Coez: “Mi sento sovversivo ma con il sorriso”

Una cerniera. Coez – nome d’arte di Silvano Albanese – è oggi l’unico artista capace di far dialogare due generazioni attraverso un ponte immaginario tra i cosiddetti artisti di Spotify e quelli dei canali tradizionali. Galeotto fu il singolo La musica non c’è – ma ci sono alle spalle quattro album e tanta gavetta –, con una frase entrata di diritto nell’immaginario collettivo, “Ho una scuola di danza nello stomaco”. È bello il nuovo album in uscita oggi, alza ulteriormente l’asticella dell’artista verso il pop senza rinnegare il percorso da rapper. Il segreto principale è l’onestà di ciò che racconta, lo sguardo tipico dei bambini e la semplicità di descrivere gesti magari poco eroici ma sinceri.

Nell’album colpisce “Domenica”, con un omaggio alle sonorità anni 80. Azzardiamo, sarà tormentone dell’estate, è d’accordo?

Il brano è nato tre mesi dopo Faccio un casino, è come se proseguisse l’onda. È il pezzo più partecipato del mio collaboratore Niccolò Contessa, io ho portato il mio mondo di Vasco e anche Una domenica bestiale di Fabio Concato e lui quello di Battisti.

“Vorrei fosse domenica, tu con i piedi sul cruscotto, io il braccio che penzola, l’orologio sotto il sole che scotta”. La sentiranno tutti come uno spaccato dei propri ricordi, è quello il goal per lei?

Ho iniziato emulando i rapper americani, adesso mi viene di parlare di cose più accessibili a tutti. Verso i 26 anni ho voluto iniziare a scrivere vere canzoni, metabolizzando ciò che ho imparato dal rap. Per canzoni rap universali intendo Quelli che ben pensano di Frankie Hi-Nrg e Aspettando il sole di Neffa. E, più recentemente, Stavo pensando a te di Fabri Fibra.

Lei è restio a fare i featuring nei suoi dischi.

Preferisco cantare io. Ho partecipato a un brano di Gemitaiz e in uno di Madman oltre a Sparare alla luna di Salmo. È stata Netflix a chiederci un brano insieme: ce l’avevamo nel cassetto, perché durante la registrazione di Hellvisback avevo proposto a Salmo di fare una canzone insieme, ma per vari motivi non entrò nel suo album.

Con Salmo la accomuna lo stesso rigore stilistico.

È un amico. Per certi versi siamo agli opposti eppure simili. Nessuno dei due è cambiato per il successo: continuiamo a fare le cose che ci piacciono, non è che edulcoriamo i brani per farci passare dalle radio.

“E tu che abbassi gli occhi quando dico che sei sempre più bella” (“È sempre bello”), “Mi sento vivo soltanto quando intorno a me c’è tanto rumore” (Aeroplani”). Il suo stile ricorda l’intimismo di Samuele Bersani, le frasi taglienti di Daniele Silvestri e le visioni di Vasco Brondi. Lei racconta i sentimenti senza dover per forza passare per vincente.

È vero, ad esempio in La tua canzone canto “Amare me è difficile come amare chi va via”, riferendomi a chi ci lascia definitivamente. Sono immagini nate da sensazioni, provo sempre a metterle in una frase. Trovo molto romantico dire “Amare te è facile come odiare la polizia”.

Questo le procurerà i bacini del ministro Salvini, ne è consapevole?

E va be’ (ride, ndr). Eppure la trovo una frase romantica. Sovversivo col sorriso.

Lei in “Catene” canta “Mi colpisce tutto quest’odio, giuro non vi fa bene”.

Non so bene se tutto questo è stato generato dai social o i social hanno fatto da cassa di risonanza del malcontento. Io ad esempio non sono onnipresente, non posto il pezzo di carne che sto per mangiare, mi stressa. Uno dei periodi più belli della mia vita è stato quando ho smarrito lo smartphone dentro un taxi in Thailandia. Per quasi venti giorni ho vissuto senza essere connesso, una liberazione!

Coez prima del tour autunnale si esibirà a Roma il 28 e il 29 maggio al Palazzo dello Sport

Stragi negli Usa, un pulsante può salvare la vita

“Vanno tutti in giro armati e il tizio che mi viene incontro nel corridoio della scuola può cominciare a sparare all’impazzata da un istante all’altro: speriamo che lo faccia dopo avermi incrociato”: pensieri d’un padre di famiglia, probabilmente europeo, mentre va a incontrare i professori del figlio in un liceo americano.

Fino a ieri. Perché, adesso, c’è un antidoto alla paura. “Questa la so, è facile: aumentare i controlli sulle vendite di armi”. Risposta sbagliata, da liberal impenitente; o da miscredente europeo, senza culto del secondo emendamento della Costituzione statunitense, quello che autorizza i cittadini a essere armati. La risposta giusta ce l’ha una startup israeliana: piazzare ovunque un sacco di pulsanti anti-panico, da azionare in caso di sparatorie di massa, nel tentativo di evitare che le sparatorie diventino carneficine. L’azienda, la Gabriel, ha già trovato i suoi primi acquirenti Usa e doterà dei pulsanti 25 luoghi di ritrovo della comunità ebraica di Detroit. L’idea è di piazzare i dispositivi, che chiamano la polizia se azionati, lanciano un allarme sonoro e mettono in opera video-camere e microfoni nelle scuole, nei luoghi di culto – chiese, sinagoghe e moschee sono tutti potenziali obiettivi, di questi tempi – ed eventualmente pure nei luoghi di lavoro – gli uffici postali sono un obiettivo frequente dei frustrati da licenziamento armati –. L’anno scorso, negli Stati Uniti, secondo il Gun Violence Archive, una organizzazione Usa non profit, ci sono stati 340 attacchi a mano armata con vittime, a parte lo sparatore spesso finito suicida o ammazzato: quasi uno al giorno in media. Gli americani che muoiono per armi da fuoco sono 11 volte più numerosi, in percentuale della popolazione, che in qualsiasi altri Paese sviluppato, secondo uno studio del 2014. Naturalmente, molti pensano semplicisticamente che una risposta al problema sarebbe rendere più difficile l’acquisto di armi. Ma una grossa fetta di cittadini americani corre ad armarsi di più dopo ogni sparatoria, nel timore che qualcuno a Washington introduca limitazioni alle vendite di armi (adesso che alla Casa Bianca c’è Trump, il problema non si pone). La Gabriel è convinta che i suoi pulsanti possano ridurre le vittime delle sparatorie facendo arrivare prima sul luogo la polizia: quindi, non prevenire, ma accorciare i tempi d’intervento. L’azienda cita una serie di episodi in cui l’inefficienza delle forze dell’ordine nell’entrare in azione contribuì a aumentare il numero delle vittime, o consentì al o ai killer di sottrarsi alla cattura. Parlando al Guardian, Yoni Sherizen, fondatore della Gabriel, chiama la sua trovata “il cugino di un allarme anti-incendio”, perché molto gli assomiglia, anche se è molto più intelligente e sa dare a chi s’appresta a far pervenire molte più informazioni in tempo reale sui luoghi da cui proviene la chiamata. Il kit di base costa 10 mila dollari: la conferma che gli americani prima spendono molto per armarsi e poi spendono di più per affidare la loro sicurezza a costose installazioni difensive o per addestrarsi a come comportarsi in caso di attacco – un mercato da 2,7 miliardi di dollari nel 2017 –. Ma, nonostante il training dei bidelli a disarmare gli aggressori, i maggiori controlli, i metal detector all’ingresso e altre trovate, le sparatorie nelle scuole non sono diminuite negli ultimi trent’anni. Numerosi esperti dubitano che i pulsanti anti-panico siano il toccasana. Fra quelli di Gabriel ce n’è uno che l’anno scorso ha perso la figlia di 14 anni nella sparatoria al liceo di Parkland in Florida.

Il suprematista australiano e i soldi all’amico viennese

Predicano e diffondono in Austria la teoria della “grande sostituzione” – gli immigrati africani e mediorientali vorrebbero prendere il posto dei bianchi in Europa e per questo sono da arginare in ogni modo –; celebrano la vittoria dei turchi ottomani alle porte di Vienna nel 1683; nel 2017 raccolsero 150 mila sterline con cui noleggiarono una nave per fermare i migranti che attraversavano il Mediterraneo dalla Libia e, come se non bastasse, il loro leader Martin Sellner avrebbe dei legami con Brenton Tarrant, uno degli assalitori delle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda.

Si tratta degli “identitari” (Identitäre Bewegung Österreichs), il movimento di estrema destra paneuropeo ostile al multiculturalismo, ora schedato come “organizzazione terroristica” e quindi a rischio di essere messo fuori legge a Vienna. Tarrant, infatti, pare abbia donato a Sellner 1.500 euro, secondo i magistrati. Lui non nega, ma sostiene che questo non significhi un’unità di intenti con il benefattore e quindi con il suo intento terroristico. Eppure secondo il ministro degli Interni austriaco, Herbert Kickl, il suprematista australiano avrebbe visitato i land dal 27 novembre al 4 dicembre scorsi, nell’ambito del suo tour europeo. Il sospettato di aver ucciso 50 persone nell’assalto alle moschee il 15 marzo sarebbe infatti arrivato in Austria dall’Ungheria per poi spostarsi a Tallinn, capitale dell’Estonia, percorrendo più di 2 mila chilometri con un’auto a noleggio. Nei suoi spostamenti Tarrant avrebbe anche visitato la Corea del Nord nel 2014 con un gruppo turistico in cui c’erano anche tre austriaci. Tutto a conferma dei suoi legami con il paese di Sellner che in un video postato online lunedì, ha dichiarato di aver ricevuto una email con una donazione “spropositatamente grande” da un certo ‘Tarrant’, a cui si sarebbe limitato a rispondere ‘grazie’ come agli altri. “Non ho nulla a che vedere con l’attacco terroristico”, ha ribadito Sellner, dopo che gli inquirenti hanno fatto irruzione nel suo appartamento di Vienna lunedì sequestrandogli telefonino, pc e altri dispositivi elettronici. Sellner, che continua a sostenere di essere a capo solo di “un gruppo pacifico anti-immigrazione”, è in realtà il nuovo volto dell’estrema destra europea, la cui organizzazione fa parte di un più ampio movimento identitario con filiali in tutta l’Europa occidentale, il Nord America e la Nuova Zelanda. Classe ’89, cresciuto in un piccolo e ricco centro della periferia di Vienna, fin da adolescente Sellner – jeans attillati, barba e capelli da hipster – è stato legato a gruppi neonazisti. Il suo mentore era Gottfried Kussel, considerato la figura centrale della scena neonazista austriaca, in carcere per i contenuti razzisti e antisemiti e altri 240 reati commessi da suo sito online, anche se in seguito ne ha preso le distanze.

Nel 2012 ha fondato Ibo Austria con l’intento di opporsi al liberalismo, al multiculturalismo e all’Islam: “Ogni razza deve restare confinata nella propria patria etnica”. Si oppone alla Nato e “all’imperialismo Usa”, sostiene l’economia anticapitalista e un’alleanza degli Stati europei sotto la Russia. Dichiara di essere un non violento, ma le sue tattiche abbracciano scontro, provocazioni e minacce, come quando nel 2016 i membri dell’Ibo invasero il palco durante uno spettacolo teatrale all’università di Vienna dove attori rifugiati mettevano in scena una piece, sventolando uno striscione sporco di finto sangue. Già nel 2018 le autorità austriache hanno cercato di perseguire Sellner e i suoi seguaci con l’accusa di incitamento all’odio e organizzazione criminale, ma una sentenza lo scorso luglio li ha assolti. In quest’ultimo anno, Sellner ha trascorso parecchio tempo negli Usa, Paese natale della sua fidanzata nonché attivista suprematista Britney Pettibone, famosa per le sue teorie sul “genocidio bianco” per cui è rientrata nella lista dell’odio Usa, partecipando alle trasmissioni di James Allsup, youtuber di estrema destra presidente dei Repubblicani universitari di Washington. Finora la coppia si è anche aggiudicata un divieto di ingresso nel Regno Unito.

Preti, abusi e coperture. La rinuncia al battesimo: rivolta contro la Chiesa

Monique D., il 20 marzo: “È deciso: chiederò alla mia diocesi di cancellare il mio nome dalla lista ‘eterna’ dei battezzati. L’apostasia in risposta a questa Chiesa che era, è stata e sembra voler restare complice di crimini odiosi”. Jean-François B, lo stesso giorno: “Dopo il comportamento indegno del vescovo di Lione e la complicità del Pontefice, farò anche io domanda di apostasia. Non posso avallare un’istituzione deviante”. Sono solo due delle tante testimonianze che si leggono su #Apostasie da quando papa Francesco ha rifiutato le dimissioni del cardinale di Lione, Philippe Barbarin. A scrivere sono i delusi della Chiesa, quelli che, disgustati dagli scandali di pedofilia e di abusi dei preti sulle suore, intendono rinunciare al battesimo.

Monique D., il 20 marzo: “È deciso: chiederò alla mia diocesi di cancellare il mio nome dalla lista ‘eterna’ dei battezzati. L’apostasia in risposta a questa Chiesa che era, è stata e sembra voler restare complice di crimini odiosi”. Jean-François B, lo stesso giorno: “Dopo il comportamento indegno del vescovo di Lione e la complicità del Pontefice, farò anche io domanda di apostasia. Non posso avallare un’istituzione deviante”.

Sono solo due delle tante testimonianze che si leggono su #Apostasie da quando papa Francesco ha rifiutato le dimissioni del cardinale di Lione, Philippe Barbarin. A scrivere sono i delusi della Chiesa, quelli che, disgustati dagli scandali di pedofilia e più di recente dalle rivelazioni sugli abusi dei preti sulle suore, intendono rinunciare al battesimo. In Francia sono sempre più numerosi. Per molti è stato l’affaire Barbarin, scoppiato nel 2016, con i suoi ultimi sviluppi, a far scattare la decisione di farsi “sbattezzare”. Lo scorso 7 marzo il porporato è stato condannato a sei mesi per aver coperto gli abusi su giovani scout di un prete pedofilo, padre Bernard Preynat. Il 18 marzo Barbarin è stato ricevuto in Vaticano, ma papa Francesco ha respinto le sue dimissioni in nome della “presunzione di innocenza”.

Nel frattempo infatti il cardinale ha fatto appello. Quel giorno le parole di François Devaux, fondatore dell’associazione La Parole Libérée, che rappresenta le vittime del padre Preynat, sono state molto dure. Devaux ha definito papa Francesco un “traditore”, un “Giuda”: “Quando si difendono valori che non si rispettano, quando si ricevono rapporti dell’Onu senza darvi seguito, quando si promette tolleranza zero e non si applica, che altre parole usare?”. Il sito di La Parole Libérée raccoglie centinaia di testimonianze. Géraldine, 27 marzo: “Sono battezzata, ma non mi sono mai riconosciuta in questa religione e qualche anno fa mi sono resa conto che non volevo più essere considerata come ‘una di loro’. Ora ho deciso di farmi sbattezzare”. Come altri, anche Géraldine, che ci pensa da tanto, si è convinta dopo aver visto il film Grâce à Dieu di François Ozon che rivela la verità sugli abusi del padre Preynat e il silenzio delle gerarchie. Julien, 26 anni, omosessuale, ha deciso di lasciare la Chiesa dopo che papa Francesco ha raccomandato la psichiatria per i bimbi gay: “Crescendo ho sentito un divario troppo forte tra la mia sessualità e la religione – ha detto al giornale online Slate – come gay, mi sento escluso”.

Altri ancora sono solidali con gli attivisti pro-aborto argentini che a migliaia hanno chiesto l’apostasia per protestare contro le ingerenze della Chiesa sul progetto di legge per la legalizzazione dell’aborto. In Francia chi vuole “uscire” dalla Chiesa può consultare il sito Apostasie pour Tous, dove si trovano le informazioni sulla procedura e delle lettere-tipo da completare on line e stampare. La Chiesa francese non fornisce statistiche nazionali sulle apostasie. La stampa fa riferimento a uno studio del 2008 in cui risultavano circa un migliaio le domande all’anno in Francia. Ma il fenomeno è in crescita.

La diocesi di Strasburgo all’emittente Bfmtv ha confermato 50 richieste di sbattezzo nel 2017, 100 nel 2018 e già 30 nel 2019. “Dall’autunno scorso, con il moltiplicarsi degli scandali, ci arrivano più lettere – ha detto padre Bernard Xibaut, cancelliere della diocesi di Strasburgo –. Posso capire che le persone siano scioccate al punto da voler andare via”. A France Info la diocesi di Lione ha fatto sapere che riceve due domande di sbattezzo al giorno da quando il papa ha incontrato Barbarin. Nell’ultimo mese ne sono arrivate 15 alla diocesi di Parigi, “quattro volte più del solito”. Sul sito della radio si legge la lettera che un ex prete, Jean, tornato laico nel 2014, ha spedito in Vaticano alcuni giorni fa: “Santo Padre, non condivido il suo atteggiamento. Prendo sin da oggi la risoluzione di chiedere la resiliazione del mio battesimo”. In realtà farsi “dimenticare” dalla Chiesa non è così facile. A France Info la Conferenza dei vescovi francese precisa che non è prevista la cancellazione del nome dell’ex fedele dai registri della Chiesa.

“L’atto di battesimo non può essere soppresso”, ha spiegato Denis Jachiet, vescovo ausiliario di Parigi. Il regolamento prevede solo che, accanto al nome del battezzato, venga scritto: “Non condivide più la fede”. Una soluzione che però non soddisfa tutti. Una decina di ricorsi sarebbe stata presentata alla Cnil, la Commissione per l’informatica e le libertà, per chiedere che il nome non figuri più nel registro dei battesimi.

Ultime dall’Isola, il reality che mette alla prova pure il water

Buone notizie per Plutarco dall’Isola dei famosi, le vite di Riccardo Fogli e Fabrizio Corona hanno subito una svolta parallela, uguale e contraria. Nonostante la pubblica umiliazione, tradizionale garanzia di vittoria nei reality (Sfiga über Alles), alla vigilia della finale Fogli è stato eliminato, ha dovuto lasciare il centro di ultima accoglienza delle Honduras lo stesso giorno in cui il re dei paparazzi è rientrato in carcere. Se Fabrizio ormai a San Vittore è di casa, avrà fatto l’ennesimo selfie con i secondini, se per Fogli, ormai identico all’abate Faria, l’addio ai riflettori dovrebbe essere una liberazione, la vera mazzata è per gli autori, che, pur raschiando il fondo del barile – anzi, del water –, non sono riusciti ad alzare gli ascolti del loro barnum. Cos’altro ci si potrà inventare, a questo punto, per vellicare il sadomasochismo dell’audience? Vedremo Corona accusare un concorrente di averlo cornificato con Lele Mora? Toto Cutugno e Al Bano riveleranno come uno degli isolani sia il capo della Spectre? Arriva Salvini, gli strappa in diretta la barba e gli toglie la cittadinanza italiana? Il giorno dopo Di Maio gliela ridà? L’Isola è una buona metafora della televisione generalista, Paese dei balocchi alla deriva popolato da desperados pronti a tutto. Abbiamo visto di cosa è capace la cosiddetta gente pur di andarci. Abbiamo visto di cosa sono capaci i vip pur di restarci. Chissà che cosa sarà capace di vedere il pubblico senza dover correre in bagno.

Per capire come sta il Paese, basta leggere i redditi

Ieri pomeriggio solo chi usava una lente d’ingrandimento è stato in grado di scovare sulle home page dei principali quotidiani i dati ufficiali relativi alle dichiarazioni dei redditi per l’anno 2017. È un peccato perché la lettura di quei numeri suggerisce riflessioni importanti. E spiega meglio di tanti editoriali pubblicati da quegli stessi giornali la situazione politica ed economica italiana. A colpire è soprattutto una percentuale. Nel 2017, periodo in cui il Prodotto interno lordo (Pil) è cresciuto dell’1,6%, il reddito medio dei contribuenti (20.676 euro) è diminuito dell’1,3 per cento. Detto in altre parole: mentre stampa e politica festeggiavano l’effervescenza del Pil, la vita degli italiani in media peggiorava. Tanto che secondo l’Istat, nel 2017 le famiglie in condizione di povertà assoluta hanno raggiunto la cifra record di 1,8 milioni, mentre i cittadini poveri sono diventati più di cinque milioni, con un aumento di circa mezzo punto percentuale rispetto ai 12 mesi precedenti.

La vera ragione della crisi dei partiti tradizionali e dell’avanzata dei populismi sta tutta in questi numeri. In queste cifre che, assieme a centinaia di migliaia di storie personali, ci dicono come il nostro Paese, assieme a buona parte d’Europa, in fatto di benessere dei cittadini stia andando a passi di gambero. Preoccuparsi oggi per le previsioni dell’ufficio studi di Confindustria, secondo il quale il 2019 sarà a crescita zero, è certamente giusto. Come è giusto chiedere che l’esecutivo sblocchi finalmente decine e decine di opere pubbliche piccole e grandi già finanziate e ferme da anni. Ma se non ci si racconta la verità ben difficilmente eviteremo che in una delle future tornate elettorali la vittoria vada a formazioni più vicine ai greci di Alba dorata che ai populisti di Lega e Cinque stelle. Sempre i dati sulle dichiarazioni Irpef ci raccontato che più di 10 milioni di persone guadagnano meno di 8.000 euro l’anno e circa 20 milioni hanno un reddito inferiore ai 15 mila euro. Certo, nessuno può negare che l’evasione fiscale in Italia sia molto diffusa. Verosimilmente tra chi dichiara meno di 15 mila euro l’anno vi sono molti furbi. Ma, se per esempio, guardiamo ai lavoratori dipendenti un dato balza subito all’occhio: il 12,2 per cento è povero pur avendo un impiego. Cioè lavora, ma non è di fatto in grado di acquistare nulla che vada oltre al cibo e (raramente) qualche capo di vestiario.

Questo fenomeno ci accomuna alla Grecia, dove i lavoratori poveri sono il 12,9% e alla Spagna, dove sono addirittura il 13,1%. Anche la Germania però non è molto distante: lì i dipendenti in povertà sono il 9,1%.

E qui veniamo alle considerazioni politiche ed economiche. Se tutti i giorni ti spezzi la schiena e fai la fame, a sera sarai sempre più imbufalito nei confronti del resto mondo. Finché resisti, quando vai a votare, scegli chi ti promette di rovesciare il sistema. Quando non ce la fai più diventa invece probabile che, come accade altrove, tu scenda in piazza e ti metta a spaccare tutto. Ma non basta. Perché la povertà diffusa e i bassi redditi hanno pure una seconda conseguenza: i consumi interni che restano di fatto bloccati. Così appena le esportazioni rallentano (magari a causa della guerra dei dazi) tutto il Paese si ferma. Per questo, in assenza di bacchette magiche, se davvero si vuole far ripartire l’Italia (e l’Europa) la lotta alle diseguaglianze diventa una strada obbligata.

Legittima difesa, una riforma sgangherata

È stata definitivamente approvata dal Senato la riforma della “Legittima difesa” che intende superare il rapporto di “proporzionalità” tra offesa e difesa attualmente sancito dall’articolo 52 del Codice penale (che – sarà bene ricordarlo – è un principio di “ragionevolezza”, presidiato come tale dall’articolo 3 della Costituzione, che rappresenta l’ultima frontiera prima del Far West).

Per la nuova legge infatti sussiste “sempre” il rapporto di proporzione tra offesa e difesa (quali che siano la reazione dell’aggredito e le sue conseguenze anche estreme), così come agisce “sempre” in legittima difesa chi respinge l’intrusore che usa violenza o minaccia l’uso di armi. Siamo così di fronte a una sorta di “presunzione legale” di liceità della condotta “sproporzionata” del derubato/rapinato che equivale a una specie di “salvacondotto”, figura totalmente estranea all’ordinamento vigente, tenuto conto che l’azione penale obbligatoria del pm declina i fatti così come sono realmente accaduti e come sono stati accertati, e non come “si presume” che siano accaduti, e che lo stesso articolo 52 impone di verificare che il suo legittimo detentore abbia usato l’arma per difendere la propria o l’altrui incolumità, che abbia difeso beni propri o altrui, che l’aggressore non stia fuggendo e vi sia pericolo di aggressione.

La seconda novità riguarda l’articolo 55 del Codice penale sull’eccesso colposo nella legittima difesa, per il quale sono puniti con pena ridotta i delitti di lesioni personali o di omicidio commessi “per colpa”. È la cosiddetta “legittima difesa putativa”, che si configura quando il soggetto, caduto in errore nella percezione della realtà, si sia giustificatamente convinto di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’aggressione contro la quale è costretto a reagire. All’articolo 55 la riforma ha aggiunto un secondo comma che esclude la punibilità se chi ha commesso il fatto ha agito in stato di “grave turbamento” derivante dalla situazione di pericolo in atto. Senonché il “grave turbamento” (che sarebbe la paura provocata nella vittima dal pericolo dell’intrusione/aggressione) è connaturato a tutti i delitti contro la persona, e tuttavia questo stato d’animo, da solo, non basta a giustificare l’errore, occorrendo elementi di fatto concreti, tali da determinare nel soggetto il convincimento di trovarsi davvero in una situazione di pericolo. La paura, cioè, può causare quell’errore di fatto circa l’effettiva portata del pericolo, che per l’articolo 55 diventa una componente della colpa, derubricando la reazione violenta della vittima a delitto colposo punito con pena ridotta, ma non può mai condurre alla totale impunità perché, per il Codice penale, “gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”, cioè la capacità di intendere e di volere.

È lecito a questo punto domandarsi quale sia stata la ratio, ossia la ragione ispiratrice di questa strana legge. Si può coglierla nella relazione al Ddl n. 652 del 12.7.2018 a firma del senatore Massimiliano Romeo, presidente del gruppo della Lega, che denunciava un’ondata di furti e rapine in abitazioni e negozi che avevano causato forti reazioni delle vittime, e proponeva l’introduzione della “presunzione di legittima difesa” poiché, nell’applicazione giurisprudenziale, l’esimente della legittima reazione era stata sostanzialmente disattesa con la conseguenza che “difendersi possa paradossalmente far passare l’aggredito dalla parte del torto”. Però le statistiche raccontavano altro: infatti i procedimenti penali, tutti regolarmente conclusi con l’applicazione dell’esimente o dell’eccesso colposo, erano stati cinque nel 2013, zero nel 2014, uno nel 2015 e due nel 2016 e nessuno degli aggrediti era passato dalla parte del torto: forse il Senatore Romeo veniva da Marte o forse era stato male informato. Ha ragione Edmondo Bruti Liberati: questa riforma della legittima difesa è una legge sgangherata.

L’Antisionismo non è antisemitismo

I vecchi tabù di carattere sessuale e morale, nelle società occidentali, sono caduti e ne sono sorti di nuovi, il più inviolabile dei quali riguarda la questione israelo-palestinese. Il solo chiedere di parlarne, viene visto dai grandi media come una provocazione e quelli che conducono programmi di informazione politica, alla proposta di affrontarlo, reagiscono con un misto di timore e di costernazione di fronte a una richiesta tanto osé, similmente a come avrebbero reagito, al tempo della televisione di Bernabei, all’idea di un programma sui piaceri della pornografia.

La parola d’ordine è “evitate l’argomento”. Non si tratta di censura, piuttosto di elusione. Quando poi in rarissime occasioni, per distrazione, se ne parla, si evita accuratamente di far sentire le opinioni e le argomentazioni di coloro che criticano aspramente la politica del governo israeliano e la definiscono colonialismo, oppressione di un intero popolo, segregazionismo e razzismo. Gli oppositori di tale politica, se si esprimono con schiettezza, vengono immediatamente apostrofati e classificati con l’insultante epiteto di antisemita (!). I sedicenti amici di Israele hanno accolto l’equazione “critico del governo di Israele uguale antisionista, uguale antisemita”. Altrettali sono definiti quelli che chiedono piena dignità e diritti per il popolo palestinese.

I meno accaniti di questa eletta schiera di sostenitori del sionismo e amici di Israele accusano i sostenitori delle legittime rivendicazioni palestinesi di diffondere l’antisemitismo perché le critiche allo Stato ebraico portano la pandemia antisemita. Falso! Il climax del veleno antisemita si manifestò quando Israele non esisteva e gli ebrei vivevano in diaspora. In Israele peraltro, alcuni giornalisti coraggiosi e di altissimo profilo si esprimono senza alcun timore apertis verbis et ore rotundo. Gidon Levy su Haaretz (quotidiano israeliano pubblicato in Israele, da un editore israeliano, letto da lettori israeliani) in un suo articolo dal titolo palmare, In U.S. Media, Israel Is Untouchable, scrive: “You can attack the Palestinians in America uninterrupted, call to expel them and deny their existence. Just don’t dare say a bad word about Israel, the holy of holies”. E a proposito della proliferazione dei sentimenti antisemiti nota: “Jews are not as hated as Israel would like: only 10 percent said they had any negative feelings about them”.

La mia opinione, come quella di autorevoli esponenti della società israeliana, è che le classi dirigenti e il governo Netanyahu utilizzino strumentalmente l’accusa di antisemitismo al solo scopo di ricattare i paesi dell’Occidente per legittimare l’occupazione e la colonizzazione delle terre palestinesi e per annettere terre che la legalità internazionale assegna al popolo palestinese.

Così, a proposito dell’equiparazione di antisionismo e antisemitismo, scrive lo storico israeliano Shlomo Sand: “Il tentativo del presidente francese Emmanuel Macron e del suo partito di criminalizzare oggi l’antisionismo come una forma di antisemitismo mostra di essere una manovra cinica e manipolatoria. Se l’antisionismo diventa un crimine, mi sento di raccomandare a Macron di far condannare con effetto retroattivo, il bundista Marek Edelman, che fu uno dei leader del ghetto di Varsavia e totalmente antisionista. Si potrebbe anche inviare a processo i comunisti antisionisti che, piuttosto che emigrare in Palestina, scelsero di combattere, armi in pugno, contro il nazismo. Se intende essere coerente nella condanna retroattiva di tutti i critici del sionismo, Macron dovrà aggiungere la mia insegnante Madeleine Rebérioux, che ha presieduto la Lega dei diritti umani, l’altro mio insegnante e amico Pierre Vidal-Naquet e, naturalmente, anche Eric Hobsbawm, Edward Saïd e molte altre eminenti figure, ora scomparse, ma i cui scritti sono ancora autorevoli. Se Macron desidera attenersi a una legge che reprime gli antisionisti ancora viventi, la cosiddetta futura legge dovrà applicarsi anche agli ebrei ortodossi di Parigi e New York che rifiutano il sionismo, a Naomi Klein, Judith Butler, Noam Chomsky e molti altri umanisti universalisti, in Francia e in Europa, che si autoidentificano come ebrei pur dichiarandosi antisionisti. Si troveranno, naturalmente, molti idioti antisionisti e giudeofobi, come non mancano pro-sionisti imbecilli, pure giudeofobi, ad augurare che gli ebrei lascino la Francia ed emigrino in Israele. Li includerà in questa grande impennata giudiziaria? Stia attento, signor Presidente, a non lasciarsi trascinare in questo ciclo infernale, proprio quando la popolarità è in declino!”.

Personalmente ritengo che debbano cessare retoriche, propagande, calunnie insensate e strumentalizzazioni, che non sia più tollerabile tacere sulla crudele oppressione del popolo palestinese. È ora che i Paesi occidentali affrontino la questione con coraggio e onestà intellettuale.

Mail box

 

Il Pd continuerà a perdere se non fa un po’ di autocritica

Anche questa volta, Salvini, domenica 24 marzo mentre si votava per la Basilicata con un tweet ha rotto platealmente il silenzio elettorale: “Amici lucani, siete andati a votare? C’è ancora tempo fino alle 23.00 per liberare la Basilicata dal Pd!” Ora dico io, non è che se dopo 24 anni di amministrazione di centrosinistra la Basilicata smette di non votarli più è perché Salvini goliardicamente scrive un tweet. Vogliamo credere a questa favoletta del voto influenzato? Ma per favore! La gente non ne può più degli pseudodemocratici a giorni alterni. Senza un progetto politico ma con una infinita disonestà morale. Nonostante il Pd continui a fare terrorismo mediatico, la gente ormai si affida a una destra protezionista assai più antropologicamente democratica poiché, francamente, anche se un domani dovesse capire di aver sbagliato a votarli, non avrebbe mai eguagliato il peggio del governo che li ha preceduti.

Stai sereno Pd! Non c’è due senza tre… senza quattro, senza cinque, ormai…

Massimo Testa

 

Le mie tre buone ragioni per comprare questo giornale

Se dovessi suggerire ad amici e parenti tre buoni motivi per leggere quotidianamente Il Fatto basterebbe mostrargli la pag. 13 del 27 marzo, che raccoglie tre articoli: di Pino Arlacchi sulla via della seta per il quale “i miracoli economici del dopoguerra nei Paesi occidentali sono nella sottomissione della finanza all’industria e alla guida dei mercati da parte dell’autorità pubblica”; poi di Tomaso Montanari e Salvatore Settis sulla scomparsa del “fedele servitore dello Stato” Andrea Emiliani che si è battuto per tutta la vita nel campo dei beni culturali “per dimostrare che la nostra doppia identità locale e nazionale può essere tradotta in una tutela più vicina ai cittadini e non in un saccheggio”; quindi di Silvia Truzzi sullo ius soli che ci dimostra la pochezza del dibattito acceso dalla cosiddetta sinistra nostrana che non distingue tra cittadini stranieri che hanno acquisito la cittadinanza per ius sanguinis ( magari ignorando il nostro Paese) “e un ampliamento dello ius soli che imporrebbe un correttivo allo ius sanguinis”. Ecco, basterebbero questi tre (tra i tanti altri) esempi per dimostrare di aver speso bene il modesto esborso economico per questo magnifico giornale.

Gian Carlo Lo Bianco

 

Perché a nessuno interessa la questione di Gaza?

Da 12 anni la Striscia di Gaza è sottoposta dall’esercito israeliano a un assedio che sta trasformando quel piccolo territorio in una prigione invivibile. Tutto ciò che entra ed esce viene controllato da Israele : gli abitanti, le merci, le comunicazioni, l’acqua, l’energia elettrica e fossile, le medicine. Il 60% della popolazione vive grazie agli aiuti internazionali dell’Unhcr. Ultimamente, nell’indifferenza generale, da Gaza sono partiti appelli disperati a causa della privazione di energia elettrica e gasolio, con la chiusura di ospedali per l’impossibilità di curare gli ammalati.

Negli stessi anni, Gaza ha subito tre operazioni militari israeliane, che con l’impiego di ogni mezzo militare (carri armati, jet, navi, droni, elicotteri) e armi, comprese quelle al fosforo e all’uranio impoverito, hanno determinato la morte ed il ferimento di migliaia di persone prive di ogni via di fuga, la distruzione di migliaia di casa e di strutture civili come scuole, ospedali, aziende, moschee. Un’inchiesta internazionale, la Commissione Goldstone, ha attribuito all’esercito d’Israele crimini di guerra e probabilmente contro l’umanità. Dalla fine marzo 2018, ogni venerdi gli abitanti disarmati della Striscia di Gaza che manifestano per la libertà e contro il furto delle terre, ai confini con Israele, sono il bersaglio di cecchini israeliani che da allora, utilizzando anche proiettili esplosivi, ne hanno uccisi 197, fra questi 42 ragazzi, e feriti 29.000 con 123 amputati di un arto. Tutte persone sotto occupazione. Mentre ciò accade a Gaza, in Israele c’è una situazione di apartheid nei confronti dei palestinesi arabi, in Cisgiordania continua la colonizzazione ebraica d’insediamento , come denunciato dal recente Rapporto Escwa di Richard Falk e Virignia Tilley, gli Stati Uniti, i principali mediatori di pace, calpestando il diritto internazionale, riconoscono la sovranità di Israele sul Golan e sulla città di Gerusalemme e il Primo Ministro d’Israele, B. Netanyahu, sotto inchiesta per corruzione e impegnato nell’attuazione di uno Stato ‘ebraico’, cerca di sviare l’attenzione dai guai personali e di vincere le elezioni imminenti con una nuova guerra. Così si nega ogni possibilità di Stato ed anche l’identità di popolo ai Palestinesi, lasciati alla mercé di uno dei più potenti eserciti del mondo. In quanto semplice cittadino che segue da anni la situazione israelo-palestinese, penso che l’atteggiamento della Comunità occidentale, Stati Uniti in testa ed Europa al seguito, con la complicità dei principali mezzi d’informazione, sia ipocrita, contro il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani dei palestinesi, ostacolo a una pace giusta e alla convivenza, addirittura criminale nel caso desse il via libera a un nuovo massacro della popolazione della Striscia di Gaza.

Ireo Bono

Brexit, nuovo referendum? Le difficoltà hanno fatto riflettere molti britannici

Sono rimasto sorpreso dalla massiccia manifestazione che si è tenuta a Londra lo scorso fine settimana. Un milione di persone hanno chiesto un nuovo referendum sulla Brexit, in considerazione del fatto che il governo May non ha mostrato di sapere procedere con un piano unitario. Dinanzi a questa richiesta, però, lo stesso governo ha ribadito che una seconda consultazione non è prevista perché sarebbe come svilire la decisione popolare del primo referendum. Mi chiedo: ma se il popolo ci ha ripensato, se chiede di volere votare di nuovo, non è anche questa una volontà popolare da rispettare? Mi viene un sospetto, ovvero che la Brexit diventa fondamentale per la politica e i politici inglesi, e non per il popolo.

Orazio Barbagallo

 

Gentile Barbagallo, un milione di persone in piazza, ben cinque milioni di firme raccolte per chiedere un nuovo referendum. Sono cifre impressionanti, che giustificano il dubbio da lei espresso, anche se io non credo che la Brexit sia oggi vitale per la politica britannica più che per il popolo britannico. In fondo, è stato il popolo britannico a chiederla, con il referendum del 23 giugno 2016: la politica s’aspettava che il referendum non passasse e sarebbe stata più contenta se non fosse passato, allora e oggi. Tant’è vero che l’artefice del Leave, il leader dello Ukip, Nigel Farage, si fece da parte subito dopo l’inattesa vittoria, forse intravvedendo i pasticci in cui s’era ficcato (e aveva ficcato il Paese). Il referendum non è di per sé decisionale: un sì o un no deve essere avallato dal Parlamento. E non è affatto scontato che un nuovo referendum – su quale quesito? – dia, o darebbe, un risultato diverso. Anche se, probabilmente, le difficoltà della politica ad accettare l’intesa con i 27 sulle condizioni d’uscita hanno fatto riflettere molti britannici: se è così difficile andarsene senza compromettere l’economia e il welfare del Regno Unito, vuol dire che forse vale la pena restare. Certo, i giochi della politica contano, in questo tiramolla, di cui l’Ue dei 27 che restano è spettatrice attenta, ma ferma – l’unità del gruppo non s’è mai incrinata, in tutta la trattativa –. Ai Comuni, c’è chi vota per fare rispettare la volontà popolare espressa – e magari nel frattempo rinnegata – nel referendum; c’è chi vota per fare fuori il premier conservatore Theresa May e magari prenderne il posto; c’è chi vota per fare fuori i conservatori e magari rimpiazzarli al potere accelerando le prossime elezioni; e c’è chi vota sperando in un rinvio, per avere il tempo di preparare un nuovo referendum, senza il rischio di perderlo.

Giampiero Gramaglia