Ucciso a sei anni dal patrigno. Arrestata la madre: “Non ha fatto nulla e puliva il sangue”

Finisce in carcere ancheValentina Casa, la 31enne madre del piccolo Giuseppe di 6 anni ucciso a Cardito (Napoli) il 27 gennaio scorso dal patrigno 24enne Tony Sessoubti Badre, arrestato e tuttora detenuto “perché aveva rotto la spalliera del letto”. L’hanno arrestata per concorso in omicidio e per il tentato omicidio della seconda figlia di 7 anni, perché pur sentendo “le urla di dolore, di terrore e le invocazioni di aiuto dei suoi piccoli”, non ha mosso un dito per fermare il suo compagno. Anzi, ha pulito con lo straccio le tracce di sangue per terra nel tentativo di depistare le indagini. Dunque, come riassume la bambina ascoltata dalla neuropsichiatra, “mamma non faceva nulla” per impedire quello scempio. E poi sotto la gragnuola di colpi di quell’uomo violento che la piccola di 7 anni chiamava “papà” (era il nuovo compagno della madre, il vero padre si era disinteressato di loro), seconda di tre figli della signora Casa, poteva morire anche lei: i referti del Santobono non lasciano spazio a dubbi.

Nell’ordinanza eseguita dalla Procura di Napoli Nord guidata da Francesco Greco, si rivelano particolari da brividi. Quando viene ascoltata, la bimba ha gli occhi così pesti per le botte che deve aprirli con le dita per guardare. “E’ stato papà Tony, gli ha dato la mazza della scopa nella schiena… anche a me, dietro l’orecchio, mi ha fatto male… Ha dato tanti colpi che la mazza della scopa si è rotta…”. La bimba ha grossi lividi dietro la schiena, li mostra alla dottoressa. “Il mio papà si deve fare dieci anni di galera, ed io sono contenta. Ora sto più tranquilla”. C’è il racconto dello strazio di Giuseppe. “Il sangue usciva dalla testa a Giuseppe, lo abbiamo asciugato con gli asciugamani per non far uscire il sangue… la mia sorellina ha vomitato…”. E le paure trasmesse dalla madre: “Non voglio dirlo perché è triste, non lo dire a papà però. Se lo dici ammazza anche te”. Secondo il Gip Antonella Terzi la donna va arrestata perché “ha deliberatamente abbandonato i figli a un destino di infelicità e di morte”.

Lo spot sono due modelle a forma di sedia: “Corpi femminili sinuosi come poltrone”

La locandina in cui due modelle ventenni con mini abito rosso collant rossi e tacco dodici di vernice nera rimandano, per posa, a una seduta di design, è stata utilizzata per promuovere il Napoli Moda Design, manifestazione che si terrà il prossimo fine aprile al Centro Congressi dell’Università Federico II. Almeno fino a ieri. L’immagine, scattata dal fotografo Diego Diaz Marin, ritrae un’italiana a quattro zampe, col volto che scompare tra i cuscini di un divano, e una giapponese seduta sopra di lei (o forse viceversa, perché la foto è di cinque anni fa e l’artista non ricorda chi abbia fatto esattamente cosa). “Fa parte di una collezione realizzata dall’artista per Vogue“ dichiara, su un quotidiano locale, l’organizzatore dell’evento sul design, l’architetto Maurizio Martiniello.

Ma né Condé Nast (gruppo editoriale che edita Vogue) e né il fotografo confermano. Anzi. Spiega l’artista Diaz Marin, autore dello scatto incriminato, “è un servizio che ho realizzato per DoubleView, rivista d’arte da me stesso creata”. Il progetto fotografico, quindi, con le due modelle che fanno una finta sedia, rimane nel cassetto di finché l’artista Diego Diaz Marin non incontra il direttore di Napoli Moda Design: “Mi sono piaciuti questi scatti con il rosso – spiega Maurizio Martiniello, deus ex machina dell’organizzazione – con le modelle vestite di rosso perché io ho un dress code rosso che di solito utilizzo per gli eventi. Quindi c’era il rosso, c’era l’assonanza con le due modelle che avevano questa simbiosi e ricordavano una sedia, ed ecco che è una delle foto – ma non l’unica – scelta per l’evento”.

La fotografia ieri, all’improvviso, è scomparsa. Ritirata dal sito internet dell’evento, non c’è più neppure sui social media, dove nella giornata di ieri aveva fatto parecchio discutere, forse anche in relazione ad un’altra discussa “seduta” di questi giorni: quella di Gaetano Pesce in Piazza del Duomo di Milano, che non è un corpo di donna, ma rappresenta un corpo di donna con gli spilli.

“Il nostro non è (era? ndr) un manifesto offensivo – continua Martiniello – perché non è un uomo seduto su una donna, è un corpo umano che nella sua sinuosità è bello come una sedia. E quando ci si ispira alla bellezza di una donna questo è il riferimento e null’altro. La scelta dell’immagine è stata mia, perché sono art-director, ma non è stata l’unica. Era la più forte forse. Poi certo ognuno può vederci quello che vuole….”. “Il Fatto” ha contattato il Comune di Napoli, che ha patrocinato l’evento. L’assessore al Lavoro Monica Buonanno spiega che “il patrocinio del Comune è stato dato alla manifestazione, ma non sono state visionate le grafiche”. E, infatti, il capo-ufficio stampa del sindaco ci fa sapere poi che nessun manifesto con quella creatività verrà affisso, previo il ritiro del patrocinio.

“Le altre foto scelte per la campagna sono sul sito della manifestazione, nel magazine 2019“ conclude Martiniello”. A volerle cercare, non sono disponibili. Si trovano invece tantissimi sponsor tra cui Illy. Che, però, interpellato dal “Fatto”, spiega come l’azienda non abbia mai sponsorizzato l’evento, e che farà mandare una comunicazione scritta dai propri legali, per eliminare il logo inserito, peraltro, errato.

Busta con proiettili al giornalista Rai Giovanni Taormina

Una busta con due proiettili e un ritaglio di giornale con la sua immagine cerchiata è stata recapitata a Giovanni Taormina, giornalista della Tgr Rai Fvg redazione di Udine. “In passato, quando ero a Roma, ho ricevuto minacce legate alla mia attività di giornalista, ma è la prima volta in Friuli Venezia Giulia” è stato il commento di Taormina che ha poi aggiunto: “In un primo momento ti taglia le gambe, poi cominci a reagire. Non lo so. Ti viene quella rabbia di fare ancora di più di quello che ho fatto. Se ho rotto le scatole a qualcuno continuerò a romperle”. Il giornalista si sta occupando di traffico di droga. “E’ chiaro che questa è una regione ancora vergine da questo punto di vista e può essere che questa cosa abbia creato qualche problema a qualcuno. Ho ricevuto la telefonata del presidente della Commissione antimafia (Nicola Morra, ndr) che mi ha espresso vicinanza e mi ha invitato a stare attento. Le tante chiamate che mi sono arrivate oggi mi danno forza. Il momento peggiore è quello in cui sei solo”. Solidarietà al collega dall’ Ordine nazionale dei Giornalisti dell’Ordine del Fvg, Assostampa Fvg e dalla Federazione Nazionale della Stampa (Fnsi).

Mose, trovato il tesoro di Galan in Croazia

Dopo l’inchiesta del 2014 sulle tangenti del Mose (sistema di dighe mobili per la salvaguardia della Laguna di Venezia), costato fino a oggi 5 miliardi e che sarà forse inaugurato nel 2021, restava da capire che fine avesse fatto il frutto delle tangenti intascate da Giancarlo Galan, il politico di Forza Italia più potente del Nord-Est, amico di Dell’Utri, ex presidente della Regione Veneto, due volte ministro nei governi Berlusconi, che ha patteggiato una condanna a due anni e dieci mesi per corruzione.

Il Nucleo economico-finanziario della Gdf di Venezia, diretto dal colonnello Gianluca Campana, grazie a un’indagine complessa durata 4 anni, coordinata dal pm della Procura veneta Stefano Ancellotti, ha scovato 12 milioni e 300 mila euro nascosti in paradisi fiscali, conti schermati, quote societarie e conti bancari in Croazia. Sei gli indagati per riciclaggio ed esercizio abusivo di attività finanziaria per aver “prestato la propria opera di intermediazione per riciclare i capitali illeciti riconducibili a Galan”: i commercialisti Paolo Venuti, già arrestato, ha patteggiato una pena a due anni e mezzo per corruzione nell’inchiesta sul Mose, sua moglie Alessandra Farina, i commercialisti, Guido e Christian Penso e due broker svizzeri, Bruno De Boccard e Filippo San Martino. Disponibilità illecite riconducibili a Galan che comprendono anche un appartamento a Padova e uno a Sassari, autovetture e un conto presso la filiale di Zagabria della Veneto Banka, intestato alla moglie del commercialista Venuti “importo di un milione e mezzo, di cui si perdono le tracce nel 2015, successivamente all’arresto di Venuti – scrive il Gip nell’ordinanza – ma di fatto riconducibile a Galan come si evince dalla conversazione intercettata fra i coniugi Venuti”. Soldi che passavano anche dalla Svizzera dove i conti erano intestati a società di Panama e delle Bahamas, gestite dai due broker.

E proprio durante la perquisizione nel loro studio, gli investigatori hanno rinvenuto una lista di imprenditori veneti che per reinvestire ingenti somme provenienti, presumibilmente, dall’evasione, utilizzavano gli stessi canali per un totale di 250 milioni di euro, non più recuperabili in quanto risalenti ai primi anni 2000, in parte rientrati grazie alla legge sullo scudo fiscale e voluntary disclosure. Fra questi spicca il nome della storica azienda di valigie, Giovanni Roncato per l’investimento “censito nel 2009 di 13.589.919 euro a mezzo della società panamense ALBA ASSETS INC”. La figlia del patron Alessandra dice di cadere dalle nuvole, di conoscere Galan “ma non i due broker”. Mentre i commercialisti Paolo e Christian Penso, e Venuti, sono accusati anche di aver costituito “una serie di sofisticati strumenti economico-finanziari all’estero per impedire l’identificazione dell’origine delittuosa delle somme trasferite” dall’imprenditore Damiano Pipinato della “Calzature Pipinato Spa”.

“Modello Riace” a processo. Rinviato a giudizio Lucano

Locri (Reggio Calabria)

“Sono emotivamente scosso. Per il favoreggiamento dell’immigrazione, la Cassazione ha detto che ho agito per finalità moralmente apprezzabili e, per l’appalto del servizio di raccolta dei rifiuti, addirittura secondo legge. Se mi rinviano a giudizio anche su questo è strano. Evidentemente quello che vale a Roma non vale a Locri”.

Mimmo Lucano non si dà pace. Era troppo nervoso per assistere alla lettura del dispositivo con cui è stato rinviato a giudizio dal gup. Sperava di uscire da questa brutta storia. Dopo sette ore di camera di consiglio, però, il giudice ha deciso che il sindaco “sospeso” di Riace dovrà essere processato per tutti i capi di imputazione contestati dalla Procura di Locri nell’’inchiesta “Xenia” condotta dalla guardia di finanza.

Rinviato a giudizio così come tutti gli altri 25 imputati. Il processo è stato fissato l’11 giugno. Davanti al Tribunale di Locri, Lucano si dovrà difendere dalle accuse di abuso d’ufficio e concussione. Per la Procura, il sindaco “sospeso” è stato il promotore di un’associazione a delinquere ai danni dello Stato. Stando all’impianto accusatorio, si tratta di un’associazione che avrebbe avuto lo scopo di commettere “un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio), così orientando l’esercizio della funzione pubblica del ministero dell’Interno e della prefettura di Reggio Calabria, preposti alla gestione dell’accoglienza dei rifugiati nell’ambito dei progetti Sprar, Cas e Msna e per l’affidamento dei servizi da espletare nell’ambito del Comune di Riace”.

Tra le accuse anche il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e alcune presunte irregolarità nell’affidamento del servizio di raccolta dei rifiuti a due cooperative. Mentre per quest’ultimo reato, la Cassazione sostiene che mancano indizi di “comportamenti” fraudolenti che il sindaco sospeso di Riace avrebbe “materialmente posto in essere” in quanto è la legge che consente “l’affidamento diretto di appalti”, per la storia dei matrimoni finti, la Suprema Corte ha stabilito che Lucano era “pienamente consapevole dell’illegalità di alcune sue condotte finalizzate ad ‘aiutare’ extracomunitari” ma che le avrebbe commesse “probabilmente per finalità moralmente apprezzabili”.

Decidendo sul rinvio a giudizio, il gup Amalia Monteleone si è riservata però sull’istanza di revoca della misura cautelare avanzata dagli avvocati Antonio Mazzone e Andrea Daqua. Entro qualche giorno, il giudice dovrà decidere se revocare il divieto di dimora per Mimmo Lucano, anche alla luce dell’annullamento con rinvio della Cassazione secondo cui non ci sarebbero esigenze cautelari per tenerlo lontano da Riace.

Se il gip dovesse confermare il divieto di dimora, il 18 aprile è già fissata l’udienza davanti al Riesame di Reggio che dovrà decidere se consentire a Lucano di affrontare il processo da libero e, non essendosi mai dimesso, di tornare a Riace da sindaco, almeno fino alle elezioni di maggio quando scadrà il suo mandato. “Speriamo che vada tutto bene, – è l’unico commento di Lucano – non so più che fare. Affronteremo il processo”.

Antitrust, Unicredit rischia una multa fino al 10% del fatturato

Otto banche, tra cui Unicredit e la Royal Bank of Scotland: i sospetti della Commissione europea si concentrano su di loro. L’accusa è quella di aver fatto cartello per distorcere la concorrenza. Gli imputati avrebbero infatti violato la normativa Antitrust sui titoli di Stato europei: i trader al servizio dei grandi gruppi bancari si sarebbero scambiati informazioni sensibili, concordando tramite chat online strategie di compra-vendita dei titoli governativi, e il tutto nel periodo compreso tra il 2006 e il 2012. Anni che includono la crisi finanziaria generata dalla bolla dei mutui subprime, e la conseguente crisi dell’Eurozona. Per una frazione di questo periodo, l’indagine ha rilevato una presunta condotta collusiva della tedesca Hvb, una delle controllate di Unicredit. Se la Commissione accerterà la violazione, le società potrebbero incorrere in multe pari al 10% del loro giro di affari annuale. Unicredit ha tempo fino al 29 aprile per rispondere alle obiezioni sollevate, ma ha già iniziato a pagare le conseguenze delle accuse in Borsa, registrando ieri una perdita superiore al 2%.

“Pene più alte per gli evasori” Il governo si scorda l’impegno

La conferma arriva anche dal ministero dell’Economia su cui sventola la bandiera giallo-verde. Statistiche alla mano (ferme però al 2016) il Documento di economia e finanza appena varato dal Consiglio dei ministri certifica che nel nostro Paese si spende e si accumula molto più di quanto si dichiara al Fisco e all’Inps. La stima ufficiale uscita dalla Commissione Giovannini sul sommerso dell’evasione tributaria e contributiva è di 107 miliardi e 522 milioni. In media, nel periodo 2014-2016, non sono stati pagati imposte e contributi per 108 miliardi. La sola componente tributaria è di 97 miliardi, ma non è una distinzione consolante per l’erario. La rimanenza riferita all’evasione dei contributi è finanziata a piè di lista dallo Stato e finisce nel calderone delle spese nel bilancio pubblico. Se sottraiamo l’evasione che deriva da errori formali e di calcolo si arriva a uno zoccolo duro di imponibile da aggredire da cui ricavare 73 miliardi di imposte. Esce confermato anche il dato dell’Istat che nel 2017 (anno d’imposta 2016), aveva rilevato per ogni 100 euro denunciati dalle persone fisiche al netto delle imposte una spesa delle famiglie di 114,4.

Tutto chiaro quindi: L’evasione fiscale è ancora quel Moloc gigantesco contro il quale si erano impegnati a lottare strenuamente, almeno in campagna elettorale, le attuali forze di governo un tempo all’opposizione. A inizio 2018 Matteo Salvini dettò la linea: “Sono d’accordo per la galera per chi evade: se io riduco le tasse e tu non paghi io butto la chiave, sul modello americano”. Nel programma dei Cinque stelle si era arrivati a promettere tra i primi provvedimenti legislativi da varare i rigori della galera anche ai colletti bianchi, cosa del tutto inedita per il nostro paese. In effetti dall’inizio della legislatura la normativa fiscale è stata uno dei settori di intervento più frequentati dall’attuale maggioranza. Dalla rottamazione delle cartelle alla Flat tax, tutto quel che si poteva fare per elargire sconti e condoni a chi ha evaso le imposte in questi ultimi 19 anni è stato elargito a piene mani. Il 30 aprile prossimo scade la data ultima per aderire alla rottamazione-ter che nei giorni scorsi è stata allargata anche a chi ha debiti certificati verso agenti della riscossione diversi dall’Agenzia delle Entrate. E già si preannuncia il varo della seconda ondata della Flat tax, quella delle famiglie. Sono scomparsi invece dall’orizzonte politico, dopo aver goduto di grande popolarità nel recente passato, una decretazione o un semplice disegno di legge per rendere possibili le “manette agli evasori”.

In effetti al punto 11 del Contratto di governo era tutto già scritto nero su bianco: Flat tax, detassazione, semplificazione, una revisione del rapporto Stato-contribuenti, “risolvere la questione dei debiti insoluti della Pa” e “abolizione dello spesometro e del redditometro”. Si parlava anche “di potenziamento delle procedure finalizzate al recupero bonario del credito”. Poi, in coda, la proposta dei 5 stelle: “Inasprimento dell’esistente quadro sanzionatorio, amministrativo e penale per assicurare il carcere vero per i grandi evasori”. E “favorire la cooperazione internazionale in materia di scambio di informazioni, favorendo la tassazione dei grandi capitali esteri”.

Il governo parte così con una solida base programmatica nell’area fiscale e si cominciano a macinare per decreto i primi provvedimenti. Ma perché si ritorni a discutere di “manette agli evasori” si dovrà attendere il dibattito sulla prima manovra economica del governo giallo-verde, nell’ottobre dello scorso anno. L’esito è una bocciatura. “Il problema è tecnico, la manovra può contenere solo disposizioni legate al bilancio dello Stato” spiegavano fonti del M5s. Quindi il carcere per gli evasori non ci sarà. Era accaduto che l’inasprimento dei reati tributari era diventato merce di scambio tra le due anime della coalizione. “Il condono fino a un milione di euro è per noi inaccettabile. I furbi non vanno premiati e infatti nel decreto fiscale verrà previsto il carcere per chi evade”, spiegava di Maio al Fatto solo poco tempo prima parlando di pace fiscale minima, che non deve diventare “un condono mascherato”. A novembre un infuocato Consiglio dei ministri dopo settimane di guerriglia mediatica sancisce il compromesso: via gli sconti milionari anche alle maxi-cartelle ipotizzato dalla Lega, via l’emendamento “salva corrotti” ma anche il carcere previsto alla voce: “rapporto rischi-benefici”, per imprenditori, finanzieri e amministratori. “La misura sarà introdotta con un altro provvedimento, che però non sarà neppure il decreto fiscale” rassicuravano allora gli addetti alla comunicazione dei dicasteri pentastellati. Oggi da quegli stessi ministeri arriva la conferma: “Ci sono troppi fronti aperti. Non possiamo discutere anche di manette agli evasori”. Il tema, insomma, è archiviato.

Mps, il Tesoro boccia le cause ai vertici

La decisione sembra essere la pietra tombale su una querelle che va avanti da anni. Anche con il ricambio di governo, il Tesoro boccia le azioni di responsabilità verso vecchi e nuovi vertici del Monte dei Paschi di Siena. Le azioni sono state proposte dalla Bluebell di Giuseppe Bivona nell’assemblea dei soci di ieri.

Col 68,2% del capitale, il dicastero guidato da Giovanni Tria è stato decisivo nel rigettare sia la richiesta di fare causa all’ex presidente Alessandro Profumo e all’ex amministratore delegato Fabrizio Viola per la famosa contabilizzazione “a saldi aperti” dei derivati sottoscritti ai tempi di Giuseppe Mussari con Banca Nomura e Deutsche Bank (decisione avallata dalle autorità di vigilanza), sia quella rivolta all’ad Marco Morelli, alla presidente Stefania Bariatti e ai consiglieri Cappello, Kostoris e Turicchi, a cui Bluebell imputava di non aver accantonato adeguatamente risorse a copertura dei rischi legali. Per il no ha votato il 99% del capitale presente.

Il Tesoro ha fatto pesare il suo voto senza però pronunciarsi in assemblea. Nei giorni scorsi erano state le uscite di Luigi Di Maio a far pensare a un possibile colpo di scena, visto che in questi anni le richieste di Bivona sono state sempre respinte. “Nei prossimi giorni valuteremo anche a livello di Governo tutto quello che si dovrà fare all’assemblea. È chiaro ed evidente che per me è giusto che chi ha ridotto quella banca in quelle condizioni debba pagare”, aveva spiegato venerdì scorso il leader pentastellato. Niente da fare, nonostante il tema fosse stato per diverso tempo un cavallo di battaglia del Movimento. Basti ricordare l’intervento del deputato Carlo Sibilia, che lo scorso anno in assemblea assicurava che il futuro governo M5S avrebbe fatto causa a Viola e Profumo. L’estate scorsa era stato il presidente della Commissione Bilancio della Camera, Claudio Borghi, a dirsi favorevole almeno a un ricambio del cda.

L’assemblea è servita anche a Morelli per lanciare diversi avvertimenti sul futuro di Mps. Il gruppo ha chiuso il bilancio 2018 – approvato ieri dall’assemblea – con un ritorno all’utile, che si è attestato a 279 milioni di euro, dopo il rosso da 3,5 miliardi del 2017. Le dimensioni e la capacità reddituale della Banca, ha sottolineato però l’ad, “è radicalmente diversa” rispetto al passato, a causa del dimagrimento imposto dalla Ue per dare l’ok alla nazionalizzazione, e della perdita di clienti e masse legata alla crisi del 2016, e che oggi è ulteriormente ostacolata dai “paletti” del piano di ristrutturazione. Anche per costruire prospettive più solide, l’ad ha spiegato che dallo scorso settembre, all’interno del cda sono state fatte “riflessioni” su “vari scenari dal punto di vista delle aggregazioni. Dopodiché queste sono scelte che spettano al Tesoro”. Ma il ministero, ha ricordato Morelli, è anche la controparte che dovrebbe farsi sentire con l’Ue. L’ad ha lasciato intendere che andrebbe negoziato un rinvio dell’uscita dello Stato dal capitale, che Bruxelles vuole avvenga entro il 2021. “Alla luce del cambiato quadro di riferimento, ci sono una serie di cose che devono essere riviste”, ha spiegato Morelli. In Borsa, il titolo Mps ha chiuso con un balzo dell’8,5% a 1,35 euro.

Dietro gli annunci, tagli per 17 miliardi

L’ammissione è nelle prime pagine del Documento di economia e finanza appena licenziato dal governo: “Il profilo delineato per l’indebitamento netto, anche alla luce degli oneri necessari al rifinanziamento delle politiche invariate (missioni di pace, pubblico impiego, investimenti), richiederà l’individuazione di coperture di notevole entità”, scrive il ministro dell’Economia Giovanni Tria. Poche righe sotto si capisce cosa intende: “La copertura delle maggiori spese in conto capitale e il miglioramento del saldo strutturale nel 2022 verranno conseguiti tramite riduzioni di spesa corrente che, grazie a un programma di revisione organica della spesa pubblica, salirebbero da 2 miliardi nel 2020 (ammontare invariato rispetto al 2019) a 5 miliardi nel 2021 e 8 miliardi nel 2022”.

Insomma, in quattro anni si tratta di 17 miliardi di tagli, ben superiori ai 13,5 inseriti nelle bozze circolate nei giorni scorsi. Tutto a copertura dell’aumento degli investimenti pubblici previsto dalla scorsa manovra. È il compromesso con Bruxelles su cui poggia il documento che fa da base alla manovra di autunno. Il Tesoro conferma il congelamento nel 2019 dei 2 miliardi i tagli ai ministeri concordato con l’ Ue – che comprendono voci assai delicate, come i fondi per imprese, Università e Trasporti – e lo estende al prossimo anno. Poi il conto sale ancora. La manovra d’autunno è così ipotecata da un gioco di stime scritte sulla sabbia. I tagli, per dire, sono al netto dei 23 miliardi di aumenti automatici dell’Iva previsti nel 2020 (nel 2021 il conto sale a quasi 50), che il governo conferma nei saldi pur impegnandosi a disinnescarli.

E qui arriva il nodo “coperture”. Tra clausole di salvaguardia e spese indifferibili, la manovra d’autunno parte da 30 miliardi. La Flat tax proposta dalla Lega ne vale altri 12 miliardi. L’ipotesi di reperirli da tagli di spesa è assai ottimistica, anche perché le indicazioni del governo sono generiche. È lo stesso Def a certificare che persino una spending review da un miliardo messa in programma si è in parte arenata su capitoli di spesa che vanno dal “vettovagliamento” della Polizia alle spese per interpretariato all’Ue, dalle bollette elettriche dei carabinieri ai contributi ai “servizi di linea fra lo scalo di Crotone e i principali aeroporti nazionali”. Resta il solito capitolo tax expenditures, cioè quel mare magnum di sconti fiscali che ogni governo annuncia di voler rivedere, salvo poi accorgersi che le voci aggredibili sono politicamente assai delicate.

Ieri Matteo Salvini ha assicurato che “non si è mai pensato di aumentare l’Iva per fare la flat tax”. Le aliquote non saliranno, assicura anche Luigi Di Maio. Il leader M5S ha annunciato anche che un ennesimo team per la spending review si insedierà presto a Palazzo Chigi. Intanto però scoppia la polemica sui rimborsi ai truffati delle banche, fermi dopo l’opposizione di alcune delle associazioni alla linea negoziata da Tria con Bruxelles (ristoro automatico per i meno abbienti, arbitrato semplice per gli altri). In manovra il governo ha stanziato 1,5 miliardi nel 2019-2021. Lo stallo sulle procedure, però, allunga i tempi. E così il Def certifica che di fatto si spenderà molto meno: 50 milioni nel 2019 e 700 e dispari nel biennio successivo.

Navigator, c’è accordo tra governo e Regioni. Ora voto in conferenza

L‘intesa c’è: governo e regioni hanno raggiunto un accordo tecnico sul ruolo dei navigator. Queste figure sono infatti nate per assistere i beneficiari del reddito di cittadinanza nel percorso di inserimento nel mondo del lavoro. L’intesa attende ora il via libera definitivo dalla Conferenza Stato-Regioni, dopodichè ci sarà la pubblicazione di un bando di selezione da parte di Anpal che servirà a reclutare 3.000 assistenti ai centri per l’impiego. In cima alla lista delle Regioni che richiedono più navigator ci sono Campania e Sicilia, che dovrebbero ottenere rispettivamente 471 e 429 figure professionali. Numeri inferiori per Lombardia (329), Lazio (273) e Puglia (248). Le figure richieste devono possedere una laurea magistrale in materie giuridiche o economiche (Giurisprudenza, Economia, Scienze politiche, Statistica e Scienza della formazione). I prescelti potranno godere di un contratto di collaborazione di due anni, per un importo ancora non identificato, che tuttavia si suppone prossimo ai 60.000 euro lordi per l’intero periodo. Cristina Grieco, coordinatrice degli assessori regionali al lavoro, ha aggiunto: “Dal 2021 le regioni potranno assumere altre 6000 persone tramite concorsi”.