Eventi6, Dagostino non risponde ai pm sulle fatture false

Si è avvalso della facoltà di non rispondere l’imprenditore Luigi Dagostino, attivo nel settore degli outlet, convocato ieri al palazzo di giustizia di Firenze per essere interrogato dal pm della Procura nell’ambito di una nuova inchiesta che coinvolgerebbe anche Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo Renzi, che sarebbe indagato per traffico d’influenze illecite. “Se dichiarazioni dovranno essere rilasciate – ha affermato il legale di Dagostino, l’avvocato Sandro Traversi – abbiamo deciso di rispondere davanti a un giudice, in una sede che riteniamo più opportuna, anche perché al momento, vista la vaghezza totale delle accuse, non abbiamo elementi di riscontro”. La nuova inchiesta sarebbe ancora incentrata sulle due fatture – false secondo la Procura fiorentina – che l’imprenditore Luigi Dagostino ha pagato alla Eventi6, la società della famiglia Renzi, e per le quali Tiziano Renzi e la moglie Laura Bovoli sono finiti a processo insieme allo stesso Dagostino. Secondo quanto riportato ieri da La Verità e Panorama i magistrati di Firenze riterrebbero che quei pagamenti nascondano una sorta di remunerazione per un’attività di lobbying relativa al periodo in cui il figlio dei coniugi Renzi era premier.

Dopo l’articolo del “Fatto” Mogol scrive a Cantone

Il presidente della Siae, Giulio Rapetti Mogol, ha scritto al direttore del’Anac, Raffaele Cantone, per avere notizia dell’esposto rivelato ieri dal Fatto e mettere a disposizione dell’autorità i propri uffici. Nelle stesse ore il ministero per i Beni culturali fa sapere che “sono stati avviati approfondimenti” ed è “stato dato impulso agli uffici competenti affinché siano acquisiti degli elementi utili”. Un dipendente della Siae ha presentato un esposto all’Anac denunciando una serie di irregolarità – tutte ovviamente da verificare – che ha documentato negli ultimi anni. Il denunciante parla di “gravi irregolarità e abusi che vengono posti in essere sistematicamente, da diversi anni, da parte della dirigenza apicale e in generale dalla governance” che “evidenziano un mal funzionamento dell’amministrazione” di cui è “venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro”. Tra questi il dipendente ha depositato una serie di conversazioni intrattenute con Alessandro Bracci, direttore della sede interregionale di Roma. Nel settembre 2017 – dichiara il dipendente all’Anac – Bracci gli avrebbe rivolto le seguenti parole: “Quando stavo in Direzione generale, tra le altre cose, approfondivo proprio questa dei crediti, tralasciando poi l’aspetto di come venivano cancellati i crediti, o meglio di quali motivazioni portavano alla cancellazione di crediti per alcune situazioni, e altri crediti, legati a situazioni di irrecuperabilità ancora più gravi, invece venivano tenuti a bilancio, ma lì si può aprire un mondo che è meglio non aprire”. Affermazioni piuttosto gravi, sulle quali il Fatto ha chiesto a Bracci di fornire la propria versione. Il direttore della filiale di Roma ci ha risposto che avremmo ricevuto le informazioni necessarie dalla Siae. E il direttore generale, Gaetano Blandini, che non si è minimamente sottratto al confronto, sul punto ci ha risposto: “Non posso rispondere di affermazioni attribuite al direttore della filiale di Roma, ma con riferimento alla cancellazione dei crediti, faccio presente che in Siae ha operato una commissione composta da legali e dipendenti con funzioni istruttorie. Inoltre il nostro bilancio è sottoposto al vaglio di una società di Revisione, la Pwc, compresa la questione della cancellazione dei crediti”. E ancora: “La cancellazione del credito è una circostanza meramente bilancistica e dovuta, ma questo non vuol dire che Siae rinunci a cercare di recuperare i propri crediti”. Quindi a suo avviso _ chiediamo – non v’è stata alcuna cattiva gestione? Non c’è nulla – alla luce delle parole attribuite a Bracci – che si sarebbe dovuto denunciare alle autorità competenti? “Nessuna cattiva gestione – conclude Blandini – e soprattutto mai nessuna denuncia ad alcuna autorità”.

Tra i molti punti segnalati all’Anac c’è anche la folgorante carriera di Cristian Parisi: “Parisi – scrive il denunciante –, ex autista di Blandini, precedentemente inquadrato nella categoria professionale di ‘ausiliario’… in soli 3 anni ha raggiunto il massimo livello professionale previsto per i dipendenti apicali non dirigenti… Ebbene, non solo il citato dipendente non risulta in possesso dei requisiti culturali e professionali previsti per l’accesso al profilo superiore… ma in assenza di questi, per poter essere candidabile a tali profili… avrebbe dovuto maturare una esperienza professionale minima complessiva pari a ben 18 anni”. Sul punto il Fatto ha chiesto a Parisi di fornire la sua versione ottenendo la stessa risposta di Bracci. Blandini ha invece risposto di essersi avvalso della facoltà, prevista dal contratto, che consente al Direttore generale “… di attribuire la progressione verticale di area ai dipendenti Siae che si sono distinti per particolari doti di produttività, efficienza e affidabilità. Per quanto riguarda il signor Parisi si tratta (ed è dimostrabile per tabulas) di uno dei migliori ispettori della Siae su tutto il territorio nazionale”.

Famiglia Renzi, fallimento anche per l’ultima coop

Anche l’ultima cooperativa che – secondo i pm – fino al 15 marzo del 2018 era di fatto amministrata, tramite uomini vicini, da Tiziano Renzi e dalla moglie Laura Bovoli è fallita. Ieri il Tribunale di Firenze, presidente Silvia Governatori, ha emesso un provvedimento che dà ragione all’istanza del pm Luca Turco. Marmodiv svolgeva le commesse ottenute dalla Eventi 6, società della famiglia e della quale erano socie le sorelle e la mamma, consulente factotum il padre Tiziano, dirigente in aspettativa fino al 2014 il figlio Matteo. Eventi 6 distribuisce volantini, elenchi e giornali ma non ha molti dipendenti e usa le cooperative. Nulla di male se non fosse che, secondo il pm di Firenze Turco, le cooperative sono caricate dei debiti e poi fatte fallire per non pagare.

Per le cooperative già fallite i coniugi sono già indagati per bancarotta come amministratori di fatto. Ora non è escluso che i pm possano seguire la linea dura contro i Renzi ipotizzando anche qui che i coniugi nel periodo fino al marzo 2018 amministrassero di fatto la società fallita. La strada per i pm è in salita: prima c’è stata la cessione della cooperativa a marzo 2018 a un imprenditore torinese. Poi la cessione dall’acquirente torinese a un imprenditore genovese del solo ramo d’azienda con dentro però molti debiti. Secondo il pm però altri debiti sono rimasti in capo alla Marmodiv. Non solo: alcuni debiti verso le banche sono stati scoperti dopo. In particolare uno imbarazzante: una fattura da 73 mila euro emessa da Marmodiv contro Aerotech e portata in sconto alla Banca di Cambiano a giugno 2018 che però la società Aerotech ha disconosciuto sostenendo di non avere mai intrattenuto rapporti commerciali con Marmodiv.

Secondo la relazione del consulente Francesco Terziani, depositata il 15 marzo scorso, Marmodiv ha ancora debiti per 493 mila euro. Ci sono i 28 mila euro delle imposte rateizzate da Marmodiv e cedute all’acquirente del ramo d’azienda che però non ha pagato. E c’è un debito Inps di 152 mila euro nel quale rientra anche un verbale del 2016 contro il quale Marmodiv ha proposto ricorso ma ha perso il contenzioso a gennaio.

Poi ci sono le banche: 184 mila verso la Banca di Cambiano per revoca affidamenti; 114 mila euro di Cariparma per un debito scaduto su scoperto di conto e infine un debito non scaduto di 8.800 euro verso Mps per saldo negativo del conto.

Il consulente ha chiesto la contabilità senza riceverla dalla Marmodiv e “ne discende un giudizio di non completa attendibilità dei bilanci”. Ieri intanto è stato sentito l’imprenditore Luigi Dagostino, indagato in concorso con Tiziano Renzi per traffico illecito di influenze dal pm Luca Turco. Dagostino, accompagnato dal suo avvocato Alessandro Traversi, si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Treno parte col rosso: sei feriti nello scontro frontale sui binari

Incidente ferroviario a Como, dove due treni si sono scontrati frontalmente tra Arosio e Merone, su una linea di Trenord. Tanta paura per i pendolari lombardi, per fortuna senza conseguenze troppo gravi: il bilancio è di sei feriti e oltre 50 contusi lievi. Stando a quanto accertato, l’incidente è stato provocato dalla partenza con il rosso del macchinista del treno 1665 in partenza dalla stazione di Inverigo verso Canzo-Asso. Il conducente ha poi bruscamente frenato, senza però riuscire a evitare l’impatto con il treno 1670, che procedeva a bassa velocità nella direzione opposta, da Erba verso Milano, così da provocare la caduta di molti passeggeri (di qui il numero delle contusioni). Sul posto sono immediatamente arrivate varie ambulanze, l’elisoccorso da Milano e Como e due automediche, mentre la circolazione veniva sospesa e ripristinata attraverso bus sostitutivi. Trenord ha aperto un’inchiesta interna. La linea è gestita da Ferrovie Nord. Ora tocca all’autorità giudiziaria stabilire quando rimuovere i convogli, dopo che saranno stati effettuati i rilievi.

La destra litiga sulle case: Meloni sfratta Almirante

Roma, via della Scrofa 39, due passi dal Senato e la Chiesa di San Luigi dei Francesi. Qui sorge la vecchia sede del Movimento Sociale Italiano. Qui si è fatta la storia della destra italiana. E sempre qui, da domani, rischia di non esserci più spazio per il ricordo di Giorgio Almirante: l’omonima Fondazione è stata sfrattata dalla Fondazione An, che ha deciso di affittare metà dell’appartamento a Fratelli d’Italia. Tanto che la sua leader Giorgia Meloni è stata costretta in fretta e furia a scrivere una lettera aperta, ospitata dal quotidiano di partito il Secolo d’Italia (che pure alloggia nello stesso immobile), in cui si impegna a trovare una soluzione.

Quella stanza al secondo piano per un pomeriggio diventa lo spazio fisico della litigiosa diaspora che da anni tormenta quello che fu il più importante partito della destra. Non si tratta del resto di una stanza qualsiasi: era l’ufficio del segretario, cioè per un paio di decenni di Almirante. E da 3-4 anni ospitava la Fondazione che porta il suo nome. Fu creata dopo la sua morte nell’89, per provare a tenere in vita il suo pensiero: organizza incontri, convegni, ripubblica vecchi libri. Tutto ciò che si può fare con pochi spiccioli: piccole donazioni di amici e vecchi militanti, qualche (raro) contributo istituzionale. Dal partito nulla, solo una stanza come sede legale, in concessione gratuita. Fino a ieri.

La Fondazione An, che gestisce il patrimonio politico ma soprattutto immobiliare lasciato in eredità dal partito, ha deciso di far fruttare tutti quei metri quadri nel centro di Roma: si è tenuta per sé e i suoi uffici metà dell’appartamento, l’altra l’ha affittata a Fratelli d’Italia, ovviamente a titolo oneroso. Così la discendente di Almirante si è vista recapitare una semplice letterina di sfratto: “L’appartamento è stato locato, siete pregati di sgomberare”, il sunto neanche troppo garbato della missiva.

“Ingrati, maleducati, incapaci”. Giuliana De Medici Almirante non ci poteva credere. “Ci hanno trattato come degli inquilini morosi. Quando ho chiamato il presidente della Fondazione An, l’ex senatore Giuseppe Valentino, mi ha spiegato che avevano deciso di affittare il locale e si erano scordati della nostra presenza. Ma quella non è solo una sede, ha un valore affettivo e simbolico: è la stanza di papà, è casa nostra!”. L’immobile fu comprato all’asta da Giorgio Almirante, con i soldi incassati dall’addio alla prima sede a Palazzo Del Drago, e anche i suoi risparmi personali. “Mio padre firmava una marea di cambiali per dare al partito delle sedi: nessuno voleva affittare ai fascisti, per vergogna o paura degli attentati, e così lui le comprava, anche a rischio di indebitarsi”.

Quella di via della scrofa, insieme a tutte le altre, è finita nella Fondazione che gestisce il patrimonio. O meglio, se lo spartisce. Alleanza Nazionale non esiste più, il direttivo della sua Fondazione è espressione dei suoi mille eredi politici, che hanno preso ciascuno una strada diversa: c’è la corrente di Forza Italia di Maurizio Gasparri, Gianni Alemanno e il suo Movimento per la Sovranità, persino la Lega col senatore Claudio Barbaro, e appunto Fratelli d’Italia, a cui adesso è finito l’immobile. Tutti preoccupatissimi di mantenere la propria fetta di torta. “Questi non hanno mai comprato neanche una scrivania”, diceva la vedova Assunta qualche anno fa, mostrando di non avere grande stima di loro.

Lo sfratto rischiava di essere l’ultimo oltraggio della destra italiana al suo fondatore. La figlia Giuliana aveva già portato via tutte le immagini, i cimeli, i ricordi di Alimirante dalla sede: “Non se li meritano, non sono degni di essere associati a lui nemmeno in foto”. Poi l’intervento riparatore di Giorgia Meloni: “Cara Giuliana, apprendo ora dell’accaduto. Sono dispiaciuta e ci tengo a chiarire: fino a quando quei locali saranno affidati a noi sarà per Fratelli d’Italia un onore potervi ospitare, per amicizia e per il debito morale di riconoscenza che abbiamo verso il più grande uomo di destra del dopoguerra”. Per Giorgio Almirante, insomma, c’è ancora spazio nella destra di oggi. Almeno una stanzetta.

Le preoccupazioni di Papà Denis…

“L’amore è cieco”, dicono. Ma a quanto pare anche smemorato: Salvini e la sua nuova compagna, Francesca Verdini (di appena vent’anni più giovane), sono stati travolti da una passione così totalizzante che ha travolto anche certe dissonanze politiche del passato. Mentre il primo si accaniva contro Renzi, per dire, lei andava alla Leopolda; lui difende la “famiglia tradizionale” (quella degli altri), lei si è espressa più volte a favore delle unioni omosessuali e dei diritti civili. Persino su papà Denis Verdini, già viceré berlusconiano e oggi affannato da alcune vicende giudiziarie, non tutto è filato liscio in passato visto che il vicepremier insultò l’ex alleato via Twitter: “Un traditore”, fa “schifo”. Magari nel frattempo Salvini ha cambiato o ri-cambiato idea e pure papà Denis fa buon viso a cattivo gioco: contento non è, ma pare rassegnato al fatto che il cuore ha ragioni che la ragione non comprende (“certe disgrazie capitano”). D’altronde, come ha dichiarato il suo amico Vincenzo D’Anna, ex indimenticabile senatore campano del gruppo Ala, “Se Francesca è felice ha fatto bene. D’altronde meglio Salvini che un punk con i capelli colorati in testa e i chiodi infilati nel naso e nelle orecchie”. Nella vita, d’altronde, basta accontentarsi.

D’Alema: “L’errore del 1994? Andar dietro ai lettori dei giornali”

Non si candiderà più,ha detto spesso e volentieri, ma Massimo D’Alema non ha problemi nel giudicare il passato della sinistra e non si risparmia nemmeno sentenze lapidarie sul presente e sul futuro del partito. Lo ha dimostrato nel corso del convegno “Una seconda repubblica? A 25 anni dalle elezioni del 1994”, tenuto mercoledì all’Università romana Lumsa e moderato da Bruno Vespa. Quando gli chiedono di analizzare la vittoria di Berlusconi nel 1994, infatti, risponde che l’errore del Partito democratico della sinistra (il Pds di cui era uno dei massimi dirigenti) fu quello di trascurare l’elettorato maggioritario, che era moderato, poichè “inseguivamo il nuovismo, incalzati dagli opinion leader, da Repubblica“. Insomma, “la sinistra si era fatta forte della vicenda giustizialista” nata con Mani Pulite “ma scambiava la società italiana coi lettori dei giornali”. Insomma serviva, come si fece poi, un’alleanza col centro e una coalizione di centrosinistra. Il contrario di quello che D’Alema pensa sia giusto oggi: il Pd ha pagato la sua moderazione ed “è precipitato nel nulla”, ignorando che “la società si radicalizzava”.

“S’infatuò della Brambilla e ci costò circa 28 milioni”

È una miniera infinita di retroscena inediti e centrali nella storia politica italiana dell’ultimo quarto di secolo. Ma anche un bilancio storico, a tratti spietato, della Seconda Repubblica all’insegna di Berlusconi e del berlusconismo carismatico.

È il nuovo libro di Fabrizio Cicchitto sulla storia di Forza Italia dal 1994 al 2018. Già socialista lombardiano, indi berlusconiano di vertice e falco garantista convinto dell’uso politico della giustizia (altro libro recente), Cicchitto ha concluso la sua parabola politica da alfaniano moderato di Ncd. Abbandonata quindi la politica attiva ha coltivato la sua inclinazione di studioso storicizzando il fenomeno forzista di cui è stato protagonista. Non a caso in parecchi passaggi la citazione di se stesso è in terza persona. Come quando venne alle mani con Denis Verdini durante il tragico 2013 della condanna di B. in Cassazione e della conseguente scissione dei governisti di Angelino Alfano. Oppure, andando più indietro, quando rivela “l’infatuazione travolgente” dell’ex Cavaliere per la rossa salmonata Michela Vittoria Brambilla, oggi icona animalista dei superstiti azzurri. Era il 2006 e Berlusconi perse le elezioni ma anche la testa per la rossa MVB e la designò per la successione nel centrodestra. “Questo fu appunto uno dei molti contraccolpi fra il politico e il personale derivanti dalla sconfitta elettorale”. Cicchitto affrontò pure B., che gli rispose: “Non hai capito nulla. Abbiamo per le mani chi, quando farò un passo indietro, potrà spiazzare Casini e Fini e affermarsi come un leader del tutto nuovo per la sua forza mediatica. Dai retta a me, che me ne intendo”. Ma l’azzurro socialista rimase scettico, a ragione. Risultato: “L’operazione costò a B. e ai bilanci di Forza Italia qualcosa come 28 milioni di euro”.

Altro aneddoto notevole è quello su Ruby, che Cicchitto rivelò in un’intervista a Millennium nel febbraio 2018. Lui e Gaetano Quagliariello trasmisero un messaggio al Capo prima che esplodesse l’inchiesta milanese. “Nel 2009 un’eminente personalità della sinistra aveva avvisato Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello. (…). ‘State attenti a Milano, rimarrete esterrefatti ma adesso la questione giudiziaria non riguarda corruzione o concussione ma la prostituzione minorile. Metteteci un buon avvocato e dite al vostro amico di cambiare vita”. Il giorno, a Palazzo Grazioli, i due riportarono il messaggio e B. lo respinse: “Come potete dar retta a un vecchio comunista? Io la sera faccio solo feste eleganti. Non andate indietro a queste provocazioni”.

Il libro di Cicchitto, si diceva, è un miniera infinita e preziosa, utile per capire l’ultimo quarto di secolo. Esempi sparsi: il solipsismo di Giulio Tremonti; le ambizioni di Claudio Scajola a succedere a B.; la riunione in cui Gianni Letta urlò contro Daniela Santanchè nel fatale 2013. E ancora: le trattative per la grazia mancata a B. di Napolitano e le manovre per il bis di Re Giorgio. Al garantista Cicchitto va pure reso l’onore delle armi in un certo senso: nel 2011 B. gli propose di fare il Guardasigilli. “Ringraziai Berlusconi, ma non avrei fatto un buon servizio alle istituzioni. Ero esposto su una posizione di garantismo assoluto, senza mediazioni”.

A Villa La Certosa il tempio massonico di Silvio il piduista

Antonello Zappadu è il coraggioso fotografo sardo che fatto conoscere al mondo gli interni di Villa La Certosa, compresi quelli “provvisori” come il pisello di Topolánek, presidente della Repubblica Ceca. Per le Edizioni Mondo Nuovo esce il libro del fotoreporter sulla reggia sarda di B., Vi presento Berluscolandia, con una “accurata scelta delle oltre 80 mila immagini” scattate in sei anni. Dalla prefazione: “Io su Berlusconi posso aver commesso tutti i peccati di questo mondo, ma non ho raccontato nessuna bugia e (…) non ho neppure fatto alcun reato di… omissione. Io ho solo fotografato la realtà: se ho visto una cosa, non mi sono voltato dall’altra parte. In qualche modo – non sono io a dirlo – ho aiutato il mondo, anche di coloro i quali hanno creduto ciecamente nell’onestà morale e intellettuale di questo politico, a capire quale fosse il suo stile di vita, la sua scala etica dei valori, il suo concetto di pubblica dignità. (…) Ho la presunzione di pensare che forse, con quelle foto, io abbia contribuito a che in Italia venisse scritta una pagina diversa da quella ufficiale”.

B. e la festa triste di FI: i suoi preparano l’esodo

Ci hanno provato fino all’ultimo a dissuaderlo dal candidarsi alle Europee. Perlomeno l’ala del partito che fa capo direttamente a Marina Berlusconi e capitanata da Licia Ronzulli. Per la preoccupazione di dover affrontare una campagna elettorale faticosa e in precarie condizioni di salute. Ma anche per non disturbare troppo Matteo Salvini, che con quella fazione di Forza Italia gioca di sponda. Ma non sarà così, perché domani, all’assemblea nazionale forzista, a Roma, Silvio Berlusconi annuncerà la candidatura come capolista nelle circoscrizioni Nord e Sud, lasciando quelle del Centro ad Antonio Tajani. Con un simbolo rinnovato ma non troppo (un leggero restyling) e una giornata all’insegna dell’orgoglio forzista, visto che il partito compie 25 anni e alle Europee si vota col proporzionale, ognun per sé e Dio per tutti. Atteso, dunque, qualche affondo su Salvini, oltre a quelli scontati sui 5Stelle (vedremo se Silvio si inventerà qualche nuovo insulto verso Di Maio&C.).

Il fatto, però, è che alla veneranda età di 82 anni sarà ancora il vecchio leader a sobbarcarsi il partito sulle spalle per non farlo affondare. “I sondaggi ci danno all’interno di una forchetta tra l’7 e l’11%. Tra i due numeri c’è una differenza come tra il paradiso e l’inferno. Qualsiasi risultato sotto le due cifre sarà l’inizio della fine”, racconta un deputato forzista.

In questi ultimi giorni, le condizioni del re di Arcore hanno destato mille preoccupazioni: dopo un primo ricovero per un picco glicemico provocato da una dieta sconsiderata durante il tour in Abruzzo, nei giorni scorsi Berlusconi è tornato in ospedale per un intervento di ernia inguinale. Scatenando, come ha raccontato l’Huffington Post, il panico tra peones e colonnelli per un partito sempre più allo sbando. Perché se è vero che i sondaggi registrano un leggero recupero, è anche vero che ancora non si scioglie il nodo gordiano del futuro del centrodestra. Restare attaccati alla Lega facendo da spalla a Salvini o distinguersi sempre più dal riottoso alleato, tentando di recuperare voti al centro?

Giovanni Toti, per esempio, sabato non ci sarà. “Ho impegni istituzionali cui non intendo rinunciare per andare a Roma a fare platea. Per quello bastano gli altri…”, spiega, lasciando intendere che avrebbe gradito parlare dal palco, cosa mai presa neanche in considerazione dal vertice. Aprirà Tajani e concluderà Berlusconi. In mezzo interverranno big vari e amministratori locali. Chi ci ha parlato dopo l’uscita dal San Raffaele, lunedì scorso, ha trovato un leader non troppo malandato, con una certa voglia di tornare in campo. Il problema, però, è che in FI si respira sempre un’aria da fine impero. Un bel po’ di truppe, del resto, se Salvini non avesse sollevato il ponte levatoio, sarebbero già passate alla Lega. “Ora Matteo ha bisogno di voti, non di truppe. Di quelle, magari, necessiterà più avanti, se si andrà alle urne”, spiega un altro forzista. Ma non è solo il Carroccio ad attrarre.

Qualche azzurro guarda pure a FdI. Secondo alcune voci, a tentare un approccio col partito della Meloni sarebbero state Laura Ravetto e Gabriella Giammanco, che in una seduta a Palazzo Madama si è addirittura seduta affianco a Daniela Santanchè durante una dichiarazione di voto. Verso la Lega guarderebbe invece Massimo Mallegni. Pure Paolo Romani da alcuni viene dato in uscita: dopo una furiosa litigata con Berlusconi post 4 marzo, il rapporto non si è più ricomposto. “Dopo le Europee torno in scena, in Forza Italia. Sono sempre stato contrario a uscite e scissioni”, dice l’ex ministro. “Ma sono nomi messi in giro ad arte per indebolirci”, dicono gli azzurri. Insomma, il quadro è complesso e variegato. E se ora Niccolò Ghedini preme per una maggiore distanza da Salvini, Fedele Confalonieri perora la causa opposta perché bisogna pensare alle aziende e la Lega è l’unica sponda nell’attuale governo. È quasi sempre una liberazione per l’anziano leader, assediato dai questuanti come Re Lear, la sera varcare la soglia di Villa Maria, dove vive Francesca Pascale. L’unico posto dove riesce a rilassarsi e a passare qualche ora in tranquillità. Perché poi, appena rimette piede ad Arcore, tutto ricomincia. I nuovi manifesti 6×3 sono stati ordinati e presto appariranno nelle città italiane. La foto scelta ha almeno tre lustri. Meglio non rischiare.