Non saranno gli immobili pubblici a salvare i conti del governo, quando in autunno dovrà scrivere la legge di Bilancio. Per capirlo basta leggere il Documento di economia e finanza appena firmato dal ministro dell’Economia Giovanni Tria e dal premier Giuseppe Conte.
Nel 2018 il ministero del Tesoro si è accorto che non riusciva a raggiungere l’obiettivo di risparmio sugli affitti di alcune sedi della Ragioneria generale dello Stato che si era dato a causa di “difficoltà emerse nel rilascio e riallocazioni delle sedi”. Risultato: ha dovuto spendere un milione in più degli 8,3 messi a bilancio. Poca roba, un milione, su un bilancio pubblico da 800 miliardi, ma se sugli immobili non riescono a risparmiare neppure i controllori dei conti, è plausibile che ci riesca il resto della pubblica amministrazione?
La legge di Bilancio 2019 sostiene di sì: entro il 2021, ha stabilito il governo Conte, lo Stato dovrà vendere 1,25 miliardi di euro di immobili in più rispetto agli 1,84 che si era già dato come obiettivo. Oltre 3 miliardi di cessioni. Obiettivo ambizioso, soprattutto perché al contempo a ministeri e pubblica amministrazione viene anche ordinato di trasferire in stabili pubblici gli uffici per cui si paga l’affitto a privati. Sulla carta, di margine per intervenire ce n’è parecchio: gli immobili pubblici censiti sono un milione di unità catastali, valore stimato 284 miliardi, quasi tutto usato dalla pubblica amministrazione, 48 miliardi sono affittati (o dati gratis a privati). Ben 12 miliardi di euro di immobili sono non utilizzati quindi, in teoria, vendibili.
Gran parte di questi immobili però sono nella disponibilità di Comuni, Regioni, enti vari: non è facile venderli, ancor meno metterli a reddito. Il fondo Invimit, creato per valorizzare quel patrimonio, dopo anni di attività gestisce beni per un valore di 1,4 miliardi ma è praticamente impossibile capire quanti ne è riuscito davvero a vendere.
Nelle amministrazioni centrali non è molto più semplice. L’Agenzia del demanio, cioè un pezzo del ministero dell’Economia, a fine 2018 possedeva 42.886 immobili per un valore stimato di circa 60 miliardi. L’85 per cento è in “uso governativo”, il 12 è di una qualche rilevanza storico-artistica o comunque “indisponibile” per altre ragioni. Resta un 3 per cento da valorizzare, cioè vendere o sistemare e affittare: valore stimabile, 1,8 miliardi. Poca roba.
Tagliare gli affitti è ancora più complicato che vendere. Nel 2014 la Pubblica amministrazione centrale, cioè al netto degli enti locali, spendeva per canoni di locazione oltre 900 milioni all’anno. Faticosamente, in quattro anni, la spesa è stata ridotta di 100 milioni e l’obiettivo è tagliarne altri 100 grazie agli “interventi programmati”. Piccolo dettaglio: il Def specifica che il merito è anche degli “investimenti che hanno permesso di recuperare immobili pubblici abbandonati e rilasciare progressivamente immobili privati per i quali venivano pagati canoni di affitto significativi”. Logica pericolosa: investimenti per risparmiare. Qualche riga dopo si capisce meglio: sono stati stanziati 1,2 miliardi di euro per la “razionalizzazione degli usi governativi per l’abbattimento della spesa per la locazione passiva” che si aggiungono a 1,1 miliardi per la riqualificazione sismica ed energetica degli immobili statali. È chiaro che finché si stanzieranno 1,2 miliardi (sia pure una tantum) per cercare di risparmiare qualcosa su 900 milioni di affitti annui sarà difficile usare gli immobili di Stato come un bancomat per pagare nuove spese.
Il sottosegretario leghista Armando Siri vorrebbe usare la “valorizzazione” degli immobili come copertura per la flat tax. Ma negli ultimi anni le dismissioni hanno fruttato soltanto spiccioli: 936 milioni di euro nel 2016, 756 nel 2017, 825 nel 2018.