Il contadino Jeremy, dai bolidi al trattore “capriccioso”

Prendi uno stralunato sessantenne nato nello Yorkshire, in una zona rinomata “per la sua esagerazione dilagante”. Aggiungi che questo scavezzacollo fomentato di british humour e divenuto un fenomeno catodico per caso, dopo un incontro con un produttore della Bbc, venga da esperienze ben differenti. Nei suoi due docureality precedenti, considerati tra gli show televisivi più divertenti e potenti di tutti i tempi, Top Gear e The Grand Tour, Jeremy Clarkson faceva triangolo fisso con altri due maturi scapestrati come James May e Richard Hammond, e si lanciava in avventure picaresche in giro per il mondo a bordo di automobili fiammanti.

Questa volta invece è solo, anche se non ci metterà molto a socializzare con personaggi altrettanto pittoreschi. Qui è chiamato a vestire i panni del più inverosimile agricoltore della Gran Bretagna, ma non stiamo parlando di un Luca Sardella anglosassone.

Otto puntate su Prime Video, La fattoria Clarkson è una rapsodia di emozioni e sentimenti pan-ambientali senza bisogno di Greta, girata nella ostile campagna inglese. Un pianeta parallelo dove “il tasso di mortalità è venti volte superiore” agli altri lavoratori, all’ombra di una pandemia che lo coglie mentre stanno per nascergli alcuni agnellini. “Piantare il grano, e come si fa?”, si lamenta retoricamente all’inizio Clarkson; ma quel che conta è il viaggio, in questo caso non geografico ma iniziatico, antropologico. Eccolo alle prese con la scelta del trattore: propende per un mastodonte supertecnologico e capriccioso, che ha decine di marce e infidi pulsanti e “un attacco sbagliato, europeo”. Lo vediamo mentre cerca di montare l’erpice che fa ribollire la terra ed è alle prese con seminatrici e svendite campestri, greggi di pecore, pranzi del contadino, albe e tramonti, risate e il sole che inonda l’anima.

Ma il contrappasso alle glorie e fatiche di Ercole non si fa attendere: gli scoramenti, le afflizioni di una natura arcigna e insondabile. Unico dogma, “in agricoltura bisogna battere il ferro finché è caldo”. Tanto alla fine arriva sempre il momento del raccolto. Pollice alto e verde per questa Fattoria Clarkson, brillante, universale e agrodolce; e per il suo nuovo Jeremy.

“Il capo perfetto”: bieco ma a Bardem si perdona tutto

I dipendenti sono la sua famiglia, le stagiste le sue figlie, mentre “lavoro, equilibrio e fedeltà” il suo motto. Perché Blanco, proprietario di una storica fabbrica spagnola di bilance, ambisce al ruolo di imprenditore ideale, in altre parole a essere Il capo perfetto.

Così titola la versione italiana di El buen patròn, commedia nera ma luminosa di verità a firma di Fernando León de Aranoa che la Spagna ha indicato quale proprio concorrente ai prossimi Oscar in barba al blasonato Madres parallelas di Pedro Almodóvar. Del resto non è la prima volta che il regista madrileno “batte” in corsa il più noto e anziano collega manchego: accadeva nel 2003 quando i suoi Los lunes al sol (I lunedì al sole) lasciavano a casa l’iconico Hable con ella (Parla con lei) guadagnandosi a Hollywood la statuetta come migliore sceneggiatura. E se l’Academy decidesse di candidarlo nuovamente al medesimo premio non ci scandalizzeremmo, perché Il capo perfetto presenta una scrittura da manuale, un sofisticato modello del cinema di critica sociale che polverizza didascalie e pauperismo a favore dell’umorismo cinico, della sottrazione elegante, della purezza visiva e intelligenza interpretativa.

Controcampo dark dei soleggiati lunedì di quasi vent’anni fa, El buon patròn ritrova un Javier Bardem in stato di grazia nel ruolo di un protagonista seducente e manipolatore, la cui amoralità si traveste di affetto paterno verso ogni suo impiegato delle cui idiosincrasie si prende cura: dal vigilante poeta al capo-produzione depresso in crisi coniugale, passando per il licenziato barricadero e la stagista spregiudicata.

Con un record di candidature a 17 premi Goya – di cui molte saranno “trasformate” –, l’ottavo lungometraggio di Aranoa eleva l’oggetto “bilancia” a metafora esemplare della Giustizia i cui parametri, però, sono calcolati su equilibri che negano la “giustezza” fra gli interessi del padrone e quelli dei suoi dipendenti. Il tutto dissimulato in un sistema di apparente benevolenza del primo verso i secondi: in realtà ci troviamo in un dramma caustico travestito da commedia, con un carnefice che fa sorridere le sue vittime mentre ne annulla esistenza e dignità.

D’altra parte ciò che conta per la tribù dei “patrón” è, di fatto, appendere l’ennesimo premio di qualità sulla parete dei trofei, il meschino abbaglio di potere prodotto dal mondo delle feroci illusioni, dove tutti hanno qualcosa da perdere, sopra o “sotto” il piatto della bilancia.

Sottile, “orizzontale”, esilarante, beffardo, diretto e interpretato da un cast eccellente di cui Bardem è solo il capofila, il film di Aranoa ha la qualità cinematografica di soddisfare a pieno la sapiente mescolanza di generi su cui è costruito, informando con intelligenza i grandi temi della tragedia classica per rammentarci che senza l’eterna alternanza fra il Bene e il Male l’umana sorte sarebbe una noia. Nelle sale da giovedì.

“La mia ‘reincarnazione’: da prof. a star a Bollywood”

A Oakland, California, non c’era spazio per i suoi sogni; nella lontana Mumbai, India, invece sì. Dieci anni fa Richard B. Klein – invece di cominciare a contare quanti capelli gli erano già diventati bianchi al suo 45esimo compleanno – decise di abbandonare la sua placida e sicura carriera da insegnante negli Stati Uniti per tornare nel luogo che continuava ad attrarlo da quando lo aveva visitato la prima volta nel 1995: l’India. Dopo aver girato oltre 50 film a Bollywood, adesso Klein risponde felice come un uomo che ha saputo reincarnarsi senza nemmeno prima morire.

Signor Richard, allora è vero che “non è mai troppo tardi per diventare un attore di Bollywood”, come recita il titolo dell’articolo che il New York Times le ha dedicato?

Sarò onesto, quando sono arrivato qui in India non sapevo esattamente cosa avrei fatto, ma stavo sicuramente scappando dagli Stati Uniti. Ero stanco della way of life americana, del percorso tradizionale che quella società si aspetta che tu percorra: lavora in ufficio, sposati e compra una casa nei sobborghi. Io volevo una vita diversa e me l’ha sicuramente data l’India. Ai miei termini.

Cosa si è lasciato alle spalle?

Sono cresciuto a Miami, Florida. A Oakland insegnavo in una scuola ebraica: volevo un lavoro che mi lasciasse il tempo necessario per esibirmi di sera. In America avevo un gruppo folk, facevo performance jazz , una volta ho anche fatto un tour in Europa. Da bambino volevo solo cantare, ballare e stare sui palchi. Mi sono esibito perfino ai matrimoni. Quando sono arrivato in India però non volevo ricominciare da zero, mi sentivo vecchio e ho cominciato a insegnare prima che mi contattassero, in quanto anglofono, per doppiare alcuni film. Poco dopo mi hanno chiamato per le audizioni: servivano stranieri. È stata la mia fortuna.

Molto prima di trasferirsi a Mumbai, lei ha cominciato a farsi chiamare con un secondo nome oltre a quello ufficiale ricevuto alla nascita.

Mi sono battezzato “Bakhti”, che in alcuni dialetti hindi significa “devozione”. Ho imparato questo termine quando mi interessavo di teologia: volevo scoprire cosa offrono i diversi culti ai credenti. All’università ho studiato filosofia, matematica e scienza, quella che insegnavo ai bambini a scuola. Scusi il rumore, sono su un set.

Cosa sta girando adesso?

Una serie in cui recito il ruolo di un carceriere che sorveglia prigionieri e combattenti per l’indipendenza indiana. Si chiama Mukti, vuol dire “libertà”. Io sono la divisa buona: l’altro carceriere è un torturatore e per impersonarlo hanno preso un australiano, un mio amico. Entrambi recitiamo, ovviamente, con accento britannico.

Come l’ha imparato?

Spartiti. Quando facevo il cantante ho imparato a distinguere le diverse inflessioni della voce.

L’India ha bisogno di fare ancora i conti con il suo passato coloniale e ad adempiere al compito, sugli schermi grandi e piccoli, c’è Bollywood. Ce la descriva.

Lì è dove tutto è estremo, sgorga dal cuore e runs on pure emotions, procede solo con emozioni pure: se una storia è tragica, deve essere la più tragica. Tutto è conflittuale al massimo. Se un protagonista è cattivo, deve essere il più cattivo. Se si parla d’amore impossibile, deve esserlo più di ogni altra cosa. Credo che in generale l’India viva in questo modo.

Di ruoli ne ha interpretati tanti e tra i più disparati.

Spie, cuochi, scienziati, dottori, poliziotti, ovviamente soldati britannici. Anche alcuni personaggi storici reali, leader inglesi molto noti qui in India. Tra i miei ruoli preferiti c’è quello che ho recitato nel film Bhalwan singh: sono un architetto che parla solo inglese, preso in ostaggio da rapitori che parlano solo hindi, una slapstick comedy basata su malintesi e gag. Di solito mi chiedono di impersonarmi in figure serie e cupe, per questo amo quando mi ingaggiano per le pubblicità e mi lasciano essere comico. Adesso ho una parte in un kolossal in uscita: Laal Singh Chaddha, il remake, nella versione indiana, di Forrest Gump.

Sono passati dieci anni da quando decise di partire dalla California. Adesso Mumbai è casa sua.

Anche se Mumbai è una metropoli internazionale, io rimarrò sempre uno straniero per il mio aspetto. Per strada mi notano più per quello che per essere diventato un attore. Ma se qualcuno mi riconosce perché ha visto uno dei miei film, per qualche strana ragione, è sempre quando sono in aeroporto.

San Siro, su FqExtra la colata di cemento del “verde”

In barba alla “svolta green”, annunciata in campagna elettorale, il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha dato il via libera ai piani di Milan e Inter: abbattimento dello stadio comunale e riduzione del verde da 52 a 26 mila mq. Da Gianni Rivera a Vasco, al chitarrista di Bruce Springsteen: in molti si sono schierati contro il cemento che, con la scusa dello stadio, verrà riversato nel quartiere. Il comitato “Sì Meazza” ha aperto la campagna per il referendum. Su Fq Extra la videoinchiesta di Valentina Trifiletti con la partecipazione di Gianni Barbacetto.

Mario chiede di morire e ora denuncia la Asl

Mario, 43 annitetraplegico e immobilizzato da oltre 10 anni a seguito di un grave incidente stradale, da 15 mesi si batte insieme all’Associazione Luca Coscioni, per poter accedere legalmente alla morte medicalmente assistita. Ieri, tramite il suo collegio legale, Mario ha reso noto di aver presentato un altro esposto presso la Procura di Ancona portando la battaglia legale anche in sede penale. Infatti, a seguito delle diffide inviate nelle scorse settimane affinché l’Asur Marche provvedesse ad effettuare le verifiche sul farmaco e le relative modalità di somministrazione, e il Comitato etico completasse il suo parere, Mario ha deciso di denunciare “gli ostruzionismi e le omissioni” per il “rispetto dei suoi diritti”.

‘C’era mare grosso, così Open Arms andò a Lampedusa’

“Il Viminale propose di far andare Open Arms a Taranto o Trapani, ma in quel momento era impossibile, perché le condizioni meteo non lo consentivano. Ho condiviso con Piantedosi (Matteo, capo di gabinetto del ministero dell’Interno ndr) la mia considerazione, per una navigazione in sicurezza era meglio Lampedusa”. Lo ha detto l’ammiraglio Sergio Liardo, che nell’agosto 2019 era al comando generale Capitaneria di porto (Imrcc), durante il processo di ieri a Palermo in cui l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini è imputato per rifiuto di atti d’ufficio e per il sequestro di 147 migranti a bordo di Open Arms. La ong, dopo che il 14 agosto il Tar del Lazio aveva sospeso il divieto di ingresso in acque italiane, aveva chiesto all’Imrcc un “pos”, ovvero il porto sicuro per lo sbarco, che venne negato. Per i pm Gery Ferrara e Giorgia Righi a deciderlo fu Salvini.

In aula, i testimoni hanno spiegato che “non c’erano indagini” e “segnalazioni di terroristi” sui migranti a bordo della nave, e che non c’erano le “condizioni di sicurezza” per “sbarcare in Libia”. In quei cinque giorni, la “nave era sovraffollata” e i “migranti erano molto provati dalla lunga permanenza in mare”, tanto che alcuni decisero di “buttarsi in acqua per raggiungere Lampedusa a nuoto”. Le domande ai testimoni dell’avvocata e senatrice Giulia Bongiorno, legale di Salvini, si sono invece concentrati sui diversi rifiuti dell’ong di portare “in salvo” i migranti in “Libia, Tunisia, Malta e Spagna”, decidendo di puntare “sempre e solo verso l’Italia”.

Ferrero, 250mila euro del “prestito Covid” alla Samp usati per i guai delle altre società

La finanza creativa del “viperetta”, ovvero l’ex patron della Sampdoria e re delle sale cinematografiche, Massimo Ferrero, è ben sintetizzata in un’informativa della Gdf allegata agli atti dell’inchiesta che lo vede indagato – e tuttora in carcere – con l’accusa di bancarotta fraudolenta. La Sampdoria – per la precisione l’Unione Sampdoria Calcio Spa – il 23 novembre 2011 chiude un contratto con un istituto di credito londinese, la Macquarie Bank International Limited, che la finanzia per 25 milioni di euro con “garanzia Sace”. La “garanzia Sace” è la misura prevista dal governo nell’agosto 2020 per sostenere il bisogno di liquidità delle imprese danneggiate dal Covid-19. In sostanza, la Sace spa – società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti, controllata per circa l’83% da parte del Mef, quindi dallo Stato – garantisce il debito in caso di insolvenza. È quindi grazie alla garanzia dello Stato che la Samp ottiene i 25 milioni dalla Macquarie Bank International Limited.

La Procura di Paola, guidata dal procuratore Pierpaolo Bruni, scopre però che Ferrero, ottenuto il finanziamento, dovendo pagare due accordi transattivi – “ambedue per 125 mila euro” – per il fallimento di Blu Cinematografica srl e Blu Line srl (secondo l’accusa a lui riconducibili) attinge proprio al finanziamento Sace ottenuto dalla Sampdoria. Il 1º dicembre 2020, Ferrero contatta Andrea Diamanti (non indagato, ndr). “Sono stati fatti – dice Ferrero a Diamanti – non devi sentire nessuno… devi soltanto fare quel…”. “Sì – risponde Diamanti – sta di fatto che voi li avete fatti dalla Samp a SSH!”. “Sì – continua Ferrero – ma poi da lì toccava… da lì manda sotto… sopra… è tutto regolare”. E Diamanti: “Eh eh, appunto! Li dobbiamo mandare su Holding Max… e questo sto dicendo”.

La Gdf annota che secondo il decreto, “il finanziamento coperto da garanzia deve essere destinato a sostenere costi del personale, investimenti o capitale circolante, impiegati in stabilimenti produttivi e attività imprenditoriali che siano localizzati in Italia (…)”. E aggiunge che la “prescrizione appare palesemente in contrasto con il fatto che parte del finanziamento garantito sia stato utilizzato per chiudere gli accordi transattivi relativi ai fallimenti Blu Cinematografica srl e Blue Line srl per i quali, tra l’altro, non si evidenzia alcun legame giuridico diretto con il percettore del finanziamento (ovvero la Samp, ndr).

Altro che “Milano accogliente” di Sala: i vigili cacciano i clochard che si riparano dal gelo

Altro che Milano accogliente e inclusiva. La città del sindaco Giuseppe Sala, tornata al vertice delle classifiche per qualità della vita, ha visto la polizia municipale entrare in azione, nel tardo pomeriggio di giovedì 16 dicembre, per un blitz contro i senza fissa dimora che stazionano e passano la notte nei tunnel sotto la Stazione Centrale. Gli agenti hanno scortato i mezzi Amsa della nettezza urbana che hanno fatto un repulisti delle gallerie. Materassi, coperte, valige, cartoni, poveri effetti personali dei senza tetto sono stati rimossi dagli addetti dell’Amsa sotto gli occhi di una quarantina di poliziotti locali che hanno anche intimidito un giornalista del sito Milano Today e i volontari dell’associazione Mutuo Soccorso Milano che tentavano di documentare il blitz in corso con foto e video. “Volevano ripulire i tunnel dove i senza tetto cercano di ripararsi per la notte”, racconta una volontaria di Mutuo Soccorso. “Invece di mandare assistenti sociali e mediatori linguistici, il Comune del sindaco Sala ha mandato poliziotti e mezzi della spazzatura. Molti di coloro che dormono nei tunnel sono rifugiati che provengono da zone di guerra. Noi abbiamo subito pubblicato le immagini del blitz sulla nostra pagina Facebook, ma ci hanno intimato di non mostrare i volti degli agenti. Li abbiamo allora mascherati con l’emoticon del diavoletto”. Un cronista di Milano Today è stato bloccato e identificato dalla polizia locale: “Non ho nessuna prova che tu lavori davvero per Milano Today”, gli dice l’agente, “io ti diffido. Se vedo queste foto su altri cose che non siano Milano Today ti denuncio”.

Il Comune di Milano ha spiegato invece che l’operazione era rivolta a spostare i senza tetto, in queste notti di freddo intenso in cui la temperatura scende sotto zero, in un luogo più riparato, il mezzanino della metrò, alla fermata Stazione Centrale della linea verde. “I dormitori di Milano sono una barzelletta”, commenta la volontaria di Mutuo Soccorso, “e di quelle che non fanno ridere: sono posti gelidi, senza acqua calda, con letti pieni di cimici e liste d’attesa lunghissime. Ogni dormitorio ha una sua lista: come fa una persona fragile a chiamarli tutti ogni giorno, per scoprire se c’è posto? Di fronte a questo, qualcuno si dà da fare per rendere più difficile la vita di chi si trova in strada, installando barriere, togliendo punti d’acqua e bagni pubblici. E ora anche il blitz di polizia”.

Marano senza cuore né luce. Qui la camorra s’è fatta Stato

Prima è stata chiusa la mensa scolastica, poi ha iniziato a singhiozzare l’acqua potabile. Poi le strade si sono spente, ed è venuto il buio. Infine i bus: finito il gasolio, finite le corse. Marano è una specie di Napoli 2, ma senza le bellezze di Napoli, senza i talenti di Napoli, senza i colori, l’arte, la musica di Napoli.
È come se ne avesse colto, fior da fiore, solo i difetti, e avesse conquistato il cuore dei malandrini fino a divenirne un po’ la capitale.

Marano non è una città, ma un’escrescenza di Napoli. Qui le famiglie in cerca di un alloggio più economico e magari di una vita più quieta si sono dirette – inconsapevoli del trauma – dopo il 1980, l’anno che dà avvio all’età della transumanza seguita al terremoto che devastò la metropoli partenopea.

Appena oltre la collina dei Camaldoli, nella discesa che poi porta alla piana di Giugliano, Marano si è gonfiata fino a divenire una città di sessantamila abitanti. Sembrava un posto tranquillo e nessuno approfondiva i motivi. In effetti qui non si rubava, non si spacciava droga, c’era un ordine nel disordine perché il padrone, cioè la famiglia Nuvoletta, cioè il clan di elevatissimo spessore criminale e perciò l’unico ad essere associato, con benemerenza, nella cupola di Cosa nostra, esigeva silenzio negli affari e pulizia chirurgica nelle vendette e nei repulisti. Cento morti in un trentennio, ma uccisi senza schizzi di sangue sulle vetrine di corso Italia, la strada del centro del centro, intorno a cui tutto ruota, senza bossoli sull’asfalto, senza scooteroni esagerati guidati dalle truppe d’assalto: “Nessuna baraonda per le strade, nessuna stesa. Morivano fra loro, diciamo”, racconta Andrea Caso, deputato 5Stelle che qui è eletto. Un centinaio di ammazzati. E che sarà mai?

Dopo i Nuvoletta sono giunti i Polverino e dopo i Polverino gli Orlando. Clan dopo clan, anno dopo anno, la città è stata piano piano dissanguata ed è infine perita sotto i colpi della criminalità costituita a Stato, riverita e persino rappresentata nel Consiglio comunale. E così non solo i servizi essenziali sono finiti, l’acqua che manca, i bus fermi, le luci quasi spente, le strade bucate, le scuole senza mensa. Non solo tutto questo. Marano infatti appare oggi un unico volume urbano senza cuore né luce, un enorme cubo di cemento, una non città. Pare semplicemente un gonfiore dello stomaco di Napoli.

“Avemmo la fortuna di poter ottenere un collegamento con Napoli su ferro, il microtram, che avrebbe tolto dalle lamiere di auto incolonnate da mattina a sera un sacco di gente. I poteri forti, quelli oscuri e obliqui si opposero”, ricorda Domenico Rosiello, narratore locale delle cronache dei malandrini eterni. “Guarda là, vedi quei palazzi? Furono costruiti nei luoghi in cui doveva sorgere la strada ferrata, edificati in modo che non ci fosse più il corridoio utile, e tutto è finito”, spiega Caso. Addio tram, addio bus. O incolonnati o niente.

Tutto è finito perché la criminalità si è fatta Stato deliberando le sue scelte urbanistiche e qui ha infatti anche corso alle elezioni. Criminalità associata, o solo amica, o parente o cliente. Criminalità, diciamo così, di centrodestra e centrosinistra. Criminalità turbo amministrativa, civica e laica. Marano ha subìto negli anni quattro scioglimenti del Consiglio comunale, l’ultimo a luglio scorso in ragione del fondato sospetto che l’amministrazione guidata da Rodolfo Visconti, eletto anche grazie ai voti del Pd, fosse infiltrata dalla camorra, si fosse piegata alla camorra. E Visconti era stato chiamato al municipio dopo un commissariamento prefettizio che aveva divelto l’amministrazione precedente, questa volta a trazione centrodestra (vice sindaco un’esponente di Fratelli d’Italia).

“Marano è questa qua, schiava del crimine, esposta alle bande, insolentita dalla violenza. Marano è una città con una democrazia indigente, ingracilita dalle percosse che ha subito. La gente si è acclimatata alla legge dei fuorilegge soprattutto per paura che pure è un sentimento umano, comprensibile. E ha lasciato sopraffarsi. Io non mi sono arresa e domani proviamo a scendere in piazza, a far vedere che esiste un profilo civile, una integrità nascosta ma non assente. C’è tanta gente perbene”. È Stefania Fanelli, cassiera all’Ikea a 24 ore settimanali (“guadagno ottocento euro al mese, al di sotto del minimo vitale, ma resisto”) a capeggiare il principio di rivolta civile, a provare, e oggi si vedrà se la piazza sarà riempita, che c’è voglia di conquistare speranza, di chiedere che il diritto non divenga un sempiterno rovescio.

Marano in effetti è il centro di gravità permanente della perdizione. Anche se non sembra, perché è brutta il giusto, cioè né più né meno di tante altre città cresciute nel disordine, e la violenza si sente ma non si vede, è l’obelisco intorno al quale ciascuno ha esibito i suoi trofei. Sciolta l’amministrazione di Marano? Ma sciolta (nel 2018) anche quella di Calvizzano, che gli sta di fronte, e quella di Giugliano (anno 2013) che gli sta di fianco, e quella di Villaricca (1993 e 2021), all’altro lato e quella di Sant’Antimo (nel 1991 e ancora l’anno scorso) e poi quella di Quarto (1991 e 2013).

Più commissari che sindaci, nella grande piazza del crimine che è questo esubero di Napoli, uno sfogo della città verso la piana che qui ha trovato sabbia buona e calcestruzzo, il business elettivo della dimensione industriale criminale. “Con i Nuvoletta a Marano non si poteva distribuire droga, non si spacciava. Il capo clan voleva che la sua città fosse vergine da questo punto di vista”, ricorda il deputato grillino.

Lo spaccio è stato assente per qualche anno, però purtroppo anche le fogne, che a differenza della cocaina e dell’eroina, non si sono mai più viste. Dice Domenico: “Un buon sessanta per cento del territorio sversa nei pozzi, e non è difficile immaginare in quali condizioni sia il sottosuolo tra discariche abusive e autorizzate, fogne bianche e fogne nere”.

Marano di sopra e di sotto. Solenne, triste e dimenticata testimonianza del crimine al governo.

Mister Bout ha un’arma per tutti

Solo una cosa è veramente certa su Viktor Anatolevich Bout, uno dei maggiori trafficanti di armi della storia: la sua vita è stata molto più rocambolesca di quella del protagonista di Lord of war, il film hollywoodiano ispirato dalle sue gesta. Figlio di un meccanico e una bibliotecaria sovietici, nato in Tagikistan nel 1967, comincia da bambino a contrabbandare cassette musicali. A 20 anni traffica con milioni di proiettili e kalashnikov, quelli che l’Urss non usò mai contro gli Usa durante la Guerra fredda. Dopo l’Istituto di Lingue straniere a Mosca – Bout ne parla una decina, tra cui arabo e dialetti africani –, nel 1980 è traduttore militare in Mozambico. Nel 1991, quando l’Urss implode, diventando un enorme arsenale abbandonato, lascia l’esercito con il grado di tenente. Compra una flotta di vecchi Antonov salvandoli dalla demolizione, e dalla povertà salva piloti russi rimasti senza lavoro. Nei deserti aridi dell’Angola, Sierra Leone, Congo fa piovere missili e munizioni: rifornisce ribelli, ma anche gli eserciti che li combattono. È in Liberia, quando diventa l’uomo chiave del dittatore Charles Taylor, che la sua leggenda esplode come una mina. Farà affari con i talebani, ma anche con Massoud. Con la sua flotta vola sopra le nuvole, ma soprattutto sopra ogni embargo, mentre dichiara sui documenti di trasportare polli surgelati. (Farà business anche con quelli mentre foraggia massacri). Nel 2005 è nella lista nera degli Usa: è il numero 2, lo precede solo Osama bin Laden.

“Un uomo interessante. Alto, molto alto. È anche bello. E innocente, una parola che non uso solo perché sono il suo avvocato”, dice al telefono Albert Dayan, che lo difende a New York nella Corte della giudice Shira Scheindlin. Viktor viveva tra lusso e sushi bar nel suo esilio dorato a Mosca, dove le sanzioni Onu non potevano raggiungerlo, quando è caduto nella trappola americana. Nel 2008, all’hotel Sofitel di Bangkok, quelli a cui Bout promette 100 missili terra-aria e 20mila kalashnikov “per uccidere piloti americani” non sono guerriglieri delle Farc, ma agenti della Dea travestiti.

Accusato di “cospirazione”, è stato arrestato e poi estradato negli Stati Uniti. “Se, e dico un enorme se, Bout abbia mai avuto a che fare con il traffico di armi, aveva già smesso quando è stato arrestato” dice Dayan. Quello che Human Rights Watch ha chiamato “il McDonald’s delle armi” e il mondo conoscerà come “mercante della morte” è ora sotto processo per traffici mai compiuti: “Non c’è un crimine reale, ma solo quello creato artificialmente dagli agenti sotto copertura. Chi è accusato di questi reati, intendo chi li compie realmente, riceve l’ergastolo e non 25 anni di carcere come Bout. Ma quale capro espiatorio migliore da arrestare se non un uomo reso celebre da un film di Hollywood? Volevano dare un esempio: mai vendere armi che nemmeno remotamente vengano usate contro gli Usa”, dice Dayan. Durante la guerra in Iraq, era Bush, gli aerei della Irbis Air, una delle compagnie di Bout, atterrano e ripartono perfino dalle basi militari Usa a Baghdad per almeno mille volte: 60 milioni di dollari è il costo del servizio che paga l’esercito di Washington. L’avvocato non commenta: “Da certe informazioni dipende la libertà del mio assistito”.

Non menzionare il genio – maligno – del trafficante che ha globalizzato il mercato nero delle armi prima che la globalizzazione esistesse, è difficile anche per i suoi nemici: “Se avesse commerciato materiale legale, sarebbe diventato uno dei migliori imprenditori al mondo”, ha detto Gayle Smith, inquirente della Sicurezza nazionale Usa. L’ultimo atto della vita de L’uomo che rende la guerra possibile, titolo di uno dei molti libri che gli hanno dedicato, è asimmetrico nel finale rispetto al film, dove il protagonista rimane libero.

Nella prigione federale dove è rinchiuso, Viktor adesso impara altre lingue (urdu e farsi), legge Paulo Coelho e disegna gattini e altri animali. Una mostra con i suoi quadri è stata appena inaugurata a Mosca. Disegnare “è l’unico modo che gli è rimasto per comunicare con il mondo esterno”, ha detto sua moglie Alla. “Mister Vik”, che si è sempre dichiarato innocente ripetendo la frase “Io non ho ucciso nessuno”, con i suoi container alati è riuscito a compiere quello che fanno solo gli Stati: sommergere il mondo di armi. Per molti è l’unico volto noto di un sistema di ombre. E dei nomi di quelli che negli universi invisibili dell’intelligence, tra Mosca e Washington, lo hanno aiutato a diventare Lord of war, Viktor non ne ha mai fatto neppure uno.