Dalla vendita degli immobili pubblici arrivano solo spiccioli

Non saranno gli immobili pubblici a salvare i conti del governo, quando in autunno dovrà scrivere la legge di Bilancio. Per capirlo basta leggere il Documento di economia e finanza appena firmato dal ministro dell’Economia Giovanni Tria e dal premier Giuseppe Conte.

Nel 2018 il ministero del Tesoro si è accorto che non riusciva a raggiungere l’obiettivo di risparmio sugli affitti di alcune sedi della Ragioneria generale dello Stato che si era dato a causa di “difficoltà emerse nel rilascio e riallocazioni delle sedi”. Risultato: ha dovuto spendere un milione in più degli 8,3 messi a bilancio. Poca roba, un milione, su un bilancio pubblico da 800 miliardi, ma se sugli immobili non riescono a risparmiare neppure i controllori dei conti, è plausibile che ci riesca il resto della pubblica amministrazione?

La legge di Bilancio 2019 sostiene di sì: entro il 2021, ha stabilito il governo Conte, lo Stato dovrà vendere 1,25 miliardi di euro di immobili in più rispetto agli 1,84 che si era già dato come obiettivo. Oltre 3 miliardi di cessioni. Obiettivo ambizioso, soprattutto perché al contempo a ministeri e pubblica amministrazione viene anche ordinato di trasferire in stabili pubblici gli uffici per cui si paga l’affitto a privati. Sulla carta, di margine per intervenire ce n’è parecchio: gli immobili pubblici censiti sono un milione di unità catastali, valore stimato 284 miliardi, quasi tutto usato dalla pubblica amministrazione, 48 miliardi sono affittati (o dati gratis a privati). Ben 12 miliardi di euro di immobili sono non utilizzati quindi, in teoria, vendibili.

Gran parte di questi immobili però sono nella disponibilità di Comuni, Regioni, enti vari: non è facile venderli, ancor meno metterli a reddito. Il fondo Invimit, creato per valorizzare quel patrimonio, dopo anni di attività gestisce beni per un valore di 1,4 miliardi ma è praticamente impossibile capire quanti ne è riuscito davvero a vendere.

Nelle amministrazioni centrali non è molto più semplice. L’Agenzia del demanio, cioè un pezzo del ministero dell’Economia, a fine 2018 possedeva 42.886 immobili per un valore stimato di circa 60 miliardi. L’85 per cento è in “uso governativo”, il 12 è di una qualche rilevanza storico-artistica o comunque “indisponibile” per altre ragioni. Resta un 3 per cento da valorizzare, cioè vendere o sistemare e affittare: valore stimabile, 1,8 miliardi. Poca roba.

Tagliare gli affitti è ancora più complicato che vendere. Nel 2014 la Pubblica amministrazione centrale, cioè al netto degli enti locali, spendeva per canoni di locazione oltre 900 milioni all’anno. Faticosamente, in quattro anni, la spesa è stata ridotta di 100 milioni e l’obiettivo è tagliarne altri 100 grazie agli “interventi programmati”. Piccolo dettaglio: il Def specifica che il merito è anche degli “investimenti che hanno permesso di recuperare immobili pubblici abbandonati e rilasciare progressivamente immobili privati per i quali venivano pagati canoni di affitto significativi”. Logica pericolosa: investimenti per risparmiare. Qualche riga dopo si capisce meglio: sono stati stanziati 1,2 miliardi di euro per la “razionalizzazione degli usi governativi per l’abbattimento della spesa per la locazione passiva” che si aggiungono a 1,1 miliardi per la riqualificazione sismica ed energetica degli immobili statali. È chiaro che finché si stanzieranno 1,2 miliardi (sia pure una tantum) per cercare di risparmiare qualcosa su 900 milioni di affitti annui sarà difficile usare gli immobili di Stato come un bancomat per pagare nuove spese.

Il sottosegretario leghista Armando Siri vorrebbe usare la “valorizzazione” degli immobili come copertura per la flat tax. Ma negli ultimi anni le dismissioni hanno fruttato soltanto spiccioli: 936 milioni di euro nel 2016, 756 nel 2017, 825 nel 2018.

La Libia “autocertifica” di essere “porto sicuro”

“Il segretariato dell’Imo osserva con preoccupazione i recenti sviluppi sulle questioni umanitarie che riguardano la Libia. Ma non siamo nella posizione di verificare la situazione all’interno di tale paese”. L’Organizzazione marittima internazionale (Imo) è l’organismo che certifica l’esistenza delle zone Sar, ovvero delle aree di ricerca e soccorso e che, di conseguenza, consente agli Stati di fornire ai naufraghi soccorsi uno sbarco in un porto sicuro. E persino l’Imo è ormai costretta ad ammettere il suo imbarazzo rispetto all’esistenza di porti sicuri in Libia.

Interpellata dal Fatto sull’esistenza di porti sicuri in Libia, e sulla possibilità di revocare la zona Sar, in caso di inadempienza nei soccorsi, l’Imo ha fornito una risposta disarmante. Da un lato esprime la sua “preoccupazione per gli sviluppi sulle questioni umanitarie” in Libia. Dall’altro manifesta l’impotenza nel verificare quel che accade sul fronte soccorsi. “Il segretariato dell’Imo è incaricato di svolgere la funzione di depositario della convenzione” Sar. “La prerogativa degli Stati interessati – continua l’Imo – è quella di determinare se uno Stato ha prestazioni sufficientemente soddisfacenti per adempiere ai propri compiti”. In altre parole ogni Stato, Libia inclusa, autocertifica le proprie prestazioni.

Ma chi lo verifica? Nessuno. “Non vi è alcuna disposizione stabilita nell’ambito della Convenzione Sar per verificare la performance degli Stati Parte”. Quando si parla di “porti sicuri” si fa riferimento all’esistenza di condizioni ben precise e previste dalle convenzioni: luoghi dove i diritti umani sono rispettati, le esigenze primarie delle persone sono soddisfatte, la possibilità di transito nella destinazione finale è garantita. Niente di tutto questo è possibile in Libia. Tantomeno oggi con un conflitto in corso. Eppure non possiamo smettere di considerare la Libia un luogo che può fornire un porto sicuro: finché vige la sua zona Sar potrà legittimamente coordinare soccorsi e sbarchi. Poiché l’Imo non è in condizioni di revocarla, la situazione può mutare solo se è la Libia a rinunciarvi. Ma la Libia non può farlo perché si è impegnata con l’Italia sin dal governo Gentiloni. Un impegno che all’Italia – e anche all’Ue – è costato centinaia di milioni di euro.

Con quali risultati? Lo spiega bene l’intervista ai marinai libici mandata in onda ieri sera da Piazza Pulita. “I vostri pattugliamenti – chiede il cronista Nello Trocchia – come funzionano?” Risposta: “Come vuoi che funzionino ? L’altro giorno abbiamo soccorso 240 naufraghi, 60 son morti annegati… i morti sono tanti… quando il mare è molto mosso la mattina sulla spiaggia si trovano cadaveri, sette, otto per volta, anche bambini. Corpi putrefatti… Le motovedette in dotazione sono ferri vecchi mangiati dalla ruggine, ogni volta che ci saliamo a bordo abbiamo paura che affondino…. lanciamo le ciambelle di salvataggio in acqua, ma non scendiamo in mare perchè se lo fai ti si aggrappano … e finisce che ti tirano giù … lanciamo le ciambelle, e chi arriva per primo si salva… Gli italiani sanno tutto… è la politica amico”.

Cambio di regime Khartoum nel caos non lascia la piazza

Il Sudan è nel caos. Ieri mattina i militari hanno destituito il presidente Omar Al Bashir, arrestato e trasportato in un “posto sicuro” che non è stato rivelato, e il ministro della Difesa Ahmed Awad Ibn Auf ha annunciato in televisione la formazione di un consiglio militare transitorio. La lunga giornata di Khartoum comincia all’alba. Il quartier generale dell’esercito, che al suo interno ospita anche la residenza del presidente della repubblica, dove da 5 giorni i manifestanti protestano e chiedono le dimissioni di Omar Al Bashir, viene circondato dai mezzi blindati. I soldati annunciano la caduta del regime e rimandano ulteriori spiegazioni a più tardi. I dimostranti rispondono con scene di giubilo. Poi però passa il tempo e tutto resta nell’incertezza.

Solo alle 14 Ahmed Awad va in televisione e, interrompendo la lunga catena di monotone marcette militari, annuncia una lunga dichiarazione: dopo trent’anni di dittatura, cambio di regime, periodo di transizione di due anni, al termine dei quali verrà promulgata una nuova Costituzione e saranno indette elezioni generali, scarcerazione immediata di tutti i prigionieri politici, chiusura dello spazio aereo per almeno 24 ore, stato di emergenza per tre mesi. La dichiarazione si conclude con un ringraziamento ai dimostranti e alle loro pacifiche manifestazioni per cacciare il despota. Ma il generale Ahmed Awad Ibn Auf è una vecchia conoscenza della piazza. Oltre che essere stato nominato da Bashir ministro della Difesa nel 2015, nel febbraio scorso gli era stata affidata la carica di primo vicepresidente. In precedenza era stato capo di Stato maggiore e – cosa assai più grave agli occhi della gente – capo dell’intelligence. Nel 2007 gli Stati Uniti l’avevano accusato di essere l’anello di congiunzione tra il governo e le milizie paramilitari janjaweed, i cosiddetti diavoli a cavallo che, durante la guerra in Darfur, terrorizzavano i civili bruciando i villaggi. Era così stato inserito tra i sudanesi colpiti dalle sanzioni.

A sentire che il capo del putsch è un uomo così legato al regime, l’umore dei dimostranti cambia e le associazioni professionali organizzatrici della protesta, decidono di non mollare: “Restiamo in strada e continuiamo il sit-in. Siamo scesi in piazza in oltre due milioni, abbiamo protestato per quattro mesi e ora stiamo scivolando da un regime militare a un altro. Dobbiamo continuare a reagire, finché non saranno accettate le nostre proposte: governo civile di transizione e nuove elezioni”. Omama Al Turabi è la figlia di Hassan Al Turabi storico oppositore di Omar Al Bashir, finito in carcere diverse volte e morto tre anni fa.

Raggiuta al telefono a Khartoum non ha dubbi: “Occorre aspettare almeno le prossime 24/48 ore. Saranno cruciali per dare un giudizio su questo strano colpo di Stato e capire se le intenzioni dei promotori sono genuine. La risposta però a prima vista non mi sembra adeguata”. Il Sudan è un Paese musulmano. Ciononostante la presenza femminile durante le dimostrazioni è stata notevole. “Siamo scese in piazza a decine e non solo quelle che hanno arringato la folla – spiega Omama –. Lo Stato di emergenza, promulgato da Bashir, ha avuto un effetto boomerang: scuole e università sono state chiuse e così studenti e studentesse sono scesi in piazza gonfiando il numero dei manifestanti”.

Anche l’Unione Africana ha reagito al colpo di Stato sostenendo che non è una risposta giusta alle richieste dei dimostranti mentre all’Onu è stata chiesta la convocazione urgente del Consiglio di Sicurezza.

C’è poi un altro scoglio sulla strada della democrazia: il mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja contro Al Bashir, accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e stupro. Tra i dimostranti nei giorni scorsi c’è chi aveva proposto di estradare il vecchio leader. Un desiderio che ora appare difficile da esaudire.

Il “biondino” nella guerra tra Obama e Donald

Altro che biondino. L’ennesimo atto dello scontro continuo – e mai sopito – tra l’Amministrazione Obama, il presidente Barack e pure il segretario di Stato del primo mandato Hillary Clinton, e Donald Trump si consuma a Londra, in un’aula di tribunale di Westminster. La fuga dalla giustizia di Julian Assange, giornalista, programmatore, attivista australiano, pare finita, ma l’approdo davanti alla giustizia Usa non è ancora certo. Per Trump, potrebbe essere un passaggio scomodo: c’è sotto il nervo scoperto delle connivenze nel 2016 tra la campagna del magnate e il Cremlino. Il presidente, che non fa mai mancare un tweet sulle vicende più disparate, questa volta tace: Assange e Wikileaks resero di fatto buoni servigi all’allora candidato Trump nella campagna 2016, pubblicando email hackerate della campagna della Clinton. E The Donald twittò “I love Wikileaks”; e ancora “Adoro leggere Wikileaks”. Ora da presidente, Trump se ne lava le mani: “Non so nulla dell’arresto, non è roba mia”. Forse, c’è un’ombra di rammarico: un’arma in meno verso Usa 2020.

Assange è una icona della libertà d’informazione, ma pesanti ombre s’addensano sul sito Wikileaks, di cui è cofondatore e direttore. La diffusione di documenti sull’Afghanistan, l’Iraq e i magheggi della diplomazia statunitense hanno reso il Mondo un posto più consapevole. Ma Assange e i suoi hanno avuto una spalla sospetta nel Cremlino, specie durante la campagna presidenziale Usa 2016. Adesso gli Stati Uniti ne chiedono l’estradizione: una prima udienza è fissata al 12 maggio, l’accusa è di pirateria informatica e cospirazione. Se condannato, Assange rischia fino a 5 anni di reclusione. Washington, che sta lavorando sul dossier da circa un anno, ha tempo sino al 12 giugno per fornire tutti gli elementi a sostegno della richiesta d’estradizione: il Dipartimento di Giustizia intende contestare al giornalista ulteriori capi d’imputazione, oltre ai due già noti. L’accusa di cospirazione deriva dall’avere Wikileaks pubblicato documenti rubati dall’ex soldato Usa Chelsea Manning. In aula, Assange s’è detto “non colpevole”. Ma la battaglia intentata dalla Giustizia usa lascia freddo il presidente e il ministro competente, William Barr, che deve sovrintendere a tutta la vicenda giudiziaria. “Vedremo quello che succede, non so molto di Assange, non è la questione della mia vita”, ha frettolosamente detto Trump.

Fra le sortite pro- Assange, spicca quella del Cremlino, a sorpresa paladino della libertà di stampa: auspica che i suoi diritti “non siano violati” e critica Londra, “La mano della democrazia strangola la libertà”. Anche la relatrice speciale dell’Onu sui diritti umani, Agnes Callamard è preoccupata e molti movimenti di sinistra o libertari europei prendono le difese dell’australiano e di Wikileaks. Edward Snowden, ex analista dell’intelligence Usa e gola profonda del Datagate, esiliato a Mosca, ha twittato: “È un momento buio per la libertà d’informazione”.

L’ex presidente Correa: “È una vendetta”

“La condotta irrispettosa e aggressiva”, “la trasgressione delle convenzioni internazionali dell’Avana e di Caracas”, “la violazione del protocollo di norme sottoscritte con il governo dell’Ecuador”, la “connessione dal suo iPhone personale per comunicare con l’esterno”.

Il presidente ecuadoriano Lenín Moreno in un messaggio solenne su Twitter fa l’elenco – come contrito per l’ingratitudine del suo ospite – delle ragioni che lo hanno portato a revocare lo status diplomatico a Julian Assange nell’ambasciata londinese. Gli stessi motivi sono riportati dal capo del Parlamento José Valencia. Eppure secondo il suo predecessore Rafael Correa, titolare nel 2012 della decisione d’asilo all’hacker, Moreno non solo sarebbe “il più grande traditore della storia ecuadoriana e dell’America latina”, ma sarebbe mosso da ragioni personali. Cioè la pubblicazione dei documenti che svelerebbero i suoi conti all’estero, nella Balboa Bank di Panama. Correa pubblica il frontespizio del dossier “Ina Papers” sulla corruzione presidenziale. A svelare di cosa si tratta c’è il sito “Ina” appunto, dal nome dell’azienda fondata dal fratello del presidente, Edwin, nel 2012 a Città del Belize sotto l’acronimo delle ultime lettere dei nomi delle nipoti. Ina sarebbe un’azienda fantasma che con altre decine off-shore in paradisi fiscali verrebbero usate per riciclaggio di denaro, evasione fiscale, traffico di influenze e altri reati internazionali. A capo dell’azienda sarebbe proprio l’attuale presidente insieme alla first lady, suo fratello, sua cognata, uno degli imprenditori più famosi dell’Ecuador nonché l’ambasciatore di Panama in Messico. Sarebbero dunque queste “le minacce messe in atto negli ultimi giorni da Wikileaks nei confronti del governo ecuadoriano” di cui lo stesso Lenín Moreno parla nel video? “Non temiamo minacce e non agiamo in risposta a ricatti”, dice il presidente su Twitter, dopo aver parlato “di intromissioni di Assange e Wikileaks negli affari di altri Stati. Di queste, la più importante fu quella di gennaio – spiega Moreno – quando Wikileaks fece filtrare documenti sul Vaticano e qualche giorno prima e dopo i membri dell’organizzazione facero visita ad Assange in ambasciata”. Moreno forse si riferisce alla pubblicazione della lettera scritta da Papa Francesco al cardinale Raymond Leo Burke nel 2016, parte dei documenti che ricostruivano la genesi dello scontro del 2016-2017 tra Papa Francesco e i Cavalieri dell’Ordine di Malta che portò alle dimissioni di Gran Maestro Matthew Festing, capofila dell’opposizione a Bergoglio. Accanto a questo, Moreno accusa Assange di aver hackerato l’archivio della sede di rappresentanza dell’Ecuador a Londra, documenti che potrebbero essere legati all’Ina Papers.

È proprio la ministra dell’Interno dell’Ecuador, infatti, ad accusare Assange di essere collegato a due hacker russi che nel suo Paese cercano di destabilizzare il governo. “Renderemo note le loro identità alla Procura perché non permetteremo che l’Ecuador diventi centro di pirateria informatica”, ha avvisato la ministra parlando di un legame tra uno di questi e l’ex ministro degli Esteri proprio del governo Correa.

Un “patriota” per il M5S Ma ormai Julian è solo

se ci si immagina una levata di scudi a difesa di un personaggio controverso, ma comunque paladino della distribuzione urbi et orbi di informazioni riservate, con la sua Wikileaks, si resterà delusi. A parte il M5S, in Italia a sostenere i diritti di Jiulian Assange o, quantomeno, a puntare l’indice contro la violazione del diritto internazionale operata a Londra, non c’è nessuno. Anzi, dalle parti del Partito democratico, oltre al silenzio del segretario Nicola Zingaretti, si assiste al tiro alla spia russa, come il deputato Andrea Romano definisce l’hacker australiano.

Quanto il caso stia a cuore dei pentastellati è dimostrato dal ritorno di Alessandro Di Battista che rilascia una dichiarazione netta su Facebook, definendo Assange “un patriota dell’umanità” e accusando frontalmente quei giornalisti “sicari della libertà di informazione” che “non difenderanno Assange”. “Il governo italiano – continua Di Battista – ha il dovere di mettere in campo ogni iniziativa possibile altrimenti non ci sarà alcuna differenza con gli scendiletto degli Usa che ci hanno governato negli ultimi trent’anni”.

Le preoccupazioni, espresse in forma robusta da Di Battista, fanno del resto eco nelle parole del legale di Assange, Barry Pollack, che lo rappresenta negli Stati Uniti: “I giornalisti di tutto il mondo dovrebbero essere molto preoccupati da queste accuse penali senza precedenti”, sostiene, perché “le vere accuse si riferiscono all’azione tesa a incoraggiare una fonte a fornirgli informazioni e a sforzarsi di proteggere l’identità di una fonte”. Il riferimento è a Chelsea Manning, il soldato, poi diventato donna, che ha fornito i materiali più scottanti per Wikileaks.

In questo senso si spiega anche la presa di posizione del sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, che dall’incarico istituzionale in cui si trova, potrebbe creare un caso diplomatico. “L’arresto di Assange, dopo 7 anni di ingiusta privazione di libertà – è la sua dichiarazione via Twitter – è una inquietante manifestazione di insofferenza verso chi promuove trasparenza e libertà. Amici britannici, il mondo vi guarda, l’Italia vi guarda”.

Basta questo per far chiedere se questa sia la posizione del governo italiano nell’interrogazione rivolta al ministro Moavero Milanesi dai deputati dem Lia Quartapelle, capogruppo in commissione Esteri, e Andrea Romano.

I due parlamentari segnalano anche come “tra le reazioni internazionali, destano preoccupazione le molteplici prese di posizione di esponenti del governo russo, Paese che non brilla certo per il rispetto dei diritti dei dissenzienti e per la libertà di stampa, tra cui quella dello stesso portavoce di Vladimir Putin, Dmitrij Peskov”. “Italia satellite della Russia?” si spinge invece a dire il capogruppo Pd al Senato, Andrea Marcucci.

Ma quello che più mette in evidenza la solitudine dei 5Stelle è l’assoluto silenzio della Lega, partner di governo, su questa vicenda. Di fatto, il partito di Di Maio si trova accanto a dichiarazioni che vengono solo dalla sinistra europea come quella di Jean Luc Mélenchon, leader della France Insoumise, che propone alla Francia di offrire “asilo politico” ad Assange. Dichiarazione di sostegno anche da parte della Linke tedesca, il partito a sinistra della socialdemocrazia. Il mondo “democratico” invece non si scalda e questo nonostante il fondatore di Wikileak, il Mendax che aveva creato l’Internazionale sovversiva, fosse diventato un’icona della libertà di essere informati.

Alla fine, però, troppa libertà è eccessiva e i file di Wikileaks, letti avidamente da tutti e da tutti spulciati con sovreccitazione, sono stati dimenticati negli archivi. E Assange non è più quello con il viso curato e sorridente di qualche anno fa.

Assangexit fuori dal buco: il capo di Wikileaks offerto per il trionfo di Trump

Il video è breve, drammatico. Julian Assange viene trascinato fuori dalla Ambasciata dell’Ecuador, nel centralissimo quartiere londinese di Knightsbridge che lo ha ospitato, prima come eroe e rifugiato politico e poi come ospite sempre più sgradito, per quasi 7 anni. Ieri mattina l’ambasciatore revoca ad Assange la protezione garantita dall’asilo politico e apre la porta agli agenti di Scotland Yard che lo invitano a seguirli. Lui si rifiuta, cerca di tornare nella propria stanza. I poliziotti usano la forza.

Capelli lunghi, barba bianca, ieratico come un santone, provato ma indomito, mentre viene trasportato di peso da sette agenti in borghese verso la camionetta della polizia, grida alla telecamera con una smorfia di rabbia: “Il Regno Unito deve resistere a questo attentato dell’Amministrazione Trump”.

Fra le manette stringe il libro History of the National Security State, saggio critico, senza sconti, dello scrittore Gore Vidal all’imperialismo americano. Il leit motiv dell’attività di Assange e una potente mossa simbolica. Lo legge in modo ostentato anche poco dopo, seduto di fronte al giudice Michael Snow della Westminster court. Deve rispondere dell’accusa di violazione delle condizioni di libertà vigilata: era entrato nell’ambasciata ecuadoregna proprio per sottrarsi a un primo mandato di arresto britannico.

Sfuggiva a una richiesta di estradizione dalla Svezia per molestie sessuali e di stupro: accuse che Assange ha sempre respinto e che negli anni sono state ritirate per l’impossibilità di procedere in assenza dell’imputato.

Dal punto di vista delle autorità, una imbarazzante latitanza sotto il naso, tanto che sia il ministro degli Interni Sajid Javid sia la premier Theresa May ringraziano immediatamente l’Ecuador e Scotland Yard per l’arresto dichiarando che “nessuno è al di sopra della legge”.

Bastano pochi minuti al magistrato per giudicarlo colpevole di non essersi consegnato alla Corte e definire il suo comportamento come quello di un “narcisista che non è in grado di andare oltre i propri interessi”. Sentenza aggiornata a maggio: per questa accusa Assange rischia fino a 12 mesi di carcere.

Ma su di lui pesa un rischio ben più grave: in mattinata Scotland Yard comunica che gli è stato notificato “un ulteriore mandato d’arresto a nome delle autorità Usa, una richiesta di estradizione sulla base della sezione 73 dell’Extradiction Act”: l’accusa è di cospirazione con Chelsea Manning che, nel 2010, avrebbe aiutato a violare la password di una database del governo Usa. Pena prevista: fino a 5 anni. È stata, evidentemente, la persistente pressione degli Stati Uniti a portare all’esito tanto temuto da Assange e dai suoi sostenitori. Ma la decisione di concedere l’estradizione spetta a una Corte britannica.

E già ieri, fuori dal tribunale, l’avvocato di Assange, Jennifer Robinson ha annunciato una battaglia che sposta il focus sulla difesa del diritto di cronaca e della libertà di espressione: “Abbiamo ricevuto una richiesta di estradizione dagli Stati Uniti in cui Assange è accusato di aver cospirato con Manning in relazione a contenuti pubblicati da Wikileaks nel 2010. È un pericoloso precedente per tutte le organizzazioni mediatiche e i giornalisti in Europa e nel resto del mondo. Significa che qualsiasi giornalista può essere estradato e processato negli Stati Uniti per aver pubblicato informazioni accurate sugli Stati Uniti”.

Linea di difesa/attacco rilanciata dalla direttrice di Wikileaks Kristinn Hrafnsson: “Chiunque tenga alla libertà di stampa dovrebbe valutare le implicazioni di questo caso. Se un giornalista sarà estradato negli Stati Uniti, allora nessun giornalista è al sicuro.”

Stadio della Roma, il IX municipio vota contro l’impianto

Il nono municipio capitolino, guidato dai Cinque Stelle, ha votato contro il progetto dello nuovo stadio della Roma a Tor di Valle. Il consiglio ha approvato la delibera Grancio-Fassina che chiede di annullare la dichiarazione di interesse pubblico per l’impianto che dovrebbe sorgere proprio all’interno dei confini municipali. Sono 9 i consiglieri favorevoli alla delibera e 14 gli astenuti (ma l’astensione in base al regolamento non equivale ad un voto contrario). Si tratta di un parere non vincolante per la giunta Raggi ma, come sottolineato dalla consigliera capitolina ex M5S Cristina Grancio, “politicamente rilevante perché espressione del territorio”.

Secondo l’ex grillina, “l’intero quadrante sud-ovest della città dovrebbe sopportare riflessi catastrofici sulla mobilità per consentire la localizzazione dell’impianto sportivo, in un’area con forte rischio idrogeologico. Quanto prima l’amministrazione si libererà di questo fardello, tanto prima si potrà discutere liberamente delle alternative credibili. Il prossimo appuntamento per la delibera di annullamento è fissato per lunedì prossimo presso la commissione Sport dell’assemblea capitolina”.

Tanti ex e qualche figurina. Ecco le liste del nuovo Pd

“Aperte”, secondo il segretario Nicola Zingaretti, “confuse” e “senza criterio” secondo le due minoranze renziane (di Luca Lotti e di Roberto Giachetti), che infatti si astengono sulle liste per le Europee presentate ieri alla direzione del Pd. Tutti favorevoli nessun voto contrario e 30 astenuti. Su 76 candidati ci saranno 39 donne e 37 uomini. All’ultimo momento, il segretario ha inserito qualche volto della società civile. Quelle che comunemente vengono definite “figurine”, in realtà con un ruolo minore. Oltre all’ex procuratore Antimafia Franco Roberti e il medico di Lampedusa Pietro Bartolo, c’è il fisico Roberto Battiston, il presidente dell’Agenzia spaziale italiana messo alla porta nel novembre scorso dal ministro Bussetti.

Per il resto, confermati i capilista e il patto con Mdp. In corner, dopo il no di Elly Schlein, oltre a Massimo Paolucci è entrata Maria Cecilia Guerra, ex capogruppo di Mdp in Senato (osteggiata dalla minoranza).

Dunque, Giuliano Pisapia, Carlo Calenda, Simona Bonafè, Franco Roberti e Caterina Chinnici sono, da nord a sud, i capilista. Nella circoscrizione nord occidentale dietro Pisapia ci sono, nell’ordine, Irene Tinagli (per Siamo europei), Enrico Morando, Patrizia Toia, Brando Benifei, Marcedes Bresso, Caterina Avanza, coordinatrice per le europee di En Marche nonchè stretta collaboratrice di Macron. Poi, si trovano l’assessore alle politiche sociali a Milano Pierfrancesco Majorino (dodicesimo) e l’uscente Daniele Viotti (ventesimo). Nella circoscrizione nord orientale alle spalle di Calenda ci sono Elisabetta Gualmini, Paolo De Castro, Achille Variati, Isabella De Monte, Roberto Battiston , Cecile Kyenge. Scorrendo la lista, Cecilia Guerra è nona, Alessandra Moretti (che fu una delle 5 capoliste di Renzi nel 2014) undicesima, Francesca Puglisi quattordicesima e Laura Puppato quindicesima.

Al centro dopo la Bonafè sono in lista gli uscenti David Sassoli, Roberto Gualtieri, Camilla Laureti, Pietro Bartolo (il medico di Lampedusa), Beatrice Covassi, alla guida della rappresentanza in Italia della Commissione europea dal 2016, un altro uscente, Nicola Danti. Il sindacalista Mamadou Small segretario generale dell’associazione della comunità senegalese di Firenze è undicesimo e Massimiliano Smeriglio tredicesimo. Al sud guida Roberti seguito da Pina Picierno, Andrea Cozzolino, Elena Gentile, Giosi Ferrandino e Sergio Caputo. E Massimo Paolucci. Non proprio il nuovo che avanza. Senza contare i guai giudiziari alle spalle. Nelle Isole dietro la Chinnici sono schierati Pietro Bartolo, Andrea Soddu, Michela Giuffrida, Attilio Licciardi, Virginia Puzzolo, ricercatrice della Commissione europea, Mila Spicola (già di Possibile).

Zingaretti ci ha tenuto a dire che le liste sono lo specchio dello slogan “da Tsipras a Macron”. E ha chiarito: “Nessuna candidatura si riferisce al Gue, il gruppo politico di Tsipras. Lavoro perché tutti aderiscano a Democratici e progressisti”. Per le dinamiche interne dei Dem, va segnalato non solo il malumore delle minoranze, ma anche il loro riposizionamento. Lottiani e giachettiani hanno votato insieme, astenendosi. Numeri interessanti: essendo 30 gli astenuti, di cui 17 vicini a Giachetti, l’area Lotti vale 13. A proposito di restringimenti. Un incarico di prestigio è andato a Gianni Cuperlo, che guiderà la fondazione di cultura politica del Pd.

Ruby bis: condanne definitive

Condanne confermate in via definitiva per Emilio Fede e Nicole Minetti nel processo Ruby bis che ha al centro l’accusa di favoreggiamento della prostituzione per le serate nella villa di Berlusconi ad Arcore. La quarta sezione penale della Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi dei due imputati contro la sentenza d’appello bis pronunciata nel 2018.

Per Fede, accusato di tentata induzione e favoreggiamento della prostituzione, la condanna definitiva è a 4 anni e 7 mesi di reclusione: essendo superiore a 4 anni, dovrebbe essere emesso un ordine di carcerazione, ma i suoi legali hanno 30 giorni di tempo per chiedere la detenzione domiciliare come ultrasettantenne (ha 87 anni), per scontare almeno la prima parte della pena, e poi ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali. Per Minetti, sotto processo per favoreggiamento della prostituzione, la pena è 2 anni e 10 mesi: l’ex consigliera regionale lombarda potrà da subito chiedere l’affidamento in prova (la pena è inferiore a 3 anni). Per l’esecuzione delle pene, bisognerà comunque attendere l’invio del dispositivo della sentenza della Suprema Corte alla Procura generale di Milano.

“Correttamente la Corte di merito ha qualificato come attività di prostituzione quella che si svolgeva ad Arcore”: ha sottolineato il sostituto procuratore generale della Cassazione Pina Casella, nella requisitoria.

Casella, agli avvocati di Fede e Minetti che hanno tentato di smontare l’accusa di prostituzione parlando di ragazze ‘mantenute’ e non ‘prezzolate’, e chiedendo di rimandare alla Consulta la legge Merlin, ha obiettato che “è dimostrata l’attività prostitutiva ad Arcore”: “La mantenuta non fornisce prestazioni sessuali dietro compenso, ma lo fa nell’ambito di un rapporto consolidato, cosa da escludere sia avvenuta ad Arcore”. Per le ragazze, “più che mantenute, si può parlare di ‘favorite di turno’”. Emilio Fede avrebbe detto: “Ma chi può credere che io abbia fatto prostituire delle ragazze?”.

Nella requisitoria, il sostituto pg della Cassazione Pina Casella ha riconosciuto pienamente attendibile la testimonianza Imane Fadil, l’ex modella morta il 1° marzo in circostanze ancora da chiarire: “La veridicità delle sue dichiarazioni sulle serate di Arcore sono ampiamente confermate dai riscontri di Chiara Danese e Ambra Battilana e da intercettazioni telefoniche”. Emilio Fede “le aveva prospettato le serate di Arcore conoscendo le sue difficoltà economiche e le aveva fatto pressioni per farle passare la notte con Berlusconi”. E Imane rifiutò.

Intanto, come anticipato ieri dal Fatto quotidiano, Marysthell Polanco, una delle “olgettine” ospiti delle serate del bunga-bunga di Arcore, avrebbe parlato di un personaggio misterioso che, non solo a lei, avrebbe detto: “Basta una punturina e siete fatte”. Per questo Polanco reagì con un urlo (“No, il polonio!”), quando i pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, che la stavano interrogando, il 15 marzo le dissero che Imane Fadil era morta.