A Strasburgo costano di più e la tassa è bassa

La proposta di legge del tesoriere dem nonché senatore Luigi Zanda, presentata lo scorso 27 febbraio e ormai carta morta dopo la bocciatura del segretario Nicola Zingaretti, serviva a equiparare il trattamento economico dei parlamentari italiani a quello, più abbondante, dei parlamenti europei. Il testo di Zanda, poiché si tratta di un progetto di legge, indica delle cifre ondivaghe e dunque non è sufficiente a un confronto esaustivo, ma è interessante sviscerare i due modelli di compenso ai politici eletti. Per il Parlamento italiano prendiamo come esempio i senatori.

Palazzo Madama

Indennità. “L’importo lordo dell’indennità dei senatori è pari a 10.385,31 euro (che si riducono a 10.064,77 euro per i senatori che svolgano un’attività lavorativa). Al netto delle ritenute fiscali e dei contributi obbligatori per il trattamento previdenziale, per l’assegno di fine mandato e per l’assistenza sanitaria, l’indennità mensile risulta pari a euro 5.304 (5.122 per i lavoratori).

Altre entrate e rimborsi spese per i senatori

Diaria. “È stata ridotta a 3.500 euro nel 2011. Sono previste decurtazioni per ogni giornata di assenza dai lavori parlamentari”

Punto uno. I senatori ricevono un rimborso forfettario mensile di euro 1.650.

Punto due. “Rimborso delle spese per l’esercizio del mandato. L’importo complessivo, rimasto invariato, è diviso in una quota mensile di euro 2.090 – sottoposta a rendicontazione quadrimestrale – e in un’ulteriore quota di 2.090 euro mensili erogata forfettariamente”.

Esborso totale.: 9.330 più indennità netta di 5.304 genera introiti ai senatori per 14.634 euro.

Parlamento europeo
di Strasburgo.

Indennità.: “La retribuzione lorda mensile dei deputati a norma dello statuto unico è pari a 8.757,70 euro (a luglio 2018). È soggetta a un’imposta dell’Ue e a una serie di contributi assicurativi, al netto dei quali la retribuzione ammonta a 6.824,85 euro”. A parità di lordo, più basso di quello impegnato oggi per i senatori, il netto in Italia sarebbe intorno ai 4.500 euro.

Diaria.: “Il Parlamento versa un’indennità forfettaria di 320 euro a copertura delle spese di alloggio per ogni giorno in cui i deputati sono presenti a Bruxelles o a Strasburgo per attività ufficiali, purché firmino un registro che attesti la loro effettiva presenza. La legge Zanda prevede un massimo di 15 giorni, dunque 4.800 euro con tagli in caso di assenza.

Punto uno. “Indennità forfettaria di 4.513 al mese destinata a coprire le spese legate alle attività parlamentari. Tale indennità è dimezzata per i deputati che, senza giustificare debitamente la propria assenza, partecipino a meno della metà delle sedute plenarie di un anno parlamentare”.

Punto due. “Ai deputati viene rimborsato il costo effettivo dei biglietti di viaggio, su presentazione delle relative ricevute, limitatamente a un importo massimo pari alla tariffa aerea di classe “business” (o analoga), alla tariffa ferroviaria di prima classe o a 0.53 euro per km in caso di spostamento in auto (fino a un massimo di 1.000 km). Per le attività al di fuori del proprio paese essi possono beneficiare del rimborso delle spese di viaggio e di alloggio e delle spese connesse fino a un importo massimo pari a 4.454 euro l’anno”. Gli europarlamentari beneficiano anche di un rimborso di 160 euro al giorno fuori dall’Unione e di un fondo di 24.000 euro al mese, che non viene erogato sui loro conti, per assumere gli assistenti.

Totale. 4.500 euro netti (ipotesi in Italia) più 9.331 di introiti vari (la somma fa 13.831) più il rimborso annuale di 4.454, più fondo assistenti, più altri benefit. Il costo per l’amministrazione è senz’altro maggiore di quella oggi in vigore nel Parlamento italiano.

Stipendi dei parlamentari. I dem “scaricano” Zanda

Luigi Zanda chi? Il giorno dopo la diffusione della proposta del neo tesoriere Pd, che ha depositato un disegno di legge per aumentare gli stipendi dei parlamentari, nel quartier generale dem si fa a gara per prendere le distanze dal senatore, fiutando – ormai forse troppo tardi – le conseguenze dell’ennesimo autogol elettorale. E allora ecco che, da Nicola Zingaretti in giù, la giornata di ieri è stata tempo di smentite, retromarce e affannose precisazioni riguardo alla natura “personale” dell’iniziativa di Zanda. Con buona pace del suo ruolo e della sua influenza, soprattutto sulle questioni economiche, all’interno del partito.

Incalzato soprattutto dal Movimento 5 Stelle, a cui non è parso vero di poter contrapporre la proposta di Zanda al taglio dei vitalizi o all’idea di un salario minimo garantito, il nuovo segretario ha scaricato il tesoriere con un post su Facebook: “Abbiamo già chiarito e confermo: non c’è nessuna proposta del Partito democratico per un aumento degli stipendi dei parlamentari. C’è una proposta di legge presentata da Luigi Zanda, che ha tutta la mia stima, prima della nomina a tesoriere e addirittura prima delle primarie. No ai polveroni”.

Ma per fermarlo, il “polverone”, sarebbe servito ben altro. Anche perché la difesa di Zingaretti – che si è appellato alla solita fake news e ci ha tenuto a dire “di non aver sconfessato Zanda” – smentisce un coinvolgimento generico del Pd, ma non entra nel merito del disegno di legge promosso dal tesoriere.

Ben più diretto era stato invece, qualche ora prima, il senatore renziano Dario Parrini: “È nota la mia stima per il presidente Zanda, ma non condivido la sua proposta sul trattamento economico dei parlamentari. Se e quando dovessimo discuterne negli organismi del Pd, spiegherò come mai penso che non possa diventare la posizione del mio partito”. E così anche Alessia Morani, contraria alla proposta di legge e in fila coi colleghi per mettere all’angolo Zanda: “È una cazzata, una proposta a titolo personale già smentita ufficialmente dal Pd”.

Dove poi non sono arrivate le prese di distanza, il Pd ha puntato il dito contro la campagna di disinformazione di giornali e opposizioni. Lo stesso Zanda, due giorni fa, aveva attaccato il Movimento 5 Stelle sostenendo che la propria proposta non aumentasse gli stipendi dei parlamentari, equiparandoli a quelli degli eurodeputati. Una mezza verità che teneva conto soltanto del salario lordo e non dei benefit (su tutti diaria e rimborsi, che fanno lievitare i guadagni a fine mese), ma abbastanza per contrattaccare: “Prima di fare della propaganda, consiglio a Luigi Di Maio di studiare attentamente il mio disegno di legge e di smetterla con questo attacco al Parlamento”. Stessa linea tenuta ieri da Marco Miccoli, coordinatore della comunicazione del Pd, secondo cui “Di Maio e i grillini sono in drammatico affanno per il disastro provocato dalle loro politiche economiche” e “immettono contenuti falsi” contro Zanda “aizzando i loro troll sui social”.

Insomma, secondo i dem la proposta c’è ma è stata interpretata male; non è del Pd ma è di Zanda; che tutti stimano ma che non rappresenta affatto il partito. Almeno per oggi.

Il partito sbagliato

Quando si analizza il calo dei 5Stelle nei sondaggi e nelle urne, si parla sempre dell’alleanza con la Lega, degli errori, delle gaffe, degli scandali. Tutto vero. Ma non si parla mai del trattamento speciale, ad movimentum, che riserva loro la stampa. Che sarà anche meno letta di un tempo, ma rimane il principale produttore di contenuti, poi ripresi e irradiati da tv, radio e siti web. Da dieci anni, cioè da quando nacquero, i 5Stelle sono l’obiettivo unico del tiro al bersaglio concentrico da destra, dal centro e da sinistra. Una caccia all’uomo che dipende dal loro essere contro tutti. Ma anche dalla loro refrattarietà e incompatibilità con tutti i poteri che regnano sulla politica e sull’informazione al seguito. Così lo sputtanamento è a senso unico. E chi, come noi, si sforza di trattare tutti allo stesso modo a parità di notizie, passa pure per simpatizzante di questo o di quello. Perché, quando c’è di mezzo un 5Stelle, tutte le categorie di pensiero e le prassi consolidate non valgono più, anzi vengono ribaltate. Anche sui fatti meno importanti. Appena eletto segretario Pd, Nicola Zingaretti ha sbagliato un congiuntivo: fosse stato Toninelli o Di Maio, sarebbe stato sbeffeggiato con appositi video e articoli. Invece Repubblica, che non si perde un errore pentastellato, ha ripreso la frase di Zinga, ma gli ha corretto il congiuntivo: non sia mai che qualche lettore possa dubitare della sua infallibilità.

Lo stesso gioco sporco investe le scelte politiche: c’è chi ha sempre ragione e chi ha sempre torto. Gli stessi giornali (tutti) che nel 2012 avevano plaudito al No del governo Monti alle Olimpiadi di Roma 2020, quattro anni dopo hanno massacrato la sindaca Raggi per il no a Roma 2024. Gli stessi giornali che per 25 anni avevano chiesto il blocco della prescrizione addirittura al rinvio a giudizio, hanno massacrato il ministro Bonafede perché l’ha bloccata alla sentenza di primo grado. Ma i doppiopesisti danno il meglio di sé sugli scandali giudiziari. Sono dieci anni che tentano di dimostrare che i 5Stelle rubano come gli altri (come se questa fosse una consolazione per noi o un alibi per gli altri). Purtroppo per loro, fino alla scorsa settimana, nessun M5S era mai stato arrestato o inquisito per corruzione o reati simili (le inchieste sulle giunte 5Stelle riguardano bilanci fallimentari ereditati dai predecessori, storie di nomine, l’alluvione a Livorno, la tragedia di piazza San Carlo a Torino, dirigenti comunali imputati per fatti di anni prima). Figurarsi il tripudio quando finalmente è finito in carcere De Vito. Si sperava che portasse con sé la sindaca e tutto il movimento.

Invece pare che lavorasse in proprio e la Raggi lo tenesse a debita distanza. Il che non ha impedito ai giornaloni di titolare sulla Raggi anche le cronache sull’arresto di De Vito, come se il presidente del Consiglio comunale lo nominasse il sindaco. L’indomani però s’è scoperto che, nella vecchia indagine sulle mazzette trasversali di Parnasi per lo stadio – chiusa da tempo con 19 richieste di giudizio (anche per tre politici: due di FI e uno del Pd) – non era stata ancora chiesta l’archiviazione per l’assessore allo Sport Daniele Frongia, indagato nientemeno che per corruzione perché Parnasi gli aveva chiesto qualche giornalista per una sua azienda e lui ne aveva avvertiti tre. Archiviazione peraltro scontata e imminente. E tutti ci si sono buttati a pesce, facendo credere che il caso De Vito coinvolgesse la Raggi tramite il “fedelissimo” Frongia. Bisognava fare in fretta, perché a giorni l’assessore sarebbe stato archiviato e la truffa ai danni di milioni di lettori, telespettatori, radioascoltatori e internettari sarebbe stata smascherata. Infatti sabato Frongia dominava tutte le prime pagine.

“Il cerchio si stringe sulla Raggi. Indagato pure il suo assessore”, “Ora cade il teorema dell’unica mela marcia”, “Cade il sindaco-ombra sempre vicino a Virginia” (il Giornale). “Stadio della Roma. Indagato Frongia, fedelissimo della Raggi, accusato di corruzione. L’inchiesta ha già portato in carcere il grillino De Vito”, “Di Maio chiama la sindaca: ‘Così danneggi il M5S’” (La Stampa). “Indagato Frongia. E ora la Raggi balla davvero. Il fedelissimo della sindaca avrebbe accettato favori dall’imprenditore Parnasi” (il manifesto). “Ciclone giudiziario su Raggi” (Corriere della Sera). “Frongia, fedelissimo di Raggi nella rete della corruzione”, “Campidoglio sotto accusa”, “La giunta Raggi sotto accusa”, “La cricca grillina” (Repubblica). “Assessore indagato, Raggi trema”, “Ascesa e caduta di Daniele”, “Stadio, indagato Frongia” (Messaggero). La prova della malafede era la notizia, ben nascosta negli articoli, che forse già lunedì i pm avrebbero chiesto di archiviare Frongia per non aver fatto nulla di illecito. La riprova è arrivata ieri, quando tutti i giornali (tranne il Messaggero) che sabato sbattevano Frongia indagato in prima pagina hanno nascosto o ignorato Frongia scagionato mercoledì dai pm. La Stampa: 12 righe a pagina 6. Il manifesto: colonnino a pag. 6. Repubblica: nemmeno un titolo, solo un inciso di 6 righe a pag. 18 in un articolo su tutt’altro tema. Il Giornale: una breve a pag. 8. Corriere: una notizietta a pag. 18. Intanto, sempre l’altroieri, la Procura di Milano ha chiesto di condannare a 2 anni di carcere per turbativa d’asta il leghista Massimo Garavaglia. Che non fa l’assessore comunale allo Sport, ma il viceministro dell’Economia. E non è indagato in attesa di archiviazione, ma imputato in attesa di sentenza. Però si è scelto il partito giusto: la Lega. Risultato: un colonnino a pag. 9 sul Corriere, uno a pag. 10 sul Giornale e zero tituli su tutti gli altri quotidiani. Inclusi quelli “de sinistra” che fingono di combattere Salvini. Fosse stato un 5Stelle, prima pagina assicurata. Poi si domandano perché vince Salvini.

Zain che denuncia i genitori per essere nato

Citare in giudizio i propri genitori per avergli dato una vita che già odora di morte. I 12 anni di Zain, piccolo profugo siriano a Beirut, equivalgono almeno al triplo in Occidente: senza una vera famiglia, impossibilitato a studiare, sopravvive di lavoretti per strada smarcandosi da minacce da ogni dove, mentre si dispera per salvare altri bambini, ancor più indifesi e straziati di lui. Tutt’attorno un inferno governato da crimine, miseria, abbandono. In altre parole la Cafarnao di Nadine Labaki, attrice e regista libanese passata dalle commedie lievi a sfondo sociale al dramma assoluto. Che l’ha portata alla nomination all’Oscar e soprattutto al Prix du Jury all’ultimo Festival di Cannes, kermesse che da sempre l’ha adottata designandola per la prossima edizione a presidente di giuria della sezione Un certain regard.

Uno spostamento di tema, sguardo e di stile necessari e “da cui è impossibile tornare indietro, la responsabilità è enorme” afferma la 45enne artista di Beirut di passaggio a Roma (accompagnata dal marito produttore e musicista e dai loro bimbi) a promuovere il film che vedremo nelle sale dall’11 aprile.

L’anarchia colpevole in cui versa Beirut è tradotta in un’opera di oltre due ore (“ma ne avevo 520 di girato e il primo montaggio arrivava a 12 ore…”) e sintetizza la tragedia della massa profuga in Libano proveniente dai territori di guerra, per lo più dalla martoriata Siria. E a farne le spese è soprattutto la fascia infantile, che viene maltrattata e cancellata: “Non avendo esperienza personale e non essendo dunque autorizzata a immaginare il dramma di queste persone, ho fatto lunghe ricerche visitando ogni centro di detenzione, prigione, tribunale coinvolti nell’immane catastrofe umanitaria, le cui cifre annunciate dalle istituzioni locali non sono assolutamente affidabili. Il punto è che il governo non riesce a gestire un’emergenza di tali dimensioni peraltro aggiunta alle criticità del dopo guerra: si tratta di un caos sistemico sull’orlo del collasso risultato dal sommarsi dei conflitti sia interni che limitrofi”. Come uscirne? Naturalmente Labaki non ha risposte né soluzioni, “ma da artista e libanese ho sentito il dovere e la responsabilità di dare un volto al problema, ma sta alla politica sedersi a un tavolo e trovarvi soluzioni”.

Un contributo alla causa che denuncia Cafarnao lo sta comunque dando: “Si è acceso un dibattito su come aiutare questi bimbi, presentiamo i film ovunque sia strategico, creando lobby e movimenti con cui continuare la lotta”. E almeno i bambini (non attori, ma raccolti dalla strada…) coinvolti nel film si sono salvati: “Zain e la sua famiglia sono stati accolti in Norvegia dove studiano e lavorano, ovvero hanno ricominciato a vivere”.

“L’intolleranza selvaggia” ci ha invaso (parola di Eco)

“Però i razzisti dovrebbero essere un gruppo umano in via di estinzione. È mai esistito un patrizio romano che non riusciva a sopportare i galli o i sarmati, o gli ebrei come San Paolo, o tollerare che potesse salire al soglio imperiale un africano, come infine è accaduto? Di questo patrizio ci siamo dimenticati. È stato sconfitto dalla Storia. La civiltà romana era una civiltà di meticci. I razzisti diranno che è per questo che si è dissolta. Ma ci sono voluti cinquecento anni – e mi pare uno spazio di tempo che consente anche a noi di fare progetti per il futuro”. Sto citando da uno degli scritti di Umberto Eco raccolti nel nuovo libro Migrazioni e intolleranza in cui La Nave di Teseo ha voluto restituire a Eco il ruolo di protagonista fin dall’inizio nell’unico vero scontro di civiltà che sta segnando il nostro tempo, quello che Eco chiama il comparire sulla scena del mondo civile, della intolleranza selvaggia. “L’intolleranza selvaggia si basa su un cortocircuito categoriale che offre poi in prestito a ogni futura dottrina razzista: se alcuni albanesi entrati in Italia negli anni scorsi sono ladri o prostitute (ed è possibile) dunque sono ladri e prostitute tutti gli albanesi”. Quando l’intolleranza selvaggia si espande, dice Eco, ogni intervento (anche politico, se ci fosse) arriva troppo tardi. E indica un percorso. “L’intolleranza selvaggia si batte alle radici, attraverso una educazione costante che inizi nell’infanzia, prima che sia scritta in un libro e prima che diventi crosta comportamentale spessa e dura”. Questa parte del testo ci riporta agli anni Novanta, quando Eco, tra i leader della Academie Universelle des Cultures fondata e presieduta da Elie Wiesel, si è assunto il compito (insieme a Jacques Le Goff e a me) di dare vita al manuale interattivo Accettare la diversità per offrire agli insegnanti e alle scuole del mondo (cito Wiesel) “sostegno alla lotta permanente contro l’intolleranza, la xenofobia e per la difesa dei diritti dell’uomo”. Per spiegare che la bufera di intolleranza aveva radici profonde, Eco ha dedicato una sua celebre lecture (inclusa in questo libro) al Trattato di Nimega. In quella città, nel XVII secolo, Francia, Olanda, Spagna, Brandeburgo, Svezia, Danimarca, molte città-Stato, e ciò che restava del Sacro Romano Impero, si erano proposti una pace che sarebbe durata per sempre. Quell’utopia restò del tutto senza seguito e non fermò alcun massacro. Ma – ci dice Eco – fu realizzata alla fine della Seconda guerra mondiale. “È ragione di continuo compiacimento per le persone della mia generazione rendersi conto (mentre per i nostri figli e nipoti si tratta di accettare una idea ovvia) che oggi è inconcepibile, se non ridicolo, pensare a una possibile guerra tra Francia e Germania, Italia e Gran Bretagna, Spagna e Paesi Bassi. Una persona giovane non può concepire che un tale tipo di conflitti era la norma negli ultimi duemila anni. Dal 1945 in poi, quasi senza accorgersene, ogni europeo iniziò a sentire di appartenere non solo allo stesso continente ma alla stessa comunità”. L’idealismo sembra proiettare troppa luce sullo schermo del filosofo e storico Eco, inducendolo a un eccesso di speranza. Ma se la generazione di Eco, e i maggiori intellettuali di questa epoca anziana, hanno ardentemente sperato, tuttavia non hanno smesso di vedere la realtà. Per Eco vedere prima era il mestiere. Ecco infatti un paragrafo che è il cuore di questa raccolta di saggi divenuti indispensabile libro: “Il problema che interessa oggi l’Europa (…) è di poter firmare un nuovo virtuale trattato contro l’intolleranza. La lotta contro la nostra intolleranza non riguarda solo i cosiddetti ‘extracomunitari’. I nuovi casi di antisemitismo non sono una malattia marginale che riguarda solo una frangia impazzita della società. Recenti episodi ci dicono che il fantasma di questa ossessione è ancora fra noi. Dobbiamo essere in grado di distinguere fra il tollerabile e l’intollerabile”.

Spiega Umberto Eco, con una limpida comprensione di quello che per lui (morto del febbraio del 2016 ) era un futuro sconosciuto che nessuno avrebbe predetto così squallido e pericoloso: “La pace non dipende dai confini, ma dall’affrontare la sfida di un ‘trattato’ capace di porre fine con coraggio all’intolleranza selvaggia”. Si vede bene qui il rapporto fra i due scritti, quello sul fascismo (Il fascismo eterno, La Nave di Teseo) e questo sul fanatico respingimento dello straniero, che si salda con l’altra bassezza che prontamente riemerge appena la sottocultura chiama il peggio a raccolta, l’antisemitismo.

È il Paese in cui si contesta con furore la possibilità di dare la cittadinanza italiana a uno scolaro egiziano bravo e intelligente, che ha salvato i compagni. Eco in questo piccolo libro ha già risposto: “Faccio parte della Académie Universelle des Cultures che riunisce i maggiori artisti e scienziati, letterati e musicisti del mondo perché dichiara, nella sua carta che, in questo millennio, l’Europa diventerà un grande meticciato di culture”.

Un sogno chiamato Talmud. Tradotto tutto in italiano

Il Talmud, dunque: da dove cominciare? Per farla breve, ma nient’affatto facile, dalle parole di Rav Adin Even Israel: “Il Talmud è un libro del mistero totalmente aperto perché il segreto che contiene non ha bisogno di essere nascosto”.

È la citazione posta in esergo a ciascun Trattato edito da Giuntina per lo straordinario “Progetto di Traduzione del Talmud Babilonese” in italiano: un sogno, quasi un’utopia, nato nel 2010 grazie alla professoressa Clelia Piperno e sotto la guida scientifica e operativa di rav Riccardo Di Segni. A 500 anni dall’ultima stampa in Italia (proprio nella Venezia del Cinquecento il Talmud fu edito per la prima volta al mondo), il progetto coinvolge un centinaio di ricercatori e traduttori informatici ed è realizzato – con undici milioni di euro di finanziamenti – in sinergia tra la presidenza del Consiglio dei ministri, il Miur, il Cnr, l’Ucei e il Collegio rabbinico italiano.

Testo sacro dell’ebraismo, secondo solo alla Torah, Talmud significa proprio “studio, insegnamento, discussione” della Bibbia, ma non solo: è la summa del pensiero – e del dibattito e delle interpretazioni e delle contraddizioni e delle dispute e e e… – delle scuole e accademie di Palestina e Babilonia tra il II secolo prima dell’Era volgare (a.C.) e il V dopo l’Era volgare (d.C.), anche se la redazione e sistematizzazione dei fluviali materiali avvenne solo tra il III e il V secolo. È diviso in sei ordini (regole agricole; Sabato e feste; diritto matrimoniale; diritto civile e penale; norme sacrificali; purità e impurità rituale), a loro volta divisi in Trattati, 63, per un totale di 2.711 fogli. Grazie al progetto diretto da Piperno, dal 2016 a oggi sono già stati tradotti ed editi tre Trattati – Rosh haShanà (Capodanno, a cura di Riccardo Di Segni); Berakhòt (Benedizioni, a cura di Gianfranco Di Segni); Ta’anìt (Digiuno, a cura di Michael Ascoli) –, mentre un quarto, Qiddushìn (Matrimonio), è in via di pubblicazione.

La traduzione è digitalizzata, ed è questo uno degli aspetti innovativi dell’operazione italiana, che si avvale di un software e di un complesso sistema informatico (ribattezzato “Traduco”) messo a punto dall’Istituto di linguistica computazionale del Cnr pisano. “In macchina abbiamo il 60 per cento del lavoro, ma molto è ancora da rivedere”, spiega Piperno, giurista e accademica, già nominata “Donna dell’anno” dal magazine Lilith – Independent, Jewish e Frankly Feminist. “Il margine di tempo è impegnativo: non sappiamo ancora quantificare la durata dell’intero progetto. L’unica impresa analoga alla nostra è stata tentata, tempo fa, negli Stati Uniti: senza un software gli americani hanno impiegato 40 anni a tradurre il Talmud Babilonese, ovvero due generazioni di studiosi. Noi puntiamo a concludere il lavoro in una sola generazione”.

Opera-mondo, bibbia della bibbia, il Talmud tesse insieme “brevi cenni sull’universo”, ma seriamente, con buona pace di Gramsci: vi si trova tutto, e di più, e il contrario di tutto, e di più; dal ruolo della donna alle modalità di divorzio, dall’anima alla carità, dalle superstizioni ai prestiti, dalle norme igieniche alla resurrezione dei morti, dal perdono ai doveri verso gli animali… tanto che nel Novecento, un teologo sarcastico, o forse solo ignorante, ridicolizzò il libro derubricandolo a “trattato delle uova”, perché sì, anche di uova parla il Talmud.

Oggi, invece, sono in molti a scomodare la definizione-metafora di “ipertesto”, spiegando così, del progetto italiano, il felicissimo connubio tra sapienza antica e tecnologia ultramoderna: “Vorrei chiarire con una immagine – continua Piperno –. Una delle prove cui erano sottoposti i ragazzini alla fine dello studio del Talmud era questa: si dava loro in mano un ago, ovvero un antenato del puntatore, chiedendo di ‘pungere’ il libro, per poi spiegare cosa ci fosse scritto nelle pagine sottostanti al forellino dell’ago. Proprio come in un ipertesto, i fogli, i ‘doc’ sono tutti collegati tra loro: ragionamenti su ragionamenti, dubbi su dubbi, per arrivare a trovare le risposte dentro di sé. Più che un libro è una banca del sapere, all’interno della quale ciascuno può scovare anche nuovi quesiti, nuovi interrogativi”.

Di fronte a un’opera così aperta, rizomatica, creata per “gemmazione intellettuale”, di ermeneutica infinita, ancora oggi discussa, aggiornata e in divenire (benché il Talmud “canonizzato” si fermi al V secolo), è impossibile non trattenere il fiato e provare spavento. “Ci turba come ci può turbare l’universo, che si espande in continuazione: non lo conosciamo tutto. La prima sensazione è la paura, è vero, poi però con un po’ di coraggio cerchi di buttarti nell’infinito in cui comunque ti trovi. Al confronto con l’infinito non ci si può sottrarre: il Talmud ti aiuta a gestire questa paura, le stesse ansie e gli stessi dubbi tramandati da secoli. Noi oggi parliamo di digiuno, mezzo digiuno, digiuno a ore: in Ta’anìt c’è già tutto”. Anche l’interpretazione dei sogni si trova, in modo seminale, in Berakhòt: “Non viene mostrato a un uomo nei suoi sogni se non ciò che viene dai pensieri del suo cuore”. Freud, insomma, non ha inventato nulla, né il Dio misericordioso è una trovata di Cristo. Il Talmud è pieno di storie, spiegazioni e aneddoti sulla misericordia di Dio, ad esempio, quando salva due pellegrini da un’infausta previsione dell’astrologo, commuovendosi per un pezzo di pane donato a un mendicante, o quando impedisce agli angeli di festeggiare dopo aver richiuso le acque del Mar Rosso, ammonendoli: “L’opera delle mie mani annega nel mare e voi mi offrireste un cantico!”.

“Il mondo è giudicato dalla grazia”, commentò un rabbino e un altro, il mitico Hillel, fu ancor più lapidario: “Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questa è tutta la Torah e il resto è solo commento. Va’, imparalo”.

Bambini vittime della guerra dimenticata

Quando tutti si rendono conto che nessuno può vincerla, la guerra diventa più cattiva: un’esibizione di forza spietata, dove conta solo uccidere il nemico, fosse anche un bambino. Il conflitto nello Yemen ne è un esempio: quattro anni alla data del 26 marzo, oltre 10 mila vittime – civili, in gran parte – e nessuna soluzione in vista, né militare né politica, salvo il ritorno alla divisione in due del Paese. Era così fino al 1990; trent’anni dopo, potremmo ritrovarci un nord sciita, un sud sunnita.

Il missile che martedì ha colpito un ospedale gestito da Save The Children ha fatto sette morti, fra cui quattro bambini, e una decina di feriti: non è stato un episodio isolato. Il missile non è caduto sulla struttura sanitaria, ma ha centrato una stazione di benzina a una cinquantina di metri dall’ingresso dell’ospedale, a 100 chilometri dalla città di Saada, nel nord-ovest del Paese, quasi al confine con l’Arabia Saudita.

Save The Children riferisce che “bambini innocenti e operatori sanitari hanno perso la vita in quello che sembra essere stato un attacco indiscriminato a un ospedale in un’area densamente popolata, in violazione delle leggi internazionali”. L’organizzazione umanitaria chiede l’immediata sospensione delle vendite di armi alle parti in conflitto nello Yemen comprese le bombe che dall’Italia sono destinate all’Arabia Saudita. A quattro anni dall’inizio delle ostilità, il 26 marzo 2015, lo Yemen ha drammaticamente cambiato volto. Per l’Oxfam, il conflitto fa una media di tre civili al giorno, uno ogni 8 ore, quasi 1.200 l’anno. Secondo calcoli governativi, la guerra è costata circa 50 miliardi di dollari, compresi i danni alle infrastrutture. Allo stato delle informazioni, è persino difficile attribuire senz’ombra di dubbio la paternità dell’attacco all’ospedale a una delle parti in conflitto. Che non sono solo due – i ribelli huthi e i governativi – ma un intreccio da quando un’inedita coalizione militare araba guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (Eau) ha iniziato l’intervento armato nel Paese, con l’obiettivo di ripristinare le istituzioni riconosciute dalla comunità internazionale, dopo il colpo di stato degli insorti. Tutti i fronti sono in movimento: a Hodeida, la tregua è a rischio; nella regione di Hajja, la situazione umanitaria è insostenibile; nel sud più ricco di petrolio, si avverte la presenza di Aqap (al Qaeda nella penisola dello Yemen) e di altre milizie locali; ad Aden, le potenze internazionali restano alla finestra.

Brexit, May tira l’amo: “Mi dimetto da premier se votate il mio piano”

Già lunedì scorso a Londra negli ambienti politici girava la voce: May è pronta a lasciare il posto di primo ministro in cambio del voto al suo piano di divorzio dall’Unione Europea. Ieri è arrivata la conferma: la premier ha detto ai deputati conservatori che è disponibile alle dimissioni se sarà sostenuta la sua Brexit, la stessa che lo speaker John Bercow ha ribadito che non consentirà di votare per la terza volta in aula, a meno di modifiche sostanziali: Bercow ricorda che il testo è stato già bocciato due volte. May vuole approfittare della confusione, ieri sono state otto le proposte parlamentari sul “piano B”, alternative al suo accordo e gli osservatori della Bbc ritengono che sia un numero che possa generare “confusione”.

La proposta di May però non significa che lei si dimetterà seduta stante; una fonte del numero 10 di Downing Street, citata da Sky News sottolinea che l’iter per eleggere un nuovo leader conservatore, e quindi il primo ministro, verrà avviato solo dopo la Brexit; se i deputati approveranno l’accordo di May questa settimana, il divorzio dall’Ue ha la data fissata al 22 maggio. Fino al completamento dell’iter, May resterà premier. Qualcuno fra i Tory, ha risposto in modo positivo; l’ex ministro degli Esteri, Boris Johnson, ha dichiarato che voterà a favore dell’accordo di May. Johnson è tra i pretendenti alla guida del partito ed è stato uno dei più strenui oppositori dell’intesa elaborata dalla premier. Ma Johnson ritiene che se May si dimette, la corsa alla leadership dei Tory per lui diventa possibile. Rimane invece estremamente critico il responsabile dell’opposizione: “La promessa di Theresa May ai deputati Tory di dimettersi se voteranno a favore del suo accordo, dimostra una volta per tutte che i suoi caotici negoziati sulla Brexit riguardavano in verità la guida del partito e non i principi nè l’interesse comune” scrive su Twitter Jeremy Corbyn, che prosegue: “Un cambiamento al governo non può essere un rattoppo Tory, è la gente che deve decidere”, La stessa che, sempre divisa in due fazioni, i pro Ue e i pro Brexit, anche ieri sera ha manifestato fuori da Westminster.

Ucraina, dietro il comico c’è l’ombra dell’oligarca

Dopo l’inchiesta “Soldi nostri” del gruppo di giornalismo investigativo ucraino Bihus.info che ha svelato un giro di commesse truccate ai danni del Dipartimento della Difesa orchestrata dal figlio di Oleg Gladkovsky – uno dei più stretti collaboratori del presidente Petro Poroshenko e suo ex socio in ambito imprenditoriale – i sondaggi mostrano un’ulteriore flessione al ribasso della percentuale di cittadini intenzionati a confermare il capo dello Stato uscente, alle elezioni di domenica. Nonostante Poroshenko avesse dichiarato all’inizio del mese di aver licenziato Gladkovsky, vicecapo del consiglio di sicurezza nazionale, il cui figlio sarebbe stato il promotore della vendita a prezzi gonfiati di una partita di armamenti russi di contrabbando a società statali partecipate del ministero della Difesa ucraina, molti cittadini hanno dichiarato di non volerlo più votare.

A giovarne sarà quasi sicuramente Volodymyr Zelensky (30% negli ultimi sondaggi), l’attore satirico che dal 2015 interpreta la parte di un professore di storia che diventa presidente della Repubblica nella serie tv “Servitore del popolo”. La compagnia di produzione, di proprietà dello stesso Zelensky, che ha realizzato la serie ha fondato anche un partito politico con lo stesso nome. Ma la decisione di candidarsi non sembra farina del sacco dell’attore quarantenne. A decidere di farlo scendere in politica e finanziarne la campagna elettorale sarebbe stato l’oligarca Ihor Kolomoisky, nel 2014 uno dei più strenui sostenitori della candidatura del presidente uscente e fondatore del battaglione Dnipro, il più organizzato tra quelli che combattono i separatisti filo russi del Donbass. Kolomoisky è da decenni uno degli imprenditori più potenti dell’Ucraina e secondo uomo più ricco del paese. Proprietario di banche e società, è anche un tycoon dei media. E suo è proprio “1+1”, canale televisivo con più di 10 milioni di spettatori, da cui va in onda la serie tv di Zelensky; quest’ultimo potrebbe vincere solo al ballottaggio del 21 aprile visto che nella consultazione di domenica nessun candidato dovrebbe riuscire a ottenere la maggioranza assoluta. Kolomoisky è l’unico cittadino ucraino al quale è stato possibile ottenere la seconda nazionalità, anzi tripla pur essendo vietato. L’uomo, di religione ebraica, attualmente risiede tra Svizzera e Israele, ha tre passaporti: israeliano, ucraino e cipriota.

Dopo l’elezione dell’oligarca Poroshenko, l’oligarga Kolomoisky si aspettava, secondo molti analisti, un trattamento “congruo” per il sostegno accordato al collega dai propri media. Così non è stato però, almeno dal suo punto di vista. Nel 2016, Poroshenko ha nazionalizzato la PrivatBank, di proprietà di Kolomoisky, il più ricco e vasto istituto bancario privato del paese. Per i suoi standard si è trattato di un vero e proprio affronto.

Prima che la banca venisse nazionalizzata, Kolomoisky ha ingaggiato con lo stato un braccio di ferro che alla fine è costato all’Ucraina 5,6 miliardi di dollari, una spesa sconcertante per un paese sostenuto da prestiti dal Fondo Monetario Internazionale. Maxim Kamenev, osservatore politico della tv indipendente Hromadske, nata dopo la rivolta di Maidan, dice al Fatto che Kolomoysky sostiene tutti i candidati che potrebbero battere Poroshenko: “Ciò che gli preme è che Poroshenko arrivi al sesto posto. Nel caso di vittoria di Zelensky, il suo protettore potrebbe cercare di influire sulle nomine dei ministri”.

Maduro, passaporto per Mosca

Il Venezuela è ripiombato nel buio a causa di un nuovo black-out che ha coinvolto anche ieri non solo la Capitale, ma anche 15 dei 20 Stati che costituiscono la federazione. In seguito alla mancanza di elettricità da tre giorni a fasi alterne, il governo ha chiuso scuole e uffici. Disservizi anche negli ospedali. Il vicepresidente e ministro della Comunicazione, Jorge Rodríguez ha nuovamente attribuito l’incidente a un attacco degli Stati Uniti e dell’opposizione guidata da Juan Guaidó alla diga idroelettrica del Guri. “Si tratta di atti criminali parte della guerra elettrica. Il governo bolivariano – ha assicurato Rodríguez – però ha dispiegato, fin dal primo momento dei nuovi attacchi, tutti gli sforzi per restituire, appena possibile, il servizio elettrico a tutto il territorio nazionale”.

Il nuovo black-out è avvenuto a meno di 20 giorni dal precedente, il più grave della storia del Venezuela, durato quattro giorni, che ha messo in crisi le attività di numerosi ospedali, dei trasporti pubblici e gli aeroporti. Il giorno precedente il nuovo black-out, nell’aeroporto di Maiquetía, erano atterrati (non è la prima volta) due aerei militari russi. A darne notizia per primo è stato il giornalista indipendente Javier Maiorca. Oltre a 35 tonnellate di attrezzature, a bordo c’erano anche un centinaio di uomini in divisa tra soldati e alti ufficiali. Fra questi figura anche il generale Vasily Tonkoshkurov, capo della direzione della Mobilitazione delle forze armate del Cremlino. Trattandosi di una delle personalità più importanti dell’esercito russo, il reporter ha avanzato l’ipotesi che sia stato inviato dal presidente Vladimir Putin per coordinare un’operazione dirimente. Secondo Maiorca la “centuria” potrebbe servire a proteggere Maduro in caso di golpe. Lo sbarco è avvenuto – forse non è un caso – poche ore dopo la denuncia del ministro Rodríguez circa “un complotto terroristico” organizzato dall’opposizione e “sventato” con l’arresto di Roberto Marrero, braccio destro di Juan Guaidó. Tra le prove offerte a sostegno dell’accusa ci sono due fucili, una granata e una serie di screenshot ricavati dal cellulare di Marrero dai quali si evincerebbero i dettagli del piano: l’arruolamento di 8 gruppi di mercenari in Salvador, Guatemala e Honduras, da addestrare in Colombia, per far fuori alti esponenti del regime e lo stesso Maduro durante uno sciopero generale del paese che si doveva concludere con una marcia su Palacio Miraflores. Marrero tre giorni fa è apparso davanti a un Tribunale per rispondere dell’accusa di terrorismo.

Un’altra ipotesi è che i due aerei, un cargo Antonov-124 e un jet più piccolo Ilyushin Il-62 servano per il trasporto di ciò che il Venezuela può ancora usare come forma di pagamento, dato che non ha più valuta in cassa, cioè oro e metalli preziosi. Uno dei due aerei militari ha già lasciato il paese, forse proprio carico di oro venezuelano affinché la Russia veda assicurati, almeno in parte, i proventi degli investimenti, attività commerciali e affari in corso da decenni con Caracas. Quando si parla di Venezuela, di certezze ce ne sono poche. Ciò che è sicuro – lo ha reso noto dopo aver confermato l’atterraggio degli aerei militari la stessa ambasciata russa a Caracas – è che a fine marzo il Venezuela deve onorare una ingente tranche di aiuti inviati da Mosca nel corso della presidenza Maduro. L’agenzia pro-Cremlino Sputnik sostiene invece che all’interno dei due aerei ci fossero “funzionari e materiale per soddisfare un contratto tecnico-militare stipulato da tempo”.

Ancora una volta la questione venezuelana si è trasformata in un braccio di ferro per procura tra Mosca e Washington. Dopo la critica telefonata tra i ministri degli Esteri Pompeo e Lavrov, quest’ultimo ha affermato che “la decisione della Russia di mandare esperti militari a Caracas è in piena conformità con la legge venezuelana”. Gli ha fatto eco la sua portavoce Zakharova: “La presenza di specialisti russi sul territorio venezuelano è regolata da un accordo fra i governi di Russia e Venezuela firmato a maggio del 2001”. La Camera del Congresso Usa ha votato all’unanimità tre provvedimenti tesi a mettere pressione al regime. Si tratta di nuove restrizioni sulle importazioni di gas lacrimogeni, di tenute antisommossa e di altri equipaggiamenti utilizzati per il contrasto al crimine. Un’altra misura chiede all’Amministrazione Trump di fornire fino a 150 milioni di dollari in aiuti umanitari, un terzo provvedimento invita il Dipartimento di Stato e le agenzie di intelligence a fornire una valutazione sulla minaccia costituita dall’influenza della Russia sul Venezuela. Il presidente Trump non ha dubbi e ieri ai giornalisti incontrati alla Casa Bianca ha detto: “La Russia deve andare via dal Venezuela”.