Border trasla sullo schermo il racconto Gräns di John Ajvide Lindqvist, uno scrittore svedese che cinematograficamente conosciamo già: suo il romanzo diversamente vampiresco Lasciami entrare, adattato alla grande da Tomas Alfredson nel 2008 e quindi travasato in una serie. Il materiale letterario si conferma buono, con la differenza che Lasciami entrare constava di 450 pagine, Border di 50, perlopiù devote ai pensieri della protagonista, sicché il regista Ali Abbasi, coadiuvato dallo stesso Lindqvist e dall’altra sceneggiatrice Isabella Eklöf, ha dovuto rimpolpare, accostando a quella principale una sottotrama investigativa.
Non la definiremo spuria, ma pur non avendo letto il racconto ci avremmo giurato: si sente se non l’estraneità, la disomogeneità, ovvero la funzionalità drammaturgica, l’occasionalità narrativa dell’innesto. Lo stesso catalizzerà un finale geometrico, omnicomprensivo e oltremodo edificante: troppa grazia. Eppure, prima Border giustifica la vittoria di Un Certain Regard a Cannes 2018, non ruba l’“intrigante” attribuitogli dal New York Times, addirittura, non fa stracciare le vesti critiche al cospetto dell’ardito Screen International: “Non avete mai visto niente di simile”. Perché nella fortunata e oramai un po’ usurata cornice del realismo scandinavo, trova modo di riflettere sul diverso o, meglio, sulla comunanza nell’alterità, e viceversa: quanto sono simili a noi quei vampiri richiedenti asilo, e quanto possono esserlo dei troll in grado di fiutare le emozioni, la colpa e la vergogna? La protagonista Tina, una strepitosa, tenera e truccatissima Eva Melander, non sa di non essere umana, si pensa solamente brutta, sessualmente proibita, però formidabile segugio: arriccia le labbra, spalanca le nari, e alla dogana non le sfugge niente e nessuno. Finché davanti non le passa Vore: stessi capelli, medesimo grugno, analoghi occhi infossati, sappiamo prima noi di lei che son fatti della stessa pasta, che sono della stessa razza.
Il ravvedimento di Tina è tanto operoso quanto amoroso: copula, e la scena ha un suo estatico perché, fa il bagno nel lago, mangia larve e tramite Vore si fonde panicamente con la natura, propria e ambientale, troppo a lungo negata. Ma se sopra il cielo è stellato, dentro Tina la legge è morale, e non ci sono sentimenti personali e appartenenze di specie che tengano: qual è il confine, quello che dirime davvero? Qual è lo zenit del nostro agire, del nostro giudicare? La risposta di Tina è massimamente anticiclica rispetto a quel che viviamo oggi nella società e nella politica: non l’identità, ma l’alterità; non la convenienza, ma l’etica; non la vendetta, ma la giustizia. L’io è un altro, come per Rimbaud, il determinismo va a cuccia, la cultura ha la meglio sul sangue: sì, Tina è una creatura di confine, e ha molto da dirci, esageriamo, da insegnarci. Occhi, cuori e porti, c’è sempre qualcosa da aprire: parola di troll.