Il caso Brizzi, la finta teste e le Iene che danno lezioni di giornalismo

È piuttosto curioso dover ricevere lezioni di giornalismo da chi è passato alla storia per aver sponsorizzato il metodo Stamina. Ma capita anche questo. E, visto che Le Iene hanno quasi due milioni di spettatori, a certe menzogne è bene replicare. Dopo l’archiviazione delle tre denunce a Fausto Brizzi da parte di ragazze ritenute scarsamente credibili dal giudice, il programma ha ripreso a occuparsi del caso spostando l’attenzione sulla testimonianza di tale Tania Sanchez. Questa ragazza aveva raccontato alla moglie e all’avvocato di Fausto Brizzi che era stata convinta a raccontare di essere stata molestata da Brizzi da una delle ragazze che lo avevano denunciato. Tale testimonianza finì in un verbale di sommarie informazioni destinato al Gip. In un lungo articolo sul Fatto raccontai la vicenda premettendo che non ritenevo l’inchiesta de Le Iene una farsa e neppure Brizzi un santo.

Allo stesso tempo raccontavo alcune debolezze dell’inchiesta (il fatto che Dino Giarrusso l’avesse mollata per la politica, la scarsa affidabilità di una delle tre denuncianti con una serie di precedenti allarmanti), per poi citare il verbale della spagnola. Che esisteva ed era stato depositato in Procura. La verità, insomma. Raccontavo, testualmente: “Esiste un verbale di sommarie informazioni con la testimonianza di una ragazza spagnola che ha riferito cose sconcertanti: una delle ragazze italiane che è andata a volto scoperto alle Iene per denunciare Brizzi, l’aveva contattata al telefono per dirle che se avesse voluto un po’ di fama in Italia, sarebbe stato sufficiente andare in tv a dichiarare di aver subito molestie dal regista (le due si erano conosciute a Ibiza…). Ha aggiunto che questa proposta era stata fatta anche ad altre ragazze che avevano però accettato (…). C’era uno scouting per trovare ragazze che magari supportassero la denuncia mediatica di poche coraggiose così da rendere più solida l’inchiesta? Questa ragazza spagnola è una mitomane?”.

Insomma, raccontavo il reale contenuto del verbale (sintetizzandolo molto) e non davo affatto per scontato che lei dicesse la verità, ma ipotizzavo anzi che l’alternativa alla ricerca di falsi testimoni, fosse che la spagnola raccontasse bugie. Nel servizio mandato in onda da Le Iene martedì però, si fa credere una cosa completamente diversa (il mio dubbio “la spagnola era una mitomane?” non viene riportato, guarda caso) e, cosa ancor più grave, si lascia dire a truffatori e ganci delle Iene che chi scrive è amica di Brizzi, che chi scrive copre la spagnola e altre menzogne varie.

Nello specifico, nel servizio si afferma: “Chi ha ritenuto interessante la testimonianza della spagnola è stata una giornalista del Fatto Quotidiano che l’ha pubblicata in prima pagina e lancia anche un sospetto sul nostro lavoro”. Intanto, in prima pagina non si menzionavano affatto né Tania Sanchez né le sue accuse che occupavano solo una parte dell’articolo, per il resto certo che il verbale era interessante e certo che andava documentato. Era in Procura, a disposizione di un Gip. Si chiama cronaca. Detto ciò, non lanciavo un sospetto, dicevo che riguardo la sconcertante testimonianza le possibilità erano due: o la spagnola diceva il vero (e quindi qualcuno cercava falsi testimoni) o la spagnola diceva il falso. Delle due, l’una. Ed era giusta la seconda, cosa che Le Iene hanno fatto bene ad accertare.

Questa Tania, a quanto pare, era stata convinta a mentire dal presunto truffatore Alessandro Rosica, che forse voleva spillare soldi a Brizzi, spiegano Le Iene. Chiarito questo nel servizio, Le Iene promuovono improvvisamente il truffatore Rosica a testimone attendibile e anziché tagliarle, mandano in onda delle dichiarazioni di questo tizio sulla sottoscritta, tirando di nuovo in mezzo il Fatto: “Qualcuno c’è dalla parte di Tania perché hai sentito Selvaggia Lucarelli cosa ha detto? Selvaggia Lucarelli copre a Tania! Vedi che ogni volta stanno a dire che quello è innocente!”, dice Rosica. E il gancio delle Iene rilancia: “Quelli che lo dicono stanno dalla sua parte, logicamente c’ha tanti amici pure lui che stanno dalla sua parte!”. L’inviata specifica che Rosica fa riferimento al mio articolo sul Fatto in cui riporto un verbale, udite udite, che NON HO VERIFICATO. Cioè, dovevo verificarlo io, non il Gip. Insomma, torniamo alle lezioni di giornalismo delle Iene. Ora, a parte che riportare un verbale non è coprire qualcuno, a parte che non sono amica di Brizzi e che sono sempre stata dalla parte dello Stato di diritto, non di un uomo (ma capisco che il concetto di Stato di diritto per un programma che lo calpesta costantemente sia un concetto sconosciuto), è piuttosto comico che le Iene, sul caso Brizzi, invitino gli altri a verificare qualcosa. Se avessero verificato bene le tre denunce delle ragazze forse si sarebbero resi conto che qualcosa non tornava. Per esempio, che una delle tre, V.M., era – con quella a Brizzi – alla sua terza denuncia nei confronti di un uomo per violenza sessuale. Che questa V.M. aveva denunciato perfino il padre di sua figlia per abusi sulla minore (denuncia archiviata, nella sentenza il giudice dice che V. M. ha un atteggiamento “fortemente manipolativo” e che fornisce prove non attendibili per acredine nei confronti dell’ex). La stessa V.M. che dopo la presunta molestia di Brizzi lo rivedeva a cena e gli mandava messaggini. Ci sarebbe altro da dire ma per ora mi limito a rallegrarmi che Le Iene abbiano deciso di credere sempre alle vittime. Specie perché ricordo la serie di servizi ancora online che Le Iene mandarono in onda sullo stupro di due uomini sardi, Massimo Pinna e Nicola Fenu, ai danni di una ragazza. Misero in dubbio la versione della ragazza perfino dopo la sentenza in primo grado che li condannò a 5 anni, lasciandoli parlare a lungo davanti alle telecamere di quanto lei si fosse inventata tutto. I due finirono poi in carcere, condannati in Cassazione per violenza sessuale di gruppo e lesioni gravi in concorso perché colpevoli “oltre ogni ragionevole dubbio”. A parte il dubbio delle Iene, prima di essere redente.

L’ex Br Balzerani a Milano, protesta il figlio di Lando Conti

L’ex brigatista Barbara Balzerani si permette di dileggiare i familiari delle vittime, presenta un libro, senza contraddittorio, in una sala del Comune di Milano e, comprensibilmente, c’è chi reagisce, anche con toni esasperati. È il caso di Lorenzo Conti, figlio di Lando Conti, il sindaco di Firenze ucciso dalle Br nell’86: “O la magistratura inizierà a fare il suo dovere o finirà che prima o poi qualcuno si farà giustizia da solo.” Conti parla di una “magistratura che dorme” per non aver saputo più nulla di una denuncia per diffamazione contro la Balzerani che l’anno scorso, per i 40 anni della strage di via Fani, quando fu rapito Aldo Moro e furono uccisi gli uomini della sua scorta, disse: “Quello di vittima è diventato un mestiere”. Conti ha pure scritto, in merito, al ministro Bonafede. Contro la Balzerani anche Sandro Leonardi, figlio di Oreste Leonardi, il caposcorta di Moro: “Rimango basito ogni volta di fronte alla sfacciataggine, dimostrata con frasi inopportune e con un eccessivo protagonismo, degli ex terroristi”.

La talpa di CasaPound, indagine in Campidoglio

Il Comune di Roma ha avviato un’indagine interna per trovare la “talpa” che dall’Ufficio assegnazioni del dipartimento Politiche abitative comunicava in anticipo a militanti di estrema destra – CasaPound e Forza Nuova in testa – le assegnazioni delle case popolari a famiglie rom e migranti. In questo modo, i gruppi politici avevano il tempo di organizzare le proteste, occupare gli immobili ed evitare i legittimi ingressi. Che ci fosse necessità di trattare con discrezione questo genere di notizie era stato anche sottolineato nella riunione di venerdì scorso tra la sindaca Virginia Raggi, la questura e la prefettura: durante l’incontro si era più volte detto di mantenere il massimo riserbo per evitare ciò che effettivamente è successo.

Eppure, come anticipato ieri dal Fatto, la Digos di Roma sospetta che qualcuno abbia spifferato all’esterno quanto si stava decidendo in Campidoglio: gli agenti stanno cercando la “spia” all’interno di un gruppo ristretto di dipendenti, una decina di persone in tutto, di fatto coloro che hanno accesso ai file dove sono contenute le informazioni legate alle assegnazioni.

Nei prossimi giorni verrà mandata un’informativa in Procura.

Dall’assessorato capitolino guidato da Rosalba Castiglione per il momento preferiscono non commentare e spiegano che si tratta “di informazioni che non dovrebbero uscire dagli uffici. Tuttavia i dipendenti devono poter lavorare le pratiche, quindi sarebbe impossibile secretare le carte”. Intanto da ieri, al materiale già in possesso della Polizia, si è aggiunta anche una denuncia del segretario romano dell’Unione Inquilini, Fabrizio Ragucci. “Gli impiegati infedeli potrebbero essere più di uno e sono da cercare all’interno dell’Ufficio assegnazioni del dipartimento e fra i dirigenti che sovrintendono gli uffici”, ha spiegato il sindacalista ai poliziotti.

Nella stessa denuncia è stata tirata in ballo anche Fratelli d’Italia: “I suoi militanti sembravano conoscere in anticipo gli episodi di Casal Bruciato, e in particolare il consigliere regionale Fabrizio Ghera”, aggiunge Ragucci. Il sindacalista ha fornito agli investigatori alcuni screenshot di volantini digitali con i quali si annunciavano proteste anti-rom nel quartiere dove, domenica scorsa, una famiglia montenegrina non ha potuto accedere all’alloggio regolarmente assegnatole a causa del blitz dei manifestanti. “Nessuna talpa, sono stati i cittadini ad avvertirci”, ha spiegato al Fatto il consigliere Ghera.

“Da qualche giorno girava la voce – ha aggiunto – e per questo ci siamo subito mobilitati per protestare”. Fratelli d’Italia, fra l’altro, ha presentato in Consiglio regionale una proposta di modifica della legge 12/1998 per l’assegnazione delle case popolari: “Devono contare di più gli anni di residenza sul territorio del Comune”. Intanto Davide Di Stefano (CasaPound) ha commentato così la notizia anticipata dal Fatto: “Con buona probabilità la storia della talpa in Campidoglio si rivelerà l’ennesima fake news”.

Intanto, ieri pomeriggio nel quartiere Casalotti – alla periferia ovest della Capitale – si è replicata la doppia manifestazione di sabato scorso a Torre Maura. Da una parte, il corteo “antirazzista” organizzato dall’Anpi e dall’altra il presidio di Casapound “contro il trasferimento dei nomadi”. In realtà, dal Campidoglio non si hanno notizie di spostamenti di famiglie rom provenienti dalla periferia est nel quartiere.

Altri 8 morti in mare. Dieci ore di Sos ignorate dall’Italia

“È in Libia, lontanissimo dall’Italia”. È stato questo il primo commento del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, quando l’Ansa gli ha chiesto se fosse possibile intervenire in soccorso di una ventina di migranti – 8 sarebbero già dispersi – alla deriva su un barcone al largo delle coste libiche. “È in Libia, lontanissimo dall’Italia” come se, di fronte a altri otto probabili morti e 20 persone che rischiano la vita tra le onde, fossimo soltanto dinanzi a una questione geografica. E alla fine i militari della Guardia Costiera dopo oltre 1o ore sono intervenuti. E quindi, i naufraghi, proprio in Libia sono destinati a tornare. La notizia giunge in serata: la Guardia costiera di Tripoli ha intercettato il gommone per riportarla sulle proprie coste, da dov’era partita. Nonostante la Libia in teoria non sia un “porto sicuro” dove condurre migranti, a detta dell’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati), per gli scontri militari in corso nel Paese. Una contraddizione, trascurata come un dettaglio.

Di certo, quest’ennesima tragedia dimostra un fatto: le partenze dalla Libia – al netto di qualsiasi propaganda – continuano anche se nessuna Ong pattuglia l’area. “Stiamo morendo, moriremo in mare”, ha detto un uomo a bordo del barcone, lanciando l’Sos alla Ong Alarm Phone. “Moriremo in Libia e in Tunisia”, ha aggiunto, “se non arriviamo in Italia moriremo tutti” si sente dire da un uomo a bordo, quando ancora nessuno era intervenuto. “Il telefono sulla barca si sta scaricando”, ha denunciato la Alarm Phone su Twitter, “la situazione sta diventando ancora più critica. Quante volte dobbiamo contattare le autorità prima che reagiscano?”.

Il barcone è in acque Sar libiche, quindi in base alle convenzioni internazionali, è compito della Guardia costiera nordafricana intervenire per il soccorso. “Sono in corso sforzi per salvarli”, ha detto Ayob Amr Ghasem, il portavoce della Marina libica da cui dipende la Guardia costiera, prima che il salvataggio avvenisse. Dopo però 15 ore di allarmi inascoltati: un aereo della missione militare europea Sophia aveva anche dato indicazione di chiamare le autorità tunisine. Ma da Tunisi non è arrivato alcun intervento.

Chi lo avrebbe fatto, del resto, era bloccato. “Mentre 20 persone vengono abbandonate e si teme che altre 8 siano annegate, il governo olandese tiene bloccata la nostra nave”, ha dichiarato su Twitter la Ong Sea-Watch, che vede la sua nave bloccata dall’Olanda “per una modifica legislativa”: “Era un assetto in grado di salvare vite ma evidentemente all’Europa ciò non interessa”. La Ong nel pomeriggio ha comunicato di aver provato a coinvolgere anche gli armatori privati che avevano navi in zona – per la precisione la compagnia olandese Vroon – per convogliare verso l’imbarcazione alla deriva le navi Vos Triton e Aphrodite. A detta della Sea Watch non ci sarebbe stata anche in questo caso alcuna risposta.

Non è intervenuta neanche l’Italia, che pure ha avuto notizia della necessità di aiuto. “Informato di un’emergenza – continua Sea Watch – qualsiasi Mrcc (Maritime Rescue Coordination Centre), non importa se di Brema o Roma, ha il dovere di rispondere con tutti i mezzi necessari”. E sulla tragedia in corso è intervenuta anche la Ong italiana Mediterranea Saving Humans: “Quante chiamate ancora senza risposta prima che anneghino? Si sta consumando un dramma inumano e le istituzioni non hanno di meglio da fare che scaricarsi responsabilità”. Secondo l’Unhcr, a maggior ragione per gli scontri militari in corso a Tripoli, è impossibile considerare la Libia un porto sicuro: “I migranti soccorsi non devono esser riportati lì”. Come non detto. Intanto la nave Alan Kurdi, con 60 naufraghi a bordo da 7 giorni dopo il rifiuto italiano, è ancora al largo in acque internazionali. I 20 disperati invece tornano verso la Libia. Chissà quale destino è peggiore.

Altri tre operai morti sul lavoro a Napoli, Monza e Alessandria

Ancora morti bianche, ancora operai deceduti nei cantieri, in fabbrica o sui luoghi di lavoro: il bollettino da ieri conta altre tre vittime. Un operaio di 56 anni è morto schiacciato da un muletto nello Stir di Giugliano in Campania, in provincia di Napoli. Dopo la tragedia, il sindaco ha proclamato un giorno di lutto cittadino, mentre i sindacati hanno indetto un’ora di sciopero nel corso della giornata di oggi. Il secondo decesso è in provincia di Alessandria: qui un lavoratore del Mobilificio Arzani di Grava, una frazione di Alluvioni Piovera, è rimasto incastrato in un macchinario. Inutili i soccorsi dei vigili del fuoco e dei sanitari, per l’uomo purtroppo non c’è stato nulla da fare. La terza vittima invece si è verificata a Sulbiate (Monza), dove un operaio è stato schiacciato da una pressa. “Aggiorniamo quello che è ormai diventato un bollettino di guerra”, è il commento amaro di Giulio Fossati, della segreteria provinciale dellaCGILcon delega alla sicurezza sul lavoro, che aggiunge: È il quinto decesso in poche settimane, solo in Brianza.

Giallo Imane, Marysthell Polanco urlò ai magistrati: “No, il polonio!”

Il giorno in cui la Procura di Milano decide di annunciare che Imane Fadil è morta, Marysthell Polanco è sotto interrogatorio. È venerdì 15 marzo. Imane è morta da due settimane, il procuratore Francesco Greco non è ancora andato davanti alle telecamere a dare la notizia e comunicare di aver aperto un’indagine per omicidio. I pm del processo Ruby 3, Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, hanno convocato Marysthell Polanco per chiederle dei soldi ricevuti da Silvio Berlusconi per raccontare ai giudici che quelle di Arcore, nell’estate del 2010, erano “cene eleganti”, magari giusto con qualche spettacolino di “burlesque”. I due pm sanno che all’alba del 1° marzo Imane, una delle poche partecipanti alle feste che non ha accettato denaro per mentire, è spirata all’ospedale Humanitas di Rozzano, consumata da una misteriosa malattia, o forse mangiata da un ancor più misterioso avvelenamento. Buttano lì la notizia, ancora inedita, a Marysthell. “Lo sa, signora Polanco, che Imane Fadil è morta in ospedale?”. La reazione, immediata, è un urlo: “No! Il polonio!”.

I due pm restano di ghiaccio. “Lo sapevo che dobbiamo stare attente”, balbetta, terrorizzata, Marysthell. “Mi hanno detto che ci sono veleni che ti possono uccidere senza che tu ti accorga…”. Polanco non pensa a Berlusconi, ma al vecchio amico di B., Vladimir Putin. Solo suggestioni o qualche ragazza del bunga-bunga potrebbe aver visto o saputo cose che riguardano il presidente russo e che non avrebbe dovuto né vedere, né sapere? L’assistente manager di Marysthell Polanco, contattata dal Fatto Quotidiano, è categorica. “Qui non stiamo parlando di rispondere alla domanda: ‘Di che colore era l’abito che quella ragazza indossava’; stiamo parlando di altro. Finché le cose non saranno più definite, più calme e tranquille, non possiamo fare alcun tipo di dichiarazione. Il nostro avvocato ci ha chiesto di attenerci al silenzio. E così faremo. Se dico ‘Non si può’, è perché so perché non si può”.

Con l’urlo di Marysthell Polanco che ancora echeggia nei corridoi del Palazzo di giustizia, nel pomeriggio di quel 15 marzo il procuratore Francesco Greco inizia la conferenza stampa in cui comunica che Imane è morta due settimane prima, che la sua cartella clinica non indica la causa del decesso, che aveva sintomi compatibili con l’avvelenamento, che la Procura indaga in tutte le direzioni, compreso l’omicidio volontario. Le preoccupazioni del procuratore derivano da un esame del sangue (prelievo del 27 febbraio, esiti consegnati solo il 6 marzo) che segnala la presenza di metalli pesanti in concentrazioni superiori alla media, anche se non letali. E soprattutto da un test i cui risultati sono comunicati alla Procura il 12 marzo, tre giorni prima della conferenza stampa, e che ha individuato “tracce di raggi alfa” nelle urine della ragazza.

Ora è passato un mese da quel giorno teso. Il clima pare essersi rasserenato, per tutti tranne che per la famiglia di Imane. La madre, la sorella Fatima, i fratelli Sam, Tarik e Mounir attendono in silenzio, come richiesto dalla Procura. Ma a 40 giorni dalla morte di Imane sono ancora senza risposte. I primi risultati degli esami autoptici, attesi una settimana fa, non ci sono ancora. I familiari passano le giornate a interrogarsi, in preda a ipotesi e suggestioni. Confidano nella magistratura e nei loro due nuovi legali, Mirko Mazzali e Nicola Quatrano, ma temono che non si riesca ad arrivare alla definizione di una causa certa per la morte di Imane.

Oggi l’ipotesi più probabile è che la ragazza sia morta per una malattia non ancora individuata che le ha intaccato il midollo spinale. Sappiamo che gli esami preparatori all’autopsia, con analisi sui campioni prelevati il 20 marzo da reni e fegato, hanno escluso la radioattività da raggi gamma e alfa (quelli che nel 2006 hanno ucciso l’ex spia russa Aleksandr Litvinenko, distrutto dal polonio 210 che aveva ingerito bevendo una tazza di tè).

Ma, in attesa degli esiti medici, restano aperte alcune domande. Perché l’Istituto di fisica dell’Università Statale il 12 marzo ha rilevato tracce di raggi alfa nelle urine di Imane? E perché quelle tracce non ci sono invece negli “organi-filtro”, fegato e reni? La contaminazione è forse avvenuta non nella fase di formazione, ma di espulsione delle urine? E perché Marysthell Polanco, appena saputo della morte di Fadil, ha lanciato quell’urlo: “Polonio!”? Per diradare le ombre nerissime della congiura internazionale, la Procura sta battendo tutte le piste e sta verificando anche la provenienza delle sacche di sangue utilizzato per le molte trasfusioni fatte a Imane durante il ricovero all’Humanitas: se l’avvelenamento provenisse da lì?

Strage bus di Avellino, per ad Castellucci “nessuna violazione”

Il procuratore di Avellino Rosario Cantelmo leggerà con attenzione, prima di decidere se ricorrere in appello, le 381 pagine di motivazioni della sentenza con cui il giudice monocratico Luigi Buono ha assolto l’ex ad di Autostrade per l’Italia Giovanni Castellucci. Era uno dei 15 imputati. Era accusato, insieme ad altri dirigenti Aspi, di omicidio colposo per la morte di 40 persone precipitate il 28 luglio del 2013 a bordo del bus dal viadotto “Acqualonga” dell’A16 Napoli-Canosa, nel territorio del comune di Monteforte Irpino (Avellino). Le motivazioni delle otto condanne – tra cui il titolare del bus – e delle sette assoluzioni sono state depositate ieri. Il giudice spiega così l’assoluzione di Castellucci e di altri tre dirigenti Aspi: “Non si è verificata alcuna violazione di una regola cautelare nella loro attività”. Poi “nessuna norma imponeva la sostituzione delle barriere esistenti sul viadotto”.Il piano di riqualifica approvato in Cda nel 2008 avrebbe consentito “la riqualificazione di tutte le barriere” e non solo quelle di Acqualonga e la scelta di non cambiale fu “adottata dal progettista, di concerto con la sua linea, in un momento successivo all’approvazione del piano”.

Bonifica discarica di Bussi, lo Stato chiede a Edison un miliardo di euro

Discarica di Bussi: “Chi inquina, paga”. Il ministero dell’Ambiente e la Regione Abruzzo hanno deciso di far rispettare il principio comunitario, citando in giudizio l’Edison Spa. La società, produttrice di energia e sostanze chimiche, è accusata di disastro ambientale e avvelenamento delle acque nei territori di Bussi sul Tirino, in provincia di Pescara.

Secondo l’accusa del giudizio penale, tra gli anni ‘60 e i primi del 2000 l’industria Montedison (oggi Edison) ha smaltito 25 ettari di rifiuti tossici e contaminato le acque destinate a un bacino di ben 700mila persone. Per tutto questo il Ministero richiede oltre un miliardo di euro di risarcimento, al quale si aggiunge il danno all’immagine che ha giustificato la richiesta della Regione Abruzzo di oltre mezzo miliardo di euro.

Il processo aveva visto dieci persone, appartenenti ai vertici dell’ex-Montedison, tra i banchi degli imputati: condannati in appello, ma assolti dalla Corte di Cassazione nel 2017 per prescrizione del reato e – nel caso di quattro di loro – per non aver commesso il fatto. Nonostante le assoluzioni, è stata però riconosciuta la sussistenza dei reati di inquinamento delle acque e disastro ambientale. Le conseguenze del provvedimento avrebbero dovuto tradursi in un passaggio di testimone dalla società allo Stato, al quale sarebbe spettato l’onere della bonifica e degli interventi ambientali necessari a risanare l’area. Ha prevalso però l’antico brocardo latino, che recita ubi commoda, ibi incommoda. Tradotto: chi ha tratto beneficio da qualcosa, ne deve accettare anche le conseguenze negative.

E dunque la causa risarcitoria è stata ripresa in mano dal ministero dell’Ambiente, ieri, e si tratta di una novità assoluta in materia: come spiega Cristina Gerardis, avvocato dello Stato che sin dall’inizio ha seguito il processo, finalmente “lo Stato intende far rispettare un principio comunitario, evitando di far pagare il costo del danno ambientale alla collettività, ai cittadini”. Ma la Edison non indietreggia, ribadendo in una nota stampa che a suo avviso la richiesta di risarcimento è da ritenere “infondata” e che non comprende perché il “ministero richieda l’attività di bonifica soltanto alla società”, considerando che i responsabili del danno “sono anche altri soggetti, sia privati che pubblici”.

“Nulla di nuovo” dichiara Gerardis, commentando la controffensiva della società: “Da sempre la loro difesa è stata incentrata sulla presunta responsabilità di altri soggetti. Ma lo Stato non individua colpevoli casualmente: ha invocato in giudizio Edison dopo attente ricostruzioni di carattere giuridico, che hanno stabilito che i responsabili sono loro e in quanto tali devono pagare”. L’avvocato conclude: “Esiste una giurisprudenza comunitaria che parla della responsabilità sostanziale delle imprese: anche in seguito a cambi di nome o trasformazioni societarie, se un gruppo imprenditoriale ha commesso un illecito ne deve rispondere. Loro avranno le loro ragioni, ma lo Stato ha le sue”.

Di Maio, promessa per Taranto: “Via lo scudo penale all’ex Ilva”

Luigi Di Maio lo ha detto chiaramente per la prima volta al microfono del Fatto.it. Alla domanda del nostro Manolo Lanoro (“Nel decreto crescita, nella sua versione finale, eliminerete la non punibilità penale per i vertici Ilva?”) Di Maio, nella sua triplice veste di leader M5s, vicepremier e ministro dello sviluppo, si è impegnato: “Sì il nostro obiettivo è inserirla, l’ultimo consiglio dei ministri ha già varato che c’è il titolo su questo argomento e stiamo concretamente scrivendo la norma”. Stretto dalla seconda domanda sui tempi del provvedimento, Di Maio si è smarcato così: “Il decreto è salvo intese, quindi si stanno definendo gli ultimi dettagli ma è un decreto e quindi è urgente”.

La questione non è scontata e non è semplice. Nel 2012 per la prima volta nel decreto salva-Ilva il ministro Corrado Clini del Governo Monti concesse ai gestori dell’Ilva un trattamento di favore, ponendo l’Aia, cioé l’Autorizzazione Integrata Ambientale, all’interno della legge. Così impediva al magistrato di disapplicarla, come avrebbe potuto fare se fosse stato appunto un comune atto amministrativo. Il decreto fu impugnato alla Consulta dalla Procura. La Corte però diede il via libera con una decisione molto criticata e comunque connessa chiaramente alla natura transitoria di quel regime perché la Corte vincolava la legittimità della legge allo scrupoloso rispetto del crono-programma degli interventi di messa a norma. Dovevano terminare entro il 2015, poi i termini sono stati via via allungati con i successivi decreti salva Ilva. Eppure la deroga è rimasta.

Quel regime speciale per l’Ilva impediva ai magistrati lo stop agli impianti ma almeno permetteva le indagini e i processi. Il regime favorevole ha avuto un salto di qualità nel 2015 con il decreto legge sul piano Ilva del Governo Renzi secondo il quale “le condotte poste in essere in attuazione del Piano non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario e dei soggetti da questo funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”. Con l’acquisizione della gestione da parte di Arcelor Mittal l’immunità è stata di fatto prorogata e dovrebbe scadere nell’agosto 2023.

Il gip di Taranto Benedetto Ruberto a febbraio ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sui provvedimenti emessi dai Governi per salvare lo stabilimento siderurgico, ipotizzando la violazione di sette articoli della Carta Costituzionale: 3, 24, 32, 35, 41, 112 e 117. La Corte dovrà quindi ora valutare se siano legittimi sia lo spostamento costante della data di ultimazione dei lavori di risanamento della fabbrica sia l’immunità concessa ai commissari e poi a Arcelor Mittal. C’è un precedente perché la sentenza 58 del 2018 della Corte Costituzionale ha considerato incostituzionale un decreto Salva-Ilva (DL 92/2015) in quanto “il legislatore ha finito per privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.)”.

Il 30 luglio 2018, durante un incontro al Mise, alla presenza di Luigi Di Maio, Geert Van Poelvoorde, Executive vice president di Arcelor Mittal, ha chiarito quali erano le condizioni poste dalla società per entrare in Italia. Alesandro Marescotti presidente di PeaceLink, una delle associazioni racconta: “Io c’ero e abbiamo la registrazione. Le parole del manager furono esattamente queste: “Pensate che io sia in grado di convincere il nostro management e i nostri ricercatori a venire qui e a dare una mano all’Ilva quando qualcuno dal primo giorno gli dice ‘attenti perché appena arrivati in Italia vi mettiamo in galera?’”. Marescotti ricorda: “le pronunciò seduto al tavolo a due metri da Di Maio davanti a un centinaio di persone. Di Maio ascoltò e rimase impassibile. Per questo le dichiarazioni di ieri mi lasciano perplesso. Se il Governo vuole rimuovere l’immunità penale lo deve fare in maniera netta. Temo invece che voglia fare un intervento per modificare la norma e così vanificare il ricorso alla Consulta da parte del gip di Taranto Ruberto”.

Il 26 marzo, al Corriere della Sera, che gli chiedeva dell’immunità, l’ad di ArcelorMittal Italia, Matthieu Jehl ha precisato: “Abbiamo deciso di investire in Italia sulla base di norme e di regole concordate con il governo italiano per la risoluzione dei problemi. Chiediamo certezza del diritto come investitori di lungo termine”. Questa intervista seguiva di due settimane quella del ministro dell’ambiente a Virginia della Sala del Fatto. Sergio Costa annunciava che questo provvedimento: “prevede la cancellazione dell’immunità”. A Taranto sono tutti curiosi di leggerlo.

Ecco SalvinIstat: la Lega mette le mani sui numeri

Benvenuti a Salvinistat, l’istituto nazionale di statistica a trazione sovranista. La macchina dei numeri dell’Italia ha virato decisamente verso il verde ai primi di febbraio, quando sulla poltrona di presidente è stato issato Gian Carlo Blangiardo, il demografo milanese vicino a Comunione e Liberazione e ora alla Lega di Salvini. Blangiardo ha appena perfezionato l’operazione, scegliendo per il ruolo di direttore generale un altro dirigente in partenza della Lombardia assai affine per ascendenti.

È l’attuale direttore della cassaforte regionale Finlombarda Michele Camisasca, nipote del vescovo di Reggio Emilia Massimo Camisasca e biografo ufficiale di Don Giussani. Pochi anni fa si era candidato per il ruolo di direttore del personale dell’Istat ma era stato scartato: oggi il contesto politico è cambiato, ed ecco che si ritrova a capo di tutto.

Nell’annunciare la nomina, Istat ricorda la pluriennale esperienza nel settore pubblico e privato, mentre la Flc Cgil sottolinea la provenienza comune tra Camisasca e Blangiardo legata a Cl nonché la nomina esterna: “Fino ad alcuni anni fa i dg dell’Istat provenivano da una carriera interna”. Senza mettere in dubbio l’autonomia scientifica dell’istituto, la delicatezza degli incarichi è evidente: Istat non ha un ruolo diretto nella gestione delle grandi sfide del governo gialloverde – dal reddito di cittadinanza al Def e fino a quota 100 – ma gioco forza fornirà indicatori indiretti del loro successo tramite la produzione istituzionale di dati e analisi su povertà e occupazione. Come saranno gestite quelle informazioni è il punto. Chi è allora, Camisasca?

Dopo un’esperienza in H3G, la sua carriera nella pubblica amministrazione decolla nel 2007 nella Lombardia di Formigoni, grazie a un concorso fantasma mai pubblicato in Gazzetta per questo annullato tre anni dopo. Niente che gli abbia impedito di rimanere fino al 2015 a capo della direzione organizzazione e personale, per poi essere scelto da Maroni come direttore dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente. A inizio anno la nomina, sempre in salsa leghista, a dirigere Finlombarda con un incarico in scadenza a giugno. Per il rinnovo stava partecipando a un bando cambiato in corsa, con tanto di sbianchettatura laddove richiedeva la laurea in Economia (il nostro è laureato in Giurisprudenza). Storia passata, ora approda a Roma per una posizione di grande responsabilità da 161 mila euro l’anno.

Al ruolo si erano candidati in 33, Camisasca è risultato il più idoneo nonostante negli ultimi anni si sia occupato più di ambiente che di statistiche: “Il direttore – replica lui – ha funzioni prettamente organizzative di gestione di una macchina complessa, non ha nulla a che fare con gli aspetti espressamente scientifici e statistici”. E i rapporti con Blangiardo e Cl? “L’ho visto la prima volta al colloquio ed essere nipote di un vescovo di Santa Romana Chiesa non è una colpa. Con il mondo di Cl non c’entro da almeno 20 anni, non frequento né politici, né esercizi spirituali”. Quella all’Istat è stata la poltrona più ambita tra quelle che aveva puntato: dalla stessa Finlombarda, per un incarico definitivo, e altre di rango minore come Milano sport che gestisce piscine e campi da tennis (che ha scartato il suo cv). Con Istat ci aveva già provato: “Cinque o sei anni fa mi ero candidato a direttore del personale, non mi hanno chiamato”. Ora, invece, ci sono le condizioni per il salto: sotto di lui tutta quanta la struttura, così strategica per gli azionisti del governo.