Delocalizzazioni, i lavoratori Gkn contro la norma del governo

La nuova norma contro le delocalizzazioni, frutto dell’intesa tra l’asse Pd-5 Stelle e il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti non piace alla Cgil e alla Fiom, che ieri l’hanno attaccata, ma non piace neppure ai lavoratori della fiorentina Gkn, cioè quelli coinvolti dalla vertenza simbolo da cui tutto è partito. “Non chiamatela legge anti delocalizzazioni ma procedura di delocalizzazione – ha attaccato ieri il Collettivo di fabbrica della Gkn – Ci pare di capire che lo Stato sta per varare la multa per eccesso di velocità di delocalizzazione o per delocalizzazione maleducata e scomposta”, aggiungono i lavoratori dello stabilimento campigiano, in assemblea permanente dal 9 luglio scorso quando l’azienda comunicò l’intenzione di chiudere la fabbrica e avviare la procedura di licenziamento dei 422 dipendenti. “La multa è irrisoria e non ti tolgono nemmeno i punti della patente. Lo Stato riscuote multe ed elargisce bonus, di politica industriale nemmeno l’ombra. Ci pare sempre la stessa storia. Non la nostra”.

Il ministro del Lavoro Orlando (Pd) e la viceministra al Mise Alessandra Todde (5S) hanno difeso la norma, che verrà inserita come emendamento alla manovra. Prevede una procedura per le aziende che vogliono licenziare e sanzioni per chi non la rispetta. Le imprese con almeno 250 dipendenti che vogliono licenziarne almeno 50 devono dare preavviso a istituzioni e sindacati 90 giorni prima e produrre entro 60 giorni un piano di mitigazione delle conseguenze. Chi non lo fa vedrà raddoppiare i costi del licenziamento. Costi che salgono di 1,5 volte se invece non si trova l’accordo con i sindacati.

Il testo iniziale prevedeva multe del 2% del fatturato e una black list per le aziende inadempienti. Giorgetti, in asse con Confindustria, si è opposto e, per evitare lo stallo, la norma è stata ridimensionata. Una versione più dura era stata invece depositata, sempre come emendamento alla manovra, dal senatore Matteo Mantero (Pap).

Più licenziamenti per tutti: boom dei “disciplinari”

Un’esplosione di licenziamenti dopo luglio in effetti c’è stata. La sorpresa, però, è che non ha riguardato tanto quelli economici (sbloccati dopo il 30 giugno per industria ed edilizia), che sono aumentati ma non quanto si temeva, bensì quelli disciplinari, quasi raddoppiati rispetto al pre-Covid. Per capirci, nei primi nove mesi del 2021 gli allontanamenti per “giusta causa” hanno già superato il totale annuale degli anni precedenti. Un record reso possibile da una netta accelerata – come emerge dai dati Inps – avvenuta durante il trimestre estivo, quando i dipendenti licenziati “per punizione” dai datori di lavoro sono stati 54.764, mentre nello stesso periodo del 2020 erano stati 39.621 e nel 2019 – in tempi “normali” – solo 32.344. Nel frattempo, prosegue anche la crescita delle dimissioni, arrivate a oltre mezzo milione a fine terzo trimestre 2021.

Breve riassunto. Il 17 marzo 2020, appena scoppiata la pandemia, il governo Conte aveva vietato quasi del tutto i licenziamenti economici, concedendo però la cassa integrazione gratuita a tutte le imprese. I licenziamenti disciplinari, naturalmente, non sono mai stati vietati: il loro aumento nei mesi del blocco fa pensare che siano stati utilizzati per mascherare tagli di organico dovuti a ragioni economiche. La moratoria, come detto, è durata fino al 30 giugno 2021, quando il governo Draghi ha dato il via libera ai licenziamenti nelle imprese dell’industria – moda esclusa – e delle costruzioni (per tutti gli altri settori sono invece stati sbloccati il 1 novembre, periodo per cui non ci sono ancora dati).

Restiamo dunque ai numeri Istat. Tra il 1 luglio e il 30 settembre 2021, primi tre mesi di licenziamenti liberi, quelli per motivi economici sono stati 107.561, aumentati di parecchio sia rispetto ai 77.406 del trimestre precedente sia rispetto agli 80.802 del terzo trimestre 2020: un dato che però è ancora inferiore ai 175.652 licenziati economici del terzo trimestre 2019, riferimento per il periodo pre-pandemia. Ha un certo peso il fatto che nel 2019 si poteva licenziare in tutti i settori, mentre tra luglio e settembre 2021 è stato possibile farlo solo nelle fabbriche e nei cantieri, ma anche isolando il dato dell’industria, i licenziamenti sono comunque stati inferiori rispetto al 2019.

Nel frattempo, però, abbiamo avuto una parallela galoppata dei licenziamenti disciplinari. Questa tipologia, in tempi normali, ne contava circa 30mila per trimestre. Da giugno 2020 in poi – cioè subito dopo i lockdown e in costanza di blocco dei licenziamenti economici – sono costantemente cresciuti, attestandosi mediamente tra i 36 e i 39 mila per trimestre. Tra luglio e settembre di quest’anno poi – col blocco rimasto in vigore per settori particolarmente in crisi come industria tessile, servizi, commercio e turismo – il dato è schizzato a quasi 55 mila. Un boom che risulta ancora più strano alla luce del fatto che nel terzo trimestre 2021 le ore lavorate sono risultate ancora mezzo miliardo in meno rispetto al pre-Covid: con meno attività, infatti, avrebbero dovuto esserci anche meno occasioni per contestare inadempienze ai lavoratori. Eppure le contestazioni sono cresciute del 70% in confronto a quando si lavorava a pieno regime. È legittimo, dunque, il sospetto che dietro questo boom dei disciplinari ci siano licenziamenti economici.

C’è infine il fenomeno delle dimissioni di massa: il terzo trimestre ha confermato il netto aumento visto già nel secondo. Va detto che erano crollate in tutti i trimestri precedenti, con il mercato del lavoro quasi completamente fermo. Ora, però, le dimissioni vanno a mille all’ora: in parte questo si spiega col fatto che è ripartito un po’ di turn over (per quanto le assunzioni siano in maggioranza precarie e/o part time), ma c’è anche la possibilità che il Covid abbia portato le persone a riconsiderare le proprie priorità e a spingerle a lasciare quei lavori che li rendono scontenti. È un aspetto che andrà indagato nei prossimi mesi.

Ita, pochi voli e meno piloti: ma infornata di sindacalisti

Dal “mandiamoli via tutti” all’infornata di vecchi sindacalisti, l’inversione di rotta operata da Ita Airways nel giro di due mesi ha dello spettacolare. Tanto da assomigliare ad una manovra di emergenza. Secondo quanto risulta al Fatto, dopo aver rivisto in meglio le sue condizioni contrattuali e aver aderito al Contratto collettivo di categoria, la compagnia nata dalle ceneri della vecchia Alitalia si appresterebbe ad assumere una lunga lista di piloti e comandanti appartenenti soprattutto a Cisl e Uil ma anche a Cgil, Ugl ed Anpac. Molti dei nomi sono quelli dei protagonisti degli infiniti accordi e accordicchi che hanno lastricato il percorso dell’ex compagnia verso il baratro, via crucis costata ai contribuenti 13 miliardi di euro.

Circostanza curiosa: di fronte alla richiesta di verifica, Uil e Cisl hanno smentito le prossime assunzioni. L’azienda le ha viceversa confermate. Secondo quanto risulta al Fatto molti di questi ex piloti Alitalia stanno già partecipando ai corsi di aggiornamento svolti da Ita. Lo scorso 24 novembre avevamo dato conto dei contenuti di un audio di una riunione della dirigenza Ita in cui il presidente esecutivo Alfredo Altavilla, oltre a prendere a male parole i collaboratori, esprimeva la volontà di ridurre la sindacalizzazione della nuova compagnia licenziando al termine del periodo di prova di 4 mesi parte del personale proveniente da Alitalia. Di fronte alla richiesta di un commento Cgil e Uil avevano risposto con silenzi o “no comment”. La Filt Cisl era arrivata a difendere il manager (“Non ci risulta tratti male i dipendenti”). Gli unici sindacati a prendere una posizione netta contro Altavilla erano stati Usb e Cub.

Ma come mai il presidente è stato ora costretto a capitolare? A quanto risulta, la compagnia è in ritardo nel completare il suo organico e questo sta causando una riduzione dei voli e dei ricavi. La compagnia smentisce questa circostanza affermando che “La società con le risorse presenti in organico ha raggiunto gli obiettivi previsti dal piano strategico, attestandosi a 2.141 risorse assunte. Nella stagione invernale la compagnia, come tutte le altre, ha pianificato una riduzione delle proprie attività di volo per fronteggiare il mutato scenario di mercato, dovuto alla crescita della pandemia, che prevede una contrazione della domanda”.

Come mostrano i dati pubblici di Eurocontrol, però, i voli Ita sono in calo. Dal picco di 240 collegamenti giornalieri toccato l’11 novembre si è scesi agli attuali 200 voli circa. Nel dato non appaiono eventuali cancellazioni di cui solo la compagnia ha piena contezza. All’inizio del mese è relativamente semplice rispettare le tabelle di marcia, diventa più complicato alla fine quando le soglie ore massime di volo che possono sostenere piloti e assistenti per ragioni di sicurezza vengono raggiunte. A quel punto eventuali ristrettezze di organico si fanno sentire e producono le cancellazioni. Certamente il periodo non è semplice per nessuno e la diffusione della variante Omicron accresce le difficoltà.

In media il traffico aereo italiano rimane per il 20% al di sotto dei livelli del 2019. Ma giocare in difesa non è scelta obbligata (a maggior ragione se si cerca di affermare un nuovo vettore). Ryanair si sta ad esempio muovendo in controtendenza, i collegamenti, circa 1.800 al giorno, sono il 5% in più del 2019. La compagnia irlandese, che in Italia ha già una quota di mercato del 41%, sta via via riempiendo gli spazi lasciati vuoti da Ita. Una situazione che starebbe creando malumori al ministero del Tesoro che in Ita, controllata al 100%, ha investito e investirà circa 3 miliardi di euro. Ma via XX Settembre è in gran parte causa del suo mal e dovrebbe piangere se stessa.

I ritardi si devono innanzitutto alle condizioni proposte ai potenziali assunti. Le retribuzioni offerte a piloti e assistenti di volo risultavano inizialmente inferiori di circa il 30% rispetto a quelle proposte dalle compagnie low cost, inclusa Ryanair. Non solo, i contratti partono da zero, eliminando anzianità e tutele maturate in altre compagnie, inclusa Alitalia. Approccio che fa perno su una presunta discontinuità tra Ita e Alitalia e su una deroga alle disposizioni del Codice civile appositamente introdotta dal governo Draghi. Un punto su cui sono già state avviate le prime cause legali di ex lavoratori di quella che fu la compagnia di bandiera. Sta di fatto che dopo appena un mese e mezzo dal debutto Ita ha deciso di rivedere in meglio la sua offerta contrattuale e di aderire al Ccnl di categoria. Si hanno indiscrezioni anche di colloqui tra la dirigenza di Ita e il bocconiano consulente economico del governo Francesco Giavazzi in cui i vertici della compagnia si lamentano per le condizioni troppo favorevoli della cassa integrazione straordinaria concessa agli ex dipendenti Alitalia. Tra gli emendamenti alla legge di bilancio ne è spuntato anche uno in cui si prevede di decurtare dall’80 al 60% dell’ultima retribuzione l’importo dell’assegno. Da chiarire se il taglio partirà dal 2023 o sarà anticipato al 2022.

Nel complesso il progetto Ita rimane qualcosa di molto confuso e dalle prospettive molto incerte. Se si vuole davvero tentare di rilanciare la compagnia, i numeri di aerei e personale sono giudicati da molti esperti inadeguati. Se si sta cercando di creare una piccola ed economica compagnia per venderla al primo offerente non è detto che il piano abbia successo. Come spiega l’economista ed esperto di trasporti Ugo Arrigo “perché mai una compagnia dovrebbe comprarne un’altra quando può molto più semplicemente appropriarsi dei passeggeri”? Il gioco dei favori incrociati tra azienda e sindacalisti che sembra delinearsi riporta all’antico. “Tutto ha da cambiare perché nulla cambi” è citazione abusata ma che in questo caso calza alla perfezione.

Elezioni Csm, Anm: “Riforma Cartabia rafforza correnti”

L’Anm contro la ministra della Giustizia Marta Cartabia, per il merito della riforma del Csm, e per il metodo: convocazioni formali delle parti interessate, ma poi, dice nella sostanza l’Associazione dei magistrati, la ministra non recepisce le osservazioni. Venendo al merito, nel documento approvato ieri dal “Parlamentino”, con 22 sì e 11 no, l’Anm si dice “fortemente contraria” al sistema elettorale per i togati del Csm, il maggioritario bi-nominale: “Qualsiasi sistema maggioritario privilegerebbe gruppi maggiori, aumentando il potere che si vuole limitare” delle correnti. “È essenziale, prosegue, che il Csm sia rappresentativo di tutti i magistrati”, il pensiero è al proporzionale puro. Quanto al metodo, ha dichiarato il presidente Giuseppe Santalucia, quella dell’Anm è stata “una consultazione anomala, una forma di ascolto, più che di confronto”. Inoltre, la ministra “non ci ha sottoposto nulla di scritto. Non mi sembra il miglior modo di coinvolgere l’ordine giudiziario nel momento in cui si fa una riforma che dovrebbe sanare i mali”. L’unica corrente che ha votato contro il documento è la conservatrice MI, che ha avuto come leader Cosimo Ferri, ora deputato renziano: sbagliato “il no secco”, non si sono colti “i lati positivi” anche se “non è la riforma che avevamo in mente”. Astenuti i 3 membri di Articolo 101, gli unici a favore del sorteggio. Dal ministero, invece, filtra il cambio di idea della Cartabia su insistenza di M5s: sarà bloccare il ritorno in toga dei magistrati entrati in politica.

Più Castelli e meno Caselli, la “ex-Cirielli” e il Porcellum

2005. Oltre un anno dopo i crac Cirio e Parmalat, il governo Berlusconi annuncia la legge Tremonti sul risparmio, che dovrebbe aumentare i controlli sul sistema finanziario e rendere temporanea la carica a vita del governatore di Bankitalia. Ma la legge si svuota per il diktat della Lega, che da nemica diventa amica del governatore Antonio Fazio, artefice del salvataggio della banchetta leghista Credieuronord, sull’orlo del fallimento, tramite la Banca Popolare di Lodi (Bpl) del suo protetto Gianpiero Fiorani.

Aprile-maggio. La Procura di Milano indaga su tre scalate parallele e coordinate, patrocinate da Fazio e appoggiate da centrodestra&centrosinistra, che puntano a ridisegnare il sistema finanziario ed editoriale: quella della Bpl di Fiorani (spalleggiato da Lega e FI) alla banca Antonveneta di Padova, che fa gola anche agli olandesi dell’Abn Amro; quella dell’Unipol di Giovanni Consorte (coop rosse, spalleggiate dai vertici Ds) alla Bnl, contesa anche dallo spagnolo Bbva; e quella del rampante immobiliarista Stefano Ricucci (spalleggiato da FI, Lega e Ds, oltreché dal gruppo Caltagirone) alla Rcs-Corriere della Sera. Fiorani racconterà di aver ottenuto il via libera da Berlusconi nell’estate 2004 in un tragicomico pellegrinaggio a villa La Certosa, dove gli portò in dono un gigantesco cactus, ferendosi il petto con le spine.

6 luglio. Le tre operazioni, condotte in spregio alle regole del mercato e al Codice penale, vengono bloccate dai pm e dal gip Clementina Forleo, che sequestra azioni e plusvalenze degli scalatori (“furbetti del quartierino” li chiama Ricucci in un’intercettazione). Fazio e i “furbetti” sono indagati a vario titolo per aggiotaggio, insider trading e altri reati finanziari. Il governatore, dopo una strenua resistenza, si dimetterà a fine anno. Il trasversale fronte politico pro scalate freme di sdegno per le intercettazioni (non per il loro contenuto) e lavora a una legge che limiti la possibilità di disporle e di pubblicarle.

25 luglio. Il Parlamento approva la legge delega del ministro Castelli sul nuovo Ordinamento giudiziario, pressoché identica a quella bocciata da Ciampi. Tornano le vecchie ricette degli anni più bui: carriera selettiva che imbriglia i giudici in una rete di concorsi formalistici; svilimento delle competenze del Csm; ristrutturazione verticistica e gerarchica delle Procure, con il capo dominus assoluto dell’azione penale e il “potere diffuso” dei pm ridotto al nulla; separazione surrettizia delle carriere di pm e giudici, accompagnata da “esami psico-attitudinali” per i neomagistrati (due trovate previste nel Piano di rinascita democratica di Licio Gelli); divieto ai pm di spiegare le loro indagini alla stampa. Per fortuna il governo non farà in tempo a esercitare la delega con i decreti attuativi e la controriforma non entrerà in vigore. Provvederà il centrosinistra a farla propria con Mastella nel 2006-2007. Entra invece subito in vigore un codicillo “contra personam” aggiunto alla legge Castelli da Luigi Bobbio di An per impedire a Gian Carlo Caselli di candidarsi per la Procura Nazionale Antimafia (dove Piero Luigi Vigna è “scaduto” il 15 gennaio). Così viene nominato il suo rivale Pietro Grasso. Nel 2007 la Consulta dichiarerà incostituzionale la norma, ma Grasso resterà al suo posto.

29 novembre. Il centrodestra approva in tutta fretta la legge “ex Cirielli”: “ex” perché l’autore, Edmondo Cirielli di An, la rinnega dopo gli emendamenti peggiorativi imposti dal governo. È l’ennesima legge salva-Berlusconi e salva-Previti. Sistemato il processo Sme-Ariosto, il premier deve neutralizzare due nuove indagini milanesi: quella sui “diritti Mediaset” per i reati di appropriazione indebita, falso in bilancio e frode fiscale commessi acquistando film a prezzi gonfiati dalle major americane e utilizzando una miriade di società estere (anche offshore) del comparto occulto All Iberian per accantonarvi le plusvalenze in nero; e quella per corruzione in atti giudiziari dell’avvocato David Mills, che ha confessato al suo commercialista di aver mentito e taciuto nei processi All Iberian e Guardia di Finanza per “salvare Mr B. da un mare di guai” in cambio di 600mila dollari nel 1999. Così la Cirielli – nata per aumentare le pene ai recidivi – viene modificata per dimezzare la prescrizione agli incensurati (qual è ancora incredibilmente il pluriprescritto Berlusconi). Finora i delitti puniti fino a 5 anni si prescrivevano in 15 (che scendevano a 7 e mezzo con le attenuanti generiche). Con l’ex Cirielli, si estingueranno sempre in 7 anni e mezzo (con o senza attenuanti). Il che vale per corruzione semplice, evasione e frode fiscale, truffa, bancarotta preferenziale e così via. Invece per i delitti puniti con pene massime fino a 10 anni, come la concussione e la corruzione giudiziaria, la prescrizione scende da 15 a 10 anni. Poi c’è Previti, che sta per essere condannato definitivamente per le corruzioni giudiziarie di Mondadori e Imi-Sir: la ex Cirielli pensa anche a lui prevedendo che pregiudicati “over 70” (esclusi solo i reati di mafia e terrorismo) evitino il carcere e scontino la pena ai domiciliari (Previti ha appena compiuto 71 anni). Quanto a Berlusconi, la prescrizione del processo Mills scatterà non più nel 2014, ma nel 2009; e nel processo Mediaset evaporano subito tutti i reati del periodo 1988-1999 e, in ciascuno degli anni successivi, i giudici dovranno cancellare i fatti relativi a 7 anni e mezzo prima. Siccome il capo d’imputazione arriva fino al 2003, nel 2012 saranno prescritte tutte le appropriazioni indebite e quasi tutte le frodi fiscali (in gran parte peraltro cancellate dal condono fiscale varato dallo stesso imputato alla fine del 2002). Ma naturalmente la legge si applica anche a tutti gli altri imputati: solo nel primo anno di rodaggio (il 2006), manderà in fumo 35mila processi in più rispetto ai 100mila cancellati dal fattore-tempo nel 2005.

14 dicembre. L’ultima legge vergogna del 2005 serve a impedire all’Unione di centrosinistra, favoritissima dopo aver vinto tutte le amministrative degli ultimi due anni e ricandidato Romano Prodi a premier, di aggiudicarsi le elezioni politiche del 2006: è la controriforma elettorale firmata dal ministro leghista delle Riforme Roberto Calderoli e imposta da Berlusconi a colpi di maggioranza minacciando la crisi di governo, che reintroduce il sistema proporzionale (in barba al referendum del 1993), consente ai partiti di nominarsi i futuri parlamentari con le liste bloccate, senza preferenze, e introduce i collegi esteri per eleggere 12 deputati e 6 senatori. Una norma che sarà definita dallo stesso Calderoli “una porcata”, ribattezzata “Porcellum” da Giovanni Sartori e dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Ma soltanto nel 2013.

(16. continua)

La restaurazione dei vitalizi: tagli bocciati e regalo ai pregiudicati

L’interrogativo è solo uno: vitalizi, che fare? Tra martedì e giovedì l’organo di appello della giustizia interna di Palazzo Madama dovrebbe finalmente decidersi: confermare o no la sentenza con cui a giugno dello scorso anno la Commissione Contenziosa presieduta dal berlusconiano di stretta osservanza Giacomo Caliendo ha cancellato il taglio degli assegni, in vigore dal 1 gennaio 2019. Potrebbe anche confermarla ma solo in parte e c’è pure la tripla: gettare la palla in tribuna e rimettere il caso alla Corte Costituzionale.

Inutile dire che gli ex inquilini di Palazzo che da anni combattono col coltello tra i denti, a suon di ricorsi, per riavere il vitalizio com’era prima della sforbiciata sperano che la sentenza di primo grado venga confermata dal collegio presieduto dall’altro forzista Luigi Vitali e composto anche da Alberto Balboni di Fratelli d’Italia, Valeria Valente del Pd, Ugo Grassi e Pasquale Pepe della Lega, che da mesi si riuniscono ma senza decidere.

I Condannati. Il che per chi è in attesa del verdetto parrebbe un cattivo presagio. Ma non è detto: d’altra parte si tratta dello stesso collegio che a maggio scorso ha ridato i vitalizi ai condannati facendo coriandoli della delibera del 2015 che era stata introdotta quando a presiedere il Senato era Pietro Grasso: con una sentenza a maggioranza vergata solo da Vitali e i due leghisti Pepe e Grassi, il Consiglio di Garanzia ha restituito il diritto a percepire il vitalizio a Roberto Formigoni e a tutti i condannati come lui, da Ottaviano del Turco a Denis Verdini passando per Silvio Berlusconi. Confermando quanto già sentenziato in primo grado, quando la Commissione Caliendo aveva stabilito che per il vitalizio dei senatori dovessero valere le stesse regole del reddito di cittadinanza, ossia la perdita dell’assegno ma solo nel caso estremo in cui il beneficiario sia condannato per mafia e terrorismo o se è latitante.

E alla Camera? Sul vitalizio ai condannati, il Collegio di appello presieduto da Andrea Colletti (Alternativa) ha respinto in via definitiva i ricorsi (già bocciati in primo grado dal Consiglio di giurisdizione guidato dal dem Alberto Losacco) dei vari Francesco De Lorenzo, alias Sua Sanità, e di altri come il già sindaco sceriffo di Taranto Giancarlo Cito, che da anni provavano a rientrare in possesso del malloppo. Che dunque, a differenza che a Palazzo Madama, a Montecitorio è ancora precluso per chi si sia macchiato di gravi reati, almeno fino alla sentenza di riabilitazione. Come nel caso dell’ex braccio destro di Bettino Craxi Giulio Di Donato, che dopo aver presentato alla Camera il suo casellario giudiziario riverginato ha riottenuto l’assegno.

Il Ricalcolo. Altra partita, sempre alla Camera, è quella che riguarda il taglio dei vitalizi per effetto del ricalcolo con il sistema contributivo in vigore dal 1 gennaio 2019. A Montecitorio è tutto ancora fermo al primo grado di giudizio dove sinora sono state assunte due sentenze solo parziali: quella di due giorni fa, in cui il collegio presieduto dal dem Losacco ha dichiarato illegittima l’applicazione dell’algoritmo elaborato da Istat e Inps, che ha prodotto tagli ritenuti troppo drastici soprattutto per gli assegni di chi ha beneficiato più a lungo del sistema retributivo. L’altra sentenza parziale aveva invece scardinato il doppio requisito (l’assenza di altri redditi e la grave invalidità) necessario per avere diritto a un taglio minore degli importi: dopo questa sentenza, almeno 170 ex deputati hanno avuto una reintegrazione degli assegni, causa indigenza.

Chi si rivede: 30 province al voto. E tornano le giunte

Non solo non se ne sono mai andate, ma adesso tornano più forti di prima. Sono le Province, trasformate (e svuotate) in enti di secondo livello dalla legge Delrio del 2014, ma mai scomparse. Tant’è che ieri, dalle 8 alle 20, 65 mila sindaci e consiglieri comunali (rappresentanti di oltre 30 milioni di cittadini) sono stati chiamati a votare per eleggere 31 presidenti di provincia e rinnovare 75 consigli provinciali: un esercito di 895 persone. In 7 casi era in corsa un candidato unico che sarà certamente eletto.

Tra questi spicca la figura di Claudio Scajola, tre volte sindaco, quattro volte ministro, altrettante deputato e ricordato per la casa “a sua insaputa” con vista sul Colosseo: diventerà presidente della provincia di Imperia, città di cui è anche sindaco. Scajola inoltre ha sulle spalle una condanna a due anni in primo grado per aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena, ex parlamentare di Forza Italia ora a Dubai dopo la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma questo non gli ha impedito di candidarsi. E di vincere in quanto unico partecipante: il suo sfidante doveva essere il sindaco di Sanremo Alberto Biancheri, che ha rinunciato. Altri volti noti che saranno eletti perché candidati unici sono Michele De Pascale a Ravenna (presidente dell’Upi), Enzo Lattuca a Forlì-Cesena e il leghista Claudio Marcon a Treviso.

Ma non ci sono solo le elezioni di ieri a far tornare in auge le Province. Come ha anticipato Il Sole 24 Ore, il governo sta preparando una riforma che superi la Delrio da inserire in un disegno di legge collegata alla manovra. Un progetto a cui hanno lavorato gli ultimi tre sottosegretari all’Interno – Stefano Candiani (Lega), Achille Variati (Pd) e Ivan Scalfarotto (Italia Viva) – che farà tornare le Province in tutto il loro splendore: oltre a ripristinare il mandato di 5 anni per i consigli provinciali (oggi sono 2), torneranno anche le giunte provinciali con tre assessori (quattro nei territori sopra il milione di abitanti). Le giunte torneranno ad essere un organo esecutivo: potranno farne parte anche membri esterni e saranno retribuiti con un’indennità pari al 50 per cento degli assessori comunali. Il ddl prevederà anche una nuova distribuzione delle competenze tra Province, Comuni e Regioni. Resta però il rebus dell’elezione. Il ddl non potrà non tenere conto della sentenza della Corte Costituzionale del 7 dicembre che ha bocciato la Delrio su un punto: il fatto che i presidenti delle Città metropolitane coincidano con i sindaci dei comuni capoluogo. La Consulta auspica anche per loro un meccanismo di elezione indiretta come quella dei presidenti di Provincia. Che tra poco potrebbero essere affiancati da una squadra di assessori. Un ritorno in grande stile.

Il Senato si prepara al voto: in arrivo regole per togliere soldi ai transfughi

Non si può perdere tempo. Perché anche se le urne sono lontane, dopo l’elezione del capo dello Stato nessuno può escludere a priori che si scivoli rapidamente verso il voto anticipato. Così Camera e Senato stanno modificando i regolamenti interni a fronte del taglio dei parlamentari: nella prossima legislatura i deputati saranno 400 e i senatori 200. Bisogna sbrigarsi e questa volta Palazzo Madama è messo meglio: qui l’iter è già partito.

Meno commissioni, leggi più veloci, norma anti-trasformisti e gruppo Misto più snello. Questi i pilastri su cui si basano le modifiche allo studio in Senato, dove un tavolo ristretto della giunta per il Regolamento è arrivato a un testo condiviso, che sarà sottoposto all’intera giunta martedì 21 per poi passare all’esame dell’Aula. Nelle intenzioni dei senatori si vogliono approvare le nuove regole a gennaio, prima che inizi l’iter per l’elezione del presidente della Repubblica.

Secondo il testo messo a punto, a Palazzo Madama le commissioni passano da 14 a 10, con un calo nel numero dei componenti (20) e accorpamenti vari: la Affari esteri terrà anche Difesa e Politiche Ue; agli Affari costituzionali si unisce l’editoria; l’Ambiente avrà pure transizione ecologica, lavori pubblici, comunicazioni, innovazione tecnologica e digitalizzazione; all’Industria e commercio si aggiunge l’agricoltura; agli Affari sociali la sanità.

Poi c’è la lotta al trasformismo: cambiare gruppo sarà molto meno conveniente. E qui c’è da registrare una novità: l’introduzione della categoria dei “non iscritti” a nessuna componente. Che sarà diversa dal gruppo misto. Innanzitutto si abbassa il numero dei senatori necessario a formare un gruppo: da 10 a 7. Tra i “non iscritti” finiranno quei senatori che, a inizio legislatura, non vogliono iscriversi a nessuna componente, gli “espulsi” dai loro gruppi e chi decide di lasciare un gruppo senza passare a un altro. Finora andavano tutti nel “misto”, in futuro finiranno tra i “non iscritti”, che però non saranno strutturati come un gruppo (capogruppo, eccetera), né potranno reclamare spazio nelle commissioni.

Del gruppo Misto, invece, faranno parte quei senatori rappresentanti di forze politiche che a inizio legislatura non riusciranno a formare un gruppo (non avranno 7 senatori eletti), ma pure quei gruppi che perderanno pezzi per strada, finendo sotto quota 7. Ma il passaggio più nefasto per i voltagabbana sta nel perdere le cariche ricoperte e relative indennità. Se un senatore presidente di commissione o vice o membro dell’ufficio di presidenza cambia partito, dovrà lasciare l’incarico perdendo soldi e potere. E il gruppo dove approderà non percepirà più soldi, mentre ora ogni transfuga porta in dote tra i 50 e i 60 mila euro l’anno. “La macchina sarà più snella e la volontà elettorale dei cittadini più rispettata”, sostiene Vincenzo Santangelo (M5S), relatore del testo insieme al leghista Roberto Calderoli.

I pentastellati, con Gianluca Perilli, propongono poi una corsia preferenziale per le leggi già approvate dalla Camera (da votare entro tre mesi dal loro arrivo in Senato), così da rendere più veloce l’iter legislativo.

Attenzione, però: il testo sul nuovo regolamento si voterà a scrutinio segreto e a maggioranza qualificata. Un passaggio che, specie in Aula, rischia di nascondere insidie, soprattutto se qualcuno solleverà obiezioni di costituzionalità sulle norme anti-trasformisti.

Colle, Mattarella non molla. Il rebus resta il dopo-Mario

In diversi sperano ancora nel miracolo che salverebbe lo status quo e quindi quasi tutti. Ovvero nel ripensamento, nel bis. E in prima fila a invocarlo ci sono le due facce spesso opposte tra loro del M5S, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, un bel pezzo del Pd, ciò che resiste dalla sinistra, vari dell’arcipelago chiamato Gruppo Misto. Ma Sergio Mattarella non vuole tornare indietro, ripetono e giurano dal Quirinale. Il presidente della Repubblica lascerà appena verrà eletto il suo successore. E anche dalle parti del Colle umori e calcoli dicono che il favorito per prendere il suo posto è Mario Draghi. Lui, il presidente del Consiglio “che lo vuole fare, certo”, come ripetono varie figure di questa maggioranza tanto larga quanto sfilacciata. E voci e volti raccontano preoccupazione.

Perché la paura di una corsa a precipizio verso il voto anticipato si dilata. Tra i leader dei partiti, come nei gruppi parlamentari. Quelli che i segretari, fatta eccezione per Giorgia Meloni – l’unica che può dire senza rischi di anelare le urne – controllano solo in parte (Enrico Letta, Matteo Salvini) o quasi per nulla (Conte). E che di rischiare un anno di stipendio e il vitalizio non hanno alcuna voglia, e non c’è Draghi che tenga. Anche perché questa è l’ultima legislatura con mille parlamentari: dalla prossima saranno 400 a Montecitorio e 200 a Palazzo Madama. Ergo sono in centinaia a essere consapevoli di non rientrare più.

Resta questo, il principale ostacolo per il premier, che per adesso non sembra rallentare. “Draghi si sta sbrigando a chiudere tutti i dossier, sta svuotando i cassetti” osserva con voluta malizia una fonte di governo. L’ex presidente della Bce ha convocato per giovedì una cabina di regia sul Covid. Il giorno prima, si attende la sua conferenza stampa di fine anno, anticipata rispetto alle consuetudini di Palazzo Chigi, in cui ovviamente gli chiederanno del suo futuro da qui a un mese. E chissà se davvero farà ancora melina, per dissimulare la sua voglia di traslocare al Colle. Di sicuro non vuole perdere tempo in tatticismi Mattarella, che domani pronuncerà il tradizionale discorso natalizio per lo scambio di auguri con i rappresentanti di istituzioni, forze politiche e società civile: “l’ultimo”, assicurano. Poi arriverà il tradizionale messaggio di fine anno, a un’Italia sfiancata dal secondo anno di pandemia. L’atto finale, prima della riffa per il Quirinale che dovrebbe iniziare nella settimana che va dal 24 al 29 gennaio: le Regioni, infatti, si riuniranno non prima del 10 per nominare i loro grandi elettori e di solito impiegano due settimane. L’atto finale, dunque, con Draghi che a oggi è il primo della fila, ma da qui ad arrivare al traguardo ce ne vuole.

Prima, il premier dovrebbe costruire un percorso per assicurare una transizione ordinata a Palazzo Chigi. Indicando il successore – il ministro dell’Economia Daniele Franco rimane la prima opzione – e chiudendo una sorta di patto anche su modalità e tempistiche (va evitato un rimpasto largo, un evidente rischio). Può bastare? La risposta più diffusa è ancora quella: no. Perché nelle condizioni attuali la maggior parte dei parlamentari farebbe ancora muro. Rendendo un’utopia eleggere Draghi nelle prime tre chiame, cioè con una maggioranza dei due terzi degli aventi diritto, di fatto un plebiscito. “Ci si potrebbe lavorare per la quarta chiama…” cominciano a sussurrare in Parlamento. Ma Draghi accetterebbe qualcosa di diverso da un’incoronazione? Non solo. I partiti accetterebbero di trovarsi per sette anni al Colle una figura così forte anche a livello internazionale? “Già oggi quasi ignora il Parlamento, e dovremmo tenercelo lì per sette anni?” sibila un grillino che conta. E l’ostilità alla sua elezione di big del Pd come Dario Franceschini e – in parte – Lorenzo Guerini nasce innanzitutto da quei timori, che fanno rima con ostacoli.

Però a favore del premier ci sono anche altri fattori. Primo tra tutti, ed è un paradosso molto italiano, la sensazione diffusa che questo governo di quasi tutti non reggerebbe ugualmente, anche se Draghi restasse dov’è. Per esempio, perché per Salvini rimanere ancora dentro fino al 2023 potrebbe essere faticosissimo. Lo si deduce, per inverso, dalle parole che lo stesso leader leghista ha adoperato un paio di giorni fa per sbarrare il passo al presidente del Consiglio (“Io faccio lo sforzo di stare col Pd e lui se ne va?”). Sillabe rispetto a cui ieri ha fatto marcia indietro: “Non metto veti nei confronti di nessuno” ha detto convocando un vertice con i leader del centrodestra la prossima settimana con Silvio Berlusconi. E può essere la conferma che Draghi è il candidato più accreditato. Da trattare con riguardo. Non è arduo prevedere come, nell’anno che precederà le Politiche, anche per uno come Draghi sarebbe molto più difficile tenere la barca a galla. “E allora tanto vale mandarlo al Quirinale, come garante e uomo di prestigio anche internazionale, e provare ad andare avanti almeno per qualche mese con qualcun altro” è il ragionamento contrario di alcuni veterani dei Palazzi. Tanto vale provare con Franco, o un altro nome poco divisivo, che provi a tirare avanti per l’ordinaria amministrazione.

Lucano, il giallo dei soldi dalle Cayman. Lui: “Di turisti che pranzarono a Riace”

Ci sono anche riferimenti a “paradisi fiscali” nella sentenza del Tribunale di Locri sul caso di Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace condannato a 13 anni e 2 mesi al termine del processo “Xenia” per associazione a delinquere e tutta una serie di reati contro la P.A. legati alla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti. Nelle oltre 900 pagine il presidente Fulvio Accurso ha citato due volte le “isole Cayman”, ricordando che si tratta di un “noto paradiso fiscale” e adombrando che l’associazione “Città Futura” ha ricevuto misteriosamente denaro da qualche società che si trova dall’altra parte del mondo.

Nel primo passaggio della sentenza, a pagina 97, il giudice di Locri contesta a Lucano di aver “pervicacemente taciuto sulle motivazioni per le quali l’associazione Città Futura, che egli aveva contribuito a costituire e di cui era dominus indiscusso, seppure nell’ombra, riceveva ogni mese un cospicuo bonifico dalle isole Cayman (noto paradiso fiscale), rimasto privo di ogni giustificazione”.

Una frase forte che lascia dubbi sul denaro in entrata nel conto corrente dell’associazione che si occupava di migranti. Ulteriori spiegazioni arrivano a pagina 618, dove il Tribunale ricorda il prospetto della Guardia di finanza che riporta l’estratto conto di “Città Futura” dal 2014 al 2018. “Risultano modesti importi – si legge – donati alla suddetta associazione da contributori privati (tra cui Emergency) e da cui emergono anche sospetti bonifici giunti a Città Futura dalle isole Cayman (noti paradisi fiscali), con importi mensili che si aggirano tra le 700 e 800 euro”.

Ma il Tribunale va ancora oltre bacchettando il pm che “bonariamente” ha considerato quei soldi privati come “donazioni”. Soldi su cui, però, “né l’ex sindaco di Riace, né Capone (Tonino, il presidente di Città Futura, ndr) hanno inteso fornire alcun chiarimento”.

In realtà l’ex sindaco non poteva rispondere nel merito. Durante il processo, infatti, ha reso dichiarazioni spontanee due volte, il 10 luglio e il 12 novembre 2019, molto prima che il pm depositasse in aula quell’estratto conto di “Città Futura” dove compaiono i “bonifici delle isole Cayman” che, lo stesso pubblico ministero il 17 maggio 2021 ha definito “donazioni lecite”.

Tutto parte da una nota della Guardia di finanza depositata in Procura a Locri il 7 aprile 2021, pochi giorni prima che il Tribunale chiudesse l’istruttoria dibattimentale. Una breve informativa in cui compaiono “le movimentazioni in entrata” dal 2014 al 2018. Basta una lettura e gli “importi mensili” diventano 8 bonifici provenienti dalla “Gccl (Cayman) Fleet Mgmt Ltd” per un totale di 6192 euro, ricevuti dal maggio a novembre 2017. “Donazioni lecite” per il pm. “Sospetti bonifici” per il Tribunale.

“Io non so nemmeno dove sono le isole Cayman”. Raggiunto telefonicamente, Mimmo Lucano ci spiega che quello è il conto di Città Futura e non il suo: “Ma comunque dietro quei pagamenti non c’è nessun mistero. Se i giudici me l’avessero chiesto gliel’avrei detto”. “Nel 2017 – spiega – a Riace sono arrivati molti turisti dagli Stati Uniti. Erano comitive di 40-50 persone che per un periodo, ogni mese, venivano a Riace e volevano incontrare me per farsi raccontare la storia del nostro modello di accoglienza. C’era un tour operator che organizzava queste visite. I turisti americani arrivavano con la nave al porto di Roccella e poi con il pullman raggiungevano Riace. Non essendoci ristoranti nel borgo, si fermavano a pranzare alla taverna ‘Donna Rosa’ dove l’associazione Città Futura dava la possibilità agli ospiti di mangiare qualcosa pagando solo le spese per l’acquisto del cibo. Prima di andare via, l’organizzatore pagava con un bonifico”. “Oggi il Tribunale – conclude – scrive di paradisi fiscali. Loro sanno benissimo che le somme sono tutte lecite e le inseriscono lo stesso per denigrarmi”.

Da una ricerca sul web sulla “Gccl (Cayman) Fleet Mgmt Ltd” riporta al sito della “Travel Agent Central”, che organizza crociere che passano dalla Calabria. Un tour operator che nel 2017 ai turisti proponeva viaggi della “Grand Circle Cruise Line” che usava come tour operator la “Gccl (Cayman) Fleet Mgmt Ltd”, e che tra le tappe italiane aveva inserito Riace.