Veneto Banca, 4 verso il processo. Incombe però la prescrizione

Richiesta di processo solo per quattro manager di Veneto Banca, l’istituto di credito trevigiano finito in dissesto quattro anni fa. Per sette degli indagati, invece, richiesta di archiviazione. È questa la conclusione a cui è giunta l’inchiesta condotta in poco più di un anno dal pubblico ministero di Treviso Massimo De Bortoli, dopo aver ricevuto i fascicoli dalla Procura d Roma. Oltre all’aggiotaggio e all’ostacolo alla vigilanza all’ex ad Vincenzo Consoli (che sarà indagato anche per falso in prospetto), l’ex vicepresidente del cda Flavio Trinca, il condirettore generale Mosè Faggiani e il responsabile dell’amministrazione centrale, Stefano Bertolo viene contestato anche il reato di falso in prospetto (in relazione all’aumento di capitale dell’estate 2014, quando i sottoscrittori di azioni sarebbero stati ingannati e indotti all’acquisto, per cercare di salvare una barca che stava già affondando) con il rischio però che l’intera vicenda finisca in prescrizione. Tale epilogo si profila se non vi sarà una sentenza definitiva entro il giugno 2020 per il falso in prospetto, entro l’ottobre 2021 per l’aggiotaggio, il dicembre 2023 o l’agosto 2024 per l’ostacolo alla vigilanza.

IwBank, vigilanza non ostacolata: tutti assolti

Assolti, perché “il fatto non sussiste”. Così ha deciso il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Milano Cristina Mannocci, che ha prosciolto tutti i 14 imputati nel procedimento IwBank (gruppo Ubi Banca) e lo stesso istituto di credito, accusati di ostacolo all’autorità di vigilanza, la Banca d’Italia.

Il pm milanese Elio Ramondini aveva chiesto la condanna a 1 anno e 2 mesi per tutti gli imputati e una sanzione di 600 mila euro per l’istituto, in forza della legge sulla responsabilità amministrativa degli enti.

Invece tutti assolti: gli ex dirigenti, gli ex consiglieri, gli ex sindaci, compresi l’ex amministratore delegato Alessandro Prampolini e l’ex presidente Mario Cera, che è anche vicepresidente del consiglio di sorveglianza di Ubi. IwBank, la banca online del gruppo Ubi, secondo l’accusa era diventata una specie di banca offshore visto che, tra il 2008 e il 2014, ben 104 mila dei 140 mila conti online erano senza controllo. I correntisti non erano correttamente identificati. C’erano posizioni intestate a casalinghe novantenni, con figli che però facevano gli operatori finanziari. Un conto era intestato a una società estera, senza che fosse registrato il beneficiario in Italia. E quando la Guardia di finanza arrivò a chiedere conto di tanto “disordine” nell’Archivio unico informatico (Aui), l’istituto non trovò di meglio che presentare una denuncia ai carabinieri, sostenendo di aver smarrito la documentazione.

Si era così arrivati alla richiesta di rinvio a giudizio, presentata dalla Procura con l’accusa agli imputati di aver gestito IwBank senza le necessarie cautele antiriciclaggio e senza comunicare alla Banca d’Italia le irregolarità in materia di verifica e registrazione nell’Archivio unico informatico, nelle posizioni di migliaia di clienti dell’istituto.

All’apertura dell’udienza preliminare, gli imputati a sorpresa avevano chiesto il rito abbreviato, che si celebra a porte chiuse, sulla base delle prove già raccolte dal pm e con la possibilità di godere, in caso di condanna, dello sconto di un terzo sulle pene. Non ce n’è stato bisogno.

Questo è l’ennesimo processo per ostacolo alla vigilanza che si conclude con assoluzioni. È già successo a Giuseppe Mussari, ex presidente del Monte dei Paschi di Siena, assolto in appello a Firenze. È successo a Giuseppe Fornasari, ex presidente di Banca Etruria, assolto in primo grado e ora sotto processo in appello.

Banca d’Italia, l’autorità di vigilanza che secondo l’accusa è stata ostacolata, non si era costituita parte civile nel processo. Per ragioni tecniche: non era stata avvisata dalla Procura al termine delle indagini come parte lesa. Gli imputati di IwBank hanno sostenuto di non aver potuto ostacolare nessuno, visto che Bankitalia era venuta a fare ispezioni nel 2011 e poi nel 2013 e dunque era a conoscenza della situazione. Il capo della prima ispezione, Carmelo Lattuca, ha invece dichiarato al pm di aver segnalato alla banca, ma invano, una valutazione “di grado 4 – parzialmente sfavorevole”.

La giudice ha deciso ora che “il fatto non sussiste”. Bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza per capire se ha ritenuto che non ci sia stato ostacolo perché i vertici della banca si sono comportati correttamente, oppure perché Bankitalia era a conoscenza delle scorrettezze commesse.

Soddisfatte le difese: “Abbiamo sempre fornito agli inquirenti la più ampia collaborazione”, ha dichiarato l’avvocato Francesco Centonze, difensore di IwBank, “e la decisione conferma quanto sostenuto dalla banca fin dalle primissime fasi del procedimento: la piena trasparenza informativa nei confronti delle autorità di vigilanza”.

Consip, al via il processo sul mega appalto truccato

Il “più grande appalto d’Europa” è arrivato davanti a un giudice. È in corso a Roma l’udienza preliminare per la gara Consip da 2,7 miliardi di euro. La centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana, controllata dal ministero dell’Economia, nel marzo 2014 aveva bandito una mega-gara per la gestione di servizi, pulizia e manutenzione degli uffici pubblici in tutta Italia. È la Fm4 (Facility management 4), che nel 2016 arriva all’apertura delle buste, con una classifica provvisoria che premia la Romeo Gestioni (tre lotti per 609 milioni), Manutencoop (quattro lotti per 532 milioni), Cofely (quattro lotti per 582 milioni). Escluse Dussman e Siram, che alla fine conquistano quattro lotti, ma soltanto per l’esclusione dalla gara dell’azienda Manital.

A fine 2016 parte l’inchiesta del pm di Napoli Henry Woodcock che porta all’arresto dell’imprenditore Alfredo Romeo, coinvolge il padre dell’allora presidente del Consiglio, Tiziano Renzi (per il quale i pm hanno poi chiesto l’archiviazione) e svela le fughe di notizie attribuite all’allora ministro Luca Lotti e al comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette. Poi l’indagine passa per competenza a Roma e ora il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi chiedono al giudice dell’udienza preliminare di rinviare a giudizio per turbativa d’asta tredici imprenditori e manager delle aziende coinvolte. Tra questi Alfredo Romeo, amministratore della Romeo Gestioni, e i manager di Manutencoop, Cns, Cofely, Manital, Gestione Integrata, Siram e Sti. L’accusa è di avere stretto accordi sotterranei per vincere le gare, in spregio alla libera concorrenza. Gli imputati sono accusati di “collusioni consistite in accordi preordinati alla ripartizione” degli appalti. “Nel quadro di accordi complessivi intesi alla ripartizione di lavori di stazioni appaltanti pubbliche in generale e di Consip spa in particolare”. Obiettivo: mantenere le “quote di mercato preesistenti” e “impedire l’ingresso di altri competitors nel settore”. Per raggiungerlo, i vertici delle cooperative e delle aziende coinvolte, secondo l’accusa, presentavano “offerte concordate in maniera tale da non realizzare sovrapposizioni competitive sui singoli lotti di gara” (le cosiddette “offerte a scacchiera”); presentavano “offerte finalizzate per ciascun lotto ad alterare le medie dei punteggi di gara” (le cosiddette “offerte d’appoggio”); occultavano i “centri co-decisionali unici in relazione a diversi offerenti”, cioè la regia unica tra aziende in teoria concorrenti; condividevano in maniera sotterranea “informazioni e dati sensibili tra diversi offerenti” che in pubblico erano in competizione tra loro. E promettevano subappalti ad aziende concorrenti (con “accordi compensativi”) per accontentare tutti.

La vicenda è stata sviluppata, per gli aspetti penali, dalla Procura di Roma, parallelamente all’indagine dell’Autorità antitrust che il 20 aprile dovrà decidere le eventuali sanzioni amministrative. L’ipotesi d’accusa è che Romeo abbia stretto accordi sotterranei con altre aziende (Manutencoop, Cns, Manital…) per spartirsi il mercato del “più grande appalto d’Europa” e tenere fuori aziende come Dussman, ma abbia anche subìto il “tradimento” degli “amici”, che su un lotto hanno stretto un accordo anche con Cofital. Tra le prove raccolte, intercettazioni, email e documenti. Molti raccolti dai pm e dalla Guardia di finanza, alcuni offerti volontariamente agli investigatori dai nuovi vertici di Cns, che non volevano essere coinvolti nelle manovre dei loro predecessori. Tra questi, il “bigliettino rosa” che riporta su un lato i nomi di tre manager (di Manutencoop, Cofely e Manital) che il 12 giugno 2017 hanno partecipato a un incontro riservato con Cns sulla gara Fm4. Agli atti c’è anche una lettera anonima arrivata alla Cns che ha per titolo: “Terzo messaggio al Cns del Gruppo di Amici che non vi lascerà soli”: spiattella i nomi di chi “organizzava quel gran popò di cartelli” (così è scritto), cioè chi preparava i giochetti per spartirsi gli appalti.

Accordo fatto tra Siae e Soundreef: chiuse tutte le cause in corso

Pace fatta fra Siae e Soundreef. Dopo anni di polemiche, preso atto della liberalizzazione del mercato dell’intermediazione dei diritti d’autore, le due parti, insieme a Lea, annunciano di aver raggiunto un accordo che “mira, fermo restando il rapporto di concorrenza tra le parti, a garantire il buon funzionamento del mercato nell’interesse innanzitutto dei titolari dei diritti d’autore nonché degli utilizzatori”. Per questo motivo, le tre associazioni “rinunceranno a tutte le cause pendenti”. Per raggiungere l’accordo, sono stati messi nero su bianco una serie di principi. Fra questi, oltre la liberalizzazione del mercato, il riconoscimento da parte della Siae della “legittimità di Lea a raccogliere diritti d’autore per conto di Soundreef e i suoi iscritti diretti” e “che gli utilizzatori di musica italiani dovranno perfezionare una licenza integrativa a quella di Siae anche con Lea (anche per conto di Soundreef) ove l’utilizzatore suonasse repertorio di quest’ultima e che quindi il pagamento della licenza Siae non è più esaustivo rispetto all’utilizzo di musica”. Inoltre, “ciascun ente di intermediazione dei diritti d’autore amministrerà esclusivamente la quota parte dei diritti a esso affidato in gestione dal titolare dei diritti”.

I due ragazzini e quei messaggi nella bottiglia

La bottiglia di vetro con un tappo di alluminio rosso, quattro biglietti adagiati al fondo, una firma, Emma, e un luogo di partenza: Sainte Maxime, Costa Azzurra. Il mare l’ha condotta sulla spiaggia che unisce Petrosino a Marsala, appena sotto Trapani, intercettando i piedi di Mario, dodici anni, che quella spiaggia frequenta ogni giorno e di quel mare conosce ogni increspatura.

Navigare è impegnativo e per una bottiglia ancora di più. Figurarsi poi al tempo di Internet, nella modernità che connette all’istante, riduce ogni spazio, risolve ogni distanza. Perciò Mario ha capito subito, appena ha disteso i piccoli rotoli di carta ancora perfettamente integri, che la faccenda si faceva parecchio curiosa, anzi straordinaria. Lingua francese, grafia adolescenziale, uso del pennarello. Ogni foglietto un colore, ogni riga un pensiero sui destini del mondo, la felicità, la vita. È corso a casa, e poi con tutta la famiglia dal sindaco del paese: “Mario è un ragazzino speciale. La prima cosa che mi ha detto: non ho il telefonino e non uso facebook”, riferisce Gaspare Giacalone, il primo cittadino di Petrosino. È come se il destino l’avesse voluto ripagare da questa sua scelta di vita così lontana da apparire eccentrica, consegnandogli il messaggio in bottiglia, in quello che appare un cammino a ritroso di quasi due secoli, nella forma di comunicazione più poetica e più improbabile, più disperata, ultima eppure più coinvolgente. “Scriverò al mio collega sindaco di Saint Maxime spiegandogli l’accaduto nella speranza di rintracciare Emma, ragazza o adulta che sia”.

È un piacere particolare trovarsi a fare i conti con questa bottiglia di vetro trasparente, e oggi, quando Internet fa sbucare i volti dalle tasche dei pantaloni, e la domotica a friggerci l’uovo nel tegame (basta un cenno, vero?), fare tre passi indietro, riscoprire lacrime e gioie, dolori e canzoni che con la bottiglia hanno navigato e infine sono approdate in una destinazione ignota, tra il cielo e la terra, in un punto qualunque.

Certamente il soldato Thomas Hughes nel 1914 non pensava che il suo addio alla vita, l’ultimo lascito alla sua adorata, sarebbe stato rinvenuto solo 85 anni dopo la sua morte sulle rive del Tamigi. Né Cristoforo Colombo fu più fortunato quando, vittima di una tempesta, mandò in bottiglia un messaggio urgente alla Regina di Spagna.

È questo a suo modo un elogio della lentezza? Di certo c’è la disperata fiducia nella natura, e anche nel sistema perfetto delle correnti, nell’avanzamento del moto ondoso, nella cieca forza del destino. Mia Levivelt, olandese, affidò al mare del Brasile i suoi pensieri. Due anni dopo ricevette una cartolina da Luisa Casalla, spagnola di Barbate. Le due divennero amiche, e pare che un marinaio svedese, nel 1955, abbia avanzato in bottiglia la sua speciale proposta di matrimonio. Che giunse anche quella volta in Sicilia. La raccolse infatti una ragazza che curò di trascrivere l’indirizzo e poi, una cartolina dopo l’altra, e l’altra ancora, accorciarono le distanze. Alla fine i due si innamorarono.

Message in a bottle, canta Sting. E della forza della bottiglia in mare Edgar Allan Poe e Giulio Verme hanno scritto pagine indimenticate. La bottiglia, la battigia, la carta e la penna. Il piccolo e grandissimo mondo antico.

“Vi spiego cosa sono i buchi neri (ce n’è uno nella nostra galassia)”

La foto era attesa. Ieri è arrivata: l’immagine di un buco nero, risultato del progetto internazionale Event Horizon Telescope, al quale l’Italia partecipa con Istituto Nazionale di Astrofisica e Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. La materia è difficile, ma talmente interessante che non possiamo ignorarla. A spiegarcela è Amedeo Balbi, astrofisico dell’Università di Tor Vergata a Roma.

Balbi, insomma: cosa stiamo vedendo?

C’è una parte che brilla: quella è luce. Viene dalla materia che precipita nel buco nero e che emette energia perché è accelerata ad una velocità prossima a quella della luce e quindi si riscalda. Poi c’è la parte nera, il buco nero, regione di spazio da cui non può sfuggire nulla, neanche la luce.

Dove si trova?

Dentro una galassia che si chiama M87 e che è a 55 milioni di anni luce. Questo significa che la luce impiega tutto questo tempo per arrivare fino a noi.

E che guardiamo un evento di 55 milioni di anni fa.

Praticamente sì.

Quali sono le caratteristiche della galassia?

È una regione abbastanza piccola sulla scala dell’universo, più piccola del nostro sistema solare. Ma è come se al suo interno ci fossero sei miliardi e mezzo di stelle pari al Sole: una massa pazzesca, compressa in un volume piccolo. È questo che provoca il buco nero. Si crea una gravità così forte che nulla può più uscire.

Perché è stata scelta questa galassia?

È tra quelle più vicine a noi, che sappiamo poteva avere un buco nero al suo interno. Dalle osservazioni si era capito che poteva essercene uno molto grande e che avrebbe potuto avere un profilo luminoso. Ce n’è comunque un altro di cui sentiremo parlare…

Quale?

È al centro della nostra galassia, più piccolo ma anche più vicino. È l’altro obiettivo che avevano in progetto di analizzare.

Come l’hanno fotografato?

Questa osservazione non si fa con i telescopi normali ma con quelli radio, che sono come grosse parabole che non captano luce ma onde radio. I buchi neri, nelle galassie, sono coperti dal materiale che c’è intorno – altre stelle, polveri – e quindi la luce normale viene assorbita. Le onde radio riescono invece a penetrare questa materia. Per vedere questo buco sarebbe però servita una antenna grande come la Terra. Si è pensato allora di mettere in collegamento tra loro tutti i radiotelescopi esistenti generando così un radiotelescopio virtualmente grande quanto la Terra.

Usa il termine “vedere”…

Ovviamente non è stata scattata una foto, ma sono state tradotte in immagini le radiazioni elettromagnetiche. È lo stesso procedimento della macchina fotografica: cattura una radiazione e i sensori la trasformano in immagine.

Cosa conferma questa immagine?

I buchi neri come li avevamo immaginati sulla base di equazioni e modelli di calcolo. Insomma, la Teoria della Relatività generale di Einstein è corretta. L’occhio attento riesce a vedere che i raggi luminosi attorno al buco nero hanno una curvatura. La massa ‘piega’ lo spazio. Lo sapevamo già, ma questa è l’ennesima conferma.

Astensione araba, boomerang per Gantz

Durante l’ultima fase della campagna elettorale, il premier uscente Benjamin Netanyahu chiudeva i suoi comizi con lo slogan: “Bibi o Tibi”? Con questa domanda retorica, Bibi Netanyahu intendeva incitare a favore di telecamere gli ebrei israeliani a votarlo, altrimenti avrebbe vinto Tibi, ovvero uno dei più noti deputati arabo israeliani, leader del partito Ta’al, Movimento per il cambiamento. Si trattava di una provocazione, oltre che di una menzogna dato che Tibi non correva come Bibi per diventare presidente del Consiglio. Ma, come nelle precedenti elezioni (2015), vinte da Netanyahu, il voto arabo avrebbe potuto cambiare gli equilibri, anche se storicamente gli arabi, anzi i palestinesi, di nazionalità israeliana non hanno mai frequentato in massa le urne. Anche nella precedente campagna, quando i sondaggi davano il Labour party testa a testa con il Likud, Bibi aveva invitato gli ebrei ad andare a votare “perché gli arabi voteranno in massa”. E, in effetti, 4 anni fa l’affluenza degli arabi di nazionalità israeliana andò oltre il 60 per cento. Una novità che però non bastò a spostare il baricentro della Knesset. “Questa volta invece l’alta affluenza di allora avrebbe dato la vittoria a Benny Ganz.

“Siamo andati a votare solo poco più del 40 per cento degli aventi diritto. Bibi dovrebbe mandare dei fiori alla comunità araba per questo regalo”, dice Ibrahim abu Shindi direttore del centro di educazione e dialogo di Jaffa, municipio arabo di Tel Aviv. “I motivi per cui i miei connazionali (arabo israeliani) non si sono presentati alle urne sono numerosi. Innanzitutto la disillusione. Dopo l’approvazione lo scorso anno della legge dello stato Nazione, che marginalizza ulteriormente gli arabi israeliani dato che definisce Israele come patria del popolo ebraico, la maggior parte di noi ritiene che nulla possa più cambiare. E lo ha dimostrato il fatto che non ci siamo mobilitati per il voto pur avendo Bibi promesso agli elettori ebrei di voler annettere gli insediamenti in Cisgiordania.

Un fatto che avrebbe dovuto indignare gli arabi israeliani e spingerli verso le urne. Un altro motivo è che la lista unica araba che corse nel 2015 si è spaccata. La gente ha giudicato questa frattura stupida e motivata solo dall’ ego dei leader e quindi non crede più nemmeno a loro”.

Jamal Atamneh consulente dell’associazione per la Politica dei conflitti e lo sviluppo del Medio Oriente, aggiunge che la comunità araba non è andata al voto anche perché non percepisce più la differenza tra destra e sinistra israeliana e pertanto “non ha fiducia sulla possibilità che una coalizione di sinistra possa incidere sulla propria condizione”.

In un sondaggio condotto dall’università di Tel Aviv poco prima delle elezioni, il 20% degli intervistati ha dichiarato che la questione più importante per i membri arabi della prossima Knesset dovrebbe essere la battaglia per abrogare o modificare la legge dello stato nazionale (il 27% ha scelto di ridurre la violenza e la criminalità nella società araba, mentre il 22 per cento ha scelto di legalizzare la costruzione illegale).

Re Bibi, quinto mandato: l’alleanza di destra lo salva

I suoi sostenitori lo chiamano “Il Mago” e anche stavolta Benjamin Netanyahu non li ha delusi. La magia è riuscita. Con un vantaggio di 10 seggi la sua “alleanza” ha sbaragliato il più credibile schieramento che lo ha sfidato negli ultimi dieci anni. Il partito dei generali – Benny Gantz leader, con Gabi Askenazi e Moshe Yaalon – è solo andato vicino a una vittoria di misura ma il crollo dei possibili alleati laburisti e lo sgretolamento del voto arabo hanno cancellato ogni possibilità di raggiungere la maggioranza alla Knesset. Il Likud e Kahol Lavan hanno gli stessi seggi (35) ma Netanyahu grazie ai suoi alleati dei partiti religiosi e dei centristi del partito Kulanu ha maggiori possibilità di formare un governo, come recita la formula costituzionale per ottenere l’incarico dal presidente. I suoi amici più fidati nel mondo – il presidente Donald Trump, il cancelliere austriaco Kurz, il premier indiano Modi – lo hanno già “incoronato”.

Per Bibi è una “grande vittoria” come ha annunciato nella notte, soprattutto personale. Ai suoi occhi e agli occhi dei suoi fan adoranti, ha sconfitto le forze oscure che hanno cospirato contro di lui. Ha trasformato le accuse – 3 processi per corruzione, frodi e fondi neri – in un grido di battaglia per la sua redenzione. Ha dimostrato ancora una volta di essere unico nel suo genere, un genio politico tra uomini modesti che si libera facilmente di coloro che cercano di fermarlo. “Siamo onesti”, commenta Michael B. Oren, ex ambasciatore israeliano a Washington. “La nostra economia è eccellente, le nostre relazioni estere non sono mai state migliori e siamo sicuri. Abbiamo un ragazzo in politica da 40 anni: lo conosciamo, il mondo lo conosce e anche i nostri nemici lo conoscono. Perché cambiare?”. Benny Gantz e i suoi colleghi di Kahol Lavan hanno conquistato 35 posti nella Knesset insieme al partito centrista Yesh Atid. Un’impresa straordinaria ma con la quale per il momento si possono solo dirigere verso i banchi dell’opposizione in attesa di giorni migliori.

Ci si aspetta che l’esito di questo voto rappresenti una sfida per il sistema democratico israeliano. Netanyahu tenterà di ottenere un accordo con i suoi partner della coalizione per far approvare retroattivamente “la legge francese”, una normativa che gli garantisce l’immunità dalle accuse del procuratore generale e per le quali dovrebbe affrontare il tribunale dopo l’estate. Non tutti i leader suoi alleati sono d’accordo su questa immunità. Il centrosinistra israeliano, per citare le parole immortali degli U2, è bloccato in un momento da cui non può uscire. Quel che è peggio è che il momento ricorre regolarmente, come se il giorno delle elezioni fosse sempre “il primo giorno”. La tortura inizia subito i primi generosi exit-poll che danno alla sinistra una possibilità di combattere. Le aspettative salgono alle stelle. Poi i sondaggi diventano mirati, la gioia inizia ad appassire e le speranze si perdono lentamente. Alla fine Netanyahu sale sul palco proclama la sua vittoria e bacia sua moglie Sara. Il centro-sinistra si risveglia sudato e freddo, all’alba di un giorno che appare ancora più scuro di prima. I voti che hanno regalato a Kahol Lavan la parità con il Likud sono arrivati a scapito del Partito laburista che dimezzando i suoi seggi (8) ha toccato il punto più basso dalla sua fondazione 71 anni fa. La particolarità è stato il voto di Gerusalemme e Tel Aviv: nella prima, residenza del generale, il Likud ha ottenuto quasi il 25 per cento e con gli alleati ha preso quasi l’80 per cento dei voti. A Tel Aviv, all’opposto, residenza del premier, Gantz ha raccolto quasi la metà dei voti e con le liste di sinistra ha raggiunto il 65 per cento.

Le conclusioni non tarderanno ad arrivare: il presidente Avi Gabbay sarà presto invitato a fare le valigie. La disfatta del voto arabo dovrebbe spingere i leader arabo-palestinesi a una profonda riflessione. Nel 2015 si erano presentati con una lista unitaria – diventando il terzo partito per numero alla Knesset con 20 seggi –, divisi ne hanno portati a casa la metà. Metà degli arabi aventi diritto non sono poi andati a votare, un numero in preoccupante crescita ogni elezione.

Kandaka, regina nubiana: sfida le armi con il canto

“I proiettili non uccidono, quello che uccide è il silenzio”. Inizia così la poesia che Alaa Salah, 22 anni, studentessa di architettura a Karthoum, ha recitato qualche giorno fa in piazza: l’hanno ripresa in tanti con i cellulari, uno di questi video è rimbalzato dentro la Rete tante volte che è diventato popolare. Così oggi Alaa non è solo conosciuta dai sudanesi, ma dal mondo che segue le proteste contro il padre-padrone del Sudan, Bashir. Chi ha visto la studentessa in azione, cantare o recitare poesie vestiva di bianco, l’ha soprannominata Kandaka, la “regina nubiana”, appellativo riservato alle donne più valorose nell’antico Regno di Kush come Candace, regina di Nubia al tempo delle conquiste di Alessandro il Grande, che divenne il simbolo della lotta delle donne nel paese per i loro diritti. Nel marasma dei cortei e delle manifestazioni anti Bashir, Alaa non si può ignorare: spesso sale sul tetto di un furgone in abito bianco: si chiama thobe, ed è un abito tradizionale sudanese.

“All’inizio – ha raccontato la studentessa ai giornali inglesi – ho trovato un gruppo di sei donne ed ho cominciato a cantare, loro mi hanno seguito, e la gente è arrivata sempre più numerosa”. Prosegue Alaa: “La religione dice che se gli uomini vedono che qualcosa va male, non possono restare in silenzio” ed è questo che ha cantato dinanzi alla gente che rispondeva gridando a intermittenza la parola “Rivoluzione!”.

A chi ha chiesto a Kandaka il perchè di questa sua partecipazione alle proteste, la giovane donna ha risposto in maniera semplice: “Perché i miei genitori mi hanno insegnato ad amare il mio paese”. Così una ragazza è diventata il simbolo della rivolta contro un potere trentennale: canzoni e poesie contro kashnikov. Non è difficile stabilire da che parte stare.

Sudan, 30 anni non bastano: mercenari a difesa di Bashir

Le proteste che stanno infiammando le piazze del Sudan, continuano interrotte da cinque giorni. I dimostranti chiedono le dimissioni del presidente/dittatore Omar al Bashir, salito al potere con un colpo di Stato militare il 30 giugno 1989, e sono ormai schierati a migliaia in un sit-in permanente davanti al quartier generale dell’esercito, che al suo interno ospita anche la residenza del leader. Secondo fonti dei dimostranti le forze di sicurezza in questi ultimi giorni di protesta hanno ucciso almeno 14 militanti (portando il numero di morti a 22 dall’inizio delle dimostrazioni). Ma a sparare sarebbe stato un gruppo di mercenari assoldati nella Repubblica Centrafricana, che sfuggono al controllo degli apparati militari sudanesi e prendono ordini direttamente dalla Presidenza della Repubblica. Alcuni di questi sono stati individuati dei dimostranti e, una volta disarmati, picchiati a sangue e salvati dai soldati.

Tra i 22 uccisi ci sono anche 5 militari che avevano tentato di difendere i manifestanti dagli attacchi degli agenti dei servizi segreti. Si sta verificando, infatti, una profonda spaccatura all’interno del governo. Da una parte i fedelissimi di Al Bashir, che hanno intessuto i loro traffici all’ombra della dittatura. Dall’altro l’esercito che in più occasioni è intervenuto a dar man forte ai dimostranti difendendoli dalla polizia. Un paio di giorni fa alcuni ufficiali sono scesi a parlare e trattare con gli agenti convincendoli a sgombrare la piazza e a non utilizzare idranti, gas lacrimogeni, proiettili di gomma. Insomma per evitare una prova di forza. La protesta è scoppiata il 18 dicembre scorso spontaneamente, quando è stato annunciato che il prezzo del pane sarebbe stato triplicato. Dapprima sono scese in piazza le classi più povere, ma quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, già colmo di indignazione e rabbia. Il malcontento ha preso forza e coraggiosamente è emerso in tutta la sua dimensione. A prendere le redini sono state poi le associazioni professionali, che finora erano state controllate sempre e in modo ferreo dal regime. Come un fiume in piena, le dimostrazioni, cominciate ad Atbara, snodo ferroviario del Sudan e roccaforte 50 anni fa dell’allora potente partito comunista sudanese, sono tracimate in tutto il Paese, El Gedaref, Kassala, Port Sudan, investendo anche la capitale Khartoum.

Solo negli ultimi giorni è apparso chiaro che anche l’esercito, dai cui ranghi proviene lo stesso Bashir, non ne può più di una dittatura che oltre a negare le libertà politiche e civili, si è legata mani e piedi ai cinesi che ora hanno invaso le strade e i palazzi più importati e lussuosi della Capitale. Basti pensare che in Sudan, pur essendo in vigore la sharia, la legge coranica, che tra le altre cose proibisce severamente l’uso di bevande alcoliche, nei ristoranti cinesi, sorti come funghi, tranquillamente si può chiedere di pasteggiare con birra.

I dimostranti in piazza chiedono ai militari di abbandonare il sostegno a Bashir, ma non vogliono un colpo di Stato, bensì la formazione di un governo di transizione e di riconciliazione nazionale. In Sudan oltre ai mercenari del Centrafrica, che hanno sparato sui dimostranti, ci sono altri soldati di ventura che potrebbero difendere Bashir. Primi tra tutti, i “gorilla” del gruppo Wagner, ex miliari dei Paesi dell’ex Unione Sovietica, dislocati un po’ dappertutto nel Paese. Ma quelli che se scendessero in campo potrebbero fare veramente paura e annientare in poche ore la pacifiche dimostrazioni di protesta sono i janjaweed, i feroci diavoli a cavallo utilizzati qualche anno fa nella guerra in Darfur. Milizie paramilitari che attaccavano i villaggi, ammazzavano senza pietà gli uomini, violentavano le donne e rapivano i bambini. Ora sono in sonno ma scalpitano per ricominciare i massacri.

Il loro impiego è costato a Bashir un mandato di cattura emesso nel marzo 2009 della Corte Penale Internazionale. L’allora procuratore Louis Moreno-Ocampo che lo incriminò per crimini contro l’umanità, stupro, genocidio, crimini di guerra era stato categorico, parlando di precise responsabilità nel deliberato sterminio dei civili. “Il suo alibi – aveva scritto Moreno-Ocampo nella richiesta di arresto – è combattere la ribellione, il suo intento è il genocidio. Non mi prendo il lusso di supporre: ho prove indiscutibili”.