Zanda suicida il Pd: alziamo gli stipendi dei parlamentari

Ma quale casta e casta. Il neo tesoriere del Pd, Luigi Zanda, ha le idee chiare: bisogna ribellarsi alle pulsioni della pancia del Paese che si ostina a ritenere indennità e vitalizi parlamentari come un odioso privilegio della politica. E allora per scongiurare che vengano messe ancora le mani nelle tasche degli eletti, bisogna agganciare i loro stipendi a quelli dei parlamentari europei. Che sono più alti anche di 5 mila euro rispetto ai 14 mila che di media spettano in Italia.

Senza timore di sollevare polemiche, Zanda ha presentato un progetto di legge che, se approvato, arricchirà le buste paga dei colleghi di Camera e Senato dove siede da anni. Del resto, per Zanda, sono in ballo i sacri principi, più che gli onorevoli portafogli: “In tutti gli ordinamenti democratici di stampo liberale ai membri del Parlamento è riconosciuto uno status volto a garantire la dignità e l’indipendenza dovute a chi rappresenta il popolo sovrano”, ha scritto nel testo depositato a Palazzo Madama a fine febbraio, pochi giorni prima di assumere il nuovo incarico a cui lo ha chiamato Nicola Zingaretti.

Un documento in cui stigmatizza i tagli e i tagliuzzi intervenuti negli ultimi anni. E adottati “in nome di un’impropria e allarmante identificazione del trattamento economico dei parlamentari con un odioso privilegio”. Poco più che “pulsioni” che, a suo dire, bisogna avere il coraggio di ignorare in nome della Costituzione. Perchè i ritocchi agli stipendi degli eletti hanno contribuito a una “sistematica erosione della credibilità della funzione parlamentare”. Proprio così. E del resto era stato lo stesso Zanda a rilanciare l’idea di un tesoretto da 90 milioni da distribuire ai partiti per limitare i danni connessi alla fine del finanziamento pubblico.

Un uno-due in puro stile Tafazzi, destinato a mette a dura prova il Pd. Di cui peraltro al Nazareno non sentivano il bisogno dopo gli ultimi tracolli elettorali: ovunque si sia votato nell’ultimo anno è stato un bagno di sangue. Ma evidentemente si punta a fare di più: in fondo a maggio ci sono pure le Europee, meglio non correre il rischio di vincerle. Ora la fortuna del neo-segretario Zingaretti è che è già di suo sulla via della calvizie. Ma sicuramente gli è andato di traverso il dileggio del capogruppo del Movimento 5 Stelle, che ieri ha festeggiato l’ok al decretone brindando alla buvette del Senato con un prosecco di cittadinanza con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: “Cosa dice Zingaretti su questo? È d’accordo con le proposte del suo tesoriere? Perché mentre il suo partito vuole dare più soldi ai partiti e ai politici, rigetta un confronto con Di Maio sul salario minimo orario e critica il reddito di cittadinanza?”, ha scritto su Facebook, Stefano Patuanelli. Contento come una Pasqua non solo per le misure appena approvate, ma pure per il regalo inatteso che gli ha fatto Zanda per la prossima campagna elettorale.

Ma che prevede la sua ricetta di revisione? Sostanzialmente l’aggancio degli stipendi dei parlamentari italiani a quelli dei loro colleghi dell’Europarlamento. D’altronde se l’orizzonte politico è continentale non c’è niente di strano: solo che l’europeismo, a livello di stipendi, facendo due conti significa un discreto aumento. Se, infatti, l’indennità lorda è più bassa (motivo per cui Zanda sostiene che con la sua legge lo stipendio “è leggermente inferiore), salgono assai sia la diaria per le spese di soggiorno che “un’indennità erogata a titolo di rimborso delle spese generali”: entrambe voci esentasse e, nella nuova formulazione, la seconda esente pure dalla fastidiosa incombenza di essere decurtata per pagare i cosiddetti “portaborse” (a quelli si provvede in un altro comma, in cui – grazie a Zanda – si stabilisce che il rimborso sia concesso solo in presenza di spese “effettive”, così come per i viaggi, oggi pagati invece a forfait).

Quanto al resto, a parte l’ incasso mensile che – a stare alla media dell’Europarlamento oscillerebbe tra i 16 e i 19mila euro contro gli attuali 14mila – il nuovo tesoriere del Pd si preoccupa di prevedere anche un’indennità transitoria a carattere temporaneo, il cui diritto matura allo scadere del mandato parlamentare (una sorta di liquidazione); una pensione di sostegno in caso di invalidità insorta nel corso del mandato; infine un trattamento differito per garantire agli ex parlamentari una meritata serenità al compimento del 63esimo anno di età: insomma un vitalizio non di natura previdenziale, ma assicurativa, calcolato sul metodo contributivo e non con il sistema retributivo come per gli europarlamentari, ma, del resto, non si può avere tutto dalla vita.

Il Codice per finta

Siccome Roberto Formigoni è stato condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere ed è in galera da ben 37 giorni, quindi gliene restano da scontare appena 2.193, politici e giornali “garantisti” si domandano angosciati cos’aspetti la magistratura a liberarlo e restituirlo quanto prima all’affetto dei suoi cari. Solo uno Stato di polizia tipicamente fascista, lo stesso che osò condannare Cesare Battisti all’ergastolo per appena quattro omicidi, può lasciar dentro per più di un mese un condannato a 70 mesi. Infatti ieri i legali di Formigoni, con ampio sostegno di giuristi per caso e opinionisti un tanto al chilo, hanno chiesto alla Corte d’appello di Milano di annullare l’ordine di esecuzione del Pg Antonio Lamanna che aveva negato al Celeste corrotto le pene alternative al carcere: cioè la possibilità di scontare comodamente a domicilio la pena per uno dei più gravi casi di corruzione mai visti (6 milioni di tangenti da cliniche private in cambio di 200 milioni di soldi pubblici). Ce l’hanno con la legge Spazzacorrotti, che ha esteso ai condannati per corruzione, concussione e peculato il divieto di pene alternative, già previsto per i colpevoli di mafia, terrorismo, contrabbando, traffico d’esseri umani, riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, pedopornografia e violenza sessuale.

Il loro ragionamento è strepitoso: quando Formigoni derubava a man bassa la Sanità regionale, sapeva di commettere reati, ma dava per scontato che le pene previste per quei crimini fossero finte. E in effetti lo erano: anche nel caso improbabile che la condanna definitiva arrivasse prima della prescrizione, bastava tenersi sotto i 3-4 anni di pena o sopra i 70 anni di età e si andava ipso facto ai domiciliari o ai servizi sociali senza passare dal carcere. Ora invece quel giustizialista di Bonafede ha trasformato le pene finte in pene vere anche per i tangentari. A prescindere dall’entità della condanna e dall’età del condannato. Ma, così, ha cambiato le carte in tavola: se Formigoni avesse saputo che le pene scritte nel Codice penale e nelle sentenze andavano scontate per davvero e non per scherzo, ben si sarebbe guardato dall’arraffare 6 milioni di mazzette, attenendosi al più scrupoloso standard di virtù. Rubò solo perché sapeva di farla franca. Dunque, data l’“imprevedibilità” della Spazzacorrotti, è doveroso applicargli la legge più favorevole: quella di prima, fatta da quelli come lui per quelli come lui. È quel che sostengono giornalini e giornaloni, inclusi Corriere e Repubblica che da 27 anni invocavano l’Anticorruzione e ora strillano contro l’Anticorruzione perché sarebbe “retroattiva”.

Cioè perché non prevede una “norma transitoria” che salvi i condannati per reati commessi prima, ergo è incostituzionale. Purtroppo queste sono scemenze sesquipedali. E non lo diciamo noi, ma la giurisprudenza costante, anche a Sezioni Unite, della Cassazione. Che negli anni è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla presunta “retroattività” di norme relative all’esecuzione delle pene. E ha sempre stabilito che non si tratta di norme penali sostanziali (irretroattive per definizione: si applicano sempre quelle più favorevoli al reo), ma meramente applicative (che seguono il principio tempus regit actum: l’atto processuale è soggetto alla norma vigente quando viene compiuto). Sentenza 24561/2006 delle Sezioni Unite sull’estensione del divieto di misure alternative per la violenza sessuale (governo Berlusconi-2): “Le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio tempus regit actum”. Idem la n. 24767/2006 sulla negazione dei benefici ai recidivi e per la n. 11580/2013 sul divieto di permessi premio per i sequestri di persona.

Per anni centrodestra e centrosinistra si sono fatti belli ampliando la lista dei reati “ostativi” ai benefici penitenziari e mai – tranne nel 2002 su terrorismo e schiavitù – hanno inserito norme transitorie per salvare chi li aveva commessi prima. E la Suprema Corte ha sempre ritenuto perfettamente legittimo applicare le nuove regole penitenziarie ai delitti antecedenti: si può punire solo chi si macchia di comportamenti che sono già reato, e con le pene previste in quel momento; ma le modalità di espiazione della pena le decidono i legislatori a prescindere dalle aspettative impunitarie dei colpevoli (tutt’altra faccenda chi patteggia una pena col pm in base a una regola che escludeva il carcere e poi rischia di finire dentro in base a una nuova: per questi casi, rarissimi e limitati nel tempo, una norma transitoria ci vuole e Bonafede la sta varando). Del resto, i mafiosi che nell’agosto ’92, all’indomani della strage di via D’Amelio, furono prelevati dal grand hotel Ucciardone e blindati nelle supercarceri di Pianosa e Asinara grazie al decreto sul 41-bis, lo scoprirono sul momento. È lo stesso principio applicato da Bonafede sulla scia dei suoi predecessori e della Cassazione. Solo che prima valeva per stupratori, mafiosi, terroristi, pedofili, contrabbandieri &C.: tanti applausi e nessuna polemica. Ora vale pure per i politici: e allora apriti cielo, non si può, è incostituzionale, vergogna. Ottime la Spazzaterroristi, la Spazzamafiosi, la Spazzapedofili, la Spazzastrupratori, la Spazzacontrabbandieri, la Spazzaschiavisti. Ma la Spazzacorrotti no. È la solita, vecchia, vomitevole giustizia di classe, camuffata da “garantismo” e smascherata già un secolo fa da Trilussa: “La serva è ladra, la padrona è cleptomane”.

La “Personale” di Fiorella: canzoni come foto

Passione è la parola chiave del nuovo album di Fiorella Mannoia, Personale, presentato ieri a Milano alla Galleria On House.

La passione di Fiorella per le fotografie si è manifestata inizialmente con il suo profilo Instagram; da questa nuova e originale ispirazione nascono le tredici tracce dell’album, prodotto egregiamente da Carlo Di Francesco. Ogni singola canzone è presentata da un volto, una barca, un paesaggio mosso, un bambino: “Personale ha un doppio significato: è il mio punto di vista ma anche la mia mostra fotografica: magari alla fine del tour diventerà itinerante”, racconta l’artista.

Fiorella ha scelto tra i suoi tanti autori Luca Barbarossa, Cheope, Bungaro, Zibba e Ivano Fossati. Sua la canzone Penelope, non a caso la perla del disco: “Ivano non è mai mancato in questi anni. Era accaduto che scrivesse la musica una volta letto il testo scritto da me (Se solo mi guardassi), ma questa volta il brano è interamente suo. Mi riporta all’Ivano di Panama; è stato molto contento di come l’abbiamo realizzato”.

Scritto da Fiorella è L’amore è sorprendente, il racconto della forza dirompente dell’amore, quello che stupisce e abbatte le “difese d’acciaio”. Ma l’amore è rappresentato in tutte le sue sfaccettature, anche il suo lato oscuro (Smettiamo subito) e la speranza (Riparare), con una frase bellissima pronunciata da una madre al figlio: “Copriti che ti si vede troppo il cuore”. “In Riparare ci si troveranno quelli che pensavano come me di aver cambiato il mondo negli anni Settanta e invece non abbiamo cambiato proprio nulla”.

Carillon è il brano più intenso e commovente del disco: “Mi piace particolarmente perché non è consolatoria. Termina con l’ammissione che una donna tanto finirà per aprire le porte. Anche quando c’è una storia di violenza tra le mura. È con noi stesse che dobbiamo affrontare l’argomento. Restano perché vedono l’uomo debole, scatta l’istinto materno. È un attacco alla donna stessa, da donna”.

Luca Barbarossa firma L’amore al potere ed è la canzone – per ammissione di Fiorella – con la frase che sintetizza l’intero disco: “Con le carezze facciamo opposizione”. A sorpresa Canzone sospesa – l’ultimo brano – è cantata in napoletano con Antonio Carluccio, un atto di amore di Fiorella: “Il disco era finito ma abbiamo ritardato la consegna: quando ho ascoltato questa canzone, me ne sono innamorata. Come faccio nei concerti dando l’opportunità agli artisti emergenti di farsi conoscere ho desiderato presentare al pubblico Antonio”. Fiorella incontrerà il pubblico nei firmacopie a partire dal 29 marzo a Roma (La Feltrinelli) mentre il tour inizierà il 7 maggio al Teatro Verdi di Firenze e proseguirà sino al mese di ottobre.

Che circo: Dumbo e Burton vittime del politically correct

Un Dumbo revisionista, buonista ed ecologista: “Il classico d’animazione è amato da tutti, ma ha caratteristiche non attuali, come gli stereotipi a sfondo razziale”. Sicché la Casa di Topolino ha commissionato un remake politically correct e con attori in carne e ossa, e l’ha affidato a un regista celebre e celebrato: Tim Burton, che dal corto Frankenweenie (1984) fin qui con Disney ha lunga, tribolata e fortunata consuetudine.

Quello semplice e commovente del 1941 non è l’unico cartoon a subire il trattamento live-action: Il libro della giungla ha già dato, il prossimo 22 maggio toccherà ad Aladdin con il Genio Will Smith, il 21 agosto a Il Re leone. Oltre l’operazione commerciale c’è di più? Per Dumbo non si direbbe, il risultato è inferiore alla somma delle parti, ovvero il classico Disney e l’autore Burton: del primo, per la volontà di elidere “gli stereotipi razziali”, manca la fondamentale derisione dell’elefantino da parte dei suoi simili; del regista, che pure rivendica “la presenza del gotico tra i colori sgargianti del circo”, latita il versante più dark, dunque il più autentico. Metteteci che l’inedito cattivo, l’imprenditore senza scrupoli Vandevere (Michael Keaton), poi così cattivo non è; che Dumbo, certo, soffre per la società dello spettacolo e per la separazione da mamma, ma sovresposto al pubblico ludibrio non lo è mai, ed ecco sorgere il dubbio: e se per salvaguardare l’elefantino dalle grandi orecchie si fossero dribblati i problemi e, quindi, diluito il valore simbolico della creatura originariamente scritta da Helen Aberson e disegnata da Harold Pearl?

Burton non raccoglie: “Ho aderito subito al progetto, ci tenevo assai, Dumbo è un simbolo, adoro l’idea di un elefante che vola. Lo spirito del personaggio mi ha catturato: è strano, non è come gli altri, ma saprà trasformare lo svantaggio di un aspetto mostruoso in vantaggio”. Il sessantenne regista di Burbank, California, non ravvisa alcuna riduzione della metafora, alcuna pastorizzazione del paradigma Dumbo: “È un messaggio per le persone che non rientrano nei canoni, negli standard, ma hanno qualche disabilità mentale o fisica. Tra tutti i film Disney, è quello che mi assomiglia di più, sicché non ho fatto fatica a farne un’opera personale”. Insomma, Dumbo c’est moi, e a immagine e somiglianza ne viene il film: “L’impresario Vandevere non incarna nemici specifici, ognuno di noi sa fare certe cose, chi l’arte chi gli affari: io non sono un bravo businessman, ma è come se fossero due specie diverse in natura, e possono coesistere”.

Se al soldo, pardon, al budget non si comanda, il cast lo si può scegliere: la nuova musa Eva Green è una sensuale trapezista, il capo-circense Danny DeVito e Keaton invertono la polarità bene-male a distanza di 27 anni dal Pinguino e il Cape Crusader di Batman – Il ritorno dello stesso Burton, Colin Farrell, nei panni del reduce ed ex star a cavallo Holt Farrier, fa da motore della storia, costretto com’è a prendersi cura non solo dei figli orfani di madre, Joe e Milly, ma dello stesso elefantino. Va detto, Farrell, che nella Grande Guerra ha lasciato il braccio sinistro, ha solo due espressioni, con la protesi e senza, e nemmeno gli altri, fatta eccezione per il sempre generoso e trascinante DeVito, paiono in grande forma.

Dumbo arriva nelle nostre sale domani, ma non è la prima ragione che ha portato a Roma Burton: questa sera verrà insignito del David for Cinematic Excellence, dopo essere già stato il più giovane regista a fregiarsi, nel 2007, del Leone d’Oro alla carriera della Mostra di Venezia.

Tim ci scherza su: “Il David è straordinario, però mi auguro che non finisca qui la mia carriera. Comunque, ci sono abituato: a Montreal venni premiato alla carriera dopo aver realizzato solo tre film, sì, fu come presenziare al proprio funerale”.

Riconoscimenti a parte, a farlo innamorare dell’Italia è stato su tutti Federico Fellini: “Non ho mai amato il circo, mi fanno paura i clown, non mi piacciono gli animali in pericolo, ma con qualunque film di Fellini si ha la sensazione di aver davanti uno spettacolo circense, una strana famiglia. Non c’è bisogno di amare il circo per amare Fellini”.

E per dirigere Dumbo?

“Sono portato per la finzione letteraria: è la mia terapia”

Io non mi sono fatto da solo. C’è l’eredità di papà e mamma, l’alcolismo, la sclerosi cerebrale e, un po’ più su, la tubercolosi e il diabete. Ma bisogna risalire ancora più in alto, perché è alla fonte originaria che si trova il vero senza-nome. Fin dall’uscita della mia prima opera d’affabulazione si vociferava che io non esistessi davvero e che dovevo essere senza dubbio un personaggio fittizio. Si è persino ipotizzato che fossi un’opera collettiva.

Giusto. Sono un’opera collettiva, se con o senza premeditazione non sono ancora in grado di dirvelo. A prima vista, non mi ritengo abbastanza talentuoso da immaginare che potesse esserci una premeditazione sifilitica, o di genere analogo, al solo scopo di estorcermi qualche operetta letteraria. È possibile, dato che non ne deriva alcun vantaggio, ma su questo non saprei pronunciarmi.

“Scritta con lo pseudonimo di Ajar è la confessione di una vulnerabilità masochista, coltivata intenzionalmente come feconda sorgente d’ispirazione letteraria”.

È una menzogna. Manica di bastardi. Ho scritto i miei libri di clinica in clinica, dietro suggerimento dei medici stessi. È terapeutico, mi dicevano. Prima mi avevano consigliato la pittura, ma la cosa non aveva portato a nulla. Sapevo di essere fittizio e ho pensato quindi di essere portato per la finzione letteraria…

Ho rifiutato il premio Goncourt, nel 1975, perché ero stato preso dal panico. Avevano sfondato il mio sistema di difesa, erano penetrati all’interno, ero terrorizzato dalla pubblicità che mi snidava da ogni nascondiglio e dalle ricerche di quelli che per trovarmi venivano fino all’ospedale di Cahors. Avevo paura per mia madre, morta di sclerosi cerebrale e della quale mi ero servito per il personaggio di Madame Rosa. Avevo paura per il bambino che nascondevo e che poteva avere dodici anni oppure trentaquattro, come me, o quaranta, cento, duecentomila e ancora di più, perché bisogna risalire all’origine del male per guadagnarsi il diritto di dichiararsi non colpevoli. Così ho rifiutato il premio, ma ciò non ha fatto altro che aggravare la mia visibilità. Hanno detto che ero una trovata pubblicitaria. In seguito sono stato curato e ora va meglio, grazie. Nel corso del mio ultimo soggiorno in clinica ho persino scritto un terzo libro.

 

La truffa di Gary/Ajar, uno “Pseudo” scrittore

Era di una sensibilità esasperata, come tutti quelli di Vilnius; era di una immaginazione esasperata, come tutti quelli che salgono sul treno di Anna Karenina, salvo poi accorgersi che il biglietto è scaduto. Poco male: Biglietto scaduto è un ottimo titolo, per un romanzo. Anzi, la stessa vita – davanti o dietro a sé – è un ottimo titolo, per un romanzo. E fu così che Romain Gary (1914 – 1980) trasformò se stesso e la sua intera produzione letteraria in fiction, prima cambiando nome di battesimo, poi camuffandosi sotto questo o quello pseudonimo.

Pseudo (di cui sotto pubblichiamo uno stralcio in anteprima, ndr) è uno dei suoi tanti falsi d’autore, firmato con il suo più celebre nom de plume, Émile Ajar, lo stesso con cui nel 1975 vinse il Goncourt per La vita davanti a sé, dopo averlo già conquistato – con il “vero” nome – nel 1956 con Le radici del cielo. Pseudo uscì nel 1976 per i tipi del Mercure de France, ma solo ora è edito in Italia grazie a Neri Pozza (traduzione e cura di Riccardo Fedriga; in libreria da domani): è un romanzo-confessione – tutto finto, ovvio – in risposta, divertita e canzonatoria, alle congetture, critiche e articolesse sulla misteriosa identità di Ajar all’indomani del premio, peraltro inizialmente rifiutato per banali ragioni di smascheramento.

Lo pseudonimo comparve per la prima volta nel 1974, con Gros Câlin (Coccolone, poi diventato Mio caro pitone nella successiva edizione italiana con il finale reintegrato). I giornali si sbizzarrirono, ipotizzando che dietro le mentite spoglie di Ajar si nascondesse un terrorista libanese, Hamil Raja. Altri, poco fantasiosi, scomodarono Queneau e Aragon; altri ancora, decisamente banali, scrissero che l’autore era “fittizio, mistificatore” e l’opera o “collettiva” o “una bufala”: il gioco scemò nel 1979, con l’ultimo romanzo di Ajar, L’angoscia del re Salomone, e terminò definitivamente nel 1981, con l’uscita postuma di Vita e morte di Émile Ajar, in cui Gary ricostruiva l’intera sua truffa letteraria. “Incontrai persino una giovane donna che aveva avuto una storia con Émile, il quale, a suo dire, era un amante molto focoso. Spero di non averla troppo delusa”.

Proprio per rendere più credibile la burla, dopo il Goncourt Gary chiese a un suo giovane cugino di secondo grado, Paul Pavlowitch, di recitare al posto suo la parte del “vero Ajar”: in Pseudo il trucchetto è vertiginoso, e l’identità rifratta e moltiplicata in una miriade di Io. Qui “ogni cosa è romanzo”; pseudo si fa pseudo-pseudo, scindendo la coscienza dell’autore non in due ma in quattro alter ego: Tonton Macoute (maschera demoniaca del vudù haitiano, ndr), Pavlowitch, Ajar e Raja.

“Io non mi sono fatto da solo. C’è l’eredità di papà e mamma, l’alcolismo, la sclerosi cerebrale e, un po’ più su, la tubercolosi e il diabete. Ma bisogna risalire ancora più in alto, perché è alla fonte originaria che si trova il vero senza-nome”. Altro espediente per infittire il mistero è la pazzia, laddove Gary si inventa un passato clinico-psichiatrico, allucinazioni dall’età adolescenziale e lunghe degenze in clinica, dal dottor Christianssen a Copenaghen, che lo consiglia: “Pubblichi. È terapeutico. Usi uno pseudonimo. E non si preoccupi. Nessuno penserà che ne è capace”.

Gary e Ajar significano rispettivamente “brucia!” e “la brace” in russo: sono entrambi falsi, poiché Romain era nato Roman, di cognome Kacev (macellaio, ndr), un “cosacco e tartaro, incrociato con un’ebrea”, così si definì una volta, probabilmente anche quella scherzando. Eppure, per lui “pseudo” non era un gioco, ma una “poetica del fare… il sogno di un romanzo totale, in cui ero insieme personaggio e autore… Mi sono davvero divertito. Arrivederci e grazie”.

Ecco perché Pseudo, al netto della menzogna, è un omaggio traboccante all’arte e alla letteratura, ovvero alla finzione: “Tra la vita e la morte c’è pur sempre la lotta delle attribuzioni di identità letteraria… Diffidate. Tutto finge, niente è autentico e non lo sarà mai finché non siamo, non saremo i nostri stessi autori, la nostra stessa opera. Credetemi: era già così quando Omero sbraitava. Dalla merda che siamo non verrà fuori autenticità. Bisogna cambiare merda”.

Una verità resiste, però, nel nero doppiofondo di Pseudo: l’autolesionismo di chi “si ferisce facilmente scrivendo”. Prima di morire, il 2 dicembre del 1980, fa due cose Gary: lascia il manoscritto di Vita e morte di Émile Ajar e le istruzioni per pubblicarlo, rivelando al mondo la sua vera identità. Poi, acquista una vestaglia rossa dalla foggia leggera e dal colore fiammante: è l’unico vestito in grado di “attenuare l’effetto del sangue” di uno che se ne esce di scena, sparandosi.

Tumori e lavoro, le ultime stime: circa 190mila nuovi casi ogni anno

Per quanto sia un dato molto difficile da determinare, l’Etui – istituto di ricerca della Confederazione europea dei sindacati – ha provato a stabilire quanti tra i tumori insorti nella popolazione europea siano da imputare a rischi connessi al lavoro. Il risultato è, verosimilmente, 190 mila nuovi casi registrati ogni anno e dovuti all’esposizione a 25 fattori di rischio come le emissioni di motori diesel, le polveri di legno, l’amianto, la diossina e le radiazioni solari.

La stima è contenuta in un recente studio del centro, la cui sintesi in questi giorni è stata tradotta in italiano su iniziativa dell’Edit.Coop, società proprietaria di Rassegna.it (il quotidiano online della Cgil). “La percentuale di casi di tumore che non avrebbe dovuto verificarsi se non ci fosse stata l’esposizione occupazionale – si legge nello studio – è risultata dell’8%, in linea con precedenti ricerche”. I costi che queste patologie comportano sono compresi tra i 270 e i 610 miliardi di euro annui e ricadono quasi completamente sul lavoratore e sulla sua famiglia. Il ventaglio è ampio poiché si tratta di numeri che vanno maneggiati con molta cautela. Ci sono elementi che potrebbero sovrastimarli: alcuni cancerogeni solo sospetti, per esempio, sono stati inclusi come se fossero certi, ma in futuro nuovi studi potrebbero smentire la correlazione. Altri elementi, invece, potrebbero sottostimarli, a partire dal fatto che non sono stati presi in considerazione tutti i fattori di rischio, ma solo quelli maggiori. La relazione tra lavoro e tumori, tra l’altro, è una materia molto delicata. Come ha più volte fatto notare l’Inail, in tanti casi è molto lungo il tempo che passa tra l’esposizione e il manifestarsi dei sintomi patologici. Non bisogna dimenticare che la malattia può derivare da più di una causa.

I tumori occupazionali restano comunque un grosso dramma e infatti ieri la Confederazione europea dei sindacati è intervenuta a Bruxelles per chiedere all’Unione europea di adottare con urgenza, tra le altre cose, una strategia di prevenzione. La confederazione ha anche fatto notare come non tutti gli indicatori del mercato del lavoro siano tornati ai livelli pre-crisi, poiché permangono i problemi della bassa produttività, delle disparità di reddito e di un sistema produttivo ancora incompatibile con l’obiettivo di combattere il cambiamento climatico. A rivelare che le difficoltà non sono finite per tutti c’è il livello dei salari reali: sono ancora inferiori a come erano prima della recessione del 2008 in otto Paesi membri. Tra questi c’è l’Italia che registra un meno 2%, mentre al primo posto di questa infausta classifica c’è la Grecia con meno 23%.

Dalla Silicon Valley la più grande truffa dell’ultimo decennio

Lo guardi e dalla copertina pensi subito a un giallo. lo leggi e ti accorgi che in effetti lo è, pur essendo una storia vera raccontata da un giornalista del Wall Street Journal due volte premio Pulitzer. È il giallo su come sia stata possibile la più grande truffa aziendale degli ultimi anni, portata avanti con la startup di una 22enne che è stata definita la nuova “Steve Jobs” e che in pochissimo, millantando la possibilità di riuscire grazie agli analizzatori portatili di sangue a diagnosticare numerosissime malattie, è riuscita a raggiungere una valutazione di 9 miliardi di dollari. Una trovata di marketing gonfiata all’inverosimile ma con il non trascurabile difetto di essere completamente priva di contenuti: era tutto falso, tutto ipersviluppato, tutto esagerato grazie alla eco di sponsor, visibilità, conoscenze, slogan e positività forzata. Anche le voci dei pochi che si erano opposti erano state messe a tacere. Tutte tranne quelle di un giornalista, Carreyrou che se n’è accorto, l’ha raccontato e ha ristabilito la verità.

 

La Flat Tax può scatenare una tempesta sul debito

In teoria la flat tax è uno strumento che potrebbe aiutare l’economia italiana a tornare alla crescita. In pratica il dibattito attuale sulla sua implementazione è dannoso e foriero di possibili scenari molto pericolosi. In un contesto di alto rapporto debito Pil come quello italiano discutere di flat tax senza dare certezze su come sarà applicata (con stime dei costi da 15 a 60 miliardi di euro l’anno) e senza indicare le coperture di bilancio a cui si farà ricorso può avere effetti nefasti. Ancor di più in una situazione già complicata dall’ assenza di indicazioni sulla copertura alternativa dei 23 miliardi di clausole salvaguardia Iva per il 2020.

L’incertezza sul debito limita il potenziale impatto sulla crescita della manovra fiscale. L’effetto espansivo sulla crescita della flat tax dipende in modo cruciale dall’aumento dei consumi che si dovrebbe realizzare in corrispondenza della riduzione del carico fiscale. Se la flat tax viene introdotta in un contesto di incertezza sul debito è molto più probabile che la riduzione del carico fiscale aumenti i risparmi anziché i consumi (se il cittadino è tranquillo su futuro pensionistico e assistenza sanitaria, la minore tassazione diventa aumento dei consumi mentre se è preoccupato risparmia per cautelarsi) con effetto limitato sulla crescita.

Ma l’incertezza sul debito potrebbe scatenare una tempesta, che al momento può apparire improbabile, su cui è comunque utile fare qualche riflessione. Fare riferimento a scenari estremi è sempre opportuno per una corretta valutazione dei rischi. Le possibili nuvole scure all’orizzonte dipendono dal fatto che l’incertezza sulla dinamica del debito pubblico aumenta la probabilità di un “incidente” capace di far precipitare il Paese in una crisi di debito.

L’incidente potrebbe avvenire in una situazione in cui i mercati, scoraggiati dall’incertezza sulle coperture dei vari provvedimenti espansivi e preoccupati di una situazione esplosiva della dinamica del debito pubblico, mandino deserta una delle aste per l’allocazione delle emissioni di titoli necessarie a rinnovare il debito pubblico in scadenza. L’incidente creerebbe una crisi di liquidità per il governo e, per contagio, una crisi di liquidità per le banche italiane, che detengono oltre il 20 per cento del nostro debito pubblico.

Cosa succederebbe in questo scenario? L’unica opzione immediata sarebbe quella di ottenere liquidità dal Meccanismo europeo di stabilità (Esm). L’Esm, entrato in vigore nel 2012, assicura, con una capacità di 650 miliardi di euro, assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà e acquista titoli sul mercato primario. L’accesso alla liquidità è tuttavia concesso a condizioni severe che si concretizzano in un piano di austerità stabilito in un negoziato tra lo Stato in difficoltà, la Commissione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale (la “troika”) che porta al memorandum di intesa. È facile immaginare che la fasi negoziali sarebbero turbolente. I politici, dopo aver innescato la crisi, non si farebbero sfuggire l’occasione di scaricare le responsabilità sui vincoli di austerità imposti dal “nemico esterno” al Paese.

L’uragano potrebbe diventare la tempesta perfetta se nella difficile situazione di gestione della crisi emergesse come alternativa all’austerità la soluzione al problema del debito proposta dalla Modern Monetary Theory (Mmt), in cui si riconoscono alcuni economisti vicini all’attuale governo. Secondo questa teoria, il default sul debito pubblico sarebbe impossibile per un governo che potesse creare moneta per acquistare beni, servizi e attività finanziarie senza ricorrere all’emissione di titoli di debito o alla tassazione per il finanziamento di questi acquisti. L’unico problema del ricorso alla monetizzazione sarebbe l’inflazione che però potrebbe rimanere sotto controllo fin quando tutti i fattori di produzione fossero utilizzati al di sotto della loro piena capacità. In questa visione del mondo, sostituire una valuta nazionale all’euro sarebbe il primo passo necessario per monetizzare il debito. Nel caos generato dallo scontro tra il nostro governo e la “troika” sui termini del memorandum of understanding, si ritornebbe a parlare di “Italexit”.

A questo punto ci si potrebbe anche dimenticare che la Mmt è basata su una visione “arcaica” di consumi e investimenti che non riconosce l’importanza dell’effetto negativo dell’ incertezza, generata prima da debito e poi dall’eventuale inflazione. Come ci si potrebbe scordare che la soluzione Mmt è difficilmente implementabile: anche nel caso di un uscita dell’Italia dall’euro il decreto 96717 del 7 dicembre 2012 del Ministero delle Finanze stabilisce la validità delle Clausole di Azione Colletiva (Cac) per cui tutte le emissioni di obbligazioni del debito pubblico con maturità superiore a un anno da quella data devono essere ripagate in euro anche nel caso di uscita dall’euro da parte dell’Italia. In pratica, nel 2020 l’80 per cento del debito sarà coperto dalle Clausole per arrivare ad una copertura del 90 per cento nel 2022.

Dato che l’uscita dall’euro sarebbe accompagnata da una forte svalutazione della “nuova lira” e che il debito dovrebbe essere comunque ripagato in euro, la quantità di moneta da stampare per implementare la Mmt sarebbe enorme con conseguenze da incubo su inflazione, svalutazione della nuova moneta nei confronti dell’euro e incertezza.

Vogliamo allontanare le nuvole scure e scongiurare lo scenario improbabile, ma non impossibile, della tempesta perfetta e minimizzare la probabilità dell’incidente?

Il primo passo è quello indicare con chiarezza sia le coperture delle manovre di rilancio dell’economia basate su riduzione delle tasse, sia il sentiero di stabilizzazione del rapporto debito pubblico Pil.

Bilancio Fs, conti 2019 chiusi con ricavi record. Il nodo Alitalia

Bilancio positivo per le Ferrovie dello Stato. Il Gruppo archivia l’anno con un utile di 559 milioni (+1,3%) e ricavi per 12,1 miliardi (+30%). Il risultato netto è “il dato più performante della storia di Fs” e “per la prima volta abbiamo abbattuto il muro dei 10 miliardi di ricavi”, sottolinea l’a.d. Gianfranco Battisti, annunciando per il 2019 “un ulteriore potenziale miglioramento”. Intanto resta aperto il dossier Alitalia, su cui Fs ribadisce la condizione chiave: che sia un’operazione di mercato.

Il bilancio evidenzia anche un Ebitda di 2,5 miliardi (+7%), un Ebit di 714 milioni, investimenti tecnici pari a 7,5 miliardi (di cui il 98% in territorio italiano), una solidità finanziaria che si rafforza con 41,8 miliardi di mezzi propri e una posizione finanziaria netta che migliora a 6,7 miliardi. Il valore economico distribuito ammonta a 9,9 miliardi e le attività e gli investimenti del Gruppo contribuiscono in modo diretto e indiretto alla crescita dell’economia italiana per 0,9 punti percentuali di Pil.