Ma quale revoca: infetti ancora in giro con il Pass valido

Ha 24 anni, lavora in un noto ristorante del centro di Roma. “Martedì il cuoco ci dice: ‘Mi sento strano’. Fa un tampone rapido ed è positivo. Prende la giacca e va a casa”. Il titolare chiude il ristorante. “Ha anche avvertito la Asl”, spiega il giovane, che chiameremo Giovanni. È vaccinato con due dosi ma il giorno dopo sta male: “Mi è venuta la febbre, non sentivo i sapori e giovedì ho fatto un tampone rapido anch’io: positivo. In teoria serve la conferma del molecolare, l’ho fatto privato a domicilio per non uscire di casa: mi è costato una piotta e sto aspettando il risultato. Ma il mio medico ha detto che bastava l’antigenico, ha confermato che è Covid e l’ha comunicato alla Asl”, che è sempre Roma 1. Sono positivi anche altri colleghi, non è l’unico cluster nei ristoranti romani. “E non riusciamo ad avvisare tutti i clienti perché non prendiamo più nomi e numeri telefonici, non siamo tenuti a farlo”, racconta. Però Giovanni, in quarantena da martedì 14 per il contatto con il cuoco e positivo da giovedì 16, fino a ieri pomeriggio aveva ancora un Green pass, anzi un Super green pass, perfettamente valido: l’abbiamo verificato con l’app C-19 del ministero della Salute. Se volesse, potrebbe andare a cena in un altro ristorante, superare i controlli e infettare tutti.

Com’è possibile? Forse la farmacia del quartiere Montesacro che ha fatto il test antigenico non l’ha caricato sulla tessera sanitaria, come è tenuta a fare anche con quelli positivi che danno diritto al Green pass (base) per i non vaccinati? “Sarebbe strano, mi hanno chiesto la tessera e hanno registrato tutto…”. E la segnalazione l’ha fatta anche il medico di famiglia, oltre al datore di lavoro. “Noi non riusciamo a tracciare tutti i positivi, molti ci scappano – spiegano dalla Asl Roma 1 –. Qui però non dipende da noi, i tamponi dovrebbero andare in automatico sulla piattaforma Ts, quella della tessera sanitaria”.

Sarà che il tampone di Giovanni, oltre che antigenico, è troppo recente? Non sembra. La presidente Pd dell’Assemblea capitolina, Svetlana Celli, ieri aveva un Super green pass valido nonostante sia positiva al Covid dall’11 dicembre, con tanto di terza dose: “Avevo la febbre – racconta Celli – e ho fatto il tampone molecolare al Campus biomedico. I miei genitori sono stati in isolamento ma per fortuna erano negativi e hanno ricevuto la comunicazione che potevano scaricare il nuovo pass. La manderanno anche a me se, come spero, sarò negativa il 21”, dice la presidente del Consiglio comunale di Roma. Probabile ma del tutto superfluo mancando la revoca del vecchio certificato verde.

Fino a ieri C-19 non registrava neppure contagi più risalenti: lasciapassare regolare per un’insegnante romana, positiva dall’8 dicembre con tampone molecolare della Asl. È stato invece revocato il pass di suo figlio, pure contagiato: “Forse il pediatra è stato più efficiente del mio medico?”. Difficile anche quello, dovrebbe bastare la registrazione del tampone. Sembra tutto casuale. “Servirebbe un campione statisticamente affidabile”, suggerisce Celli. Il nostro certamente non lo è: un pass revocato e tre no. Nessuno di loro si azzarderebbe ad andare in giro ma, se lo facessero, i loro Qr code darebbero luce verde.

Il problema era noto, i ministeri della Salute e dell’Innovazione ci hanno lavorato con la Sogei e ieri sulla Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il Dpcm che ri-disciplina la revoca del Green pass per intervenuta positività, la sua comunicazione al sistema europeo Gateway e l’annullamento della revoca erronea. Le regole di base erano già nell’allegato B al Dpcm del 12 ottobre. Non sono bastate. Magari stavolta basteranno.

Italia, Capodanno in pericolo Europa, panico da Omicron

Ora anche il governo italiano ha paura. L’aumento repentino dei contagi in pochi giorni e la drammatica situazione internazionale hanno portato il presidente del Consiglio Mario Draghi a prendere delle contromisure proprio alla vigilia delle festività: il 23 dicembre il premier ha convocato una cabina di regia in vista delle festività natalizie.

Di certo non c’è ancora niente e quelle che girano in queste ore sono ipotesi allo studio. Resta però il fatto che da Palazzo Chigi filtra “forte preoccupazione” per i dati sanitari in vista degli inevitabili assembramenti che si verranno a creare durante cenoni e feste in famiglia. E quindi, con la convocazione della Cabina di regia, Draghi ha voluto dare un segnale agli italiani. Come dire: cautela, rispettate le regole e soprattutto fate la terza dose il prima possibile. Nel frattempo l’obiettivo è quello di fare un flash survey o “analisi lampo” (come l’ha definita il ministro della Sanità Roberto Speranza) per valutare la prevalenza della variante Omicron in Italia che sarà svolta lunedì: mercoledì si valuteranno contagi, ricoveri, stress degli ospedali e situazione internazionale e poi si deciderà. La nuova stretta, però, a meno di novità dell’ultima ora, non dovrebbe riguardare il weekend di Natale ma potrebbe iniziare da lunedì 26.

Le misure su cui si sta riflettendo sono tre. In primis, il governo sta studiando di accorciare la durata del Green pass da 9 a 6 mesi o addirittura a 5. Ma questo nel caso in cui venisse data la possibilità ai vaccinati over 60 di fare la terza dose a partire dal terzo mese di distanza dalla seconda. Una decisione su cui però servirebbe il “via libera” dell’Aifa. La seconda ipotesi è quella di introdurre l’obbligo del tampone per alcuni luoghi ed eventi particolarmente affollati, come cinema e teatro, e la mascherina all’aperto. La paura è soprattutto per i cenoni e gli eventi al chiuso tipici delle festività natalizie. Infine tra Palazzo Chigi e il ministero della Salute si sta valutando l’obbligo vaccinale per i lavoratori a contatto con il pubblico. L’imposizione oggi vale già per il personale sanitario, scolastico e forze dell’ordine.

Ieri, intanto, 28.064 nuovi contagi (venerdì erano stati 28.632) con un tasso di positività su quasi 700 mila tamponi al 4%. Ancora 120 i morti, 92 nuovi ingressi in rianimazione (+30 il saldo di occupazione posti letto in terapia intensiva nelle ultime 24 ore) e casi Omicron accertati a quota 84.

E che l’Europa sia in piena fase da panico Omicron lo dimostra la Gran Bretagna (ieri altri 90 mila contagi, 10 mila dei quali della nuova variante) patria del laissez faire che invece si prepara a reintrodurre misure piuttosto drastiche. Il governo starebbe elaborando un piano per un ipotetico lockdown di due settimane dopo Natale, che includerebbe il divieto di riunioni al chiuso tranne che per motivi di lavoro e la limitazione del servizio per pub e ristoranti solo all’esterno. Lo riferisce The Times, spiegando che le misure sarebbero un circuit breaker, ossia un tentativo di frenare la diffusione di Omicron. Secondo la testata, tuttavia, il premier Boris Johnson non avrebbe ancora approvato il piano e non intende chiudere. Il Financial Times riferisce che a Johnson sono state presentate una serie di opzioni per un cosiddetto ‘Piano C’, che vanno “da linee guida blande” fino al lockdown. Intanto la Bbc ha riferito che il comitato di esperti Sage (Scientific Advisory Group for Emergencies), in una riunione tenutasi giovedì e di cui l’emittente ha potuto visionare i verbali, ha affermato che in Inghilterra è necessario adottare al più presto misure più restrittive.

Chi il lockdown lo ha già deciso è il governo dei Paesi Bassi, mentre da domani in Austria (fatta eccezione per i lavoratori transfrontalieri) si potrà entrare solo se in possesso di un Green pass che attesti tre dosi di vaccino. I vaccinati con due (e ovviamente i non vaccinati) dovranno presentare un tampone negativo. Tampone che la Francia, in linea con le dichiarazioni di venerdì del premier Macron, sembra apertamente sconfessare. Dall’inizio dell’anno il Pass sanitaire sarà rilasciato ai soli vaccinati.

Figliuolo e i test nelle scuole: i “nostri” non sono arrivati

Quando ai primi di dicembre erano emerse la difficoltà delle aziende sanitarie di assicurare rapidamente l’attività di testing nelle scuole – e di queste ultime di garantire altrettanto rapidamente il tracciamento dei contatti – il commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo aveva messo a punto l’idea di supportare le Asl con undici laboratori di biologia molecolare e due unità mobili della Difesa per processare i tamponi. Era il piano per evitare la capitolazione della didattica in presenza di fronte alla quarta ondata. Con laboratori pronti a entrare in azione celermente nel Nord e nel Sud del Paese, da Milano a Taranto. E con un susseguirsi di titoli sui giornali sull’esercito in soccorso delle scuole.

Di quel piano, però, per ora non si vede alcun risultato. Non, almeno, secondo i dirigenti scolastici. Lapidario Antonio Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale dei presidi: “Attendiamo ancora di vedere gli esiti dell’intervento delle forze messe in campo dal generale Figliuolo”. Giannelli, quando Figliuolo aveva promesso i rinforzi, si era augurato che “potessero servire a qualcosa”. Invece no. “Ci saremmo aspettati – dice ora – una rapida inversione di tendenza in termini di efficienza delle aziende sanitarie e di efficacia della campagna di testing e di tracing, operazioni che dovrebbero garantire la scuola in presenza. Come testimoniano i colleghi sul campo, al momento non sembrano esserci significative novità in questo senso. I problemi restano gli stessi”.

Che sia proprio la scuola uno fronti più esposti al Covid-19 ancora una volta lo dimostrano i numeri del monitoraggio settimanale della cabina di regia. Le fasce di età che registrano i più alti tassi di incidenza settimanali per 100.000 abitanti sono quelle pediatriche e dei ragazzi (324 fino ai 9 anni e 302 tra i 10-19), insieme a quelle tra 30 e 49 anni (215 nuovi contagi tra i 30 e i 39 anni, 243 nella fascia 40-49).

Lo strumento principale per combattere l’epidemia resta quello della vaccinazione. Ma i dati sulle somministrazioni ai bambini tra i 5 e gli 11 anni sono deludenti, la campagna vaccinale procede molto lentamente come emerge dal report settimanale, aggiornato all’altro ieri, della stessa struttura commissariale.

Fino ad ora solo 15.066 bimbi sono stati vaccinati, su una platea potenziale di 3,6 milioni di vaccinabili. Vale a dire lo 0,42%. Mentre le prenotazioni languono. Ma c’è di più. Alcune Regioni avevano chiesto a Figliuolo unità del personale dell’esercito per supportare non solo l’organizzazione degli hub vaccinali ma anche l’attività di tracciamento dei contatti e dell’esecuzione e del processamento dei tamponi. Lo ha fatto il Piemonte, chiedendo alla struttura almeno due squadre vaccinali per coadiuvare il personale sanitario impegnato anche nella somministrazione della terza dose, il booster. Lo ha fatto anche l’Emilia-Romagna, che ha bisogno di aiuto per i tamponi e per il contact tracing e ha chiesto 120 persone, ricevendo garanzie per “due unità destinate alla Asl Romagna, tre a Imola e tre a Bologna”. Quindi 5 persone. Non tutte le Regioni hanno chiesto un supporto. Sia la Campania sia il Lazio, per esempio, ritengono di poter far fronte all’emergenza con il personale delle proprie aziende sanitarie. Ma altre si stanno mettendo in fila per programmare incontri con la struttura commissariale. Obiettivo: verificare se possono essere affiancate dall’esercito. Con quale esito, a questo punto, è difficile da prevedere.

Vaccate di Natale

“Un piano per salvare il Natale” (Repubblica), “Arriva il Dpcm per salvare il Natale” (Fatto), “Sacrifici per salvare il Natale” (Messaggero), ”Vogliono rubarci il Natale” (Verità), “Un Natale con poche aperture” (Corriere), “Giù le mani dalla nostra festa” (Panarari, Stampa), “Salvateci almeno il Natale” (Sorgi, Stampa), “Natale come agosto” (Giornale), “Il premier sul Natale: ‘Baci e abbracci sono impensabili’” (Corriere), “Tregua di Natale sulle chiusure” (Rep), “Chiusure, la tregua di Natale” (Messaggero), “Feste e distanziamento: che tristezza il non Natale” (Battista, Corriere), “Quei riti di Natale restano un diritto per tutti i bambini” (Ajello, Messaggero), “I governatori tentano di salvare il Pil di Natale” (Stampa), “Pretendono di dare ordini pure a Gesù Bambino” (Farina, Libero). No, non sono i titoli di oggi: sono di un anno fa, quando il premier non era un Migliore, i giornali di destra erano ancora negazionisti, lo accusavano di rubarci il Natale e tifavano per la crisi di governo in piena seconda ondata, mentre ora tifano per la stabilità in piena quarta ondata.

Oggi per fortuna siamo tutti Migliori: infatti abbiamo l’88% di over 12 vaccinati e più contagiati di un anno fa, quando avevamo zero vaccinati e i contagi in picchiata, mentre ora sono in spaventosa salita. Eppure Corriere e Stampa titolano: “Corsa per salvare il Natale” e “Natale, ipotesi lockdown per i No Vax”. Corsa e ipotesi di chi? Del premier Migliore che a ottobre disse: “Col Green pass i cittadini possono svolgere attività con la garanzia di ritrovarsi tra persone non contagiose”. E a novembre garantì col Super Green pass “un Natale normale, diverso dall’ultimo”, ma solo “per i vaccinati”. Poi, con calma, ha scoperto che anche i vaccinati possono infettarsi e infettare perché il vaccino non protegge dal contagio, ma solo dalle forme gravi e mortali: se anche sparissero tutti i No vax, il Covid galopperebbe comunque, vedi i paesi più vaccinati del nostro (noti a tutti fuorché all’Economist). Infatti ora il Migliore dei Migliori fa il tampone ai vaccinati che – italiani o stranieri – entrano in Italia, senza spiegare perché mai sarebbero più insidiosi dei vaccinati che non escono dall’Italia. Anzi, è molto probabile che un vaccinato straniero sia meno pericoloso di uno italiano, visto che continuiamo a non revocare il Green pass ai vaccinati contagiati. Il che spiega il no di Macron e Scholz ai tamponi alla frontiera, che purtroppo spazza via mesi di titoloni sugli “assi” Draghi-Macron e Draghi- Scholz e su quell’“Oltre un minuto di stretta di mano: amicizia fraterna” fra Super Mario e Super Emmanuel (60 secondi per il Corriere, 12 per la Questura). Dubbio atroce: non è che Macron quella mano gliela voleva amputare?

La bella scuola che fu di zia Ebe riabilita il classismo e fa fuori don Milani

Ha una scrittura godibile il libro di Paola Mastracola e Luca Ricolfi, si legge di filato e anche con piacere. Tanti sono i riferimenti alla propria storia personale, alle medie del 1962, al liceo classico, all’università. È questa l’unica nota positiva del volume che, proprio mentre sviluppa le caratteristiche di una biografia scolastica, smentisce clamorosamente quanto invece viene annunciato: per spiegare lo “sbaglio enorme” che giustifica i mali della scuola italiana, infatti, si parte da un saggio di Mastracola sulla diseguaglianza scolastica, scritto nel 2017, in cui si avanzava una “ipotesi spiazzante” che l’altro, Ricolfi, controlla “attraverso i dati e i modelli matematici, e dopo tre anni la conferma”. Solo che di dati e di modelli matematici se ne leggono pochi, le conferme avvengono attraverso la propria esperienza personale. Come quella che “zia Ebe” fece fare al fratello di Ricolfi, un salto di un anno alle elementari per evitare di iscriversi alla scuola media unificata post-riforma del 1962.

Qui c’è il succo del libro: una volta si studiava sul serio, si corrispondeva al “dovere” di studiare, si “stava sempre all’erta”. Poi è arrivata la “democratizzazione”, la “mentalità progressista” che non si cura della preparazione rigida per fare spazio ai ceti popolari. E quindi si arriva alla “catastrofe”. L’avvertenza dice che il libro non è classista, ma in realtà ripropone il bel tempo che fu della scuola riservata a un ceto medio e che proprio negli anni 60 vede irrompere le classi popolari, quelle di cui Ricolfi mostra una fifa blu in ogni riga dei suoi ricordi. Non a caso a uscire strapazzato dal libro è don Milani e la sua idea di una formazione che “non umiliasse gli umili”. Questo testo vuole essere un vademecum per il nuovo progressismo che, anestetizzato dall’ossimoro, si rifugia nella conservazione di un passato. Che però, dispiacerà ai due autori, si giocava tutto all’insegna della scuola di classe.

Il danno scolastico, Paola Mastracola e Luca Ricolfi – Editore: La nave di Teseo

 

“Scrivo per soldi: devo comprare un cavallo”

Inutile cercare, lungo la mappa del Mississippi, la contea di Yoknapatawpha. Non esiste. O meglio, esiste ma solo dentro le pagine di William Faulkner. La capitale di carta, Jefferson, riecheggia la reale Oxford, contea di Lafayette, dove l’autore visse da ragazzo. Un luogo immaginario, come la Macondo di Cent’anni di solitudine, che nella cultura americana è sempre seminale. Basti pensare ai debiti di ispirazione che si rintracciano nella Louisiana della serie tv True Detective.

A inaugurare il gotico sudista di Yoknapatawpha è Sartoris, la cui prima edizione nel 1929 esce mutilata da tagli. Grazie alla traduzione di Carlo Prosperi, il romanzo ritorna in libreria per La nave di Teseo nella sua versione integrale sotto il titolo Bandiere nella polvere. È la storia di una famiglia che, incapace di raccogliere il seme eroico del patriarca John, dopo la Grande guerra va letteralmente in frantumi. Faulkner non rimesta troppo nella fabula perché il personaggio di John Sartoris è ricalcato sul suo bisnonno, colonnello nella guerra di Secessione e autore di best-seller alla fine dell’Ottocento.

Se la vocazione letteraria galleggia nel sangue per via ereditaria, è altrettanto vero che per l’autore Usa scrivere è una sfida perenne contro un destino che lo vuole imbianchino, spalatore di carbone, commesso di libreria. Javier Marías lo immortala in questo ritratto: “Spendeva rapidamente quello che guadagnava, poi viveva a credito per un certo periodo, fino a quando arrivava un nuovo assegno. Saldava i debiti e tornava a spendere, soprattutto in cavalli, tabacco e whisky”. Temperamento a tal punto schivo che, dopo il Nobel conquistato nel 1949, a una festa a Parigi data in suo onore dall’editore, dopo ogni domanda di un giornalista risponde in maniera sommaria e fa un passo indietro. Alla fine, passo dopo passo, si ritrova contro il muro, e soltanto allora i giornalisti smettono di tormentarlo.

Autodidatta e lettore disordinato, è grazie a Sherwood Anderson che nel 1926 debutta con La paga del soldato, parabola di un reduce di guerra che il pubblico ignora. Così come ignora i successivi Zanzare, cronaca divertita di un gruppo di letterati, e Mentre morivo (scritto nei turni di notte da fuochista in una centrale elettrica): viaggio di un padre e cinque figli per seppellire la madre che si trasforma in una rancorosa resa dei conti familiare. I lettori si accorgono della penna di Faulkner con Santuario, storia di un gruppo di sbandati guidati dal capobanda Popeye, sconvolti dall’irruzione nelle loro vite della studentessa Temple. Un intreccio torbido che diventa il suo maggiore successo commerciale. Faulkner lo scrive per denaro: “Ne avevo bisogno per comprare un buon cavallo”. Altro tassello è Luce d’agosto, che segue una ragazza incinta alla ricerca del padre del proprio figlio.

Ma è qualche anno prima, nel 1929 della Grande depressione, che l’autore si conquista la sua fetta d’immortalità. L’urlo e il furore è il capolavoro che definisce “il mio splendido fallimento”. C’è il crollo dell’aristocrazia di provincia, la fine di un mondo amato e odiato nella storia della famiglia Compson, con i suoi segreti e i suoi peccati. Una tragedia raccontata attraverso la voce interiore di diversi personaggi, con i rispettivi punti di vista che si sovrappongono in un flusso di coscienza debitore dell’Ulisse di Joyce. Tre fratelli, tra cui il minorato mentale Benjamin, irretiti da Caddy, la sorella sensuale e libera, che abita le loro fantasie fino a conseguenze tragiche. Nessuna bussola per orientarsi in un labirinto di cambi di prospettiva e di salti temporali, quasi che Faulkner ingaggiasse una tacita competizione intellettuale con il lettore. Quando una trombosi lo uccide nel 1962 lo piange anche il mondo del cinema. Mai amata Hollywood ma le sceneggiature gli consentono di guadagnare. Il trattamento più celebre è quello per Il grande sonno, ricavato dal romanzo di Chandler, con protagonista Humphrey Bogart, che diventa suo grande amico e compagno di sbronze. Hollywood è tanto infingarda che nel 1944 gli capita, fatale scherzo del destino, di tramutare in uno script Avere e non avere dell’arciodiato Hemingway. Una biografia invero memorabile per “un uomo di campagna che ama i libri”.

Gerber, l’ipnotista di Carrisi: i misteri della mente fanno più paura del sangue

Cosa c’è di più claustrofobico di una mente umana, peggio ancora se è quella di un bambino, ancora non corrotta dall’esperienza adulta? Dice il signor B: “La nostra mente è molto più potente della nostra coscienza”. Pietro Gerber è il figlio del signor B. Un figlio d’arte, se così vogliamo definirlo. Gerber fa l’addormentatore di bambini. È un ipnotista di Firenze che va in aiuto della giustizia quando è il momento. E stavolta nel suo studio in soffitta arriva un caso ai limiti del credibile: il dodicenne Nico. Siamo a febbraio del ’21 e il ragazzino era scomparso in un bosco nel giugno del ’20. Lui e la madre, entrambi albanesi, vivevano raminghi e poveri in un’auto. Una ruota bucata lungo un sentiero della Valle dell’Inferno e poi il nulla.

Otto mesi dopo, Nico viene ritrovato sempre da quelle parti da un’ottuagenaria allevatrice di cavalli insonne. Nico non ha segni di violenza. Anzi, è vestito normalmente e appare ben nutrito. L’anomalia è nello sguardo: il dodicenne non sbatte mai le palpebre, come se fosse in trance, e non parla. Così tocca a Gerber, che già di suo è provato dalla separazione con la moglie a causa di una precedente inchiesta (La casa delle voci, 2019). L’ipnotista entra nella mente di Nico ma trova una sorpresa: il ragazzino non racconta la propria storia ma quella del suo rapitore, che Gerber chiama “l’affabulatore”. Quest’ultimo ha il controllo totale della situazione e organizza persino una caccia al tesoro in cui nasconde gli “inneschi” per far parlare Nico nelle sedute con Gerber. Il thriller è un duello angosciante tra la realtà e la mente, tipico dei grandi successi di Carrisi, dove l’esplorazione di traumi e choc fa più paura di un omicidio. Sul serio.

La casa senza ricordi Donato Carrisi – Editore: Longanesi

 

O’Brien, anonima come la Ferrante. Ma schizofrenica

Se ad abbatterci non sarà un missile intercontinentale, sarà la schizofrenia, sosteneva Barbara O’Brien che nel 1958 pubblicò Operatori e Cose. Confessioni di una schizofrenica, sua unica opera nota, memoir ora edito da Adelphi. Una vera chicca.

Di lei si sa poco e niente, in stile Elena Ferrante: il nome è uno pseudonimo, è una donna creativa, indipendente, dotata di senso morale e umorismo e “si è perfettamente ristabilita e vive vicino a Los Angeles”. Ecco tutto. Sarà poi vero? Ma che importa dei dettagli privati se l’opera parla da sé?

La schizofrenia si manifesta in O’Brien in maniera inaspettata. “Una mattina, in un periodo di grande tensione personale e conflitto interiore, svegliandomi trovai accanto al letto tre figure grigie e quasi evanescenti”. Un adolescente di bell’aspetto, un anziano solido e imponente, un tizio strambo dai capelli lunghi e neri col corpo “floscio”. Sono gli Operatori del titolo, esseri umani, frutto di allucinazione, capaci di esplorare e influenzare la mente altrui, assetati di potere mentre le Cose, impotenti, siamo noi. Non accade forse di continuo che scelte e pensieri, nostri e altrui, siano manipolati o pilotati da qualcosa che agisce da “fuori” per modificare ciò che sta “dentro”? Capita, talvolta, di non rendersene neanche conto.

O’Brien guarisce dopo sei mesi, senza interventi esterni, caso più unico che raro, e procede alla narrazione del suo graduale ristabilirsi. Ma la causa? Probabilmente lo stress accumulato in un’azienda in cui arrivismo, competizione sleale e ritmi alienanti mandano in tilt soprattutto chi, come lei, fatica ad adattarsi, piegarsi, annullarsi o non ha le spalle abbastanza larghe per resistere a un sistema che schiaccia.

La schizofrenia può manifestarsi in chiunque ma vien spontaneo ipotizzare che la genialità sia un’aggravante. Persone come Van Gogh, Munch, Woolf, Poe, Einstein ne soffrivano. Dalla follia pare scaturire il genio che diventa a sua volta strumento per sedare il “demone al comando”. Se O’Brien non fosse diventata schizofrenica non avrebbe forse scritto, chi lo sa. Di certo, dice lei, c’è che dopo aver mollato il posto di lavoro, cambiando radicalmente ritmo e stile di vita, scopre il potere terapeutico della scrittura, pulsante da premere per dar forma al caos.

Nella postfazione lo psicoanalista e antropologo americano esperto di leadership Michael Maccoby sottolinea un dettaglio importante: è probabile che O’Brien pensasse che il dramma messo in scena dal suo inconscio fosse un tentativo di salvarla dall’insostenibile, idea che conferma l’ipotesi di Freud secondo cui il meccanismo allucinatorio/isterico è un tentativo di guarigione, non la malattia stessa. Le sue allucinazioni, poi, non sono dèi e diavoli ricorrenti in altre epoche, “ma gli orrori dell’Uomo inserito nell’Azienda, reazioni a quelle forze che nel lavoro bloccano ogni tentativo di creatività e di godere di un rapporto di fiducia con gli altri”.

Nel mondo di O’Brien le persone creative sono infatti arpionate da un “uncino” e quelle che si fidano sono fatte fuori. A spaventare è l’orrorifica attualità dello scritto, specchio del nostro presente, oltre al fatto che, a ben pensarci, la linea che separa sanità e follia è spesso così sottile da essere quasi invisibile.

Operatori e Cose Barbara O’Brien – Editore: Adelphi

Premi Ubu à la page tra Amlet# e Tiresi#, ma il teatro perde 10 mln di spettatori

E poi dicono che il Teatro non è à la page: la 43esima edizione dei Premi Ubu conferma che l’arte scritta sull’acqua si adegua alla corrente. Migliore spettacolo dell’anno è Hamlet di Antonio Latella (produzione Piccolo Teatro), un Amlet# donna – Federica Rosellini, Miglior attrice under 35 – che, per citare il regista, “possiede il dono artistico dell’ambiguità, perché l’Hamlet del XXI secolo va oltre la sessualità, oltre la distinzione donna-uomo”. Anche l’altra pièce “ambigua” in corsa fa incetta di blasoni: è Tiresias, l’indovino che è stato per sette anni donna, da Kae Tempest, che una volta era donna. Messo in scena da Giorgina Pi (BlueMotion-Collettivo “Angelo Mai”), lo spettacolo ha vinto in tre categorie: Miglior attore (Gabriele Portoghese), progetto sonoro e nuovo testo straniero. Miglior attrice è Manuela Lo Sicco per Misericordia di Emma Dante, mentre miglior interprete under 35 Francesco Alberici, classe 1988, la stessa del Miglior regista Fabio Condemi, celebrato per La filosofia nel boudoir dal marchese De Sade. Ecco, questo non molto à la page.

In tutto 22 – 16 più sei speciali –, gli Ubu sono stati consegnati lunedì al Cocoricò di Riccione, ma non basta l’atmosfera garrula della discoteca e la verve frizzantina della conduttrice Chiara Francini per rianimare un settore in crisi d’ossigeno. Al solito, i premi sembrano più degli spettatori: se prima del Covid andava a teatro solo il 19 per cento degli italiani (dai 6 anni in su, cioè compresi i “deportati” delle scuole), nel 2020 gli ingressi sono diminuiti del 70,4 per cento con una perdita di 10 milioni di spettatori.

Al solito/2, gli spettacoli sembrano più degli addetti ai lavori: la rosa dei critici degli Ubu ne ha censiti ben 732 in due anni, dal settembre 2019 al settembre 2021, compresa la chiusura pandemica e conteggiando qualche iniziativa in streaming: sono 366 nuovi titoli all’anno, cioè più debutti che giornate. Lockdown compreso: c’è qualcosa che non torna.

 

Pasolini in Villa: che scatti sul set

Millenovecentosettantatré, Esfahan, Persia, Pier Paolo Pasolini sosteneva che il cinema è “il linguaggio della realtà”, Roberto Villa, fotografo al seguito de Il fiore delle Mille e una notte, che “è solo un linguaggio”: la singolar tenzone venne risolta da uno scatto.

Appassionato di linguistica e audiovisivi e fotografo professionista, Villa non era quello di scena ufficiale, ma uno spirito – e un occhio – libero sul set itinerante, dall’Italia all’Eritrea, dallo Yemen al Nepal, passando per l’Iran, del capitolo conclusivo della Trilogia della vita di PPP. Il Fiore è “l’unico film di Pier Paolo che si concluda felicemente, e non a caso è calato in un mondo non cristiano, non cattolico, non occidentale”, rileva Roberto Chiesi del Centro Studi e Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna. Entrando in quell’universo, “Villa guardò, osservò, contemplò e dedicò un’attenzione avida all’umanità che gli formicolava intorno”. Ne venne un mosaico di migliaia di fotografie, bambini e cammelli, edifici e occhi, epifanie e nascondimenti, ovvero “tutto il mondo di dignità e miseria umana che Pasolini amava oltre ogni limite”. A partire dal sesso che – il regista promise al reporter – sarebbe stato nel Fiore “mille volte quello che è comparso nei miei lavori. Un sesso felice, gioioso. Voglio la stessa libertà d’espressione dei vari Decameroticus”.

La messa in scena si trasformò – basti ricordare la schiava Barbara Grandi, vittima predestinata del Demone, doviziosamente ripresa da Villa – in messa a nudo, ovvero strumento politico: “Usare il sesso per raccontare non offende solamente la vuota retorica di uno sclerotico sistema borghese, ma la vuotezza ideologica di coloro che borghesemente si comportano al di là della loro appartenenza di classe”, in primis i “proletari fascisti”.

Di qui il cambio di bussola, lo slittamento longitudinale, la tensione per il sole che sorge: Gli Orienti di Pier Paolo Pasolini. Sottotitolo “Il fiore delle Mille e una notte – Viaggio fotografico di Roberto Villa nel cinema pasoliniano”, il libro per i tipi di Nfc edizioni dà contezza, seppur parziale, di un reportage lungo tre mesi e mezzo e largo dalla Persia dello scià Reza Pahlavi fino alla Yemen già allora in guerra.

Il primo esegeta fu lo stesso Pier Paolo: “Tu Roberto sei stato il regista e io l’attore che non sapevo di essere”. Da molti decenni – e dalla primigenia sistematizzazione nella mostra alla Cineteca di Bologna del 2011 – il lavoro di Villa s’è preso spazio e tempo, riverberando foto per foto una imago mundi sociologica e antropologica, superstite e incantata. Sopra tutto, pasoliniana: “Io amo quel mondo ma senza nostalgia. Lo amo – commentava Pier Paolo nel 1974 – per quello che è ancora e lo amo per quello che è adesso e temo che cambi”. Rimane su pellicola il direttore della fotografia Giuseppe Ruzzolini che a Ta’izz, Yemen, prende le misure per il movimento di macchina tra i due amanti, la schiava Grandi e Shahzamàn Alberto Argentino, rimane su pellicola Pasolini che al “sì, anche il cinema è una finzione” di Villa depone le armi, ossia il privilegio della realtà avocato al cinema, guarda in macchina, stavolta fotografica, e sorride come mai più. Gli Orienti di Pier Paolo Pasolini verrà presentato a marzo 2022 presso la Casa del Cinema di Roma insieme a una selezione degli scatti di Roberto Villa.