Alla fine c’è sempre il che fare? E s’intende per quella cosa informe che – archiviata la grande storia del movimento operaio – va sotto il nome di sinistra. Ieri su Repubblica ha risposto Ezio Mauro: è cambiato tutto, dice l’ex direttore, e “il frutto che raccogliamo è una politica senza nome”, una destra “esagerata e senza misura”. Seguono paroloni – “sovranismo lepenista”, “modernismo post-fascista”, “pozzo neo-reazionario” – dove l’ansia tassonomica maschera appena la debolezza del pensiero. Ma, insomma, che fare? “Tocca alla sinistra” difendere “i valori liberaldemocratici”, darsi “un compito generale, da forza di sistema” e farlo “ritrovando la vita nelle paure dei più deboli” e “negli egoismi dei garantiti” (sic), ma pure recuperando l’araba fenice detta “radicalità riformista” (che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa; cosa sia anche meno). Tradotto: il Pd dovrebbe essere la forza di destra moderata (liberaldemocratica) che è stata finora dando qualche brioche in più agli ultimi (i più deboli) e qualche schiaffone in più ai penultimi (i garantiti egoisti). Poi ci sarà tempo di sorprendersi del modernismo-sovranista-postfascista-ecceterista… Scrive Mario Tronti in un recente libro (Il popolo perduto, Nutrimenti): “Il dramma, per me politicamente insopportabile, è una sinistra di benpensanti e una destra di nullatenenti (…) Non me la sento di stare con quelli che alle nove di sera entrano all’Auditorium contro quelli che alle sei di mattina escono di casa”. Forse è ora di dirsi che il problema, più che la politica, è l’antropologia.
I beni comuni spiegati a chi ne ha paura
Il grande tema dei beni comuni guadagna spazio nel Paese. Raccoglie consensi, ma suscita aspre divisioni: perché? L’idea dei beni comuni piace perché implica una collettività capace di gestire se stessa, e perciò suscita speranza, a contrasto con la crisi della democrazia rappresentativa.
Ma come definire i beni comuni e la loro funzione? Ugo Mattei e Alberto Lucarelli hanno rilanciato, proponendolo all’iniziativa popolare, il disegno di legge prodotto nel 2007 da una commissione presieduta da Stefano Rodotà; ma subito si sono levate voci critiche, in particolare di Paolo Maddalena e Stefano Fassina, a sua volta promotore di un disegno di legge contrapposto. Più vicina a quest’ultima è una terza posizione, espressa da comunità che gestiscono beni comuni (dall’Asilo Filangieri di Napoli a Mondeggi presso Firenze, a Casa Bettola di Reggio Emilia), secondo cui la proposta Mattei, “che era all’avanguardia dieci anni fa, oggi risulta insufficiente”.
Per orientarci in questo rompicapo, cominciamo col dire che se avessimo la fortuna di avere ancora tra noi Rodotà, egli sarebbe il primo a volere l’aperta discussione della proposta che firmò undici anni fa. La Relazione della sua stessa Commissione consente di fare un po’ di storia. Tutto parte da quando Tremonti, ministro dell’Economia nel governo Berlusconi, varò la Patrimonio dello Stato SpA, un marchingegno (fallimentare) che rendeva vendibile ogni proprietà pubblica. In quel contesto, mentre Giuseppe Guarino proponeva la riduzione del debito pubblico mediante il massiccio trasferimento ai privati del patrimonio immobiliare dello Stato, Tremonti avviò (inizio 2002) lo studio di un Conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche, affidato a una ditta privata (Kpmg) e finalizzato alle dismissioni. Nel marzo 2003 Sabino Cassese, Antonio Gambaro, Ugo Mattei ed Edoardo Reviglio mandarono a Tremonti un Memorandum che proponeva una commissione di riforma del contesto giuridico dei beni pubblici. Prontamente approvato da Tremonti, quel progetto si fermò quando all’Economia lo sostituì Siniscalco (luglio 2005), ma venne ripreso dal governo Prodi, e il ministro della Giustizia Mastella costituì la Commissione Rodotà (luglio 2007). La sua Relazione (15.2.2008) considerava il regime di proprietà del Codice civile (1942) ormai obsoleto dopo i forti cambiamenti tecnologici ed economici e per il ruolo assunto da nuove forme di beni (immateriali, finanziari ecc.), ma senza menzionare la più importante novità intervenuta: la Costituzione, che collega la proprietà ai diritti di cittadinanza e alla funzione sociale (art. 42).
Questo il contesto in cui nacque la legge di iniziativa popolare, riproposta oggi in una situazione assai mutata. Allora come ora, infatti, il ddl prevede una delega piena al governo per la modifica del Codice civile: ma il governo di oggi non è forse quello in cui una Lega straripante propugna una devoluzione regionale che sconfina nell’auspicata (da loro) secessione del Nord? Per non dire di un possibile governo a guida leghista, chiaro obiettivo di Salvini con la complicità di Berlusconi & C. Che senso ha, in questo contesto inimmaginabile nel 2008, scrivere, come fa la proposta Mattei, che “titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati” (comma 3 c)? Che senso ha, oggi, parlare di “gestione e valorizzazione di ogni tipo di bene pubblico” anche “da parte di un soggetto privato” (c. 2e)? Perché abolire il Demanio senza indicare chi ne prenda il posto per rappresentare “lo Stato” che pure è richiamato al c. 3c? Il riversamento dal demanio di Stato a quello di Regioni e comuni è sempre stato l’anticamera delle privatizzazioni: una totale sdemanializzazione non avrebbe effetti ancor peggiori? Una buona proposta di legge non dovrebbe contenere forti controveleni?
Il tema è troppo importante per liquidarlo solo perché fra chi ne parla non c’è accordo. È necessario disaccoppiare il tema del beni comuni, centralissimo, dalle soluzioni proposte. Non irrigidirsi su questa o quella ipotesi, ma confrontare la diversità delle voci. Se vogliamo costruire una visione comune, è necessario partire dalla Costituzione, ma anche dalla convergenza di antiche e sopravviventi tipologie di beni comuni con nuove e promettenti forme di gestione. L’art. 42 Cost. riconosce due sole forme di proprietà, pubblica o privata, ma tace dei “beni comuni”, eppure in Costituente se ne parlò. Si ricordarono allora gli usi civici gestiti da comunità di cittadini, ma si decise di non menzionare nella Carta questo “altro modo di possedere”, assorbendolo invece nella categoria dei beni pubblici. Affermato il continuum fra beni pubblici e beni comuni, rimasero nella Costituzione alcune tracce delle proprietà collettive, come le “comunità di lavoratori e di utenti” dell’art. 43. Inoltre, ed è ancor più importante, la Carta nel suo insieme consacra la vocazione dei beni collettivi (pubblici e/o comuni) a farsi strumento per l’esercizio dei diritti dei cittadini e della libertà democratica.
Gli usi civici sopravvivono con enorme varietà locale, dai demani del Sud alle regole del Cadore. Ne restano oggi un milione di ettari (tre milioni nel 1947): proprietà collettive nate da forme spontanee di auto-organizzazione imperniata su uno spirito comunitario. Ma a questa mappa residuale, che andrebbe rilanciata e vitalizzata, si unisce ora, con visibile affinità di intenzione etico-politica, una trama di nuove realtà di autogestione, a cui appartengono l’Asilo di Napoli e molte altre realtà sparse in tutta Italia (come a Pisa il Teatro Rossi). Oggi dunque parliamo dell’universo dei beni comuni in una situazione doppiamente nuova: da un lato la deriva della politica verso la destra leghista, dall’altro la crescente consapevolezza della funzione civile delle proprietà collettive. La nozione di beni comuni dev’essere perciò rivista, nel quadro della Costituzione, partendo al tempo stesso da qualcosa di antico (gli usi civici) e da qualcosa di molto nuovo (le esperienze di autogestione di questi anni).
Questa la lezione di un’affollatissima assemblea sul tema convocata qualche giorno fa a Venezia da Libertà e Giustizia (Riviera del Brenta) e da numerose associazioni cittadine. E che fosse a Venezia non è un caso: le irresponsabili minacce che pesano sulla Laguna e sulla città richiedono urgenti contromisure, un’acuta e consapevole attenzione al bene comune, alle proprietà collettive, ai diritti delle generazioni future. Per parlare oggi di beni comuni si deve ripartire “dal basso”, dalla ricchezza e varietà delle esperienze locali di autogestione: quelle volute da noi, i cittadini.
“Ti candido”, come il Pd del Nord scimmiotta i 5Stelle
Ci sono le elezioni in vista e i partiti fanno di tutto per cercare – nascondendosi – di recuperare i consensi e la simpatia della gente che li ha mollati. L’ultima idea è quella di trovare candidati “nuovi”, “di sinistra”, “civici”, “dal basso”. Meglio se anche giovani e bellini. Ci sta provando il sito ticandido.it sotto lo slogan: “Ti candido, il potere della democrazia”. Nessun simbolo di partito. Un manifesto che dice: “Cerchiamo profili credibili e idee dirompenti. Cerchiamo candidature credibili e radicate. Candidature espressione di comunità che si battono per la giustizia sociale, che abbiano o meno una tessera di partito in tasca”. In verità, i promotori una tessera in tasca ce l’hanno: quella del Pd. O hanno comunque una precisa collocazione politica e perfino professionale. Davide Agazzi lavora nel Gabinetto del sindaco di Milano Giuseppe Sala. Angelica Villa lavora a Base, spazio pubblico milanese, dopo essere stata segretario di un circolo del Pd cittadino. Fabio Malagnino è il direttore della testata giornalistica del Consiglio regionale del Piemonte. Michele D’Alena lavora nell’ufficio Immaginazione civica del Comune di Bologna.
“Ti candido” cerca volti nuovi e offre un finanziamento per la campagna elettorale. Punta a raccogliere soldi da piccole donazioni, quota minima 10 euro, “per evitare che la politica sia un privilegio di chi può permetterselo”.
I modelli a cui i promotori si rifanno sono nobilissimi. L’ascesa di Alexandria Ocasio-Cortes negli Stati Uniti, che ha spiazzato le gerarchie del Partito democratico americano riuscendo a vincere le primarie nello Stato di New York. L’esperienza di “Momentum” in Gran Bretagna, che ha sconvolto gli equilibri del Partito laburista. La rivoluzione di Bernie Sanders, che ha finanziato la sua campagna negli Usa rifiutando i soldi di Wall Street e raccogliendo via web donazioni piccole e piccolissime, in media 27 dollari a donatore. Tutte esperienze che hanno rotto con le strutture consolidate dei partiti della sinistra tradizionale e hanno richiamato all’impegno civile e alla militanza tanti giovani e tanti delusi dalla politica. Ma riuscirà il trapianto di questa idea dai paesi anglosassoni all’Italia della Casta?
La nascita di esperimenti come “Ti candido” mostra innanzitutto quanto la cosiddetta “antipolitica” faccia scuola. L’idea di raccogliere candidature “nuove” via web è presa di peso dal Movimento 5 stelle, come quella di proporre campagne elettorali a basso costo finanziate con piccole donazioni dai cittadini. Ma mostra anche – a giudicare dai promotori – il tentativo dei partiti (a dirla chiara: del Pd) di recuperare consensi e presa sociale scimmiottando i metodi dei tanto detestati Cinquestelle. Per portare acqua al leader, però, non per insidiarne la leadership. Bernie Sanders negli Stati Uniti si è presentato come alternativo alla candidata forte del Partito democratico, Hillary Clinton. I giovani di “Momentum” hanno ribaltato gli equilibri del vecchio Labour party in Gran Bretagna contribuendo in maniera determinante all’arrivo al vertice di Jeremy Corbyn.
I volonterosi giovani di “Ti candido”, per lo più stipendiati da amministrazioni pubbliche guidate dal Pd, hanno un progetto di rottura? Hanno un programma nuovo e alternativo a quello dell’establishment di partito? Hanno (o cercano) un leader che voglia davvero ribaltare il Pd e ricostruire il campo della sinistra in Italia? Il manifesto che propongono sul loro sito è pieno di idee belle e nobili e condivisibili, ma non annuncia alcuna svolta. Lancia tutt’al più il partito dei carini.
Salvini, il condensato delle passioni medio-basse del Paese
Lo spettacolo d’arte varia di un ministro dell’Interno che irride e fa il bullo con un ragazzino di tredici anni sembra la plastica rappresentazione dei meccanismi psicologici che spingono tanta gente a votarlo. Forte con i deboli, morbido con i forti, basta con tutta quella faccenda complicata che è l’etica, tutti quei discorsi teorici da professoroni o da buonisti. Qui si fanno i fatti, si menano le mani, si stringe la mascella, si querelano gli scrittori, si bullizzano i ragazzini, non ce n’è per nessuno. E questo piace.
A differenza della gran voglia di ometti forti che abbiamo visto in passato (e uomini della provvidenza, e ultime spiagge e “o lui o la morte nera”), Salvini rappresenta un vero condensato delle passioni medie e medio-basse del Paese: l’irrefrenabile ammirazione verso colui che vince la rissa per il parcheggio, che salta la fila, che abbaia solo a chi non può rispondergli a tono. È bastato che un ragazzino gli dicesse due parole sensate e l’ometto forte si è subito irrigidito, circondato dalla sua canea di negazionisti quando c’è da negare e allarmisti quando c’è da allarmare.
Anche nel caso di Salvini la teoria italiana dell’ometto forte si conferma in tutta la sua malagrazia: uno che sembra un duro da saloon ma che si gioca la lacrimuccia quando si vota per processarlo, uno che si veste da sceriffo ma parla d’altro quando gli si chiede conto di un colpo da 49 milioni. Uno che combatte le battaglie a presa rapida – la paura, l’invasione, prima gli italiani – lasciando ai soci di governo, povere stelle, le faccende spinose e complicate (e quelli ci cascano con tutte le scarpe, e ci si incasinano mentre lui ghigna). Insomma, perfettamente coerente con quello spirito-guida tra il furbetto e il prepotente che sotto sotto piace tanto. E che dà il segnale del liberi tutti: le pulsioni più banali ed egoiste, la prima cosa che salta in mente, il luogo comune logoro travestito da buonsenso, tutto è permesso, tutto è lecito.
Ora tutti si interrogano su come Salvini si giocherà questa passeggera (si spera) overdose di consenso. Se lo chiedono i suoi cannibalizzati alleati dei 5 Stelle, che forse cominciano ad accorgersi di avergli spianato troppo il terreno; se lo chiedono a destra mentre si interrogano su dove parcheggiare una volta per tutte il corpo imbalsamato del loro Lenin, Silvio buonanima. Se lo chiedono anche a sinistra, indicando in Salvini il nemico da battere, ma facendolo poco e male, e soprattutto con due fardelli sulle spalle. Uno, il minnitismo che fu il prodromo culturale del salvinismo; l’altro l’insopportabile spirito elitario di una sinistra che, diventata liberale, ha dato lezioncine a tutti col ditino alzato senza sapere più nemmeno lei cosa stava insegnando.
Ora la solfa dice: che farà Salvini in Piemonte? E in Europa? Un asse con la Meloni? Coi sovranisti europei? Si accatastano sul nuovo ometto della provvidenza aspettative di trionfo totale, commettendo l’errore di pensare solo ai meccanismi politici, alle triangolazioni e ai pesi, alle alleanze tattiche.
Insomma, ancora una volta (come già avvenne per l’ipnosi collettiva sul Renzi “nuovo” e “rottamatore”) si commette l’errore di vederne solo il lato politico e non il risvolto – diciamo così – antropologico. Non c’è solo il premio di maggioranza dato da di chi corre ad acclamare il vincitore, c’è anche il sollievo di vedere un vincitore senza precisi meriti, o particolari abilità, o qualità sopra le media (bassa) del paese reale. Un’immedesimazione di massa per l’ennesima (con alcune varianti sempre uguale) santificazione del mediocre. Una specie di “uno di noi” che ce l’ha fatta, che ha fatto la voce più grossa, che ha vinto nella lite al semaforo, che si trincera dietro il suo potere, che prende in giro un ragazzino, semplicemente perché può farlo.
Zingaretti e il tutto fa brodo per vincere
Una delle più frustranti tendenze del futuro è quella di degradarsi rapidamente in presente. Noi, per dire, avevamo creduto alla ventata di novità che con l’arrivo di Zingaretti, issato dal corposo e speranzoso “popolo delle primarie” in cima al Pd, era spirato dentro a quel partito così giovane fuori (solo 11 anni) e così vecchio dentro; così come, a suo tempo, credemmo che l’allontanamento igienico dell’allora minoranza Pd dal tanfo neoliberista dell’oligarchia gigliata fosse sentito e meditato sulla tara degli ideali. Ora, può darsi che abbiamo capito male noi, e nel caso saremmo ben lieti di accogliere il chiarimento di qualche esegeta più preparato in fatto di singulti, afonie, balbuzie, mezze frasi e messaggi cifrati che caratterizzano la cosiddetta comunicazione del fatato mondo del Pd; ma apprendiamo da fonti certe (Corriere) che nella direzione dell’altro ieri al Nazareno Zingaretti ha “ottenuto il mandato per trattare con le altre forze politiche”, inclusi i transfughi della ex minoranza, poi fondatori di Articolo1-Mdp, per la creazione di una lista unitaria alle europee. Apprendiamo anche che a opporsi sono stati 17 ultras renziani, ancora convinti che quelli di Mdp siano “coloro che hanno lavorato per far perdere il Pd alle politiche” (Giachetti), come se non avesse fatto tutto Renzi da solo; e che, soprattutto, gli ex scismatici ci starebbero seriamente “pensando”.
Ci siamo messi a compulsare verbali e profili Twitter, a interrogare testimoni oculari e a fermare passanti per capire se per caso Zingaretti, per questa sua operazione di simbolica e pastorale riconduzione all’ovile, avesse almeno fatto cenno a qualche abiura non solo di maniera di opere e omissioni renziane, cioè di tutti gli obbrobri perpetrati da un soggetto che ha dimezzato i voti del Pd, decimato gli iscritti, perso tutto il possibile dopo il risultato-totem del 40,8% e, al di là dei numeri, sfigurato il volto culturale di un partito ridotto talmente male che i suoi elettori, chiamati al riconoscimento a un anno dalla tragedia del 4 marzo, hanno a malapena identificato.
In altre parole, la pensosità degli esuli ci ha indotto per un istante a illuderci che Zingaretti avesse promesso di ridiscutere il Jobs Act, o di reintrodurre l’art.18, o di cambiare la vigente legge elettorale detta Rosatellum, sulla quale Renzi costrinse Gentiloni a mettere la fiducia alla Camera e al Senato, perché l’identità di un partito determina anche i modi in cui i suoi eletti si relazionano con l’Europa. Abbiamo sperato che le parole di Zingaretti secondo le quali l’eventuale alleanza con Bersani e Speranza “non significa convergenze che mettono indietro le lancette della scissione” fossero frutto di un refuso fonico e che in realtà volessero dire l’opposto, e cioè che l’alleanza sarebbe esattamente un modo per tornare indietro, resettare il cortocircuito generato dal passaggio degli unni toscani, recuperare la fiducia degli elettori ancora scioccati dalla protervia classista dei bulli toscani, ristabilire un rapporto di correttezza istituzionale con persone serie che il Caligola del Valdarno tentò di intimidire in modi vari e fantasiosi, minacciando “lanciafiamme” in direzione o epurandole dalla Commissione Affari Costituzionali perché osarono contraddire i suoi ordini proprio in merito alla legge elettorale.
Niente affatto. A suggerire al segretario del Pd “la mossa” di “sdoganare i fuoriusciti” (La Stampa) sarebbe la necessità di “non perdere nemmeno un voto” alle europee, esigenza che renderebbe possibile l’unione nella stessa lista di forze eterogenee quali i calendiani (cioè Calenda, addirittura messo nel simbolo del Pd) e persone di sinistra. Il tutto in virtù di quel mito creato e sponsorizzato dalle élite (non a caso a Zingaretti l’idea è venuta dopo un colloquio col vice presidente della Commissione europea Timmermans) che tutto fa brodo pur di battere i populisti-sovranisti. Tutto, anche riprodurre la più perdente di tutte le idee degli ultimi anni, e cioè che per battere la destra bisogna annacquare più possibile la sinistra.
Di Zingaretti, a parte la bravapersonità, ci sfuggono caratteristiche, programma e idee politiche; ma se Mdp si allea col Pd, tenendo conto che quando era in LeU ha già appoggiato Zingaretti alle amministrative, può farlo solo per tre motivi: o crede alla validità di quel mito (tutti insieme, liberisti e socialdemocratici, padroncini e politici di sinistra, pur di vincere contro i populisti: il massimo del populismo); o vuole fare una prova in vista delle politiche (auguri); o intende semplicemente sopravvivere e non sa farlo con una proposta politica nuova. Senza contare che così facendo dà ragione a Renzi, il quale ha sempre sostenuto che chi usciva dal Pd e ne prendeva le distanze in tutte le elezioni “facendo vincere il Matteo sbagliato” lo faceva perché odiava lui e non in ragione di ideali politici.
Mail box
La miopia della sinistra fa trionfare gli avversari
Ho visto gli esiti delle elezioni in Basilicata. Nonostante i politici che hanno perso (soprattutto Partito democratico e Movimento 5 Stelle) esaltino il risultato conseguito, la fotografia delle percentuali finali indica che, per sconfiggere la destra, le forze di Sinistra devono fondersi e fare coalizione con il Movimento 5 Stelle. Il resto sono chiacchiere, funambolismi retorici, autoreferenzialità da un tanto al chilo, superbia stracciona. Se questa gente avesse un po’ di sale in zucca, la destra non toccherebbe la palla, ma siccome da un lato abbiamo i discepoli del blairismo in salsa renziana e dall’altro i puristi della buona volontà dei pivelli, Berlusconi, Salvini e il resto della banda possono dormire tra due guanciali.
Paride Antoniazzi
Dobbiamo considerare anche i vantaggi della Cina
La Cina rappresenta ormai un colosso commerciale che il resto del mondo non può ignorare. E che offre opportunità di crescita economica per chiunque attui scambi con questo Paese asiatico. A Roma è stato siglato un accordo tra il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il capo di Stato cinese Xi Jinping. Accordo che non ha vincoli giuridici. Le polemiche su quella che viene definita la “Nuova Via della Seta” sono relative alla preoccupazione di colonizzazione asiatica del nostro Paese. Ma gli accordi presi sono 29, dei quali 19 istituzionali e 10 intese tra aziende private, tra le quali le start-up innovative basate sull’e-commerce. Per indotti minimi di 7 miliardi di euro in progetti che spaziano dai trasporti, al credito, all’energia. Eni firmerà con Bank of China un accordo per rafforzare la collaborazione su vari strumenti finanziari. Le perplessità del ministro Salvini sono legittime quando si parla di sicurezza nazionale, trattamento dei dati sanitari e telefonici, la privacy e l’energia che deve essere sotto controllo di organismi italiani. Aumenteranno le esportazioni e il volume di affari, ma i controlli, per quanto riguarda in particolare la merce in entrata, devono essere italiani ed eseguiti in loco. Niente isolazionismo quindi per l’Italia, che rimane un Paese dalle infinite possibilità.
Ma che deve preservare e controllare la qualità dei prodotti, non solo alimentari, coi quali intraprende scambi commerciali.
E su questo punto si può creare un ottimo compromesso.
Cristian Carbognani
È arrivato il momento di dire addio all’ora legale?
Gentile Direttore, leggo con infinito stupore che a Bruxelles si sta discutendo sulla desiderata (da centinaia di milioni di cittadini europei) abolizione dell’ora legale. Non mi sembra possibile: non ci posso credere! Dunque, il cervello dei grandi burocrati ha ripreso a funzionare? Per anni ho scritto ai vari giornalisti affinché s’impegnassero tutti insieme per abolire questa spaventosa scemenza che nuoce alla salute di milioni di cittadini e procura grandi fastidi a tutti. Basta con questo assurdo masochismo! Purtroppo la decisione non è stata ancora presa: speriamo che sia davvero giunta “l’ultima ora” dell’ora legale.
Angelo Annovi
Bisogna ricordare ciò che era il fascismo, affinché non torni
Ogni tanto ritorna l’odore di marcio. La puzza. L’avariato pensiero di qualche pseudo statista che ricorda, consapevolmente o meno, quanto di buono aveva anche creato l’epopea fascista. Cioè, diciamo che costoro ci rammentano di come in quella luccicante epoca italica, i treni arrivavano in orario, si facevano bonifiche, si creavano strade, ponti, infrastrutture e via discorrendo. Poi si dimenticano un particolare: che il fascismo era una dittatura (come lo è stato il comunismo, precisiamo).
Il fascismo è stato un putrido regime. Lorsignori dovrebbero prendere un vocabolario e cercarsi la definizione di “regime”, “dittatura” e “democrazia” e dopo aver confrontato queste definizioni, parlare. Cosa che non fanno. I nomi di Piero Gobetti, Giacomo Matteotti, Antonio Gramsci non dicono nulla? Qualcuno rammenta la fine che hanno fatto? O l’oblio della modernità spinge tutti nel letargo perenne?
Questo popolo, così sfaccettato e multiforme, ha sempre avuto fra le sue principali prerogative la viltà. Vi è ancora, nel sottofondo del paese, qualcosa di inconscio, di non rimosso, di arcaico. Quel non detto, quella ipocrisia linguistica, sovente politica, che tende comunque a fingere che tutto è stato riparato. Che il passato non può tornare. Ma quegli anni sono il marchio indelebile della Storia. La Storia di questo paese a cui non dobbiamo sottrarci per non oltraggiare nuovamente le nostre coscienze.
Angelo Biscioli
I NOSTRI ERRORI
Nel pezzo A caccia del superboss ma stavano nella loggia, pubblicato a pagina 14 dell’edizione del 22 marzo scorso, per un errore ho citato tra gli arrestati anche Vincenzo Barone, segretario comunale di Erice e di Buseto Palizzolo. In realtà, nell’ambito dell’operazione Artemisia coordinata dal procuratore di Trapani Alfredo Morvillo e dall’aggiunto Maurizio Agnello Barone è destinatario di un avviso di garanzia per traffico di influenze illecite. Dell’errore mi scuso con l’interessato e con i lettori.
g.l.b.
Election day. La legge c’è, meglio evitare una campagna elettorale quotidiana
Da profana, pongo una domanda forse inutile. Ma non sarebbe possibile fare una normativa per cui le elezioni comunali o regionali siano nello stesso giorno? Bisognerebbe la prima volta accorciare il periodo in carica di qualche giunta ma poi si andrebbe a regime. Perché con queste continue elezioni distribuite nell’arco dei mesi i partiti, invece di pensare ai problemi del Paese, sono in perenne campagna elettorale, tutti pensano solo a come guadagnare voti con promesse puntualmente disattese e lasciano inevase le varie problematiche da affrontare, senza contare quanto ci stressano sui giornali e in televisione con le promesse prima e le “vittorie” (o presunte tali) dopo.
Monica Stanghellini
Cara Monica, in realtà la legge esiste già (anzi, nella tipica forma legislativa italiana ne esistono diverse) e infatti il governo ha dato via pochi giorni fa all’election day il 26 maggio, data delle Europee, con un apposito provvedimento che accorpa nella medesima data l’elezione dei sindaci e dei consigli comunali, “nonché l’elezione dei consigli circoscrizionali da tenersi nel periodo compreso tra il 15 aprile e il 15 giugno”. Dopo il 26 maggio si voterà poi, all’eventuale turno di ballottaggio, il 9 giugno”. E allora, si chiederà, perché in Basilicata si è votato a marzo e così anche in Abruzzo e Sardegna e si voterà, ancora, a fine anno in Emilia Romagna? Perché, se la legge 15 luglio 2011 n. 111, recita che “le consultazioni elettorali per le elezioni dei sindaci, dei presidenti delle Province e delle Regioni, dei Consigli comunali, provinciali e regionali, del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, si svolgono, compatibilmente con quanto previsto dai rispettivi ordinamenti, in un’unica data nell’arco dell’anno”, la legge 2 luglio 2004 n. 165 dice anche che “le elezioni dei nuovi consigli hanno luogo non oltre i sessanta giorni successivi al termine del quinquennio”. Quando scade la legislatura di un Consiglio si deve votare, insomma, e infatti il Tar della Basilicata ha accolto un ricorso del M5S che ha chiesto di non far slittare il rinnovo del consiglio regionale, in una regione in cui la giunta era indagata, fino alle Europee di maggio ma ha imposto il voto il 24 marzo. Questo non toglie, come lei scrive, che la classe dirigente politica potrebbe fare uno sforzo in più per gli accorpamenti e che il balletto della propaganda elettorale fatta ogni giorno dell’anno sia diventato indigesto.
Salvatore Cannavò
La fake news della bolletta
Da aprile le bollette di luce e gas scenderanno di colpo del -9,9% e -8,5%. Il consueto e in questo caso piacevole aggiornamento trimestrale comunicato dall’Autorità per l’Energia si è però trasformato per Repubblica in un regalo del governo agli elettori-consumatori in vista delle Europee. “Tutto merito di Stefano Basseghini, il presidente dell’Authority, nominato da Di Maio”, ci spiega il quotidiano diretto da Carlo Verdelli che ieri ha deciso di strillare in prima pagina questo scoop sensazionale della “bolletta elettorale”. Insomma, una mossa diabolica del governo gialloverde che, tramando nelle stanze del potere, è riuscito a piazzare un colpo vincente. Qualcuno, però, dovrebbe spiegare a Repubblica che le riduzioni delle tariffe sono dovute a un inverno mite, alla discesa dei prezzi delle materie prime e alla frenata dell’economia asiatica. E che l’Authority ha margini modestissimi di discrezionalità nell’aggiornare le bollette: il meccanismo è quasi un algoritmo rigido. Ma per scoprirlo, ed evitare il titolo da fake news in prima pagina, al direttore Verdelli sarebbe bastato leggere l’articolo di pagina 2 del suo giornale: “Nonostante il governo gialloverde si sia intestato il merito dei risparmi i fattori che hanno portato al calo delle tariffe vanno cercati altrove”. Sicuramente non sulla prima di Repubblica.
Sfilza di no per salvare Alitalia. Fs pronte a sfilarsi
Il salvataggio di Alitalia è, come si suol dire, a un passo dal flop. Le grandi partecipate statali si sono sfilate. Il Tesoro tentenna. E le Ferrovie dello Stato, a cui il governo ha affidato il compito di soccorrere la compagnia, non hanno intenzione di restare col cerino in mano e sono pronte a gettare la spugna.
L’avvicinarsi del disastro è simboleggiato dal botta e risposta di ieri tra le Fs e i commissari della compagnia in amministrazione straordinaria. A pochi giorni dalla scadenza per presentare l’offerta, l’azienda dei treni guidata da Gianfranco Battisti con una nota ha spiegato di star “proseguendo le interlocuzioni con un ristretto numero di player” con i quali serviranno “ulteriori approfondimenti”. La risposta è stata un attacco scomposto di uno dei commissari, Daniele Discepolo, nominato dal governo gialloverde: “O si danno da fare e ci portano una richiesta di proroga, con documenti sulla trattativa, o rinunciano e ce lo dicono chiaramente”, ha sbottato in audizione alla Camera prima di minacciare di mettere la compagnia in liquidazione.
Il tentativo di addossare le colpe alle Fs rende l’idea della disperazione in cui naviga il piano. Al momento l’unica certezza è la presenza come partner industriale dell’americana Delta Airlines, pronta a entrare con un 10% nella newco che nascerebbe dalle ceneri della vecchia Alitalia. Lufthansa ed Easyjet sono state scartate per le richieste considerate inaccettabili: la prima era interessata solo a una parte del gruppo; la seconda ad avere in esclusiva l’hub di Malpensa in cambio di un investimento minimo, in violazione della legge italiana. Le Fs, però, non hanno intenzione di mettere più del 30%. Un altro 15% tocca al Tesoro. Manca il restante 45% di un investimento che sarà intorno al miliardo. Finora sono circolati i nomi di alcune partecipate statali, sondate nelle scorse settimane. Negli ultimi giorni si sarebbero tutte sfilate. Poste non ne vuol sapere, così come Leonardo, mentre Fincantieri, incassato il rinnovo dei vertici, si è data.
Per smuovere i colossi statali a investire in un’operazione che non ha nulla a che fare con il loro business serve un forte input del governo. Che al momento non c’è. L’azionista Tesoro non ne ha intenzione, e per la verità tentenna anche sul suo 15%, che arriverebbe dalla conversione di parte del prestito ponte da 900 milioni. Al punto che nella bozza del decreto Crescita atteso nel prossimo Consiglio dei ministri l’articolo che dispone l’ingresso del ministero nella compagnia è stato messo in stand by dallo staff del ministro Giovanni Tria, dove spicca l’ascoltata consigliera Claudia Bugno, con un passato proprio in Alitalia, contraria all’operazione.
Il tempo è ormai agli sgoccioli. Il prestito ponte scade a giugno. In cassa, Alitalia ha 486 milioni e il 2018 si è chiuso con una perdita effettiva di 400 milioni. La speranza che Delta riesca a chiudere l’accordo per far entrare anche China Eastern e un altro vettore e poi alzare in breve tempo la sua quota potrebbe non bastare.
Dati falsi sui viadotti, indagati i vertici di Spea e Autostrade
La Finanza che si presenta per la prima volta nella sede di Atlantia per l’inchiesta sul crollo del Morandi. Mentre due alti manager di Autostrade e Aspi vengono indagati nel secondo filone, quello per falso. Una giornata dura, ieri, per il concessionario delle autostrade. Partiamo dal nuovo fascicolo. Gli indagati salgono a 15. Ad avere più peso sono gli ultimi nomi: Michele Mitelli Donferri e Antonino Galatà. Il primo era responsabile nazionale delle manutenzioni di Autostrade (in tempi recenti è stato destinato ad altro incarico), mentre il secondo è stato confermato proprio ieri ad di Spea (controllata di Atlantia che si occupa di manutenzioni). Certo, nel troncone principale – quello sul crollo – era già indagato Giovanni Castellucci, numero uno del gruppo. Ma qui l’ipotesi è concorso in falso, un reato doloso. I pm vogliono verificare se le società – attraverso i manager indagati – sapessero che i report sui viadotti erano falsati. Tra gli indagati di Spea, oltre all’ad Galatà, risultano: Massimiliano Giacobbi (responsabile ufficio progettazione per esercizio), Andrea Indovino (progettista), Marco Vezil (responsabile genovese delle verifiche di transitabilità dei trasporti eccezionali) e Lucio Ferretti Torricelli (responsabile ufficio del dipartimento di ingegneria strutturale). Da Aspi, oltre a Donferri, provengono Gianni Marrone e Luigi Vastola. L’inchiesta tocca cinque viadotti. Tre in Liguria: Pecetti (A26), Sei Luci (accanto al Morandi) e Gargassa (A26). Ci sono poi il Paolillo (A16, Napoli-Canosa) e il Moro (A14, in Abruzzo).
Intanto procede anche l’inchiesta sul crollo del Morandi. Proprio ieri le Fiamme Gialle agli ordini del colonnello Ivan Bixio si sono presentate agli uffici di Atlantia per sequestrare i documenti sul risk management delle controllate.