Banche, i paletti del Quirinale

Sergio Mattarella è stato tentato dallo strappo. Ossia dal rinviare alle Camere la legge istitutiva della Commissione d’inchiesta sulle banche. Ma ieri ha firmato, ponendo però una serie di paletti, a tratti irrituali, alla commissione. Perché non è convinto del presidente indicato dal M5S, il senatore Gianluigi Paragone, teme danni per la Banca d’Italia e che la bicamerale sconfini dai suoi compiti. E allora la sua lettera ai presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati, è un lungo caveat ai gialloverdi, che non gradiscono.

Non a caso il M5S fa subito trapelare che insisterà su Paragone, cui ieri Di Maio ha ribadito l’appoggio in un incontro a Roma. Ma chissà se la Lega confermerà il sì all’ex conduttore, perché il M5S fiuta tentennamenti. Di certo la lettera di Mattarella colpisce tutto il governo, a cui il capo dello Stato fa notare: “Rispetto a tutte le banche, e anche agli operatori finanziari, questa volta viene previsto che la commissione possa ‘analizzare la gestione degli enti creditizi e delle imprese di investimento’. Queste indicazioni, così ampie e generali, non devono poter sfociare in un controllo dell’attività creditizia”. Insomma, Mattarella non vuole che la commissione influenzi la gestione ordinaria degli istituti. E aggiunge un altro timore: “L’eventualità che soggetti partecipi dell’alta funzione parlamentare ma pur sempre portatori di interessi politici, possano condizionare le banche nell’esercizio del credito e nell’erogazione di finanziamenti o di mutui si colloca al di fuori dei criteri che ispirano la Costituzione”. Ma l’obiettivo principale del Colle è preservare Bankitalia e le altre authority dal rischio che la bicamerale diventi una vigilanza parallela: “Le previsioni della legge in questione pongono il tema di possibili interferenze delle attività della commissione in ambiti di competenza di varie autorità di vigilanza”. Parole che il M5S legge come un esondare i limiti da parte del Quirinale, anche se Di Maio è cauto: “Lavoreremo con senso dello Stato e responsabilità verso il Paese e soprattutto verso i cittadini truffati”. Ma il sottosegretario Stefano Buffagni reagisce in modo secco: “Bene le raccomandazioni del presidente della Repubblica, ma tuteleremo le prerogative del Parlamento. Vogliamo andare fino in fondo per fare pulizia nel rispetto degli impegni presi coi cittadini”. Come a dire che la commissione d’inchiesta è affare del Parlamento, e solo di esso.

Ma batte un colpo anche il leader della Lega Matteo Salvini, contro Via Nazionale: “Bankitalia è un unicum, però non può essere scollegata dalla vita dei risparmiatori. Un conto è la sua autonomia, un altro è la mancanza di responsabilità”. L’aria insomma è tesa. E si fa sentire anche Paragone, su Facebook. Prima con un post ricorda che “la sovranità appartiene al popolo”. Poi in un video giura: “La commissione d’inchiesta non serve per fare lo scalpo a qualcuno, ma solo per capire le dinamiche di alcune crisi bancarie: lo spirito non sarà di vendetta”.

“Da noi la stessa violenza sui corpi disobbedienti”

C’era il giorno della creazione, nel 2015, del movimento “Ni una menos” in Argentina, ma non chiamatela leader. Marta Dillon, ospite d’onore della mobilitazione transfemminista di Verona, è una giornalista e sceneggiatrice argentina – 52 anni, lesbica, un figlio – che si occupa di femminismo e questioni di genere. Nel 2005 è stata dichiarata ambasciatrice per il diritto alla riproduzione dall’Instituto social y político de las mujeres.

Perché la scelta di venire a Verona?

È necessario opporre una forza femminista a un gruppo, attivo in tutto il mondo, che sta mettendo sotto attacco il corpo delle donne, tornato a essere un campo di battaglia. In Italia come in Argentina, il fascismo si sta riorganizzando e minaccia di eliminare il matrimonio gay o il diritto all’aborto. Si tratta della nostra vita.

Fascismo non le sembra un’esagerazione?

Io chiamo fascisti tutti i movimenti sociali e politici che rivendicano la negazione dell’altro: donne, ma anche gay, lesbiche e trans. E i migranti, specie i neri. Io li chiamo tutti “corpi disobbedienti”. Stiamo assistendo a un crescendo di aggressioni nei confronti di queste persone, con l’illusione di tornare a imporre la supremazia bianca sui sentimenti nazionalisti: a questo dobbiamo opporci.“Ni una menos” non ha frontiere: noi riconosciamo le realtà territoriali, le intersezioni di genere, razza e classe.

Cosa vuol dire per lei essere femminista oggi?

Ho iniziato a considerarmi tale dopo aver scoperto di essere positiva all’Hiv, negli anni ‘90. I vari stigma si sommano: il mio trattamento come donna era diverso da quello degli uomini. Sono figlia di una desaparecida durante la dittatura, in Argentina. Già militavo in varie associazioni per chiedere giustizia, ma c’era qualcosa che mi mancava, un senso di disagio nei confronti del sistema del patriarcato. Il femminismo per me è una necessità, un desiderio di rivoluzione che ingloba tutto il resto.

Parlare di femminismo è anche una moda?

In questo momento ci sono femminismi popolari che hanno moltissima forza: hanno capito che non si può parlare solo di genere e uguaglianza. Perché altrimenti non stiamo cambiando niente.

Tra le battaglie che le donne non hanno ancora del tutto vinto c’è quella per l’aborto.

L’aborto è un punto di conflitto molto forte. Proibirlo o metterlo in discussione è il modo per esercitare un controllo sul corpo di noi donne.

È una guerra tra uomini e donne?

Noi non vogliamo più pensare in termini binari. Non ci sono solo uomini e donne. Nel mondo convivono categorie diverse, diverse forme di amarsi e relazionarsi.

Ma le donne continuano a morire per mano degli uomini…

I femminicidi sono una forma per “disciplinare” le donne. Le donne, le lesbiche, le trans, che si ribellano alla violenza vengono punite una a una. I nemici sono nei luoghi più vicini a noi, a partire dalle nostre case, a partire dalle nostre famiglie.

Qual è la sua idea di famiglia?

Io sono orfana e sono cresciuta con molti altri orfani. Figlio e figli per me sono legami che si creano e la famiglia è un sistema di solidarietà.

E quella di chi partecipa al Congresso di Verona?

È esattamente il contrario: una famiglia basata sul sangue, sull’eterosessualità “obbligatoria” e che si organizza su base piramidale, come vuole il patriarcato. C’è un capo famiglia, le donne hanno un ruolo stabilito e i bambini sono proprietà di papà e mamma.

Da crocevia nero a rosa: Verona libera tutti

Laura, Giulia e le altre hanno gli occhi esausti di chi non dorme da giorni, e l’emozione di chi è partito da lontano. C’erano quando non c’era nessuno. In tribuna, vestite da ancelle, quando a ottobre scorso la Lega ha fatto passare la mozione contro l’aborto in Consiglio comunale: con la loro foto pubblicata su Facebook hanno fatto un pezzo di storia. E c’erano il sabato successivo, in piazza, per il primo grande corteo femminista a Verona. C’erano e ci sono oggi, cinque mesi dopo, sempre a Verona, per la prima reazione di massa – con attiviste che arrivano da ogni parte d’Italia e dall’estero, dalla Polonia all’Argentina – al World Congress of Families, l’evento che per la prima volta nella sua storia viene ospitato in Italia. Hanno aperto i lavori della mobilitazione transfemminista di “Non una di meno”: una tre giorni di incontri e dibattiti che culminerà nel corteo di oggi, dove sono attese migliaia di persone.

Loro, le “femministe”, Laura e Giulia tra tante, protestano da prima che se ne accorgesse la politica, da prima che arrivassero media e televisioni da tutto il mondo. Con banchetti e assemblee, quando la città sembrava un’enclave dell’estrema destra e niente più. “La nostra è soprattutto una sfida politica”, racconta Laura. “Abbiamo scelto di usare la parola transfemminismo per indicare la volontà di andare oltre i confini geografici e la definizione di donna biologica. Per noi si parla di femminismi al plurale: ci rivolgiamo a tutti coloro che sono oppressi”.

Una marea fucsia. Sfileranno tutti insieme oggi, dentro il cuore della città e a pochi passi dal Palazzo della Gran Guardia, là dove si stanno confrontando politici e rappresentanti religiosi in difesa di quella che, per loro, è la “famiglia tradizionale”. Non una folla guidata da facce note, ma un gruppo che rivendica le sue diversità e si riprende uno spazio. Parteciperanno esponenti di varie realtà, da Libera a i Sentinelli di Milano ad Arcigay e Arcilesbica, ma pure Pd e Cgil. Vietati i manifesti con sigle politiche, saranno ammessi solo messaggi di contenuto. Volutamente non sono state chieste adesioni ufficiali, anche se qualche esponente politico si farà vedere, Laura Boldrini (Leu) e Monica Cirinnà (Pd) per esempio.

Oggi il corteo, domani l’assemblea “transnazionale”

Dall’Argentina domenica arriverà Marta Dillon, nota per aver fondato in patria “Ni una menos” nel 2015. Ci sarà Klementyna Suchanow, attivista per lo sciopero delle donne in Polonia. Risponde al telefono, mentre sta per salire sull’aereo: “Quello che vogliono fare alle donne italiane ed europee l’hanno già fatto a noi. Le donne che difendono i loro diritti sono la prima linea di una guerra in corso. Ci vediamo a Verona: è lì che bisogna essere”. In Polonia, solo un anno fa, il Parlamento ha tentato di far approvare una legge ancora più restrittiva sull’aborto. “Vedo molte somiglianze tra il mio governo e il vostro”, prosegue Klementyna. “Non solo c’è l’identità conservatrice, ma anche il tentativo di stabilire una collaborazione fascista per entrare nel Parlamento Ue e cambiarlo sulla base delle loro idee. E chi non ci assicura che, dietro la scena, a muoversi sia il Cremlino…”.

Per le strade di Verona ci sarà anche Marinella Matejcic, militante dell’organizzazione croata Pariter. Lei e le sue compagne, circa una decina, sono partite ieri dalla Croazia: “Dobbiamo lavorare duramente per impedire ai gruppi pro-life di spingere la loro agenda a livello politico. Da noi abbiamo un problema serio con l’obiezione di coscienza. Il ministro della Salute ha dichiarato: ‘Meglio un prete che dieci dottori’”.

Da laboratorio delle destre a quello rosa: la città scaligera

Verona non è una città qualunque. È la terra ricca dove estremisti e Chiesa dialogano da sempre, ma è anche – per paradosso, o per contrasto – la culla dove è nata la filosofia del femminismo della differenza. Non solo. Il dipartimento di Scienze umane e filosofia di Verona ha promosso in questi giorni un documento in cui, prendendo le distanze dalle tesi sostenute al Wcf, si chiedono chiarimenti sulla presenza del ministro dell’Istruzione leghista Marco Bussetti. Al grido di “A rischio la ricerca laica e libera”, il documento è stato sottoscritto da più di 700 tra docenti, ricercatori e personale amministrativo dell’Università.

“Non una di meno” e le sue attiviste sono cresciute in questo ambiente, fatto di contraddizioni e spinte in direzioni opposte. “La nostra città è da sempre un laboratorio per le destre”, spiega Laura. “Solo che non hanno più solo l’appoggio nel mondo cattolico. Ora sono al governo”. È veronese doc il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana: ha dato lui il patrocinio alla manifestazione, ed è riuscito a portare sul palco Matteo Salvini. “Siamo di fronte a una veronesizzazione della politica. E noi conosciamo il rischio. Qui si studiano proposte di legge e atti concreti. Anche per questo abbiamo scelto di rispondere elaborando nostri contenuti”. C’è una sola sigla che compare apertamente nel programma: quella dell’Anpi. “Noi siamo femministe, ma anche profondamente antifasciste. In questa città è una battaglia difficile… Per il resto, non vogliamo gente che venga a mettere il cappello, o a farsi fotografare per i giornali”, dice Laura (politici avvertiti). “Da noi ogni decisione è condivisa. Per questa tre giorni abbiamo fatto infinite assemblee e skypecall internazionali”. Ora tutto sta nel riuscire a convogliare le energie, evitando “contaminazioni” e strumentalizzazioni.

Ieri, ricercatrici da Berlino, Belgrado, Varsavia e Parigi, hanno tenuto un panel di discussione sul “ruolo del gender nella mobilitazione delle destre”. Un altro, sulle prospettive di rivoluzione e solidarietà per il movimento femminista. La piazza di Verona oggi, sono convinte, sarà un passaggio, una tappa. Ma come ha detto Porpora Marcasciano, storica militante per i diritti delle persone trans: “La liberazione è un processo continuo”. E qui nessuna ha intenzione di fermarsi.

Bongiorno: “Si deve appurare se chi denuncia è isterica”

Che stile la ministra Giulia Bongiorno. Con un delicato tweet – poi rimosso – è riuscita a dare in sostanza delle “isteriche” a parte delle donne che denunciano di aver subito una violenza. “Il Codice Rosso – scrive la ministra della Funzione Pubblica – è una norma che prevede che quando una donna fa una denuncia per violenza deve essere ascoltata entro tre giorni dal Pg o dal Pm. Così si può appurare immediatamente se si ha a che fare con una isterica o con una donna in pericolo di vita e salvarla”. Sommersa dalle critiche, la ministra di area leghista ha fatto scomparire le sue parole: il tweet è stato cancellato, spiega “per il semplice fatto che non era un’espressione felice del mio pensiero”. La parola “isterica”, argomenta ancora la Bongiorno, era indirizzata a “chi critica la legge”. “Ogni qualvolta accenno alla necessità di far ascoltare in tempi brevi dai pm le donne che denunciano violenze e maltrattamenti – si legge nella nota della ministra – qualcuno obietta riguardo alla loro attendibilità usando il termine ‘isterica’. Muovendo da questa premessa, il tempo destinato ad ascoltarle sarebbe ‘sprecato’. Io rispondo che, ascoltandole, il pm può capire dove c’è il pericolo, che purtroppo, quasi sempre, c’è”.

Feti come gadget, sodomiti al bando, poi tutti a bere

“Sì alla vita, no aborto, no eutanasia, no testamento biologico. Eluana voleva vivere”. Le scritte sono sulla maglietta e sotto il braccio, trasporta una Madonna. Bionda e (all’apparenza) mite Gabriella la presenta come la Regina dell’Amore di Schio, quella apparsa nel 1985. Quando si nomina papa Francesco, storce la bocca. E poi quasi si immedesima nel feto, nell’embrione, nel bambino che vuole nascere e non può. Mentre lei staziona fuori dalla Gran Guardia, dentro le sue parole diventano plastiche. È proprio il caso di dirlo. Gadget in distribuzione: un feto di gomma tascabile, raggomitolato dentro un involucro di plastica. A prima vista pare un preservativo. Ironia della sorte, visto che trattasi di altro strumento del demonio, o quasi. “L’aborto ferma un cuore che batte”, la scritta.

 

Il vangelo messicano

“Irrefutabili”: per la statistica modello World Family Forum il nuovo vocabolo lo conia Antonio Brandi, presidente di ProVita, mentre presenta il Vangelo secondo Verona, accarezzandosi il papillon (va di moda il papillon, ce l’ha pure Simone Pillon). Trattasi di un libretto, che distribuisce in copie fotocopiate e rilegate, di un sociologo messicano, Fernando Pliego Carrasco, che ha tirato fuori uno studio che si vuole scientifico. “Struttura della famiglia e benessere di bambini e adulti”. Tesi presto detta: nella tanto agognata famiglia naturale, i bambini crescono meglio. Maggior qualità di vita, grandi soddisfazioni, capacità decisionali. Ci sono pure i dati e le tabelle. Quindi è la “Verità”.

 

L’esercito naturale

Contro il sistema costituito, in nome delle famiglie naturali. Se serviva una cornice teorica, la dà Ignacio Arsuaga, capo della ricchissima Ong spagnola CitizenGo, lanciata alla crociata contro l’aborto. Sul palco di Verona proclama: “I nemici della famiglia naturale sono globali, controllano la maggioranza dei media e i partiti di sinistra, gestiscono molte Ong come quella di Soros, e pure l’Onu e la Ue”. E allora bisogna partire all’attacco dell’“industria dell’aborto”. Come? Con campagne, progetti, contrastando il politically correct con l’energia propria dei soldati. E poi, entrando nei partiti, conquistandosi la fiducia dei politici. E pregando. Affidandosi alla Provvidenza. Ovazione.

 

Il #MeToo della Maglie

Fidatevi di lei, le vere femministe non sono quelle del #MeToo. Secondo Maria Giovanna Maglie, nuova intellighenzia sovranista, il vero femminismo è il suo, quello di chi è cresciuto battendosi contro padre e madre, per arrivare a una conclusione definitiva: “La famiglia è il fondamento dell’ordine sociale”. Punto. Dunque, “emancipazione femminile non significa obbligo al lavoro. Concetto vecchio”. E l’aborto è diventato “un culto laico”, L’utero in affitto? “Un mercimonio”. E poi, considerare il Medioevo “oscurantista” è un concetto “ignorante”. Che il racconto su Verona è uno scandalo va da sé.

 

Il bambino è mio

“Dobbiamo avere il controllo delle scuole”. Coffee break numero uno, la sala della plenaria si svuota, tonaca scura e occhio di ghiaccio Salvatore Cordileone, Arcivescovo di San Francisco, sotto al palco fa le sue riflessioni. E già, per questi novelli crociati della famiglia naturale l’istruzione è fondamentale per cambiare il paradigma culturale mondiale. Ed è pure il filo sotterraneo, che va dagli States alla Russia. A fare la fila per un biscotto o un chicco d’uva, si intravedono arcipreti vestiti alla russa. Eppure, quello che tiene le file del gioco è un russo vestito all’Occidentale e che parla perfettamente italiano. Aleksei Komov, oligarca putiniano e vecchia conoscenza di Salvini, la racconta così: “Sto sviluppando un programma di studio a casa, secondo l’esperienza Usa, dove gli home scholar sono 2 milioni e mezzo di bambini”. E poi cita la Germania, dove è vietato, per una legge di Hitler. Ma perché si dovrebbe fare a meno delle scuole? “Siamo contro la dittatura del pensiero unico”.

 

Break col vino pagano

C’è la lista, ma è segreta. C’è la destinazione, ma è una sorpresa. Dopo pranzo, fuori alla Gran Guardia, arriva una fila di macchine nere. Sta per partire una processione per un evento a margine. Destinazione, la “Winery” dei marchesi Fumanelli, una tenuta sulle colline veronesi, dove si producono (e si offrono) Valpolicella e Amarone a volontà. I big sono tutti invitati. Dal fondatore del Wff, Carlson, che esibisce un cappello da cowboy (poco prima alla sua tavola rotonda si era espresso contro “feticidio, sodomia e adulterio”) all’arciprete russo Dmitri Smirnov. Ad attenderli, in prima fila, il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, che ieri al Congresso non s’è fatto vedere. Oggetto dell’evento? Patti da stringere non ben identificati. Il vino (pagano) aiuta.

Verona apre con la grillina ma è mistero sui finanziatori

“Il Movimento non è una realtà politica legata solo alle dichiarazioni di questi giorni, ci sono anche senatori e deputati che hanno aperture verso la famiglia tradizionale. E questa non è una manifestazione d’estrema destra”. Arriva alle 14 Tiziana Drago, 4 figli, senatrice pentastellata, ex Sentinella, di rosso vestita. Gli organizzatori del Congresso delle Famiglie la presentano come l’evento del giorno, tanto da ringraziarla alla fine dei lavori.

Lei, in effetti, sceglie di venire, contravvenendo a tutte le indicazioni del Movimento, mentre Giulia Grillo, ministro della Salute, definisce l’evento di “estrema destra”. Con il premier Conte che sostiene di non essere stato invitato, attirandosi la replica dell’organizzatore, Jacopo Coghe: “Gli ho mandato una email a dicembre”. I vertici, la Drago (che va pure all’evento alla Winery Marchesi Fumanelli), non la perdonano. E la base chiede l’espulsione. Anche se lei definisce la sua partecipazione a titolo personale. Nel frattempo, però, Verona si tira dietro polemiche e distinguo. Tengono i titoli per tutto il giorno le parole di Massimo Gandolfini, organizzatore del Family Day (“l’aborto è un omicidio”), ma pure la Lega sta abbastanza in difficoltà.

Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, interviene dal palco, ma fa uno show contro: “L’omofobia è una patologia”, “gli estremismi non ci portano da nessuna parte”, “per parlare di famiglia, non bisogna essere in odore di santità”. Oggi arriva Matteo Salvini. Farà un discorso molto moderato e pure pro-Bergoglio. D’altra parte, non è un caso che abbia tenuto molto bassa la sua partecipazione. Teme l’effetto boomerang e dunque in parte si smarca. Chi della Lega si lascia andare allo spot elettorale dal palco, invece, è Claudio D’Amico, responsabile delle relazioni con la Russia: “Quando andate a votare per le Europee, cercate i candidati pro-life”.

Note dolenti per gli organizzatori: la manifestazione costa almeno 550 mila euro. Ne mancano 150 mila: sperano in un imprenditore italiano. Ovviamente anonimo. Come quasi tutti i donatori.

Conte: “Sullo Ius soli auspico che si rifletta”. Ma Di Maio chiude

Giuseppe Conte la butta lì: “Lo ius soli non è nel contratto di governo, ma auspico che si avvii nel Paese, nelle sedi opportune, una riflessione serena”. E Luigi Di Maio chiude subito la porta: “La riflessione auspicata riguarda una sua sensibilità. Legittima, per carità, ma personale”. Nessuna contrapposizione, giurano da entrambi i fronti a 5Stelle. Ma di certo ieri il premier, parlando ad Assisi, ha riaperto il tema. “Rispondeva a una domanda, e la sua è stata una riflessione da giurista, non una mossa politica” assicurano da Palazzo Chigi. Però la sua opinione l’ha detta chiaramente, il presidente del Consiglio: “Si può anche valutare una prospettiva di nascita sul territorio, con un percorso di integrazione serio. Occorre un percorso di integrazione affinché il neonato abbia conosciuto, anche un minimo, i nostri valori comuni”. Però il vicepremier e capo del M5S non vuole parlarne, perché il muro della Lega è totale, e perché lui stesso è contrario. Così ieri ha precisato a stretto giro: “Ribadisco che non è nell’agenda del governo e non sarà dunque una misura che questo governo discuterà, anche perché c’è già una normativa che regola la cittadinanza”.

“In futuro non faremo alleanze coi leghisti”

“A Roma si celebreranno le idee e il futuro, a Verona si rivanga il passato”. Così il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Vincenzo Spadafora presenta il “contro-convegno” che si svolge oggi a Cinecittà: “Il problema non è il rapporto tra le tesi di Verona e il M5S o tra il M5S e la Lega, ma il rapporto tra quelle tesi e la realtà. Esiste un mondo reale che è già oltre ed è popolato da ragazzi e ragazze che guardano al futuro con molta più tranquillità culturale rispetto a quei temi”.

Chi ci sarà oggi a Cinecittà?

Seicento ragazzi provenienti da tutta Italia a cui presenteremo un bando che si chiama “Fermenti” e che mette a disposizione venti milioni di euro per progetti sui territori. Lo scopo è aprire 70 cantieri in tutta Italia. Ci criticano per i cantieri che non vogliamo far partire… Rispondiamo realizzando 70 progetti di riqualificazione urbana, gestione di beni non utilizzati e anche attività imprenditoriali. Ma lo scopo non è tanto puntare sul tema del lavoro – che sarà il centro del discorso del ministro Di Maio – quanto quello di favorire una partecipazione attiva dei ragazzi.

Di Maio aveva garantito che nessun 5 Stelle sarebbe andato a Verona. Invece è intervenuta la vostra senatrice Tiziana Drago: “Nel Movimento ci sono anche senatori e deputati che hanno apertura nei confronti della famiglia naturale”, ha detto.

Non ho mai sentito dire a qualcuno dei 5 Stelle che la famiglia naturale è superata… La senatrice è intervenuta esprimendo un’opinione personale. Credo abbia sbagliato: siamo noti per discutere vivacemente al nostro interno, avrebbe potuto rappresentare a noi le sue idee. Ha preferito avere un momento di visibilità: non rappresenta la nostra posizione.

Lei aveva detto: “Quello di cui si discuterà a Verona non sarà mai nell’agenda di questo governo”.

Sarebbe preoccupante se le tesi di Verona diventassero un programma di governo! Finché ci saremo noi, questo non accadrà mai.

Ma il logo della Presidenza del Consiglio è rimasto.

Il Presidente Conte, con la sua lettera, è stato chiarissimo. E con altrettanta chiarezza è stato chiesto il ritiro del simbolo dai manifesti: gli organizzatori ci hanno marciato, alla fine non l’hanno tolto. Questo però attiene alla loro onestà intellettuale.

E il ddl Pillon?

Non mi risulta che possa essere approvato. Grazie al Movimento si rimetterà mano alla materia con un testo proposto da noi e che rivede i punti critici di quel testo.

Si moltiplicano i temi su cui voi e la Lega siete in totale contrapposizione: diritti civili, Tav, castrazione chimica a proposito del ddl sul revenge porn… Come si concilia la diversità con la tenuta del governo?

Noi e la Lega abbiamo due visioni di società diverse. Ci siamo assunti la responsabilità di governare e ancora oggi credo valga la pena portare avanti l’esecutivo fino a quando riusciremo a realizzare gran parte del contratto, in cui sono contenuti molti dei temi fondamentali e identitari del M5S. La tensione di queste ultime settimane si ascrive al clima di campagna elettorale. Detto ciò, siamo due forze alternative: non ci alleeremo in futuro, né a livello a nazionale né locale. Adesso ognuno mette in discussione una parte di sé per fare delle cose. Ne stiamo realizzando molte: noi più dei nostri alleati, che a parte qualche battaglia di bandiera non stanno producendo molto. Ora la Lega gode di molti consensi: vedremo quel che accadrà quando dovrà raccontare cosa ha concretamente fatto. E vedremo chi avrà più risultati da sottoporre ai cittadini…

Ora i 5Stelle sparano sulla Lega: asse con il Colle sull’autonomia

Giocando di sfumature e facendo i pazienti (e i succubi) le hanno prese, tante. Allora adesso urlano le differenze dall’alleato per forza, da Matteo Salvini. Ergo, i 5Stelle puntano sui temi identitari, con un doppio obiettivo in testa. Perché la prima urgenza è non straperdere con il Carroccio alle Europee. Ma ora è tornato un avversario anche il Pd derenzizzato di Nicola Zingaretti. E se arrivasse sopra il M5S il 26 maggio, per Luigi Di Maio sarebbe un’apocalisse: ovvero “non terremmo più i gruppi parlamentari” come riassume un big. Così i 5Stelle devono mordere i coinquilini leghisti, ma anche recuperare a sinistra, rispolverando vecchi totem. Ma certi no restano. Primo tra tutti quello allo ius soli, un’eresia per il Di Maio che bollò le navi delle Ong come “taxi del mare”.

Le armi. La legittima difesa è una pillola trangugiata in nome del contratto di governo, con Salvini trionfante in Senato. E per compensare ieri i 5Stelle hanno detto no in coro a una proposta di legge firmata da 70 parlamentari leghisti per rendere più facile l’acquisto delle armi: “Nessun eletto del M5S la voterà mai”. Il capo del Carroccio in mattinata ha sminuito, con sillabe ruvide: “Di Maio non avrà problemi perché non ci sarà nessuna votazione da fare. Si preoccupi di quello che arriva in Parlamento”. Ma il Movimento non ha mollato la presa: “La proposta di legge non solo è arrivata in Parlamento, ma è stata già assegnata in commissione Affari costituzionali alla Camera. Siamo felici di sapere che la Lega sia contraria”.

Le autonomie. Anche se non lo ammetterà mai, Salvini non ci tiene neanche così tanto, anche perché sta allargando i suoi consensi al Sud. Ma i governatori di Veneto e Lombardia, Zaia e Fontana, cioè gli unici veri avversari che ha nel Carroccio, gli ricordano ogni giorno che le loro Regioni pretendono l’autonomia nella forma più larga possibile. Invece il M5S fa resistenza, contesta e prende tempo. Perché il suo granaio di voti è da Roma in giù e perché non può permettere alla Lega di alzare un trofeo del genere a stretto giro. E poi il Movimento può giocare di sponda con il Quirinale, come ricorda una fonte di governo a 5Stelle: “Mattarella ha detto chiaramente che le proposte delle Regioni non vanno bene, sono troppo estese. Ma soprattutto il Colle vuole assolutamente che il Parlamento possa emendare le intese con gli enti locali, senza doverle votare in blocco”. E non a caso ieri il presidente della Camera Roberto Fico, ricevuto giovedì al Quirinale, lo ha ribadito dal Veneto: “Sulle autonomie non è possibile pensare di correre o di utilizzare scorciatoie. Significa che il Parlamento non si limiterà a dire solo sì o no”.

Castrazione chimica. Il via libera al ddl Codice Rosso, quello per introdurre norme a tutela delle donne vittime di violenza, è slittato alla prossima settimana. E c’entra, eccome, l’emendamento della Lega che vorrebbe subordinare la sospensione della pena “a trattamenti inibitori della libido”, cioè alla castrazione chimica. Il Movimento ha fatto muro: “È una presa in giro delle donne”. E ieri ha schierato contro due ministri, quello alla Difesa Elisabetta Trenta e il Guardasigilli Alfonso Bonafede: “La castrazione chimica non è all’ordine del giorno, noi vogliamo mandare i colpevoli in carcere”.

Diritti civili. Nel contratto di governo non ce n’è traccia ed è la più rumorosa delle concessioni fatte al Carroccio. Però il Pd che risale nei sondaggi e il malumore di tanti iscritti e parlamentari ha fatto ricordare ai 5Stelle che un tempo sul blog votavano a favore delle unioni civili, anche omosessuali. Così sono tornati a parlare di fine vita, con Stefano Patuanelli che lo ha detto al Fatto: “Una legge sul tema serve, ce lo chiede la Consulta”. Ma soprattutto cannoneggiano da giorni contro il congresso mondiale di Verona delle famiglie, patrocinato dal ministro leghista Fontana. “No al nuovo medioevo” è l’anatema che ripetono dal Movimento. Per salvarsi l’anima, e riprendersi voti.

Nuovi diserbanti: Zanda

Qualche mese fa Eugenio Scalfari, sempre spiritoso, stilò un elenco di padri della Patria che partiva da Cavour e, passando per De Gasperi ed Einaudi, arrivava a Luigi Zanda. Noi restammo un po’ sorpresi, ma ora tendiamo a dargli ragione: questo Zanda l’avevamo un po’ sottovalutato. Stiamo parlando del millennial 77enne appena scelto da Zingaretti fra le nuove leve del Pd come nuovo tesoriere, per svecchiare il partito all’insegna del più spericolato rinnovamento. Nato a Cagliari nel 1942, il tenero virgulto ha lavorato ai vertici del Mose di Venezia, del Viminale con Cossiga, del gruppo Espresso, di Lottomatica, del Giubileo con Rutelli, del Palaexpo, della Rai, della Dc, del Ppi, della Margherita, del Pd veltroniano, franceschiniano, bersaniano, lettiano, renziano, gentiloniano e zingarettiano. Nel suo Palmarès di catastrofi manca solo il Titanic, ma esclusivamente per motivi anagrafici. Per non perdere un colpo, il mese scorso è diventato tesoriere del partito più indebitato d’Europa. E si è messo subito d’impegno, partorendo due ideone improntate alla più temeraria discontinuità: ripristinare il finanziamento pubblico ai partiti, abolito nel 2013 dallo stesso Pd il cui capogruppo era un certo Zanda; e aumentare lo stipendio dei parlamentari, appaiandolo a quello degli eurodeputati, cioè degli unici eletti dell’orbe terracqueo più pagati dei nostri.

Il combinato disposto della prima e della seconda proposta, opportunamente nascoste dai giornaloni, ha fermato l’ascesa del Pd zingarettiano nei sondaggi e di regalare un po’ di respiro, dopo mesi di affanno, al M5S. Zingaretti aveva appena annunciato di voler “parlare agli elettori delusi dai 5Stelle”. Ma Zanda l’ha preceduto e ci ha parlato lui, convincendoli che nessuna delusione, per quanto cocente, potrà mai riportarli all’ovile del Pd. Invano Zingaretti ha tentato di prendere le distanze senza prenderle e negando di averle prese, con la scusa che il Ddl Casta è un’iniziativa “personale” dello “stimato” e “autorevole” Luigi: qualcuno ci crederebbe se Zanda avesse proposto una riforma delle politiche forestali; ma nessuno ci crede quando il tesoriere del Pd propone due norme di sua stretta competenza, e soprattutto non le ritira, anzi le rivendica, rimane tesoriere e racconta pure frottole. Tipo che gli europarlamentari guadagnano meno di quelli italiani (media italiana 14 mila euro al mese, media europea 16-19 mila). Repubblica gli ricorda che sei anni fa lui stesso votò per abolire il finanziamento pubblico. E Zanda, serafico, conferma: “Ero capogruppo, ho votato sentendo il peso dell’antipolitica”.

Non solo: “Ora direi che potevamo fare diversamente e quella decisione ci deve insegnare che non può essere l’antipolitica a dominare il nostro lavoro”. Quindi votò e fece votare come capogruppo una legge a cui era contrario. Interessante. Peccato che l’“antipolitica” fosse la tardiva applicazione del referendum del 1993, in cui gli italiani avevano plebiscitariamente cancellato i finanziamenti pubblici ai partiti. I quali se n’erano allegramente infischiati e li avevano subito ripristinati, camuffandoli da “rimborsi elettorali” e fregandoci altri 2 miliardi. Ora Zanda racconta che, senza soldi pubblici e con stipendi ridotti, i parlamentari “sarebbero sempre più asserviti alle lobby finanziarie”. Come se i ladri di Tangentopoli rubassero per fame (guadagnavano quanto oggi e prendevano soldi statali). E come se fino al 2013, col finanziamento pubblico, i partiti fossero immuni da corruzioni e lobby.

Non bastando i danni che fa Zanda, ci si mette pure un tal Marco Miccoli, “coordinatore della comunicazione del Pd”: anziché invitare lo stimato e autorevole tesoriere a ritirare i suoi Ddl, non trova di meglio che prendersela con i 5Stelle per il loro scontato dissenso. Come se il Pd, per fare figuracce, avesse bisogno del M5S e non gli bastasse Zanda. Che è un po’ il Toninelli dei democratici. Uno sfollagente politico, un buttafuori da seggio, un diserbante elettorale. Nella scorsa legislatura aveva già contribuito parecchio alla rimonta pentastellata. Un giorno denunciava la “deriva antidemocratica” dei grillini, l’indomani cacciava dalle commissioni parlamentari i dissidenti Pd sulla controriforma costituzionale Boschi-Verdini e sull’Italicum incostituzionale. Un giorno difendeva “la centralità del Parlamento” contro la “democrazia diretta”, l’indomani inventava canguri e ghigliottine per silenziare le opposizioni. Un giorno negava inciuci con B. (che governava col Pd, direttamente o per interposti Alfano & Verdini), l’indomani si alleava con FI per bocciare al Senato il taglio dei vitalizi voluto persino da Renzi e votato persino dal Pd alla Camera. Poi dichiarava al Foglio di lavorare a un bel “fronte anti-Grillo” fra Pd e Forza Italia, ormai avviato a suo dire – “verso una forma di centrodestra liberale di livello europeo, alla Merkel e Rajoy”, da “sostenere contro le forze antisistema”. Che infatti vinsero puntualmente le elezioni. Lui però non si dà per vinto e continua a lavorare per loro anche in questa legislatura. Fraccaro presenta un ddl per tagliare il numero e la paga dei parlamentari? Zanda risponde con uno che lascia invariato il primo e aumenta la seconda. Di Maio lancia il reddito di cittadinanza per i disoccupati poveri e il salario minimo per gli occupati sottopagati? Zanda risponde col reddito di cittadinanza e il salario minimo per la Casta. Ancora un paio di iniziative come queste, e la rimonta M5S è assicurata. Neppure un infiltrato di Casaleggio nel Pd sarebbe tanto efficace. Invece di attaccarlo, i 5Stelle dovrebbero dargli la tessera per meriti speciali. Al confronto, come grillino ad honorem, Fassino è un dilettante.