La lobby dei garantisti perde pezzi: c’è solo Salvini dalla Chirico

Una platea più corta, una sala più stretta, una cena più sobria. Non è consigliata neppure la tipologia di abbigliamento. Milano depura l’associazione garantista “Fino a prova contraria” di Annalisa Chirico dagli eccessi di Roma. Appena tre mesi fa, tra cappotti dal taglio slanciato, pellame dai colori arditi, magistrati, avvocati, politici, lobbisti, senatori e deputati s’erano riuniti agli esosi tavoli (600 euro a sedia) del ristorante la Lanterna, sotto le volte in acciaio disegnate dall’architetto Fuksas, per discutere di “una nuova giustizia: un’impresa che serve all’Italia”.

Stavolta a Milano per la replica, il 7 maggio in villa Necchi Campiglio, in un tempio del decò degli anni Trenta, donato al Fondo per l’ambiente italiano, il raduno sarà più intimo – un solo giudice – e non meno politico.

Per educazione, le istituzioni salutano e per Chirico il saluto istituzionale, previsto in locandina, è abbondante e leghista o comunque di centrodestra: Matteo Salvini, il segretario del Carroccio, vicepremier e ministro dell’Interno, nonché amico di Annalisa che l’ha messo ai fornelli nel carcere di Bollate, proprio Matteo, il fautore della legittima difesa e l’indossatore di divise militari; Attilio Fontana, il governatore lombardo, autonomista, un uomo del Nord, un simbolo del Carroccio che fu; Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, l’ultima berlusconiana non arresa ancora al salvinismo. Assente Giuseppe Sala, il sindaco di centrosinistra.

Forza Italia ha lasciato ai leghisti anche la giustizia, l’utopia di una riforma. Adesso Chirico, che ha altri titoli, prende il posto di Niccolò Ghedini, che di mestiere è avvocato e non patisce la stessa passione salottiera. Chirico introduce Salvini nel vasto e spesso distorto agone del garantismo, in passato frequentato dai renziani, che serve ai rapporti, ai convegni e non fa male ai consensi.

Il gruppo degli oratori è ridotto, stampato sui volantini, ma non proprio ufficiale: l’avvocato Paola Severino, vicepresidente dell’Università Luiss, ex ministro della Giustizia; Marina Tavassi, presidente della Corte d’appello di Milano; Luciano Violante, ex presidente della Camera; Carlo Bonomi, capo di Assolombarda. Chirico ha invitato il pentastellato Alfonso Bonafede, il Guardasigilli, che ha declinato.

Per sfuggire a una inelegante commistione tra codice penale e tartine al caviale, tra pensose riflessioni e invasioni di parlamentari, a Roma diversi illustri ospiti – annunciati sul manifesto stracolmo di nomi – s’erano dileguati per i soliti, e spietati, sopraggiunti impegni. C’era l’intero Parlamento, una maggioranza schiacciante, adatta a riscrivere la Costituzione riscrivibile, non c’erano i Cinque Stelle che s’infuriarono con l’alleato Salvini e i vertici delle aziende pubbliche paganti e presenti (la campagna elettorale era lontana, dunque la polemica verace). Oltre a Luca Cordero di Montezemolo, Marco Tronchetti Provera, Flavio Briatore e Urbano Cairo, c’erano gli sponsor Eni, Poste, Enel e Fincantieri. A Milano ci sarà un monocolore leghista. Un giorno di lotta, un altro pure.

“I reati li decide il governo” A Zanda piace l’idea forzista

Il nuovo tesoriere del Pd, Luigi Zanda, non ha tabù: prima ha presentato un disegno di legge per aumentare gli stipendi dei parlamentari al livello degli emolumenti che ricevono gli eletti in Europa. E ora vuole aprire un altro fronte, pure questo ad alto rischio di polemiche: modificare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. “La mia proposta di legge piace a Zanda che la trova assai interessante. Mi ha proposto di incontrarci ancora per parlare delle misure contenute nel testo che ho presentato a Palazzo Madama sulla giustizia”, dice il senatore di Forza Italia, Luigi Vitali. Che l’altro giorno ha depositato una proposta che in altri tempi avrebbe fatto inorridire la sinistra, oltreché la quasi totalità della magistratura.

Di che si tratta? Di un ddl costituzionale che propone di accordare una corsia preferenziale ad alcuni reati di particolare allarme sociale. Quali? Lo stabilirà, anno per anno, il ministro della Giustizia. L’obiettivo è quello di “coordinare l’attività del pubblico ministero, finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticista dell’obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli sulla sua attività”, ha scritto Vitali nella relazione che accompagna il testo. Che Zanda, limatura più limatura meno, trova quantomeno “interessante”.

In effetti, seppur timide aperture in questa direzione da parte del Pd c’erano già state dieci anni fa, all’epoca in cui segretario del partito era Walter Veltroni. Ma era finita malissimo. Tant’è che a un certo punto, l’allora premier Silvio Berlusconi si era detto deluso per la retromarcia dem che aveva fatto sfumare il cantiere sulla giustizia che si proponeva non solo la riforma delle intercettazioni, ma pure quella della obbligatorietà dell’azione penale e della separazione delle carriere dei magistrati. Non se ne era fatto più niente: con il leader di Forza Italia delusissimo da Veltroni e dal Pd “ostaggio delle frange giustizialiste”.

Ma l’aria ora è cambiata, eccome.

Alla Camera sta marciando la proposta di legge di iniziativa popolare che prevede la separazione delle carriere: il relatore è Francesco Paolo Sisto di Forza Italia, ma è tenuta a battesimo da un intergruppo a cui partecipano deputati di ogni colore politico. E al Senato non si sta con le mani in mano: l’attivismo di Vitali, che non dispiace a Zanda, non si limita al ddl che detta i paletti ai pm in materia di azione penale.

Il forzista ha pure presentato un disegno di legge che assegna al governo il compito di mettere mano in fretta alle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri prevedendo, tra l’altro, anche forme di reclutamento per posti di magistrato a tutti i livelli di giurisdizione riservati ad avvocati. “Il clima è molto diverso da quando ero sottosegretario alla Giustizia del governo Berlusconi. All’epoca dovetti beccarmi gli sputi”, dice ricordando il braccio di ferro che vide contrapposto il governo da una parte e l’Associazione nazionale magistrati dall’altra, allora guidata da Edmondo Bruti Liberati. “Era sceso in campo persino il presidente della Repubblica Ciampi. Per non parlare dei veti politici, specie di certa sinistra. Pensammo, anzi, per la verità, alcuni miei compagni di allora pensarono, che il passo indietro sulla separazione delle carriere fosse l’unico modo per portare a casa la riforma Castelli sull’ordinamento giudiziario. Ci fregarono, continuarono a spararci addosso lo stesso”, dice Vitali sperando che questa volta vada meglio. E che il Pd di Zingaretti e Zanda faccia la sua parte.

Manuale da talk

Dopo l’ultima puntata di Otto e mezzo, in cui il vicedirettore della radio del Sole 24 Ore spiegava che l’evasione riguarda forse “qualche imprenditore”, ma certamente i giovani poveri del Sud col reddito di cittadinanza, vorrei aiutare i colleghi dei giornaloni a combattere quest’orrendo sussidio per meridionali sfigati e poltronisti con dieci argomenti un po’ più solidi dei soliti.

1. Dire subito che “il lavoro non si crea con i sussidi”: fa sempre effetto.

2. Se in studio qualcuno obietta che il Rdc non è fatto per creare lavoro ma, appunto, per aiutare chi non ce l’ha, come peraltro si fa in tutto il resto d’Europa (Grecia compresa), rispondere che “sarebbe bello poterlo fare, ma non ci sono le coperture”.

3. L’eventuale contraddittore farà notare che il governo, contro ogni previsione, ha trovato le coperture per il Rdc stanziando 7 miliardi nella legge di Bilancio. Replicare che “purtroppo il sussidio ha già fallito: il governo ha buttato 10 e passa miliardi per Rdc e Quota 100, e il risultato è la crescita zero”.

4. L’obiezione sarà che la crescita zero non può dipendere dal Rdc e da Quota 100, visto che il primo verrà erogato (se va bene) a partire da maggio, mentre i primi beneficiari di Quota 100 prenderanno la pensione a fine aprile o fine maggio (il grosso in estate). Ribattere che “il Rdc è una misura elettorale dei 5 Stelle per comprare voti al Sud, trascurando il Nord produttivo e il Partito del Pil”.

5. La replica sarà che, almeno finora, nelle tre elezioni regionali tenute dopo la legge di Bilancio che stanzia i fondi per il Rdc, i 5Stelle hanno dimezzato o ridotto di un terzo i loro voti rispetto a un anno fa, e sempre al Sud (Abruzzo, Sardegna e Basilicata), mentre, fra le cinque regioni col maggior numero di richieste del Rdc, ci sono la Lombardia e il Piemonte, che pare stiano al Nord. Obiettare che Lombardia e Piemonte sono piene di immigrati meridionali, e comunque “il Rdc si sta rivelando un flop, perché a farne richiesta sono state solo 800mila persone, su 5 milioni di poveri aventi diritto”.

6. Il solito pignolo in studio ricorderà i titoli dei giornaloni, che alla vigilia del primo giorno di domande annunciavano l’assalto alle Poste e ai Caf, tra “caos” e “problemi di ordine pubblico”, polizia in assetto antisommossa, cavalli di frisia alle porte e sacchi di sabbia alle finestre, salvo scoprire nei giorni seguenti che tutto procedeva con ordine e parlare di “flop” rispetto a un caos inventato a tavolino; poi sventolerà la relazione tecnica alla legge istitutiva, in cui si legge che il Rdc è destinato a 3,5 milioni di persone.

E le domande del primo mese non riguardano solo le 806.878 persone che le hanno presentate: ogni richiesta vale per l’intero nucleo familiare, dunque va moltiplicata per il coefficiente di 2,7; ergo le richieste investono già 2,2 milioni di persone su 3,5 aventi diritto (il 61%).Per cavarsela in quel mare di cifre, basterà buttare la palla in tribuna dicendo che “era molto meglio il Reddito d’inclusione (Rei) di Renzi e Gentiloni”.

7. Il solito pignolo estrarrà altri numeri e dimostrerà che il Rei, molto più basso e rivolto a una platea molto più ridotta, era andato molto peggio: per raggiungere il 63% di domande aveva impiegato un anno, mentre il Rdc ha toccato quasi la stessa percentuale (61%) in un mese. Per evitare altre figuracce, conviene buttarla in caciara, con frasi del tipo: “È una vergogna dare 780 euro al mese a chi non lavora, quando milioni di lavoratori guadagnano 800 euro al mese”.

8. Il cagacazzi risponderà che lo scandalo non sono i 780 euro ai disoccupati (Macron vuole darne a quelli francesi ben di più, dopo aver assaggiato sei mesi di Gilet gialli), ma gli 800 euro ai lavoratori, che non ci arrivano nemmeno a metà mese, ergo urge il salario minimo, come chiedono i 5Stelle, i sindacati e forse, fra mille prudenze, persino il Pd. Ribattere che “il Rdc alimenta l’economia sommersa, perché chi lo percepisce senza far niente lo arrotonderà con lavoretti in nero”.

9. Un contraddittore dotato di un minimo di logica replicherà che più uno guadagna e meno è incoraggiato a lavorare in nero: dunque sono più alte le probabilità che lavori in nero chi prende zero euro che chi ne intasca 780 al mese e deve per giunta accettare la terza offerta occupazionale congrua dal Caf, impegnarsi in corsi professionali e lavori utili; e in ogni caso tutti gli strumenti di Welfare vanno indiscriminatamente a chi è davvero povero e a chi è ricco ma non lo dichiara, ma a nessuno è mai venuto in mente di abolire cassa integrazione, sussidio di disoccupazione, sgravi e bonus sanitari, scolastici, universitari ecc. solo perché li percepisce anche chi non ne ha diritto. Qui la replica si fa difficile, ma mai impossibile, almeno in un mondo di bocca buona e stomaco forte come quello dei talk: si potrebbe dire che “i controlli e i paletti imposti dal governo sono troppi, con l’effetto di scoraggiare le domande”. Ma anche, all’occorrenza, sostenere il contrario, cioè che “i controlli e i paletti sono troppo pochi, con l’effetto di aprire le porte a furbetti e delinquenti di tutte le risme”. Buttare lì che, in coda alle Poste, sono stati avvistati un tale Spada che va al mare a Ostia, un cugino dei Casamonica, un ex-br in andropausa, un nababbo con la Panda del 1981, alcuni rom e diversi negri: fa sempre effetto.

10. Il solito rompipalle risponderà che esistono fior di delinquenti con la pensione, la cassintegrazione, la disoccupazione e persino la tessera parlamentare. Basterà interromperlo con un bel “Zitto tu che hai la patta sbottonata”. Se quello insiste a provocare, mostrando la patta abbottonata, tacitarlo col classico “Allora sarà stato tuo padre”.

“Riparto dall’allegria: perché morire sani?”

Il decano dei cantautori ha trovato la sua dimensione ideale. Dopo alcuni anni di rodaggio in tour con i migliori jazzisti, Gino Paoli pubblica un doppio album con una nuova e originale idea.

È lui stesso a spiegare il concept: “Un artista vero deve andare oltre le formule e le convenzioni. Ho pensato che si potevano usare note e parole in maniera diversa, eliminando tutto ciò che è forma canzone obbligatoria cercando una essenzialità. È una maniera diversa di usare note e parole. Mi soddisfa molto, c’è libertà ed è per me la cosa più importante. Questo comporta il fatto di pensare prima di parlare, cosa che non avviene spesso oggi da quel che vedo”.

Canzoni interrotte è il neologismo per stigmatizzare parole come appunti di viaggio unite alla musica composta da Danilo Rea: soprattutto in Estate il suo tocco ricorda alcune delle pagine più belle scritte da Moricone, in particolare Giù la testa. L’album verrà presentato dal vivo il 12 maggio a Roma, il 13 luglio a Umbria Jazz e il 18 luglio a Genova, tutte occasioni per festeggiare sessant’anni di carriera. La copertina è un manifesto programmatico: Gino è immerso nei suoi pensieri con il fumo che esce dalla bocca. E se ne fotte del politically correct: “Non voglio morire sano, non me ne frega nulla. Tutto quello che c’è da fare lo faccio. Ho sempre detestato quelli che dicono: ‘Sai quello è morto ma non ha mai fumato (ride)’”.

L’album spiazza e sorprende per la sua freschezza ed è interessante quanto ancora Paoli ha da dire e, soprattutto, da insegnarci: “L’allegria la capisci quando vedi come sono divisi i brani: primavera, estate, autunno, inverno. C’è la morte e la vita. C’è il ciclo, finisce l’inverno e inizia la primavera. Nella fine puoi avere allegria perché sai che ricomincia tutto. Vedere la natura e il suo ciclo mi trasmette molta serenità”. È un modo intelligente di esorcizzare la morte? “Non credo nella morte. Se tu guardi la natura ti rendi conto che la morte non esiste”.

Schietto, talvolta sfrontato e mai banale, soprattutto quando un incauto giornalista gli chiede se per caso – come è successo a Scalfari – è in arrivo una conversione: “No. Proprio no. Il motto degli anarchici è né Dio né padroni. Mia mamma diceva che ero un bastian contrario. Credo sia la giusta definizione”. In compenso ecco la sua definizione di saggezza: “Credo dipenda dal numero di domande che ti fai. Non esistono le risposte. Le risposte sono una truffa, sono altre domande. Più domande ti fai più ne avrai dentro di te. E la saggezza dipende da quante ne hai dentro”. Recentemente Sting ha reinciso le sue canzoni più famose raccontando che “la voce con l’età migliora e acquista nuove sfumature”. È proprio ciò che si nota soprattutto nei brani rivisitati – i suoi grandi successi – a differenza di una traccia firmata da Bruno Lauzi, Ritornerai: “Ho sempre cantato canzoni dei miei amici Luigi Tenco, Fabrizio De André e Umberto Bindi. È la prima volta con Bruno, che è quello che mi manca di più anche se litigavamo spesso”.

Nei testi Paoli ricorda “che non ha certezze” e “il brutto è non dare niente a nessuno” e lancia un monito disarmante per la sua bellezza, da autentico genovese: “Noi del mare lo sappiamo che se vuoi salvare chi sta andando giù prenderai le botte da lui e dal mare e forse andrai sotto anche tu”. La chiusura è affidata a Quando me ne andrò: “È dedicata alla mia compagna, anzi no non mi piace la parola, a mia moglie”. Perché per chi “legge le parole dentro i muri” e “non ha bandiera e padroni da obbedire”, “niente è più importante di una tua lunga carezza”.

Hotel di lusso e pigiami di seta: Il successo finale di Charlot

Il 5 giugno 1940, Charlie Chaplin detta alla segretaria: “Ragione. Felicità. Gentilezza. Dolcezza. Umanità. Bellezza. Immaginazione. Integrità. Progresso. Tolleranza. Libertà. Avventura. Amore. Scienza. Democrazia”. A quei tempi, come di questi tempi, parole oltremodo necessarie, ma non solo: modelleranno il discorso che verrà, uno dei più celebri nell’ultracentenaria Storia del Cinema, quello finale del Grande dittatore. Revisione dopo invenzione, Chaplin ci mise dei mesi a scriverlo, senza mai smobilitare dall’intenzione precipua, da un’urgenza morale: “Dovevo farlo! Semplicemente – spiegò al New York World Telegraph – dovevo farlo. Era arrivata l’ora di smettere di scherzare. Avevano avuto le loro risate. Ma ora dovevano ascoltare. Volevo che smettessero di essere così dannatamente contenti”. Sicché il barbiere ebreo interpretato da Chaplin potrà infine arringare l’amata Hannah (Paulette Goddard), il popolo dell’Ostria e il mondo intero: “Non disperate. L’avidità che ci comanda è solamente un male passeggero, l’amarezza di uomini che temono le vie del progresso umano”. In realtà, tra quel “disperate” e “l’avidità” lo stesso Chaplin aveva inserito “L’odio non conquisterà il mondo”, poi espunto dalla versione finale. Genesi, ideazione, correzione e perfezionamento emergono dall’archivio di Charlie Chaplin, digitalizzato e catalogato grazie al mirabile Progetto Chaplin della Cineteca di Bologna, teso a restaurarne l’opera filmica e preservarne i materiali, rendendoli al contempo accessibili.

In occasione dei 130 anni dalla nascita – a Londra il 16 aprile 1889 – sul nuovo sito www.charliechaplinarchive.org siffatto archivio si rende disponibile non solo agli studiosi, ma anche a cinefili e appassionati: 150 mila documenti, tra fotografie, manifesti, manoscritti, sceneggiature, appunti, lettere, telegrammi e contratti, come altrettante tessere del mosaico Charlot, forse il più prezioso, di sicuro il più famoso della Settima Arte. Insomma, Chaplin spiega Chaplin, la sua vita illumina le sue opere, e viceversa, con due bonus fondamentali: la possibilità di scaricare, in consultazione per uso privato, tutti i documenti ad alta risoluzione e la facoltà di ricercare liberamente oppure seguire i percorsi storici e tematici tracciati dalla Cineteca. L’obiettivo sensibile è, appunto, quello di restituire insieme l’artista e l’uomo, i rovelli espressivi e il tempo libero, le trovate ardite e il tran tran quotidiano, facendo dell’archivio un’inesauribile fonte interna e interiore: Charlot, chi era costui? Per Federico Fellini, che ne piange la morte avvenuta nella notte di Natale del 1977, “era come Adamo, il primogenitore di tutti quelli che sarebbero venuti dopo di lui. L’ho considerato – confessò al Daily News – alla stregua di un evento naturale, come la neve in inverno e il mare in estate, come il bambino Gesù”.

Più prosaicamente era anche un uomo che staccava assegni, soprattutto quando, dopo 65 film girati in nove anni trascorsi Oltreoceano, nel 1921 torna in patria: a Londra alloggia al Ritz, spende e spande. Il 14 settembre da Turnbull & Asser’s in Jermyn Street fa incetta di lussuosi pigiami di seta, e chissà se l’immigrato negli States di qualche lustro prima l’avrebbe anche solo potuto immaginare.

Il successo è conclamato, la disponibilità acquisita, gli assegni non mentono, le matrici conservano nomi, luoghi e importi: 325 sterline per trascorrere due settimane al Palace Hotel di St. Moritz; 208 pagate a “Collins il sarto”; 200 inviate a Winston Churchill il 24 gennaio del 1932; 400 dollari, nel giorno del suo quarantatreesimo compleanno trascorso a Bali, per assicurarsi due quadri dell’artista Walter Spies. È un ritorno al futuro, il Progetto Chaplin, e la Cineteca non intende fermarsi: alla 33esima edizione del festival Il Cinema Ritrovato, dal 22 al 30 giugno, Piazza Maggiore accoglierà il restauro di The Circus (1928), accompagnato dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta da Timothy Brock.

Buenos Aires 1912: quando la “merce” eravamo noi

Gli emigranti accettano ciò che sembra inaccettabile e sono le donne a pagare il prezzo più alto. Oggi come ieri. Nel suo ultimo romanzo, da pochi giorni in libreria, Luca Di Fulvio narra la storia di tre giovanissimi di inizio 900, costretti a fuggire a Buenos Aires in cerca di un futuro che costerà loro pericoli e inganni. Così come le ragazzine che oggi vediamo ai margini delle strade, quelle che lo scrittore ci racconta qui.

 

Io le chiamo Rosetta e Raquel, come le protagoniste del mio romanzo. Ma dubito che siano i loro nomi. Però quella che chiamo Rosetta viene dal sud, come la mia, che arriva dalla Sicilia. E quella che chiamo Raquel viene dall’Est, come la mia che arriva dall’Impero Russo.

Quella che chiamo Rosetta la vedo verso le dieci del mattino, in inverno, quando vado a Fregene con i cani per goderci la spiaggia deserta. Indossa pantaloncini corti che strizzano un sedere abbondante. Ha sempre le cuffie nelle orecchie e balla da sola, senza mai perdere di vista le auto che passano. Quando torno indietro lei è ancora lì a ballare e a guardare le macchine.

L’altra, quella che chiamo Raquel, la vedo sull’Aurelia, in una piazzola di sosta. È magra, con delle lunghe gambe fasciate da calze rosse, a volte smagliate, e una scollatura che lascia poco all’immaginazione. Ha occhi taglienti come due bisturi e anche lei guarda le auto.

Rosetta e Raquel – lasciate che le chiami così –, una con la pelle nera come il carbone e l’altra bianca come il latte, aspettano. Scosciate, quasi nude, anche in pieno inverno, aspettano, apparentemente insensibili al gelo. Hanno di peggio da pensare.

Perché Rosetta e Raquel battono. Su due strade di merda. Aspettando clienti di merda. Sapendo che l’uomo che sporcherà il loro giovane corpo per pochi euro non si domanderà da dove vengono, se sono state rapite, che ne è delle loro famiglie, che tipo di ricatti e violenze hanno dovuto soffrire per arrivare fin lì.

Nel mio romanzo, che si svolge a Buenos Aires nel 1913, cito un tango che descrive quelle due ragazze alla perfezione: “Il mio dolore si confonde con le mie risate. Sono un fiore di fango. Vendo tristezza e vendo amori”.

Io sono un maschio. E mi vergogno. Mi arrabbio. E mi si riempiono gli occhi di lacrime. Perché quello che racconto nel romanzo e che vedo su quelle strade di oggi non è “il mestiere più vecchio del mondo” (e se anche fosse, sarebbe un mestiere schifoso inventato dai maschi). No, quello che vedo, la ragazzina nigeriana e quella dell’Est, è un merdoso mercato della carne.

Esattamente come succede nel mio romanzo (fatti storici, non fiction), dove una falsa società filantropica rapisce o inganna ragazzine tra i tredici e i diciassette anni per caricarle su una nave che è un lager.

“La prima classe costa mille lire, la seconda cento / la terza dolore e spavento / e puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto” cantava De Gregori. E queste ragazzine finiranno a Buenos Aires dove ci sono due milioni di clienti, e un mondo nuovo che sta prendendo forma, e un popolo – quello argentino – che sta nascendo incrociandosi con un milione di emigranti italiani. E le ragazzine vengono date in pasto a questa bocca feroce, sempre affamata.

Io credo che uno scrittore non possa narrare storie ambientate nel passato se non hanno un forte riferimento con la contemporaneità. È per questo che vedo le mie Rosetta e Raquel battere ancora oggi sulla strada per Fregene e sull’Aurelia.

Perché non è cambiato niente. Perché continuiamo a voltare la testa dall’altra parte. Perché non urliamo: “Non è giusto!”.

Non sto facendo il moralista, non ho ricette, io sono un semplice cantastorie e ho un solo compito: essere gli occhi di chi non guarda.

Alcuni lettori, in Germania, dove il mio libro è già uscito, mi hanno detto che è un romanzo duro. Ma la maggior parte degli altri si è commossa perché ogni libro ha una straordinaria possibilità: cambiare il destino che la società ha scritto per certe vittime. Perché io do a Rosetta e Raquel la possibilità di sottrarsi all’orrore. Perché la speranza diventa solidarietà, unione. Forza, ribellione. Perché Rosetta e Raquel ce la fanno.

È facile in un libro. È solo inchiostro su un pezzo di carta, non sangue su una strada. Io scrivo storie vere, che esistono ancora, ma provo a dar loro un finale da fiaba. Perché ne ho bisogno dentro di me. Ma non posso voltarmi dall’altra parte, anche quando fa male o paura.

Un pappone, nel mio romanzo, dice a Rosetta: “A Buenos Aires se sei un uomo e hai fame, fai lo scaricatore al porto. Se sei una donna, finisci per battere il marciapiede”. E lei gli risponde: “Allora farò lo scaricatore”.

Noi parliamo in continuazione della miserabile condizione degli emigranti ma ci dimentichiamo di distinguerli in maschi e femmine. È vero, allora come oggi i maschi raccolgono pomodori per una miseria. Ma che fine fanno le donne che arrivano qui, come le nostre “madri” quando arrivavano altrove? Davvero possiamo far finta di non sapere che prima è toccato anche a noi?

120 tifosi bianconeri fermati a Amsterdam prima di Ajax-Juve

Tensione tra tifosi e polizia ad Amsterdam prima di Ajax-Juventus, con scontri, lacrimogeni, cariche anche a cavallo degli agenti, con diversi fermi. Alla fine decine di tifosi bianconeri, giunti in Olanda per assistere alla sfida valida per i quarti di finale di Champions League, sono stati arrestati dalla polizia olandese. I supporter fermati sono stati trovati in possesso di un coltello, manganelli, un martello, materiale pirotecnico e spray al peperoncino, nelle vicinanze della Johann Cruijff Arena. Le operazioni, si legge, sono state condotte in collaborazione con membri delle forze dell’ordine italiane. Anche il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha confermato la notizia, invitando i tifosi in trasferta a evitare ulteriori problemi: “Ragazzi, se ci state seguendo da Amsterdam, testa sulle spalle, perché mi dicono che sono stati fermati 120 tifosi juventini che avevano oggetti non esattamente appropriati per andare a uno stadio”, ha detto nel corso di una diretta Facebook: “Il calcio è bello, però a mani pulite, a volto pulito, senza fare casino, mi raccomando.”

La Figc si prende il circolo della Cricca

Via Salaria, all’altezza del quartiere Settebagni sorge il Salaria Sport Village, 17 ettari nel verde di Roma. Nella Capitale se lo ricordano tutti: è stato il circolo della “cricca” di Diego Anemone, l’imprenditore dei grandi eventi condannato a 6 anni per corruzione per gli appalti del G8. Qui i suoi ospiti venivano accolti e coccolati. E avvenivano i famosi massaggi di Guido Bertolaso, l’ex capo della protezione civile, assolto nello stesso processo. Ora quella splendida struttura sul Tevere, attualmente sotto confisca, potrebbe vivere una seconda vita: la FederCalcio ci vuole fare il suo nuovo centro romano, dedicato alle giovanili e alla formazione. Una sorta di Coverciano dell’Under 21.

Dai massaggi alla Nazionale, il passo non è proprio breve. “Un po’ di frutta prima… champagne… colori fuori…”: così l’allora gestore preparava le “situazioni” per i suoi ospiti illustri. “Ho fatto un massaggio meraviglioso, lui ha visto le stelle”, raccontava Monica, frase che per i pm alludeva a un rapporto sessuale consumato, ma sempre negato da Bertolaso. Altri tempi. Altre storie: non è per quello che il complesso è stato confiscato a inizio 2018, ma perché secondo i giudici fu acquistato e costruito con fondi provenienti da reati. Da allora le fortune del “circolo della cricca” sono decisamente calate, già dal primo sequestro nel 2014: dopo la confisca, è stato affidato a due amministratori giudiziari, che mandano avanti la baracca evitando l’abbandono, in attesa di un nuovo padrone.

Già, perché il Village fa gola a molti: enorme, difficile da gestire, anche un po’ malmesso, è comunque un gioiello dal valore di circa 70 milioni di euro. Ci aveva già messo gli occhi addosso la FederTennis, che ha fatto un passo di lato per alcune difficoltà burocratiche. Il problema, infatti, è che la confisca non è ancora definitiva. Lo diventerà eventualmente dopo il terzo grado, siamo ancora al primo, per tutto l’inter dovrebbe volerci circa un anno.

La FederCalcio, però, non è intenzionata ad aspettare tanto: l’idea del presidente Gabriele Gravina è entrarci subito, per cominciare a fare i lavori di cui c’è bisogno e mettere un piede dentro. Certo, con la confisca definitiva tutti i contratti o le assegnazioni provvisorie decadranno. È l’elemento di rischio dell’operazione, che ha spaventato il tennis e incontra resistenze anche in Figc: spendere soldi e poi ritrovarsi senza niente in mano è un pericolo (e una responsabilità). Ma essere già dentro quando la struttura passerà all’Agenzia dei beni confiscati (dopo l’appello) e quindi a un ente locale (il Comune di Roma è già al corrente), potrebbe rappresentare un vantaggio per discutere la gestione futura. Magari senza nemmeno ricorrere a un bando pubblico: c’è il precedente della Casa dell’atletica allo stadio Paolo Rosi. E Gravina non è solo, coinvolgerebbe anche la FederTennis di Angelo Binaghi (da cui parte il piano) e la FederNuoto di Paolo Barelli; sono anche i tre presidenti più lontani dal Coni di Malagò.

Uniti in politica, e pure in questo ambizioso progetto. Oggi, in stato di confisca, il circolo vanta comunque un fatturato superiore al milione; a regime il giro d’affari potrebbe triplicare. Con 17 ettari di spazi verdi, il centro Figc, le scuole, gli uffici, le acque del Tevere, i campi da tennis gestiti dalla Fit e le piscine dalla Fin, bar, ristorante, club. Che meraviglia. Ma stavolta niente massaggi, meglio evitare.

Il “mondo dei vinti” che rinnega Nuto Revelli

Si chiama Fabrizio Nugnes . È il sindaco dimissionario di Roburent, Comune delle valli monregalesi in provincia di Cuneo. Prima di lasciare la carica per motivi di salute, Nugnes, come ultimo memorabile atto, ha voluto bloccare la delibera di intitolazione di una strada del paese a Nuto Revelli. Era il cantore delle vallate misere del Cuneese; il partigiano, lo scrittore che diede voce nei suoi libri, ormai dei classici, al “mondo dei vinti”, dai montanari alle donne, agli alpini della guerra di Russia. Di Nuto, morto nel 2004, ricorre quest’anno il centenario della nascita.

Il fatto singolare è che Nugnes era stato eletto in una lista denominata “Amici della Montagna””. E proprio a Revelli, che la montagna abbandonata da Dio e dagli uomini seppe riscattare nei suoi libri, l’ex sindaco di Roburent ha negato la memoria. Un ricordo di marmo, peraltro, deliberato da ben 15 anni. La ragione della cancellazione della delibera è che “alcuni residenti sono contrari”. Un atto dettato dall’ignoranza e dalla non conoscenza delle opere di Revelli? O un atto contro il Nuto partigiano, e contro lo stesso comune, Roburent, teatro di una strage nazifascista nel 1944? Oppure è solo una bega di paese? Le proteste di una parte del consiglio comunale, dell’Anpi, dell’Istituto storico della Resistenza di Cuneo, finora non hanno potuto sanare la ferita. Per lo studioso della politica Marco Revelli, figlio di Nuto, è un triste segno dei tempi: “Non so se la mancata intitolazione della via a mio padre sia da ascriversi a esponenti fascisti o leghisti, anche se probabilmente di questo si tratta. Di certo rientra nell’aria che si respira in Italia”. Una ferita anche per la montagna, per i suoi abitanti, per il passato di fame e di abbandono, ai quali Nuto dedicò la sua vita. Testimonia poi, nel già copioso degrado morale e civile del Paese, che pure la cultura, la storia, la memoria e il rispetto delle umane sofferenze e dell’umano riscatto, appartengono al “mondo dei vinti”.

Caso Orlandi, Bertone “disponibile” a parlare

Il Vaticano ha aperto un’inchiesta interna su Emanuela Orlandi, cittadina vaticana, scomparsa il 22 giugno del 1983. All’epoca era una adolescente, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia. Questa è una notizia fragorosa, accolta con gratitudine e quasi stupore dalla famiglia che non ha smesso mai di cercare Emanuela e la verità di quel giorno, ma arriva con troppi anni di ritardo. Anni bruciati da depistaggi, illusioni, personaggi ambigui, speranze vane. Adesso in Vaticano c’è un fascicolo su Emanuela e l’ha deciso, e perciò autorizzato, il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, tra i collaboratori più fidati di papa Francesco, non soltanto per l’incarico di prestigio e di potere che ricopre.

Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, assistito dall’avvocato Laura Sgrò, ha incontrato più volte Parolin, soprattutto dopo un’inquietante e insistente segnalazione: i resti della ragazza potrebbero trovarsi in una tomba, sovrastata da un angelo, nel cimitero teutonico dentro le mura leonine. Il Vaticano, però, indaga su più ipotesi e, confida Pietro Orlandi, gli auspici vanno oltre i sospetti sulla tomba: “Noi abbiamo presentato una serie di istanze, compresa quella relativa al cimitero teutonico in Vaticano, ma non solo quella. Tra le istanze – spiega – ci sono quelle legate alle incongruenze sulla vicenda, alle rogatorie non andate a buon fine, e poi la possibilità di sentire alcuni cardinali, la richiesta di sentire Giancarlo Capaldo, il magistrato che ha indagato sulla scomparsa di Emanuela, che nel 2012, dopo essere stato contattato dal Vaticano, si recò a incontrare un autorevole prelato per una sorta di ‘trattativa’ sul caso. Io non voglio che aprano quella tomba per farmi un favore, voglio che emerga la verità”.

La famiglia Orlandi ha un lungo elenco di prelati che vorrebbe ascoltare e sottoporre all’attenzione dei magistrati vaticani.

Ai primi posti, senz’altro, ci sono i segretari di Stato che hanno servito i pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i cardinali Angelo Sodano, in carica fino al 2006 e Tarcisio Bertone, sostituito nel 2013 da Parolin.

Qualche mese fa, il Fatto ha tentato di intervistare Bertone che, dopo una visione delle possibili domande su Emanuela e Mirella Gregori (svanita nel nulla il 7 maggio 1983), ha rifiutato con il desiderio di specificare due cose: “Non ho contezza di dossier vaticani sulle due sparizioni né di trattative sul punto con la magistratura italiana”. E l’ultimo passaggio è una involontaria risposta al riferimento al succitato magistrato Capaldo di Pietro Orlandi. Oggi l’avvocato Michele Gentiloni Silveri, il legale del segretario di Stato emerito, fa sapere che Bertone è sempre a disposizione dei magistrati vaticani. E poi, assieme ai cardinali Eduardo Martinez Somalo e Giovanni Battista Re, c’è pure don Pietro Vergari nella lista della famiglia Orlandi. Su ordine della giustizia italiana, sette anni fa, fu scoperto il sarcofago di marmo nella basilica di Sant’Apollinare in cui era sepolto Enrico detto Renatino De Pedis, il boss della banda della Magliana, ucciso a Roma in un agguato in via del Pellegrino il 2 febbraio del ’90. De Pedis fu tumulato al cimitero del Verano. Su indicazione del rettore don Vergari, dopo un paio di mesi, fu traslato dal Verano alla cripta di Sant’Apollinare.

Più volte s’è parlato di un coinvolgimento della banda della Magliana nel caso Orlandi, si sono battute piste nazionali, internazionali, la pedofilia, il ricatto, il denaro. Tutto s’è compiuto. Tranne la verità.