privilegio” può essere conquistato, senza scandalo, dai lobbisti più capaci, che si dimostrano credibili nelle loro critiche e nei loro suggerimenti, che offrono materiale importante per la formulazione di una o più direttiva. Tanto gli europarlamentari quanto i commissari hanno tutto l’interesse politico e professionale a “fare una bella figura”.

Lasciare pensare senza riferimenti precisi e senza prove concrete che le politiche europee sono il prodotto di 11.801 lobby (è la cifra riportata da Gabanelli e Offendu) significa non sapere come funzionano i sistemi politici democratici – e l’Unione europea è un sistema politico democratico, aperto e pluralista. Significa anche, e in questa fase è un errore gravido di pessime conseguenze, fare un cattivo servizio alla comprensione dell’Unione europea che non è succuba delle lobby, ma esposta alle pressioni e ai ricatti degli Stati-membri e dei loro governanti i quali sarebbero felicissimi di scaricare i loro egoismi e le loro inadeguatezze sulle manovriere, insidiose, ingannatrici lobby.

Mail box

 

Forse non ci siamo resi conto dell’importanza del buco nero

L’immagine del buco nero ottenuta dagli scienziati dovrebbe provocare uno sconvolgimento nel modo di pensare e percepire l’Universo, tuttavia non mi sembra che ciò stia avvenendo, anzi sembra contrapporsi l’entusiasmo degli appassionati della ricerca scientifica all’indifferenza degli altri. Sinceramente mi sento profondamente schierato con la prima categoria, e personalmente posso soltanto ricordare che quando ero studente e studiavo astronomia non esisteva nemmeno una discussione sulla possibilità di fotografare un buco nero. Inizialmente i buchi neri erano soltanto oggetti teorici prodotti dalle deduzioni inerenti alla Teoria della relatività di Albert Einstein, poi erano diventati un argomento di moda con i libri di Stephen Hawking. Ma nessuno pensava di poterli fotografare perché erano oggetti per definizione estremamente sfuggevoli. Un enorme cambiamento fu introdotto dall’ipotesi della “radiazione di Hawking” che immaginava la produzione di forti emissioni ai margini del buco nero, appena prima del cosiddetto “orizzonte degli eventi”. Ed eccoci oggi con la fotografia di ciò che era soltanto pensato. Se questo dovrebbe sconvolgerci, ancora maggiore dovrebbe essere la meraviglia apprendendo che la teoria del Big Bang è stata ampiamente superata da teorie che sostituiscono un universo unico con una pluralità di universi, il cosiddetto multiverso. Al momento l’uomo comune non sembra essere ancora coinvolto da ciò che sta cambiando la conoscenza scientifica, tuttavia prima o poi ne subirà le conseguenze.

Cristiano Martorella

 

Il fascismo esiste ancora, si è solo trasformato

Grandi polemiche su fascismo e antifascismo. Dalla parte dei fascisti primeggiano vecchi arnesi, sparsi in vari partiti secondo convenienza.

Tra gli antifascisti odierni ci sono troppi “pentiti’’ del renzismo.

Io credo fermamente nell’antifascismo dei Calamandrei, di Nenni e di Berlinguer, ma ritengo che quel tragico fenomeno che passa sotto il nome di fascismo in Italia abbia un padre e una madre che sopravvivono tutt’oggi.

Frodare il fisco, truccare i concorsi, ma anche far carriera con raccomandazioni: sono queste cose che preparano il terreno in cui nascono e prolificano tutti i movimenti reazionari, con le loro molteplici declinazioni.

Franco Novembrini

DIRITTO DI REPLICA 

In merito all’articolo pubblicato sabato 6 aprile, titolato “Milano, sistema Corsico: ‘Mafiosi e trafficanti di droga al lavoro negli appalti pubblici, dai rifiuti alle mense’” Scrivo le presenti righe per conto della mia assistita “Miorelli Service S.p.a.”, azienda a conduzione familiare. Si chiede la smentita per l’accostamento del nome di Miorelli Service a gravi situazioni delittuose, inopinatamente adombrato nell’articolo. Negli appalti pubblici vige la “clausola sociale” imposta dall’art. 50 del codice dei contratti che impone all’impresa che vince una gara pubblica di assumere tutto il personale impiegato dal precedente gestore: questo impedisce ontologicamente la selezione del personale da parte delle imprese subentranti, che non possono far altro che “assorbire” la precedente manodopera, con tutti i pregi ed i difetti ad essa connaturati. Questo è accaduto (anche) per l’appalto che, per poco più di un anno, la mia assistita ha gestito per il Comune di Corsico: Miorelli Service ha “ereditato” tutto il personale precedentemente impiegato nell’appalto, senza poterne selezionare alcuno sulla base delle capacità lavorative o sulla scorta della “tenuta morale”. Ma anche laddove fosse stato possibile procedere con una accurata selezione, è noto che, in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne inibisca l’attività lavorativa, nessuna impresa può “discriminare” un lavoratore per i suoi precedenti. Smentiamo dunque il coinvolgimento anche indiretto di Miorelli Service S.p.a. nelle indagini che coinvolgono l’Amministrazione comunale di Corsico. La Miorelli Service è iscritta nella “white list” del Commissariato del Governo di Trento. La rettifica si rende necessaria per evitare di scalfire ulteriormente la reputazione professionale di Miorelli Service S.p.a. La mia assistita assicura da 40 anni di i propri servigi non soltanto alle più importanti Pubbliche Amministrazioni e Gruppi Privati del Paese, ma anche a soggetti istituzionali “sensibili”.

Avv. Massimiliano Brugnoletti

 

Prendo atto della precisazione della Miorelli service spa. Azienda che nulla ha a che fare con infiltrazioni mafiose. La rettifica tuttavia non smentisce quanto scritto, ma rimanda giustamente da un lato al Codice degli appalti e dall’altro a una necessaria segnalazione da parte dell’autorità giudiziaria.

Davide Milosa

I NOSTRI ERRORI

Sul Fatto di ieri, giovedì 11 aprile, nell’articolo “I treni deragliano e l’agenzia non parte”, in relazione al decreto che deve dar vita all’ente di sicurezza Ansfisa e che, nonostante la scadenza del 31 marzo, ancora non c’è, abbiamo scritto che il ministero dei Trasporti ipotizzi che potrebbe vedere la luce in due settimane. In realtà, e lo precisiamo soprattutto per chi è in attesa di novità e per non nutrire indebite speranze, la comunicazione parlava di un più generico “alcune settimane”.

FQ

Negli Usa si è ricostruita intorno a figure inattese

Immagino che a molti non sarà di sicuro sfuggito il crollo dei laburisti nelle ultime elezioni in Israele il cui partito ha contribuito alla fondazione di quella gloriosa democrazia e, nelle cui file hanno militato giganti del calibro di Ben Gurion, Golda Meir, Simon Peres e il compianto Yitzhak Rabin. Ciononostante, allo stato delle cose, anche questo glorioso partito non è sfuggito alla maledizione che si sta accanendo da un pezzo su quasi tutti i partiti della sinistra delle democrazie parlamentari dell’occidente. Se continua questo trend negativo su scala mondiale, dovremmo quindi abituarci a non vedere più sulle schede elettorali gli storici simboli del socialismo democratico mondiale come il sole nascente o la rosa nel pugno? Non ci sarebbe così un grosso vuoto e soprattutto tanta tristezza? Con molti saluti.

Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, non sarà ricordato solo come il primo ministro più longevo della storia di Israele, ma anche come colui che ha fatto quasi scomparire la sinistra dal paesaggio parlamentare e politico. Con circa il 5% dei voti, e sei seggi, il Labour ottiene il peggior risultato della sua storia che, come lei ricorda, è quella di chi ha fondato lo Stato ebraico e, almeno fino al 1977, lo ha governato senza rivali. In realtà, dal 1977 a oggi, i laburisti hanno governato pienamente soltanto due volte: quando hanno candidato due ex militari, Rabin nel 1992, ed Ehud Barak nel 1999. Ed è su quei due governi che hanno poi costruito il loro lento declino. Secondo un’inchiesta dell’Israel Democracy Institute il 56% degli israeliani si dichiara di sinistra contro il 12% che si identifica con la sinistra. Nemmeno il Pd è riuscito ad arrivare così in basso. Il Labour, che una volta era lo Stato, quando ha dovuto cedere il potere non ha più saputo trovare una sua dimensione. Non sul piano dell’economia, in cui ha assimilato acriticamente le tendenze maggioritarie della “terza via” blairiana, che ha portato alla crisi della socialdemocrazia un po’ ovunque, né su quello della pace e della sicurezza in cui si è distinto dal Likud solo per essere “un po’ meno” aggressivo dei palestinesi e “un po’ meno” duro nei confronti del processo di pace. È una tendenza generale a cui dovremo abituarci? Non saprei, personalmente non lo spero. Osservo che negli Stati Uniti, attorno a figure come Bernie Sanders o Alexandria Ocasio-Cortez, la parola socialismo è tornata di moda. Se n’è accorto anche l’“Economist”. Magari qualche novità giungerà dal luogo più inaspettato.

Salario minimo, scontro aperto tra il M5S e il Pd

Sul salario minimo M5S e Pd non trovano un dialogo. Ieri il Partito democratico ha rilanciato un appello al governo affinché “la riflessione sul concetto di giusta retribuzione sia inserita all’interno di un quadro di rafforzamento della contrattazione collettiva e, quindi, di una maggiore chiarezza dei criteri di rappresentatività sindacale”. Lo hanno sostenuto i deputati Dem Debora Serrracchiani, Chiara Gribaudo, Carla Cantone, Marco Lacarra, Stefano Lepri, Romina Mura, Antonio Viscomi e Alessandro Zan in un’interrogazione al ministro del Lavoro Luigi Di Maio. In questo senso, aggiungono, il goveno dovrebbe facilitare la convenzione sottoscritta da Inps, Ispettorato nazionale del lavoro, Confindustria e Cgil, Cisl, Uil “finalizzata proprio alla certificazione della rappresentanza sindacale”. “Più che una proposta sul salario minimo mi sembra una proposta che interviene sulla normativa dei contratti collettivi ma non la si chiami salario minimo orari ha replicato Di Maio. L’iniziativa dem in effetti punta a recuperare il dialogo con i sindacati visto che nella originaria proposta presentata dal senatore Laus non c’era nessun riferimento alla contrattazione nazionale.

Quando i lavoratori in fabbrica fanno da sé

Di fronte alla crisi economica può convenire organizzarsi da soli. Anche per questo la discussione su “imprese recuperate”, “economia dei lavoratori” o, “workers buy-out” (Wbo, lavoratori che ricomprano le aziende in crisi) ha preso di nuovo vigore.

Lo scorso mese il governo pensava di emendare la legge sul Reddito di cittadinanza introducendo un fondo apposito per i lavoratori che “salvano” le loro aziende in crisi. Pochi giorni fa, su iniziativa dell’ex ministro Fabrizio Barca, il Forum Disuguaglianze Diversità (Fdd) ha messo il tema dei workers buy-out al centro di “15 proposte per la giustizia sociale”. Oggi a Milano, invece, presso la “fabbrica recuperata” Rimaflow, a Trezzano sul Naviglio, si apre il “Terzo incontro internazionale dell’economia dei lavoratori e delle lavoratrici”, tra collettivi di lavoro, attivisti sociali, sindacalisti e universitari di tutta Europa.

Secondo il Fdd, se da un lato la soluzione del Wbo “ha un forte connotato di efficienza economica”, dall’altro “può avere forti riflessi positivi in termini di giustizia sociale per gli effetti distributivi della soluzione proprietaria e per la natura delle scelte aziendali, che bilanceranno gli obiettivi di profitto con quelli della stabilità nel tempo dei posti di lavoro”. Il meccanismo è stato promosso dalla “legge Marcora” del 1985 e si fonda sulla rinuncia, da parte dei lavoratori, ai trasferimenti a cui hanno diritto in caso di crisi aziendale (anticipo dell’indennità di mobilità, Tfr, altre risorse), trasformandosi in soci imprenditori. Dal 1986, la società Cooperazione e Finanza Impresa (Cfi), partecipata e vigilata dal ministero dello Sviluppo economico, promuove finanziariamente l’iniziativa che ha dato vita, dal 1986 al 2018, a 226 operazioni di cui 63 negli ultimi otto anni. Hanno coinvolto 7500 lavoratori, 15 mila con l’indotto, con una percentuale di fallimento, a dieci anni dalla costituzione, del 15%.

L’Economia dei lavoratori e lavoratrici, di cui si discute per tre giorni alla fabbrica recuperata della Rimaflow – che ha anche stimolato la creazione di una rete nazionale Fuorimercato – è basata invece, più radicalmente, sui principi dell’autogestione e del mutualismo. All’incontro ci saranno realtà analoghe di Francia, Grecia, Croazia, Spagna, Belgio, Germania e anche Kurdistan con l’obiettivo di dare vita a “un’altra economia, alternativa al modello capitalista di produzione”. Tra gli ispiratori del progetto, il sociologo Andres Ruggeri, della Facoltà di Economia aperta di Buenos Aires, dove il fenomeno delle fabbriche recuperate è nato: “L’economia dei lavoratori è un fenomeno ampio con forme distinte in varie parti del mondo. In Argentina se ne contano circa 400, in Uruguay 50, in Brasile 70, ma ce ne sono in varie parti del mondo e se consideriamo il criterio del Wbo, sono centinaia. Il problema con il Wbo è che, passando per l’acquisto dell’impresa, è facile che si riformi una gestione capitalistica dell’azienda. Il problema è l’autogestione”.

“La novità di questo incontro – spiega Gigi Malabarba, tra i fondatori di Rimaflow – è che ora apriamo la rete al mondo rurale dove ci sono più realtà e più sperimentazioni “fuori mercato” di filiere autogestite di produzione e distribuzione che non sono residuali. Del resto, del “porta a porta” ormai si occupa Amazon. Ma sono interessanti le autogestioni e le cooperative nel campo dei beni confiscati”.

Giovani (si fa per dire) e poveri Il nuovo proletariato italiano

I nuovi proletari? Sono i giovani. Perché a decidere chi sale e chi scende nella scala sociale è, sempre di più, l’appartenenza a una generazione. E i nati dopo il 1970 hanno più probabilità dei loro padri di muoversi verso il basso, scivolando verso lavori a bassa qualificazione e poco pagati. Insomma: l’ascensore sociale fermo è una leggenda, ma quando i passeggeri sono trentenni e quarantenni funziona al contrario. Se ai baby boomer di famiglia operaia bastava una laurea per avere buone chance di approdare alla classe media, diventando liberi professionisti o colletti bianchi, per i loro figli è più facile scendere a un piano inferiore rispetto a quello di partenza.

A rivelarlo sono i risultati di quattro indagini Istat, l’ultima delle quali ancora inedita, esaminati dai sociologi Marzio Barbagli e Maurizio Pisati. Ve li raccontiamo nel nuovo numero di Fq Millennium, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da domani, dedicato alla “fine della borghesia”. A sorpresa, questi studi mostrano che la mobilità non è in calo, anzi. La novità è che per i giovani – ma nella categoria sono compresi pure gli ultraquarantenni – prevale quella discendente. E anche rimanere ai piani alti della piramide è diventato più difficile. Le conseguenze sono tutt’altro che marginali, perché l’appartenenza di classe non è affatto che un cimelio buono per la soffitta: continua ad avere un impatto diretto sul livello di benessere economico, sul rischio di disoccupazione, ma anche su condizioni di salute e aspettativa di vita.

“Padri e madri di classe alta e media non riescono più a garantire ai figli un destino uguale al proprio”, commenta Antonio Schizzerotto, docente di Sociologia all’Università di Trento. Un paradosso tutto italiano, perché negli altri Paesi avanzati i posti di lavoro ad alta specializzazione, quelli che garantiscono redditi alti e spalancano le porte della borghesia, sono aumentati di pari passo con quelli poco qualificati. Così l’età di per sé ha finito per diventare “un fattore generativo di disuguaglianza”. Ovvero? “Un over 50 con un’occupazione intellettuale ha avuto un primo stipendio che oggi nessun nuovo assunto riceve e ha fatto una carriera che un giovane entrato con il contratto a termine probabilmente non riuscirà mai a fare, perché avrà un percorso discontinuo”.

Lo dimostrano le storie di professionisti precari raccolte da Fq Millennium: architetti, avvocati, medici che lavorano a partita Iva e a fine mese, quando va bene, portano a casa 1.500 euro lordi. Circa 5 euro netti all’ora. Il cardiochirurgo che campa con le guardie mediche arriva a 16 euro netti, poco più di una colf in nero.

Gli effetti si vedono nei dati che descrivono lo stato di salute della società italiana. Sul mensile ci aiuta a ricostruirli Linda Laura Sabbadini, pioniera delle statistiche sociali e di genere, che ha diretto il Dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’Istat fino a quando nel 2016 l’allora presidente Giorgio Alleva lo ha cancellato. “Rispetto a prima della crisi, il tasso di occupazione dei 25-34enni è diminuito di quasi dieci punti mentre quello degli over 50 saliva di 14. E abbiamo 500 mila giovani adulti tra i 30 e i 34 anni che non hanno mai lavorato: rischiano di diventare degli esclusi permanenti non solo dal lavoro, ma anche dalla possibilità di costruirsi una vita”.

Il risultato è che l’incidenza della povertà oggi è molto più alta tra bambini e giovani che tra gli anziani. Un milione e 200 mila minorenni fanno parte di famiglie che non sono in grado di comprare beni e servizi indispensabili per una vita accettabile. “Un bambino che vive per anni in povertà”, avverte Sabbadini, “ha molte probabilità di restare povero da grande: accumulando svantaggi fin da piccolo vede ridursi le proprie chance di mobilità sociale”. E il circolo vizioso non si spezza.

Muore in auto per un malore a 11 anni, il traffico era bloccato

Un bambino di 11 anni accusa un malore a bordo dell’auto guidata dalla madre e muore in strada. Roma, ore 8, via Cristoforo Colombo, una delle principali arterie della Capitale semi bloccata dal traffico. L’auto è partita da Latina, viaggia verso l’ospedale Bambino Gesù per una visita programmata da tempo: mamma, zia e il piccolo che si sente male, forse a causa di una crisi respiratoria. Le due donne chiedono aiuto alla polizia locale, arriva l’ambulanza scortata dall’auto degli agenti. Il personale del 118 tenta inutilmente di rianimare il bambino adagiato lungo il ciglio della strada, dove muore. Forse nessuno a bordo della propria auto sa cosa sta avvenendo. Restano le lunghe file di vetture, una scena che si ripete con una frequenza che diventa ormai un rituale quotidiano. Nel quadrante sud di Roma la viabilità è aggravata dai lavori di allestimento del circuito di Formula E che si svolgerà domenica nel quartiere Eur. Dall’Ares 118 fanno sapere che i soccorsi sono arrivati in 6 minuti. La Procura apre un fascicolo di indagine per il reato di omicidio colposo. Il corpo dell’11enne nel frattempo viene trasportato all’istituto di medicina legale di Tor Vergata per l’autopsia.

La banda del carburante, i pm: “Facevano entrare i clandestini”

Rubavano petrolio, inquinavano l’ambiente e mettevano a repentaglio la vita degli automobilisti che transitavano nei pressi degli oleodotti “manomessi”. Ma il furto del carburante non era l’unica attività a cui si dedicavano le 17 persone arrestate ieri dai carabinieri della compagnia di Ostia. “La rudimentale organizzazione” che operava tra Roma, Napoli, Trieste e Cagliari trafficava anche esseri umani. Così le accuse contestate dalla Procura di Roma spaziano dall’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di furti pluriaggravati di carburante fino all’incendio aggravato, passando per il possesso e la fabbricazione di documenti di identificazione falsi e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

L’associazione era ben organizzata. Al vertice c’era un 42enne italiano. Era lui, secondo le accuse, a organizzare “le batterie” composte da 3 o 4 persone. In danno ad aziende come l’Eni, entravano nelle cabine degli oleodotti, alteravano le valvole e prelevavano il carburante con pompe che rifornivano camion piazzati anche a 500 metri di distanza.

In altri casi foravano le tubature, riparandole poi con mezzi di fortuna che non impedivano danni all’ambiente o “gravi pericoli per l’incolumità pubblica”, recitano gli atti. Che fosse un commercio molto pericoloso lo dimostra l’incendio avvenuto l’1 dicembre scorso, quando ai bordi dell’autostrada che collega Roma a Civitavecchia i pompieri lavorarono 6 ore per domare le fiamme divampate in seguito a un furto. Alcuni indagati invece si sarebbero dedicati anche al traffico di esseri umani che venivano dall’Iran, dall’Afghanistan o dal Bangladesh. Erano disposti a pagare circa mille euro per essere stipati, in gruppi da 14 persone, a bordo di Fiat Doblò che dall’Est Europa arrivavano fino in Italia.

Gianfranco Miccichè sarà attore nel film sul delitto Mattarella (ma i soldi dell’Ars non arrivano)

Salto indietro nel tempo per il presidente dell’Assemblea regionale Siciliana Gianfranco Miccichè , che veste i panni del suo predecessore Michelangelo Russo recitando nel film di Aurelio Grimaldi Il delitto Mattarella girato tra le polemiche nell’aula dell’Ars: a contestare Miccichè è l’attore Dario Veca, che aveva già firmato un contratto con la produzione, a cui il commissario di Forza Italia in Sicilia avrebbe rubato la parte: “Già è dura la concorrenza da parte dei colleghi – dice Veca – quella dei politici è sorprendente e francamente insopportabile”. “Comunicai all’ottimo Dario Veca la mia modifica di ruoli e scena – replica Grimaldi – e Dario, sul set, non mi ha manifestato alcuna contrarietà accettando la mia proposta. Che, devo dire, è del tutto, dal punto di vista recitativo, a suo vantaggio”. E su Miccichè ha aggiunto ironicamente: “Dopo i suoi inizi politici con Lotta Continua mi compiaccio del suo riapprodo al Partito comunista”. Ma se i complimenti del regista, e il cambio di ruolo ‘in corsa’ con il debutto sulla scena del manager di Publitalia non sono stati sufficienti al regista per ottenere dall’Ars il finanziamento del suo film: in concomitanza con la scena girata all’Ars, il consiglio di presidenza dell’Assemblea regionale ha negato il contributo alla pellicola di Grimaldi. Era stato il regista a presentare la richiesta, affidando ai deputati la determinazione dell’importo: ma in consiglio è scattato il semaforo rosso. “Il rifiuto – ha detto il vicepresidente grillino dell’Ars Giancarlo Cancelleri – era un atto dovuto. L’opera di Grimaldi, che ricostruisce lodevolmente un passaggio drammatico della storia della Sicilia, aveva ricevuto un contributo dalla Film Commission. Non avrebbe avuto senso finanziarla due volte”.