Con le avventure di numero primo non giudicare dall’apparenza

Oggi presentiamo un altro libro, un libro che ha una storia affascinante ma anche qualcosa di un po’ strano, la storia di cui parliamo si intitola Le avventure di numero primo scritto da Marco Paolini e Gianfranco Bettini. Questo libro racconta la vita di un ragazzo ideato da una scienziata, sua madre, e messo al mondo da un’intelligenza artificiale molto avanzata. Il ragazzo che si chiama Numero Primo non è un ragazzo “normale” ma un giovane nato senza niente. Numero Primo conosce Ettore, suo padre, un sessantenne che si prenderà cura di lui, i due si capiranno subito, sia grazie al padre ma anche grazie a Numero Primo che impara tutto molto velocemente, capisce, crea, ascolta, beh, si può dire che è un ragazzo con molte capacità.

Gli autori ci vogliono mostrare che anche quando un ragazzo non è “normale” come gli altri è comunque intelligente, anzi forse anche di più. Infatti Numero Primo è la prova di questa teoria che mostra che un ragazzo partito dal nulla è comunque un piccolo genio. Le persone non si possono ritenere normali, visto che nessuno è uguale, dunque nessuno è normale come qualcun’altro ma possiamo tutti diventare quello che noi pensiamo che sia meglio grazie alle nostre capacità anche quando qualcuno nasce “strano”.

 

La disturbante energia di Zuzu, la nuova stella del graphic novel

La prima reazione di fronte a Cheese è la diffidenza: l’encomio preventivo di Gipi in quarta di copertina, i baloon delle vignette che sembrano quelli di Gipi, la sinossi che ricorda quelle dei graphic novel di Gipi: tre amici in periferia, tra droghe e noia, in attesa di una gara di formaggio rotolante. Giudizio sommario preventivo: questa Zuzu (Giulia Spagnulo, 23 anni) è soltanto una che prova a imitare Gipi. In effetti, si apprende dalle interviste, Giulia Spagnulo ha deciso di diventare una fumettista dopo aver letto La Mia Vita Disegnata Male di Gipi, e un po’ si vede. Ma sarebbe sbagliato fermarsi a questo. Perché questa Zuzu è un talento esplosivo come ne sono emersi pochissimi nel fumetto italiano in questi anni, finalmente un’autrice che riesce a combinare una formidabile potenza grafica con una capacità narrativa che rende la lettura scorrevole, costruisce personaggi esagerati nel disegno ma credibili cui è impossibile non affezionarsi. Zuzu, il personaggio omonimo dell’autrice (l’epidemia di autofiction ha contagiato il fumetto), ha un volto quasi mostruoso e indecifrabile, che viola ogni regola della prospettiva. La storia è inframmezzata da tavole gigantesche e terribili, variazioni sempre sullo stesso tema: le viscere di Zuzu che escono, esplodono, l’intestino che la avviluppa. Rappresentazioni mute di un disturbo alimentare di cui gli amici onnipresenti, Riccardo e Dario, non riescono a percepire la gravità. Se gli adolescenti provinciali di Gipi ricordano un po’ quelli di Pier Paolo Pasolini, Zuzu racconta millennial che pur non avendo affrontato veri drammi, soffrono un disagio costante. Che però lascia sprazzi a momenti di ingenuo romanticismo, perfino felicità, di fronte alle lucciole (riecco Pasolini) o a una forma di formaggio da far ruzzolare in un campo.

 

Mapplethorpe: anima e corpo senza confini

Nel vedere Self Portrait (1988), un autoscatto di Robert Mapplethorpe che apre la mostra a lui dedicata presso la Galleria Corsini di Roma, tornano alla mente le parole con cui l’amica di una vita Patty Smith lo ricorda nel libro Just Kids: “Un bambino vecchissimo”. Robert è lì, vestito di nero su sfondo nero, solo il volto stacca, gli occhi grandi e vivissimi fissano l’obiettivo, mentre il braccio va incontro a chi guarderà quella foto. La mano stanca è poggiata su un bastone, il cui pomello è un teschio: l’anno dopo, Robert morrà.

Certo, Mapplethorpe è noto soprattutto per i nudi maschili tra l’erotico e il pornografico – soprattutto a lui si deve lo sdoganamento del corpo maschile e del doppio senso nelle arti visive e nella pubblicità – e in qualche modo si finisce per chiedersi cosa staranno pensando la piissima Madonna col bambino di Orazio Gentileschi, la serafica Madonna delle Paglie di Aanton van Dick, la materna Madonna del Latte di Bartolomé Esteban Murillo conservate nella galleria romana di tutti questi membri eretti che hanno invaso le pareti.

Per Flaminia Gennari Santori, la curatrice dell’esposizione Robert Mapplethorpe – L’obiettivo sensibile, un fotografo, o meglio un artista come Mapplethorpe, “profondamente classico” e particolarmente attento alla forma, dialoga perfettamente con la collezione della galleria corsiniana, assai fondata sulla forma e sulla simmetria.

Anche se sono come isolati, quasi carcerati nelle ultime due sale dal difficile accesso, spicca la serie di nudi in cui Mapplethorpe immortala attori porno gay in pratiche estreme come il bondage e il sadomasochismo; tuttavia tanto in questi scatti assai espliciti come pure nei ritratti delle celebrità del suo tempo o nelle famose serie Flowers si avverte sempre un che di classico: l’attrice Catherine Olim posa come una madonna di corte, la culturista Lisa Lyon è la Venere di Prassitele, l’attore porno Marty Gibson tende l’arco come fosse una moderna iconografia di Apollo, il collega Dennis Speight si contorce come Il Discobolo, e il fotografo Marcus Leatherdale è un fauno nudo.

Solo un occhio miope, però, potrà leggere una qualche volgarità in questa ossessione artistica per il nudo maschile, per il membro maschile in piena voluttà. Per Mapplethorpe il corpo è un linguaggio, un codice infinito e vivo da esplorare e da salvare, proprio come l’anima lo era per la pittura sacra e simbolica, perché anima e corpo si appartengono e, come scrive Wystan Auden: “Anima e corpo non hanno confini”.

 

In Islanda niente ergastolo per i pedofili assassini: la vendetta è lunga e sanguinosa

Al solito, per noi latini del sud, i nomi sono impronunciabili. Hafnarfjörður è la terza città dell’Islanda, l’isola-Stato tra vulcani e gelo groenlandese. Il clima ideale per un thriller cupo, ventoso e denso di enigmi. È il 2004 quando la povera Vaka, appena otto anni, viene violentata e uccisa nella casa di una compagna di scuola. Pedofilia. A finire in galera è il papà dell’amichetta, peraltro violento e alcolista. Niente ergastolo. E così dopo dodici anni è di nuovo in libertà.

È il sistema in vigore lassù e Freyja prova a spiegarlo alla mamma di Vaka, sconvolta dall’aver visto per strada l’assassino della figlioletta. “È molto ingiusto, sono d’accordo con lei. Ma questo è il nostro sistema giudiziario. Una condanna all’ergastolo non è sempre la soluzione migliore: c’è il rischio che le persone commettano crimini ancora peggiori quando si sentono in trappola. Un assassino potrebbe decidere di uccidere tutti i testimoni del delitto, dal momento che sarebbe comunque condannato a passare in prigione il resto della sua vita”. Non è quindi una questione di funzione rieducativa del carcere, anche perché i pedofili non si redimono quasi mai. Freyja è una psicologa dell’infanzia ed è caduta in disgrazia per un’indagine passata di Huldar, a sua volta degradato da capo ad agente. I due si ritrovano insieme ché il pedofilo assassino, di nome Jón Jónsson, esce dal carcere e qualcuno comincia una truce serie di omicidi. Le iniziali delle vittime sono contenute in un messaggio emerso da un’iniziativa scolastica risalente a un decennio prima: la capsula del tempo. Gli studenti dovevano prevedere cosa sarebbe accaduto nel 2016. E il messaggio è del figlio di Jónsson. Un thriller più che avvincente.

 

 

La confessione diventa resurrezione con María

“Sono venuta a confessare un delitto”. Esordisce così María, protagonista del romanzo che porta il suo nome. “La storia più triste che abbia mai ascoltato”, dichiara il narratore. Fidatevi. Esile, anonima, scialba ma perbene, María ha l’accento sulla i. “Si sbagliano sempre nei documenti”, spiega. Di cognome fa Liberati. Lìberati, accentando anche la prima di queste due i. Un imperativo. Ottativo, anzi: invito, preghiera, supplica. E, dato che è nata a Malo, è impossibile resistere alla tentazione di leggere quelle parole alla latina, trasformandole in un’invocazione cristiana: “Lìberati dal male”, María. È il male, infatti, il protagonista del romanzo. Avvinghia la donna nelle sue spire, stritolandola fino alla soglia della follia (“Fossi sul punto di morire, sarei felice”); appassiona e commuove i due poliziotti che ne raccolgono la testimonianza. La dottoressa Vitale (aggettivo significativo, sapientemente travestito da cognome) e Santini che, stilando il verbale, riconosce in María la qualità che più conta in una voce: l’umanità. Storia vera? No. Eppure verissima. E drammaticamente universale. “Una storia che Shakespeare e Dostoevskij non se la sognano nemmeno”. Noi che l’abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, però, rifiutiamo di vederla. Una storia figlia di un mondo nel quale la norma è il male. Il bene “è qualcosa di anormale”, riflette la Vitale. “Accidentale, gratuito. È un miracolo, se capita, non ci si può contare”.

Il male si chiama Giovanni. Male assoluto. Animato da una “violenza congelata, rappresa”. Sposa María ma la odia. La sua furia trasforma in bestia lui e fa vivere nel terrore lei. Terrore fisico e psicologico. E, quando la penetra, lo fa con violenza e cattiveria: “Sembrava volesse squarciarmi il ventre”. “Le porte dell’inferno”. Inferno del quale María si sente complice. “Confesso di aver provato piacere così, in modo furtivo, rubato, mi vergogno, ma è così che godevo con lui”. È la violenza che la tiene stretta a lui. Violenza e dolore. “Imparavo ad amare chi lottava per disfarsi di me, questa era la mia follia”. Tutto questo, fino all’uno-due che darà a María la forza di dire quel “no” che, quando lo dice una donna, è per sempre: omicidio e gravidanza. Morte e nascita. Rinascita, anzi: “Una madre nasce dal figlio”. Giovanni – che ha un’amante (Rosalia) – obbliga sua moglie a guardare mentre lui uccide a sprangate l’uomo che gliela insidia, poi, quando María rimane incinta (“una luce che mi abbagliò e mi resi conto che non è soltanto il buio ad accecare”), prova a farla abortire e infine la costringe a rinunciare alla maternità: “Non lo riporterai a casa con noi perché, se viene, ammazzo anche lui di botte”. Da qui la confessione – e la resurrezione – di María, raccontate magistralmente. Pagine tese, intense, dolorose, profonde. Da troppo tempo, del resto, Nadia Fusini vive immersa nella grande bellezza per non rifletterla. “Io voglio vivere in un mondo senza padri – scriverà María nel suo diario: in un mondo di madri e figli e figlie”. Forse non il mondo perfetto ma di certo infinitamente migliore di questo. “L’amore materno è davvero oltre la morale. Al di là del bene e del male”.

 

Primo Levi: il palco scandisce (in parte) le iniziative per i 100 anni dalla nascita

Quando oltre cinquant’anni fa a Primo Levi fu proposto di portare sulle scene il suo Se questo è un uomo, lo scrittore torinese non nascose i dubbi. “Avevo anche paura del teatro stesso”, disse, “conoscevo troppo poco il teatro, sia da spettatore, sia da lettore, per accingermi all’impresa”. Poi, però, si convinse. E nel 1966, per il Teatro Stabile di Torino, assieme a Pieralberto Marché curò la riduzione del libro sull’inferno di Auschwitz, con la regia di Gianfranco De Bosio.

Proprio il teatro, ora, scandisce una parte delle iniziative per i cento anni della nascita di Levi (1919-1987), promosse, in Italia e all’estero, dal Comitato Nazionale per le celebrazioni del centenario e dal Centro studi internazionale Primo Levi. A dare il via, in occasione del Giornata della Memoria, è stata infatti la lettura di Fabrizio Gifuni di alcune pagine tratte dai suoi libri nell’ex campo di concentramento di Fossoli, dove, 75 anni fa, per l’autore de La tregua cominciò il viaggio verso il lager nazista. Alle letture di testi che sono fatte da attori e attrici come Gioele Dix (in scena anche al Teatro Franco Parenti di Milano), Sonia Bergamasco e da Gifuni (che stasera, al Teatro Regio di Torino, si cimenta con I sommersi e i salvati), si aggiunge e spicca, nel programma, l’allestimento di Se questo è un uomo del regista Walter Malosti, con Paolo Pierobon, in scena al Carignano di Torino dal 23 aprile al 12 maggio. Ma già a gennaio, al Teatro India di Roma, al primo libro di Levi è stato dedicato un recital con Jacob Olesen, per la regia di Giovanni Calò. E sempre a gennaio, all’Eliseo d Roma, è andato in scena Shoah, un “canto recitato” a più voci scritto da Giuseppe Manfridi e ispirato a Se questo è un uomo. A Bergamo, poi, Gabriele Laterza ha proposto lo spettacolo di narrazione Uomini e no – Dante e Primo Levi.

Scrisse Levi sui Quaderni del Teatro Stabile di Torino, nel 1966: “Il pubblico teatrale è lì, ti guarda, ti aspetta al varco, ti giudica”.

 

Ranieri le canta anche a Cechov

Massimo Ranieri, o come sfidare la forza di gravità diaframmatica cantando seduti in poltrona; Massimo Ranieri, o come sfidare la forza di gravità teatrale cantando Cechov come fosse il primo degli chansonnier: va bene maritare la musica con il salotto, la prosa con la musica, la Russia con la Francia, ma le licenze poetiche sono davvero troppe per tenere tutto insieme. Così de Il gabbiano (à ma mère), la mère si salva, Il gabbiano no.

Liberamente, molto liberamente, ispirato al dramma lacustre di Cechov, questo Gabbiano adattato e diretto da Giancarlo Sepe non convince, non del tutto e non teatralmente, almeno, nonostante le rassicuranti giustificazioni all’intera operazione: l’autore – scrive il regista nelle note – “voleva capire il perché dell’insuccesso della sua pièce e chiama l’unica persona affidabile, un critico musicale di origine francese, Marcel. La messinscena parte dalle sue parole, che diventano battute del testo e frasi di canzoni meravigliose. Musica e Cechov: un connubio che sa di favola e di miracolo”.

A Ranieri è affidata ovviamente la parte musicale – come interprete di Ferrè e Aznavour, Brel e Piaf, Lama e Becaud –, alla compagnia la recita, ridotta all’osso e concentrata sul rapporto tra madre e figlio, ridimensionando di molto gli amorazzi (sempre non corrisposti) di tutti gli altri personaggi. E infatti i figli in scena sono due: lo stesso Ranieri e Francesco Jacopo Provenzano, due Kostja immaginati in due diverse età della vita. Li affiancano Pino Tufillaro nei panni di Trigòrin; Federica Stefanelli, alias Nina; Martina Grilli che fa Mascia; Caterina Vertova che interpreta l’Arcàdina ed è la più in parte, stizzosa e volitiva, maliarda e dolente, tanto da madre quando da primattrice.

Il testo, scarno e con molti materiali spurii, si alterna alle canzoni e a quadri di pura danza e mimo: la drammaturgia di scena risulta così eterogenea, se non confusa e stucchevole. A ciò si aggiunga che la recitazione è quasi sempre frontale – nella pur elegante scenografia di Uberto Bertacca – e che il tappeto sonoro è pressoché costante: adieu tristesse, buongiorno melodramma.

Alla bidimensionalità si sottrae la magistrale performance del Ranieri cantante; viceversa, Cechov è il più sacrificato, anche per i tagli alla trama: via il cinico medico Dorn; via l’alcolismo di Mascia; del lago c’è un pallido spettro; si parla troppo d’amore “senza perdono” (boh); il suicidio è ridimensionato, il metateatro pure e il finale completamente stravolto. “Ci sono tre parti femminili, sei maschili, quattro atti, un paesaggio (veduta sul lago); molti discorsi sulla letteratura, poca azione, tonnellate di amore”, spiegò l’autore nel 1895. A spanne, è rimasto ben poco.

 

Da graphic novel a pellicola: Castellitto omaggia Scola

Sergio Castellitto sta per dirigere Un drago a forma di nuvola, il suo settimo lungometraggio di cui sarà protagonista con Berenice Bejo oltre che autore con Margaret Mazzantini: la sceneggiatura è tratta da un copione omonimo di Ettore Scola e Furio Scarpelli diventato nel 2014 un graphic novel firmato da Ivo Milazzo. È la storia di amore e sacrificio di un libraio antiquario, tenero e bizzarro, che dedica la vita all’assistenza di una figlia disabile fino all’incontro con una giovane donna destinata a rivoluzionare le sue rassicuranti abitudini. Producono Rodeo Drive, Mon Voisin Productions, Rai Cinema eTikkun Productions con il sostegno di Eurimages.

Dopo le rispettive, ottime prove nel film di Valeria Golino Euforia, Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea torneranno a recitare insieme in Infedeli, una commedia a episodi diretta da Stefano Mordini per HT Film e Indigo, ispirata alla pellicola francese del 2012 Les infidèles con Jean Dujardin e Gilles Lellouche, i quali, a loro volta, omaggiavano I mostri di Dino Risi.

Clive Owen, Jasmine Trinca, Irène Jacob e Andrea Carpenzano girano in questi giorni tra Rieti e dintorni Guida romantica a posti perduti, un road movie brillante e romantico diretto da Giorgia Farina e prodotto da Oplon Film e Rai Cinema.

Pappi Corsicato inizierà a dirigere lunedì a Napoli la sua prima serie tv intitolata Vivi e lascia vivere: protagonista Elena Sofia Ricci nel ruolo di una donna alle prese con i tre figli; tra gli altri, anche Iaia Forte, Massimo Ghini e Orsetta De Rossi. Il family, prodotto da Bibi Film per Raifiction in 12 puntate, andrà in onda su Rai 1 a fine anno.

 

Un fantasy diversamente vampiresco

Border trasla sullo schermo il racconto Gräns di John Ajvide Lindqvist, uno scrittore svedese che cinematograficamente conosciamo già: suo il romanzo diversamente vampiresco Lasciami entrare, adattato alla grande da Tomas Alfredson nel 2008 e quindi travasato in una serie. Il materiale letterario si conferma buono, con la differenza che Lasciami entrare constava di 450 pagine, Border di 50, perlopiù devote ai pensieri della protagonista, sicché il regista Ali Abbasi, coadiuvato dallo stesso Lindqvist e dall’altra sceneggiatrice Isabella Eklöf, ha dovuto rimpolpare, accostando a quella principale una sottotrama investigativa.

Non la definiremo spuria, ma pur non avendo letto il racconto ci avremmo giurato: si sente se non l’estraneità, la disomogeneità, ovvero la funzionalità drammaturgica, l’occasionalità narrativa dell’innesto. Lo stesso catalizzerà un finale geometrico, omnicomprensivo e oltremodo edificante: troppa grazia. Eppure, prima Border giustifica la vittoria di Un Certain Regard a Cannes 2018, non ruba l’“intrigante” attribuitogli dal New York Times, addirittura, non fa stracciare le vesti critiche al cospetto dell’ardito Screen International: “Non avete mai visto niente di simile”. Perché nella fortunata e oramai un po’ usurata cornice del realismo scandinavo, trova modo di riflettere sul diverso o, meglio, sulla comunanza nell’alterità, e viceversa: quanto sono simili a noi quei vampiri richiedenti asilo, e quanto possono esserlo dei troll in grado di fiutare le emozioni, la colpa e la vergogna? La protagonista Tina, una strepitosa, tenera e truccatissima Eva Melander, non sa di non essere umana, si pensa solamente brutta, sessualmente proibita, però formidabile segugio: arriccia le labbra, spalanca le nari, e alla dogana non le sfugge niente e nessuno. Finché davanti non le passa Vore: stessi capelli, medesimo grugno, analoghi occhi infossati, sappiamo prima noi di lei che son fatti della stessa pasta, che sono della stessa razza.

Il ravvedimento di Tina è tanto operoso quanto amoroso: copula, e la scena ha un suo estatico perché, fa il bagno nel lago, mangia larve e tramite Vore si fonde panicamente con la natura, propria e ambientale, troppo a lungo negata. Ma se sopra il cielo è stellato, dentro Tina la legge è morale, e non ci sono sentimenti personali e appartenenze di specie che tengano: qual è il confine, quello che dirime davvero? Qual è lo zenit del nostro agire, del nostro giudicare? La risposta di Tina è massimamente anticiclica rispetto a quel che viviamo oggi nella società e nella politica: non l’identità, ma l’alterità; non la convenienza, ma l’etica; non la vendetta, ma la giustizia. L’io è un altro, come per Rimbaud, il determinismo va a cuccia, la cultura ha la meglio sul sangue: sì, Tina è una creatura di confine, e ha molto da dirci, esageriamo, da insegnarci. Occhi, cuori e porti, c’è sempre qualcosa da aprire: parola di troll.

 

Sabrina Ferilli torna su Canale 5: “Una storia vera di malagiustizia, a danno di minori”

“I l giudizio della gente sa essere più cattivo di quello dei tribunali”, dice Sabrina Ferilli, protagonista della serie in sei episodi L’amore strappato, in onda da domenica 31 marzo, in prima serata, su Canale 5. La fiction s’ispira alla storia vera della famiglia Lucanto (nella trama sono i Macaluso). Il papà (interpretato da Enzo Decaro) viene accusato ingiustamente di aver abusato della figlia di 11 anni; finisce in galera con la lettera scarlatta del pedofilo. La piccola viene brutalmente strappata ai genitori e portata in una casa famiglia. A dare battaglia resta la madre (Sabrina Ferilli), che non riesce a credere di aver sposato un mostro. Il tribunale minorile e gli assistenti sociali invece sono convinti di sì: ci vorranno anni per giungere alla verità.

Ieri, al cinema Cavour di Roma, con il cast al completo c’erano anche i coniugi Lucanto. Il padre, Salvatore, ricorda la sofferenza atroce di passare per pedofilo: “Per fortuna c’era mio figlio e la mia famiglia, altrimenti oggi non sarei qui”. Non gli va giù che nessuno abbia pagato e chiesto scusa: “Gli errori accadono perché attorno alla giustizia dei minori è nato un business”, dice Salvatore. Prima della fiction, l’Odissea era stata raccontata nel libro Rapita dalla giustizia, di Caterina Guarnieri e Maurizio Tortorella. Alla conferenza ci sono entrambi, e Tortorella (giornalista del Sole 24 Ore) dice: “Un giudice su quattro del tribunale dei minori ha interessi nelle Case famiglia”. Su Canale 5 però non vedrete un’inchiesta giornalistica, ma una storia di coraggio.