“Sono fiera delle mie origini italiane, ma non sopporto gli italo-americani”

“Nessuno di noi dimenticherà mai questo periodo ma ammetto che è stato un buon momento per scrivere un disco”. Gusto per l’avventura, ottimista di natura, attivista indomita, Laura Pergolizzi in arte Lp ha appena pubblicato il suo nuovo album Churches e sta preparando un tour di passaggio nel nostro paese nei mesi di marzo e luglio 2022. L’autrice di Lost In You e Other People nonché autrice di Celie Dion, Cher e Rihanna ha scritto le nuove canzoni durante il lockdown: “È stato un momento di ispirazione, un buon periodo per essere vivi; penso che il mondo non sia mai stato così connesso. Ho scritto di amore – soprattutto –, lo faccio spesso… In Goodbye ho detto addio a cose che mi preoccupavano, non solo alle relazioni. Mi son lasciata un anno fa con la mia fidanzata, attraversavo questa rottura complessa: tutti ci innamoriamo o ci siamo lasciati e abbiamo pianto. Rainbow è dedicata a mio padre e descrivo la mia difficoltà nel decidere di fare coming out. In Angels racconto il soprannaturale cercando di non apparire hippy. La title-track racconta il mio viaggio in Russia e l’attimo in cui volevo andare a vedere una splendida chiesa ortodossa: se sei una donna devi coprirti il capo e io non ne avevo voglia. Penso di essere sinceramente connessa a Dio e ho una relazione molto profonda con lui e non mi interessava entrare in un tempio costruito dagli uomini”. C’è una canzone esplicita sull’urgenza del bisogno di sessualità all’interno di una relazione, con una presa di posizione che farà discutere: “In My Body ho voluto esprimere il desiderio di volere più sesso nella propria storia d’amore e, se necessario, andarlo a cercare altrove. Io l’ho fatto, magari non sarà stato bello ma non mi scuserò”. Fulcro del nuovo album è una perla di poesia nella quale Lp esprime il suo amore per John Lennon e Yoko Ono: “Mi hanno insegnato a ‘dire di sì alle cose’, a essere aperta alla vita. Ho descritto come John si è infatuato della sua musa: lui è andato a una installazione artistica di Yoko, ha visto una scala e ci è salito sopra ed in alto sul soffitto c’era una parola da guardare con una lente di ingrandimento e quella parola era Yes. John è rimasto talmente affascinato da questa idea che ha voluto a tutti i costi conoscerne l’autrice”. Lp è fiera delle sue origini italiane ma con qualche ombra: “I parenti di mia mamma sono di Napoli e il padre di mio padre era di Palermo, sua mamma era irlandese, ecco le ragioni della mia pelle molto chiara e anche del perché riesco a bere molto più di molte persone che finiscono ubriache sotto il tavolo. La cultura italiana mi ha influenzato, sono molto passionale ma non amo gli italoamericani: si dichiarano italiani ma non parlano nemmeno la lingua”. L’artista è da sempre attivista Lgbt+ e affronta spesso tematiche di emancipazione: “Stiamo meglio di cinquanta anni fa. Per esempio essere come me non sarebbe stato possibile negli anni cinquanta. Sono orgogliosa di tutti quelli che lavorano per un mondo più inclusivo. Io faccio le mie piccole cose nello schema generale, mi piace che i ragazzi vedano in me un esempio di cosa possono essere”.

“Being the Ricardos”, come amare (di nuovo) un’icona tv

Prendete Sandra (Mondaini) e Raimondo (Vianello), portateli Oltreoceano, retrodatateli, ingigantiteli, comprometteteli, ed ecco i Ricardos, Lucy e Ricky Ricardo per prassi televisiva, Lucille Ball e Desi Arnaz per anagrafe. Anni Cinquanta, una sitcom, I Love Lucy, capace di incollare su CBS sessanta milioni di spettatori: oltre il fenomeno di costume, l’ontologia stessa del tubo catodico e i suoi derivati. La riesumazione, appunto, è ontologica: Being the Ricardos, per la scrittura fenomenale e la regia fenomenica di Aaron Sorkin, uno degli sparuti geni a meritarsi l’attributo, in carnet West Wing, lo script di The Social Network, Il processo ai Chicago 7. Insomma, un demiurgo audiovisivo con beneficio di inventario e invenzione, che per Lucy e Rick, Lucille e Desi ha voluto i premi Oscar Nicole Kidman e Javier Bardem, gettati in un agone multiverso: in una settimana sul set, dovranno combattere contro il gossipparo Walter Winchell (insinuazione da patibolo: Lucille è comunista?), lo sponsor conservatore Philip Morris e, ancor prima e ancor poi, sé stessi, mettendo a repentaglio carriera e matrimonio. Buco della serratura, backstage televisivo, squarci sociopolitici, amore e altri disastri: tutto in sette giorni, centoventicinque minuti, dal 21 dicembre su Prime Video, con Amazon che guarda all’Oscar, e probabilmente non da miope. L’Età dell’Oro della televisione, l’apogeo terminale dello screwball, la rossa Lucille che sublima la casalinga disperata, il bandolero cubano Desi che gigioneggia – criticato perché non cubano, invero Bardem giganteggia – e a definire il quadrato on stage le spalle William Frawley (J.K. Simmons) e Vivian Vance (Nina Arianda), finalizzazione di un processo di scrittura che avrebbe ridefinito lo showbusiness stelle & strisce: il dramma dietro le scene di Sorkin ne dà metacinematografica ma non superlativa contezza, un colpo alla liaison e uno al sistema. Il precipizio è sempre in campo, l’abisso ci guarda dentro, lo sceneggiatore e regista non smobilita, e nemmeno i suoi interpreti. La scelta della Kidman ha fatto discutere più di quella del collega, le si preferiva per similitudine fisionomica e consuetudine alla sit-com Debra Messing, Nicole ha tirato avanti, infilando identità e intimità tra trovate strampalate e buffonate esilaranti, e ritornando al futuro la primizia industriale di Ball e Arnaz, ovvero la corazzata Desilu Productions: “Nessun attore aveva a quel tempo qualcosa di simile. È stata la prima casa di produzione della sua specie, unica nel suo genere. Questo film apre il sipario. Non è tanto lo spettacolo I Love Lucy, ma come è stato fatto e – osserva l’attrice – chi fosse responsabile di quel genio. Quale era la sua storia? Quale la sua vita? Sorkin le comprime in una settimana e, andando avanti e indietro nel tempo, svela in questo non-biopic l’essenza di Lucille e degli altri”. A partire da Desi: “Ho fatto lunghe ricerche – rivela Bardem – e mi ha colpito l’assoluta fiducia che aveva in se stesso, nonché il suo sostegno alla moglie e all’intero spettacolo. Ha superato una teoria di ostacoli con forte senso dell’umorismo. Ciò non significa che non abbia preso il suo lavoro sul serio, ma non ne è rimasto intrappolato”. Di due persone una coppia, destinata forse a deflagrare, senza però tradire personaggi e personalità: “Pensavo, ‘avrò i capelli, avrò le labbra e tutto il resto’ di Lucy Ricardo, poi è arrivata Lucille Ball, che è molto diversa. Ma è Lucille Ball che – conclude la Kidman – ha creato Lucy Ricardo”.

“L’applauso è la più grande droga del mondo. Il sesso? Scoperto a 13 anni sul set”

La droga, la sua droga, la droga “più bella, più potente, più pesante per chi è in questo mondo” l’ha scoperta ad appena otto anni “quando sono salito su un palco teatrale e lì ho conquistato il primo applauso; (pausa) come l’applauso non c’è niente”. Da allora, Alessandro D’Alatri, ha percorso ogni millimetro quadro della scala valoriale del successo, ha sentito su di sé il calore dei riflettori e il rischio di bruciarsi con l’ego (“è il nemico degli attori”); ha corso a mille all’ora quando a soli quattordici anni ha deciso che il suo ’68 era composto da zaino in spalla, pollice in alto e un mondo da non temere (“mi sentivo un beat”); è entrato nella memoria collettiva come regista di alcuni spot televisivi, poi di film generazionali e ora come guru della serialità di Rai1: Un professore ha chiuso con quasi 5 milioni di spettatori. “Stare sul set è la vita che amo di più al mondo”.

Lei da attore bambino.

Giocavo solo all’attore.

E come ci è arrivato?

Casualmente; sono figlio di un operaio e di una contadina, persone totalmente digiune di spettacolo: siccome ero molto timido, mamma mi iscrisse alla recita della scuola, con la frase “magari ti sgrassi un po’”.

Si sgrassò?

Mi divertii molto e il pomeriggio della recita venne una signora impegnata con i casting; (sorride) il giorno dopo ero già sul palcoscenico del teatro Valle (di Roma) per un’audizione con Luchino Visconti: cercava un bambino per Il giardino dei ciliegi; allora non me ne rendevo conto, ma in quel momento ero circondato da un cast clamoroso, composto da personalità come Sergio Tofano o Paolo Stoppa.

Per lei chi erano?

Dei signori che stavano lì per giocare.

E lei?

Mamma per anni ha raccontato quel primo incontro come fossimo dentro a Bellissima.

Cioè?

Mentre ero sul palco sentì una risata fortissima. Lei preoccupata: “Mo che ha combinato questo?”. E invece ero stato bravo e grazie a una battuta conquistai la prova costume.

Si ricorda la battuta?

Visconti mi chiese: “Raccontami qualcosa”. “Cosa?”. “Quello che vuoi?”. Mi rifugiai in una barzelletta; (pausa) mia madre è stata una donna troppo intelligente; (altra pausa e risata roca) da lì sono arrivato a Strehler, membro di una compagnia straordinaria e con loro, ogni sera, arrivava l’applauso: quella roba neanche San Patrignano te la toglie. Dall’approvazione non si torna indietro.

Strehler le incuteva timore?

Direi rispetto; fino a qualche anno fa il regista veniva trattato come un papa: quando entrava sul set ognuno cambiava postura, atteggiamento e si silenziava ogni argomento; oggi, rispetto, a ieri, siamo dei morti di fame, dei disgraziati.

Quindi?

Avevo vinto la timidezza però restava la grande educazione e, in gran parte, mi portavano in compagnia perché ero un bambino che non rompeva le palle.

Chi l’affascinava?

Sergio Tofano: con lui ho condiviso il camerino e poi è l’autore del Signor Bonaventura, uno dei testi più belli di teatro: mi prendeva in braccio e mi leggeva le sue storie; ancora lo sento nel mio cervello (cambia voce). Ero la mascotte.

Scuola di vita.

Ricordo Lucilla Morlacchi, Ottavia Piccolo, Rina Morelli.

Di chi era innamorato?

La mia prima tensione è arrivata con la Morlacchi; (ride) che poi, tranquillamente, si cambiavano davanti a me e avevo appena otto anni: le vedevo seminude ed è stato devastante.

Ancora le ricorda.

Sì, e con grande piacere; era la scoperta del corpo femminile, non si vergognavano, i camerini erano aperti ed era un mondo libero; (abbassa il tono) prima dell’inizio della commedia Lina Morelli e Paolo Stoppa volevano che passassi da loro e mi regalavano un cioccolatino.

Cosa temeva?

Solo che finisse il gioco; eppure avevo una vita quasi schizofrenica: la mattina andavo a scuola ed ero un comune bambino; il pomeriggio entravo in teatro, la sera ero in scena e giocavo con gli adulti.

I soldi?

A otto anni ho iniziato a pagare le tasse e a casa portavo un reddito superiore a quello di mio padre, operaio alle officine centrali dell’Atac (i trasporti pubblici a Roma); grazie ai miei guadagni un giorno arrivò a casa un tecnico con un televisore, tempo dopo un frigorifero, e via così.

Una svolta…

Prima, per noi, era normale tenere il latte sul davanzale o andare dalla vicina per vedere la tv; ah, aggiungo l’automobile e le prime vacanze al mare.

E suo padre?

Anni dopo ho capito che forse, per lui, questa situazione è stata un po’ frustrante; (pausa) quando lavoravo mamma era obbligata ad accompagnarmi perché minorenne: giravamo l’Italia e il mondo e nel frattempo dovevo studiare, così viaggiavo con una specie di piccolo registro portabile che consegnavo in ogni scuola dove mi fermavo.

I professori come reagivano?

Un sabotaggio continuo, anche perché il mondo dello spettacolo era visto malissimo, come una realtà impregnata di perversione, mentre in realtà ero circondato da persone con una cultura unica: a otto anni conoscevo alla perfezione I fratelli Karamazov.

Questo gioco come si è interrotto?

Con il ’68: a 13-14 anni ho iniziato ha sentire quell’eco, poi la musica rock, la beat generation e allora sono arrivati i viaggi da vagabondo del karma.

A quell’età?

Seguivo le indicazioni di Kerouac e partivo pure da solo, oppure mi aggregavo alle prime comuni agricole.

E i suoi?

Non potevano dire nulla, ero ingestibile: se ci penso credo di avergli creato non pochi problemi; (pausa) tornavo sempre con i libri sotto il braccio e a scuola andavo bene. Però mettevo in discussione tutto.

E la scoperta del sesso?

La rivoluzione sessuale scritta da Wilhelm Reich era parte di noi; (sorride) dopo il battesimo del corpo femminile dietro le quinte teatrali, il passo successivo è arrivato sul set: in Come, quando e perché, a 13 anni, ho vissuto il primo contatto con il nudo di una ragazza (pausa). L’espressione di quella scoperta è fissata in un film.

E lì cos’ha capito?

Che era una tragedia, perché da quella sensazione erotica non ne sarei più uscito.

Perché ha smesso la carriera d’attore?

Era un periodo di passaggio, i grandi registi stavano morendo, iniziavano i poliziotteschi e le pellicole porno-soft; non mi interessavano, non corrispondevano alla mia visione della vita: accettavo solo le pubblicità, dove mi divertivo e guadagnavo i soldi per viaggiare.

Però ha girato con De Sica…

Con lui sul set si aveva quella sensazione da papa; davanti poteva avere pure il più grande attore del mondo, ma si metteva in scena e gli mostrava come desiderava la parte: ogni volta, diventava un personaggio diverso, cambiava e con dei tempi incredibili.

La regia come è arrivata?

Mentre stavo sul set o in camerino vedevo un vortice di persone muoversi, magari per sistemare le luci o un microfono, non solo la telecamera; un giorno mi sono posto la domanda cruciale: non è che sono loro a divertirsi mentre io perdo tempo?

E allora?

Quel giorno c’era accanto a me una costumista-scenografa in difficoltà. “Posso darti una mano?”. “Ecco, sì, bravo”. Alla fine della giornata è tornata a ringraziarmi: “Hai la patente?” “Sì”. “Da domani sarai il mio assistente”.

E la droga dell’applauso?

La prendevo di riflesso attraverso i successi degli altri; (ride all’improvviso) la mia macchina era diventata un catalogo ambulante di tessuti, colori, vernici, chiusure lampo; la mia Bibbia era un contenitore pieno di biglietti da visita e sotto il sedile dell’auto avevo piazzato le Pagine Gialle; (ora ride proprio) aggiungo cinquantamila lire al giorno di gettoni e le tasche delle giacche sformate per contenerli.

La carriera d’attore completamente abbandonata?

Qualcosina capitava; poi un giorno un regista decise di cambiarmi un’altra volta la vita: “Basta con ’sti bottoni, damme ’na mano”. Io dispiaciuto, ma non potevo rifiutare.

E…?

Dopo due ore dietro la macchina da presa ho capito quale era la giusta via alla felicità; da quel momento ho seguito i più grandi registi della pubblicità, tutti professionisti con i quali avevo recitato al tempo dei Caroselli; non solo, siccome ero uno dei pochi “aiuti” a conoscere l’inglese venivo coinvolto dagli stranieri, gente che ogni anno vinceva cariolate di premi a Cannes.

Inevitabile diventare regista.

Sono miei quelli di “Una telefonata allunga la vita”, “Ciribiribì Kodak”, “Turista fai da te ahi ahi ahi” o “Anto’ fa caldo” con una Luisa Ranieri all’esordio. Lei bellissima, perfetta.

Il suo primo set da regista cinematografico.

Il primo ciak è stato per Americano rosso con davanti a me Fabrizio Bentivoglio ed Eros Pagni, due professionisti rari; poi in quei giorni accadde qualcosa di pazzesco: giravamo vicino a Venezia e quell’anno assegnavano il Leone alla carriera a Marcello Mastroianni. Proprio Mastroianni venne a sapere che un regista esordiente stava lì e si presentò per farmi l’in bocca al lupo.

Vi conoscevate?

No. E davanti a lui all’inizio ho tartagliato.

Come la trattano gli attori?

Intanto io tratto benissimo loro, perché provo affetto e stima; so cos’è l’ansia prima del ciak, o quella di quando sei in quinta e devi entrare in scena con il passo giusto; conosco le debolezze e le paure; conosco il prezzo alto che pagano per mantenere la popolarità e l’immagine.

Qual è il prezzo?

Intanto sono drogati dal successo, ed è pesante, gonfia l’ego in maniera smisurata. E l’ego rappresenta il primo nemico; (ride) a loro dico sempre: “Voi siete ‘ciao, come sto?’”.

Però…

È anche la loro forza, per questo comprendo le contraddizioni e aggiungo: gli attori hanno una forte difficoltà nelle relazioni, è tutto alterato, sono costantemente fuori di casa, con una vita personale devastata.

Molti suoi colleghi registi si sentono psicologi degli attori.

Io sono più un allenatore.

Tra i suoi “giocatori” c’è Fabio Volo…

Per Casomai l’ho dovuto convincere, non ci credeva.

Come?

Gli ho detto: “Ti organizzo un provino, se alla fine non ti piaci, arrivederci”. Così ci vediamo a Milano, una chiacchierata di un’ora tra me e lui nei panni del personaggio protagonista; alla fine la ragazza che stava dietro la macchina da presa va da Fabio e tutta partecipe gli domanda: “Davvero ti sono successe tutte queste cose?” Lui incredulo: “In che senso”. “Beh, ti sei separato, hai avuto un figlio…”. Ha capito che poteva recitare.

Da regista che aveva visto in Fabio Volo?

A differenza di molti attori era uno senza difese, in grado di mettere in scena le sue fragilità; non si presentava con l’atteggiamento “io so’ figo”, anzi era uno che si spogliava davanti ad Alessia Marcuzzi con lei che lo prendeva per il culo: “Hai il pisello piccolo!” ; (cambia tono, riflette) lo sa che scandisco la mia vita a seconda dei set?

Sono le sue stagioni…

Se qualcuno mi chiede dove stavo in un certo anno, l’unico modo per ricostruirlo è pensare al set del periodo; ho due figlie cresciute accanto a me mentre stavo dietro la macchina da presa. Per me vita e lavoro sono la stessa realtà.

L’hanno mai rimproverata per questo?

Sempre, e tutti gli affetti, compresi gli amici.

Torniamo agli attori: Lino Guanciale.

Straordinario, preparato, con una proprietà dialettica rara e il piacere di stare insieme va oltre il set; stessa certezza con Alessandro Gassmann: con lui ho girato due serie; (cambia tono) entrambi sono persone curiose, disciplinate, uomini del loro tempo, dove la popolarità non ha influito sull’ego. Restano attori e persone.

Lei chi è?

Uno che ha avuto la fortuna di nascere e vedere l’ultima civiltà contadina, ed è il patrimonio più grande. Poi sono figlio dell’amore, perché i miei mi hanno amato e si sono amati tantissimo.

 

Gli Skiantos che fanno spaghetti e Vuitton tatuato sui maiali vivi

Questa rubrica si occupa della teoria, dei princìpi, delle tecniche, dei prodotti e della sfera d’azione della prassi divertente; e siccome l’arte moderna pare procedere per scarti divertenti rispetto alla tradizione, è il caso di darle un’occhiata. Sorvoleremo il paesaggio: la visione dall’alto facilita la comparazione e quindi il ragionamento (Barthes, 1954). Se è il caso, faremo picchiate sui dettagli.

L’ARTE MODERNA E LA PRASSI DIVERTENTE

L’arte rende materiale la propria relazione con il mondo; e, come dimostrò Duchamp col suo orinatoio, la relazione fra arte e mondo non si fonda solo sulla fisiologia della percezione. La tendenza contemporanea a riutilizzare, incorporare, esibire, manipolare artefatti altrui è detta post-produzione; ha il suo prototipo, come tutte le forme di arte concettuale, nel differimento che Duchamp realizzava con i ready-made (Bourriaud, 2001) e Warhol con la Brillo Box (Danto, 1999). Tale differimento crea un’incongruità rispetto all’orizzonte di attese, sicché i risultati hanno un effetto divertente (Qc #4, #13, #15, #58). La tipologia della post-produzione comprende la formalizzazione (per esempio, la tela di Cattelan con la Z di Zorro nello stile di Lucio Fontana; e Sylvie Fleury che riusa gli stilemi della Pop Art); la riprogrammazione (per esempio, 24 Hours Psycho di Douglas Gordon, cioè il film di Hitchcock rallentato in modo da durare 24 ore: bit.ly/3s08pYR; T.W. Shoot di Kendell Geers, sequenze cinematografiche con attori che sparano, trasmesse da 12 monitor; le sculture di plexiglas di Lynda Benglis poste da John Armleder contro una carta da parati Op Art; Louise Lawler che, nel 1978, espone il dipinto convenzionale di un cavallo, opera di Henry Stullmann, illuminandolo con faretti; l’installazione di Jorge Pardo con pezzi di Alvar Aalto, Arne Jakobsen e Isamu Noguchi; Kendell Geers che urina nella Fontana di Duchamp); l’estetizzazione dei rapporti di forza (Heger & Dejanov che chiudono la galleria per l’intera durata della loro “mostra”, mandando in vacanza il personale; Cattelan che affitta a una ditta di cosmetici il suo spazio espositivo alla Biennale; Jens Haaning che apre a Friburgo un negozio di prodotti importati dalla Francia, mettendoli in vendita a prezzi più bassi rispetto a quelli svizzeri; Matthieu Laurette che crea una banca e ne vende le azioni a 10 euro l’una; Pierre Huyghe che fa sessioni di casting per girare una nuova versione di Uccellacci e uccellini); la medializzazione (i dipinti di John Miller ispirati all’estetica dei game-show televisivi; le sculture in legno policromo con cui Wang Du replica in 3D personaggi tratti da foto pubblicate su periodici); e la modellizzazione (Huyghe che rifilma scena per scena La finestra sul cortile di Hitchcock in un quartiere povero di Parigi con attori sconosciuti; Dierre Joseph che rifà opere di Lucio Fontana, Jasper Johns, Helio Oiticica e Richard Prince). Gli Skiantos che, invece di suonare, sul palco cucinano spaghetti, fanno performance art; ripetere oggi lo stesso gesto è post-produzione. Quando il curatore di una mostra su Cattelan mi chiese di collaborare agli apparati inviandomi un questionario sull’artista, glielo rispedii non compilato, e attribuendolo a me (“Questionario su Cattelan, di Daniele Luttazzi”). Il curatore replicò: “Non sapevo che in Italia avessimo due Cattelan.” Un’altra forma di post-produzione è riproporre celebri mostre del passato (nell’81, il Beaubourg diede il via alla tendenza esibendo la grande mostra surrealista del ’38; nel 2019, a Roma furono ricostruite contemporaneamente le mostre Titina Maselli ‘55, Giulio Paolini ’64, Luciano Fabro ’71, Carlo Maria Mariani ’81, Jan Vercruysse ’90 e Myriam Laplante 2004). Dato che tutti gli operatori sono consapevoli che la documentazione filologica non può evitare la differenza implicita in ogni remake, c’è chi pone il problema di un aggiornamento del diritto d’autore che includa i curatori.

Fin dal collage, la tecnica principale del modernismo, il sample è usato come un segno linguistico: il suo significato dipende dal contesto (programma, partitura) in cui è inserito. L’opera non è la conclusione di un procedimento, ma solo un momento in una catena infinita di significazioni, cui tutti possono contribuire. Chi esegue la partitura, allo stesso tempo ne crea una nuova: Add Colour Painting (1966) di Yoko Ono è una tela bianca a cui i visitatori possono aggiungere colori (vernici e pennelli sono su una sedia bianca, presso il quadro).

Il primo passo dell’esecuzione è l’appropriazione: l’atto di scegliere fa già parte del procedimento artistico. Elaine Sturtevant, negli anni 60, è la prima a lavorarci su: contro il dominio maschile nell’arte americana, replica i lavori di artisti celebri per denunciare che una donna può ambire al riconoscimento sociale solo facendosi altro da sé. Il risultato è perturbante, come ogni Doppio (Rank, 1914). La Pop Art presenta i prodotti del consumo di massa. Il nuovo realismo mostra i prodotti al termine del processo di consumazione (le carrozzerie d’auto pressate di César Baldaccini). I simulazionisti (Kruger, Levine) esibiscono le tecniche di marketing. L’arte concettuale dà valore all’idea dell’opera, non all’oggetto o al risultato estetico (Wim Delvoye tatua il marchio Vuitton su maiali vivi; Tom Sachs erige la miniatura di un campo di concentramento nazista sopra una cappelliera Prada aperta e appiattita). L’arte povera arrangia elementi naturali, stracci, plastica, rifiuti industriali. La land art interviene sul contesto ambientale. Il movimento Fluxus sceglie, sull’esempio di Cage, i modi dell’indeterminatezza (per esempio, la scacchiera bianca con pezzi tutti bianchi esposta da Yoko Ono alla Indica Gallery di Londra nel 1966: nei giorni dell’esposizione, Roman Polanski e Sharon Tate passano alcune serate in galleria a giocarci). Fluxus, secondo George Maciunas, che ne fu il teorico ufficiale, è “Vaudeville, gag, gioco infantile e Duchamp”. George Brecht, uno dei protagonisti di Fluxus, ridicolizzava la superstizione artistica del “nuovo” argomentando che è più difficile essere il nono artista a fare una cosa, poiché a quel punto devi dimostrare di saperla fare bene. Inoltre, l’ideologia del “nuovo” si presta alla propaganda: “Noi dobbiamo creare un nuovo patrimonio da porre accanto a quello antico, dobbiamo crearci un’arte nuova, un’arte dei nostri tempi, un’arte fascista”, recita la frase di Mussolini in esergo al filmato Luce (bit.ly/3EWF0lC) che mostra il Kuce impettito in visita alla mostra di architettura razionalista.

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Tre donne accusano di molestie l’attore Chris Noth, il Mr. Big di “Sex and the City”

Ancora guaiper Chris Noth, il Mr. Big di Sex and the City: una terza donna, secondo il Daily Beast, lo accusa di molestie sessuali. È il 2010, l’allora 18enne aspirante attrice lavorava al ristorante Da Marino a New York. La donna racconta che Noth ha iniziato a baciarla e toccarla nel retro del ristorante: “Non voleva sentire no come risposta”.

 

“Stupro? Il marito deve poter vincere minime resistenze”

Ci sono volte in cui un uomo si ritrova a “dover vincere quel minimo di resistenza che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito tenta un approccio sessuale”. E tanto basta per chiedere di archiviare la denuncia di una moglie che sostiene di aver subito maltrattamenti all’interno delle mura domestiche, anche davanti ai figli. Una donna che parla di violenti atti sessuali che nelle carte di un magistrato diventano “fatti carnali che devono essere ridimensionati nella loro portata” anche perché commessi “in una fase del rapporto coniugale in cui” lei “ha messo seriamente in discussione la relazione, meditando la separazione”.

A pochi giorni dall’approvazione di un pacchetto di norme contro la violenza sulle donne, succede che a Benevento, capoluogo campano, un magistrato deposita una richiesta di archiviazione scegliendo un lessico che male si sposa con quella tutela che tanto si cerca di assicurare.

Quello che raccontiamo è uno scontro finito in Procura tra Maria e Paolo (entrambi nomi di fantasia). Lei ad aprile scorso presenta una denuncia per maltrattamenti. Cita due circostanze. Parla di un “grave episodio” che avvenuto a ottobre 2019: è la festa del compleanno di uno dei due figli. La cena era quasi pronta, quando il marito sente al telegiornale una delle troppe storie di femminicidio. Paolo prende “il coltello con cui stava tagliando il pane”, scrive la pm nella richiesta di archiviazione, e lo punta al collo della moglie, “dicendo che prima o poi sarebbe stato menzionato lui al telegiornale”. Il tutto davanti a due testimoni, la suocera e la cognata che confermano. Per la pm quel gesto “per quanto di cattivo gusto” è stato “compiuto per scherzo”. Conclusione a cui giunge “tenuto conto del contesto in cui è avvenuto”, ossia “la preparazione familiare della cena di una festa, dinanzi a testimoni” e dei commenti fatti tra moglie e marito via chat. È infatti Paolo che scrive: “In momenti di rabbia si dicono tante cose che non si pensano, per tutte le altre cose io ho sempre scherzato, infatti tu mi rispondevi che saresti uscita prima tu al Tg”. Lui ha sempre scherzato quindi. E – seguendo questa logica – Maria deve aver frainteso anche alcuni approcci. La descrizione nella stessa richiesta di archiviazione è la seguente: la donna “parla di pressione esercitata dal marito che la faceva sentire obbligata ad avere rapporti sessuali con lui”, rapporti che lei “subiva” “per non svegliare il figlio”.

Per la pm “anche i fatti carnali devono essere ridimensionati nella loro portata, non avendo la stessa descritto espressioni di minaccia o di costrizione fisica, né di abuso di autorità”. Inoltre quegli atti sessuali sono stati compiuti in un momento in cui Maria meditava il divorzio: “Non nutrendo più i sentimenti e la stima di un tempo nei confronti del marito, non era più incline a congiungersi con lui ma per motivi che ella stessa sostiene non avrebbe avuto il coraggio di esprimere”, è il pensiero della pm. Che giunge quindi a questa conclusione: “Considerato la sussistenza di un rapporto di coniugio, appare arduo sostenere che sia provata la consapevolezza in capo” al marito “della non consensualità al rapporto sessuale, considerato anche comune negli uomini dover vincere quel minimo di resistenza che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito” – che nel caso specifico “appare particolarmente amante della materia” – “tenta un approccio sessuale”. In altre parole: non vi è stata nessuna costrizione in quell’atto sessuale, non è detto che Paolo abbia percepito il rifiuto della moglie. Tanto più che in altre occasioni “ha dormito per (…) otto giorni sul divano”. Anche questo esempio è riportato nell’atto della pm.

Per l’inquirente quindi non ci sono le prove del maltrattamento, tutt’altro. Quella tra Maria e Paolo è una situazione di “sostanziale pariteticità” e “simmetria tra coniugi travolti da una conflittualità” che alla fine non era “nemmeno di particolare gravità”.

Secondo la pm non vi sono neanche prove delle percosse nei confronti dei figli: il padre potrebbe aver ecceduto “nell’uso dei mezzi di correzione”, è un’altra delle espressioni utilizzate.

Allo stesso modo si chiede di archiviare l’accusa di sottrazione di minori che invece è Paolo ad aver mosso alla moglie, quando questa si è allontanata con i figli per andare in centro antiviolenza.

Alla richiesta di archiviazione, Michele Sarno, l’avvocato che rappresenta la donna, ha presentato opposizione. La Procura potrà rimanere sulla propria posizione (magari decidendo di argomentarla diversamente) o meno. Ma in questa storia al di là di chi avrà ragione, di chi ha raccontato la verità, ciò che traspare dalle sole due pagine di richiesta di archiviazione della pm è un lessico e una mentalità che le donne (e anche gli uomini perbene) di certo non meritano.

Giornalisti reti Rai: “Negati i nostri diritti”

Niente testata per i giornalisti delle reti Rai che non lavorano per i tg: lo scrive l’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, nella risposta inviata alla commissione parlamentare di Vigilanza, sollecitata dal deputato di FdI Federico Mollicone. “La collocazione dei 180 giornalisti impegnati nelle Reti sarà definita rispondendo all’obiettivo primario di garantire continuità di risorse”. Sono giornalisti impegnati in trasmissioni tra cui Report, Presa diretta, Porta a Porta, Agorà e La vita in diretta. Secondo i loro rappresentanti “non hanno possibilità di carriera come i giornalisti delle testate”, non dipendono da direttori iscritti all’Ordine e hanno solo una parvenza di diritti sindacali essendo sparpagliati in una ventina di redazioni.

Oggi le legislative: si può scegliere solo i candidati “patrioti”

Le autorità hanno emesso mandati di arresto contro gli attivisti Nathan Law, Sunny Cheung, Timothy Lee, Carmen Lau e Kawai Lee, tutti fuggiti da Hong Kong. I cinque, che fanno parte del movimento pro-democrazia, hanno esortato al boicottaggio del voto di oggi. Nell’ex colonia britannica da quest’anno è diventato un crimine incitare altri al boicottaggio o esprimere voti non validi: si rischia la reclusione fino a 3 anni e la multa fino a 25 mila dollari. Oggi si vota per il rinnovo del Consiglio legislativo, il parlamentino locale, il primo secondo la riforma dell’intero sistema elettorale imposto da Pechino per garantire che Hong Kong sia governata soltanto dai “patrioti” . Secondo le nuove regole, il numero di eletti direttamente passa da 35 a 20 su 90. Per la prima volta è del tutto assente il vecchio fronte pan-democratico, scappato all’estero o in carcere.

La “linea rossa” secondo il Cremlino

Le premesse per un negoziato di successo ci sono tutte: gli uni, i russi, pongono condizioni che sanno benissimo che gli altri, gli americani, non possono accettare, un potere di veto sulle loro future alleanze; e gli altri difendono un diritto – di fare aderire alla Nato Ucraina, Georgia, Moldavia e quant’altri lo voglia – che non hanno intenzione d’esercitare e che neppure possono esercitare, perché lo stesso Trattato dell’Atlantico del Nord lo esclude (Paesi con conflitti interni non possono entrare nell’Alleanza). Ciò vuol dire che entrambe le parti sanno a priori di non potere restare fino in fondo sulle posizioni di partenza, anche se, ovviamente, le dichiarazioni iniziali sono oltranziste. Mosca invita Washington a prendere sul serio la bozza di Trattato trasmesso, perché – dice il vice-ministro degli Esteri Serghey Ryabkov – “la situazione globale rimane piuttosto tesa”. Washington replica, via la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki, che “non ci saranno colloqui sulla sicurezza europea senza i nostri alleati e partner europei”.

Le bozze di Trattati inviate dalla Russia agli Usa e alla Nato sono analoghe, ma diverse: otto articoli per gli Usa, nove per la Nato. Vi viene tracciata una linea rossa già esplicitata nell’ultimo colloquio il 7 dicembre tra i presidenti Vladimir Putin e Joe Biden: che l’Occidente si tenga fuori dalla sfera d’influenza russa, cioè dall’ex Unione sovietica – fatti salvi i Paesi Baltici, ormai perduti –, e si astenga “da qualsiasi ulteriore allargamento Nato”. I Paesi dell’Alleanza dovrebbero inoltre impegnarsi “a non condurre alcuna attività militare sul territorio dell’Ucraina e di altri Stati dell’Europa dell’Est, del Caucaso del Sud e dell’Asia Centrale”. Putin aveva anticipato a Biden l’iniziativa diplomatica, il suo ministro degli Esteri Serghey Lavrov l’ha trasmessa al segretario di Stato Usa Antony Blinken il 15 dicembre. Le proposte poi prevedono la creazione di una “hotline” tra Mosca e la Nato, l’impegno a non spiegare “armi nucleari al di fuori del territorio nazionale” e a riportare in patria “le armi già spiegate al di fuori dei confini all’entrata in vigore del trattato”, eliminando tutte le infrastrutture all’uopo create e rinunciando ad addestrare “personale militare o civile di Paesi che non possiedono armi nucleari all’uso di tali armi”. Le clausole nucleari, così come scritte, sono inaccettabili per gli Usa e la Nato, perché lascerebbero l’Europa esposta a un attacco russo senza possibilità di risposta immediata.

Il linguaggio ha passaggi da ventesimo Secolo, dell’epoca dei negoziati nucleari tra Usa e Urss che, comunque, garantirono il mantenimento dell’“equilibrio del terrore”: fra i documenti citati, vi sono l’Atto di Helsinki del 1975 e la Carta per la sicurezza europea del 1999. E, ricordato che “non ci possono essere vincitori in una guerra nucleare”, Putin invita Biden a evitare l’azzardo di Barack Obama di derubricare il suo Paese a “potenza regionale”.

Antidolorifici, 500 mila morti in cerca di giustizia

Si allontana negli Usa la fine della guerra legale contro Purdue Pharma, uno dei principali produttori di oppioidi, i farmaci antidolorifici il cui abuso è ritenuto responsabile di almeno mezzo milione di morti nell’ultimo ventennio. Giovedì un giudice federale ha annullato un accordo da 4,5 miliardi di dollari che salvaguardava la famiglia Sackler, proprietaria della società che produce l’OxyContin, uno dei prodotti accusati di aver contribuito all’epidemia. Il giudice Colleen McMahon ha negato che il tribunale fallimentare di New York, che aveva approvato la ristrutturazione di Purdue, avesse l’autorità per concedere ai Sackler la protezione legale da ogni causa futura. Prima di chiedere la riorganizzazione fallimentare, in un decennio Purdue aveva distribuito oltre 10 miliardi ai suoi proprietari: anche dopo averne pagati 4,5 alle vittime per tacitarle, alla famiglia sarebbe rimasta un’enorme fortuna.

Secondo il procuratore generale Merrick Garland, “il tribunale fallimentare non aveva l’autorità per privare le vittime del diritto di citare in giudizio la famiglia Sackler”. I proprietari tacciono, mentre l’azienda ha preannunciato appello: “La decisione del tribunale non influisce sulla stabilità di Purdue o sulla sua capacità di produrre farmaci in modo sicuro, ma ritarderà e forse impedirà la possibilità che i creditori ricevano miliardi per contrastare gli effetti della crisi degli oppioidi”, ha dichiarato il suo presidente Steve Miller. Il 29 luglio la Purdue aveva ottenuto il 95% di 120 mila voti favorevoli all’accordo fallimentare per chiudere tremila cause civili che accusavano l’azienda e i Sackler di aver contribuito con l’OxyContin alla morte per overdose di circa 500 mila cittadini Usa. L’accordo prevedeva pagamenti in denaro e donazioni di farmaci e trattamenti per la dipendenza da oppioidi. I beni di Purdue sarebbero stati trasferiti a una nuova società che avrebbe operato in “modo responsabile e sostenibile”. Ma l’intesa avrebbe anche protetto da ogni ulteriore vertenza i Sackler, che hanno un patrimonio stimato in 10,8 miliardi. Alla base delle cause c’era l’accusa alla società di aver commercializzato in modo aggressivo l’oppioide OxyContin tra le decine di milioni di americani che soffrono di dolori cronici, minimizzando la sua capacità di indurre dipendenza e i rischi di overdose. Secondo la Camera di Washington, il medicinale ha generato circa 30 miliardi di entrate per l’azienda farmaceutica. Sia gli azionisti che l’azienda hanno sempre respinto le accuse, ma l’anno scorso la società si era dichiarata colpevole nel processo penale sugli oppioidi. Tuttavia otto Stati Usa, oltre a grandi comuni come Washington e Seattle e altri 2.600 querelanti per danni da lesioni personali avevano votato contro l’intesa. Anche il Dipartimento di Giustizia degli Usa e l’ufficio del procuratore di Manhattan si erano opposti. La decisione della giudice McMahon è arrivata una settimana dopo che il Metropolitan Museum di New York e i Sackler, noti filantropi, hanno annunciato un accordo per rimuovere il nome della famiglia dagli spazi espositivi del Met.

Usati come antidolorifici dal 1999, gli oppioidi sono diventati famosi per l’alto rischio di dipendenza e overdose tra i pazienti, oltre che tra i tossicodipendenti che li usano come sostituti della morfina. Secondo i Centers for Disease Control, l’equivalente Usa dell’Istituto superiore di Sanità, il loro abuso crea danni per 78,5 miliardi l’anno negli Usa. Purdue non è l’unica azienda a essere stata portata in tribunale. Il 22 luglio scorso è stato firmato uno storico accordo transattivo in oltre quattromila cause (tra le quali quelle avviate da 14 Stati Usa) del valore di 26 miliardi in 18 anni per chiudere la guerra legale contro altre aziende coinvolte in questo business. La multinazionale produttrice Johnson & Johnson pagherà in totale 5 miliardi, i distributori AmerisourceBergen e Cardinal Health fino a 6,4 miliardi ciascuno e McKesson altri 7,9.