Commissione Ue, nessun bando a Huawei su 5g ma sorvegliata speciale

L’Uesceglie la sorveglianza speciale per Huawei nelle raccomandazioni sul 5G della Commissione Ue, accolte positivamente da Huawei in quanto ritenute “oggettive e proporzionate”. Entro fine giugno gli stati membri dovranno “completare una valutazione nazionale del rischio delle reti 5G” e “su questa base aggiornare i requisiti di sicurezza esistenti per i fornitori”. Poi entro il primo ottobre Bruxelles e l’Agenzia per la cybersicurezza Enisa presenteranno un rapporto sui rischi a livello Ue. Sarà solo a fine anno che arriveranno gli standard minimi di sicurezza Ue e misure per ridurre i rischi. E tra queste ultime vi è la possibilità di “identificare prodotti, fornitori e servizi come non sicuri” e quindi di vietare loro l’accesso al mercato europeo. Anche se l’obiettivo di Bruxelles, ha puntualizzato Ansip, è “promuovere un approccio basato sulla conoscenza e poi misure di riduzione dei rischi” che rendano “non necessari bandi” di aziende.

Elenchi del telefono, il costo nascosto che fa ricchi i gestori

È un mercato gigantesco, anche se non più sulla cresta dell’onda e snobbato dalla clientela che però lo paga a carissimo prezzo e a sua insaputa: è la consegna nelle case d’Italia delle Pagine Bianche, vale a dire gli elenchi telefonici stampati e distribuiti da Italiaonline, ex Seat Pagine Gialle. Tecnicamente ogni anno i gestori forniscono la lista degli abbonati ai quali viene recapitato il librone. Ma chiunque abbia uno smartphone reputa questi elenchi alla strega di cimeli d’arredamento e sa che si fa prima a cercare un numero telefonico sul sito o sull’app della stessa di Pagine Bianche che a sfogliare il volume. E poi, oramai, con il necessario assenso esplicito per comparire sugli elenchi, quasi sempre non si trova il numero cercato.

Eppure nei prossimi mesi i pianerottoli dei palazzi saranno invasi dalla nuova edizione degli elenchi. Il tutto per pochi euro all’anno che, certo, non stravolgono il bilancio familiare. Ma, tenendo conto delle oltre 20 milioni di linee attive, si tratta pur sempre di un salasso per le tasche dei clienti per un giro d’affari di 30 milioni di euro, con i costi (si tratta di tariffe non regolate) che vanno da 1,80 a 3,20 euro. Un importo che, visto anche il non-servizio al quale corrispondono, si fa fatica a giustificare.

È in queste settimane che i clienti dei gestori telefonici delle linee fisse stanno ricevendo in bolletta l’addebito che, spulciando la fattura, si può trovare come voce singola o accorpata ad altri servizi a pagamento. Perché poi di questo si tratta: uno di quei costi nascosti che vengono continuamente applicati dagli operatori ai clienti, come le attivazioni di servizi non richiesti (la chat erotica, il servizio “richiamami” o la segreteria telefonica), che si ritrovano addebiti in bolletta e che pagano fino a quando non se ne accorgono e ne richiedono la cancellazione. È la cosiddetta strategia dell’opt-out (se non vuoi pagare è il cliente che deve farsi sentire) che però è vietata dal Codice del consumo, a tutto vantaggio dell’opt-in che, invece, si basa sulla filosofia opposta: se si vuole un servizio aggiuntivo, va richiesto appositamente.

Fino al 2012 la spedizione degli elenchi rientrava nei servizi universali di “pubblica utilità” come le comunicazioni postali o la fornitura di energia elettrica. Poi, però, il decreto legislativo n. 70 ha escluso la spedizione dagli obblighi, ma questo non è servito a impedire che gli elenchi continuassero ad arrivare in tutte le case. E anche in quelle degli utenti che non ne hanno mai fatto esplicita richiesta. Così a marzo del 2015 la questione è arrivata sul tavolo dell’Antitrust che ha aperto tre procedimenti nei confronti di Vodafone, Wind e Telecom proprio per “l’omissione informativa sulla possibilità di rinunciare alla fornitura degli elenchi e quindi all’addebito in bolletta dell’importo relativo”.

Con Wind che era stata anche sanzionata con una multa da 195mila euro per la pratica commerciale relativa ai vecchi abbonati e poi ai nuovi, per i quali l’operatore non aveva acquisito il consenso espresso al pagamento del costo supplementare. Cosa è successo da allora? Dal 2016 ai nuovi clienti non viene più appioppato questo costo, ma per tutti gli altri l’addebito automatico resta. Almeno questo vale per Tim e Wind-Tre (che gestisce Infostrada): i clienti dell’ex monopolista sono così costretti a pagare 3,2 euro più Iva all’anno (per i clienti business si arriva a 5 euro), mentre l’altro gestore fa sborsare 2,54 euro. Tim, che in questa storia fa la parte del leone con oltre 10 milioni di linee fisse, assicura però di rimborsare il costo del servizio a tutti gli utenti che contattano il Servizio Clienti. Sul fronte Fastweb, la società da giugno 2018 ha invece deciso di fornire solo a chi ne faccia esplicita richiesta il servizio a un costo di 1,80 euro, che è quasi il costo vivo che viene pagato a Italiaonline. Teletu, gestito da Vodafone, ha invece eliminato l’addebito automatico dal 2016. Ma si tratta di un numero di clienti irrisorio.

A2A, gli strani affari montenegrini dietro l’ennesima “fidanzata” di B.

Silvio Berlusconi ha avuto amicizie discutibili all’estero. In Montenegro aveva Milo Djukanovic. Il padre-padrone del piccolo Paese balcanico sta rischiando la poltrona come mai gli era accaduto in 13 anni al potere. La vicenda che rischia di affondarlo potrebbe riscrivere anche un pezzo della recente storia italiana. Da oltre un mese nella capitale Podgorica migliaia di manifestanti scendono in piazza contro “Ladro Milo”. A innescare la protesta è stato un imprenditore, Dusko Knezevic, un tempo in cordiali rapporti con il presidente. Poi a dicembre 2018 la Banca centrale del Paese e la Procura generale hanno messo sotto inchiesta il suo gruppo finanziario, Atlas, con l’accusa di riciclaggio e hanno congelato i suoi asset. Knezevic ha iniziato a far pubblicare sul quotidiano Vijesti e sul Centro di giornalismo investigativo del Montenegro documenti che raccontano il modo in cui la famiglia Djukanovic dieci anni fa si sia intascata soldi pubblici, anche grazie alla compiacenza di vecchi amici. Come Berlusconi.

A2a in Montenegro, un affare controverso

L’anno chiave delle relazioni Italia-Montenegro è il 2009, il primo del governo Berlusconi IV. Gli incontri tra l’allora premier e Djukanovic sono stati frequenti. Berlusconi a Podgorica, dove era considerato di casa, aveva promesso che l’Italia sarebbe diventata il primo partner energetico del Paese e a marzo aveva spedito nella capitale una delegazione di 60 imprenditori, al seguito di Michela Vittoria Brambilla, ministra del Turismo; Adolfo Urso, sottosegretario al Commercio e Valentino Valentini, fedele consigliere diplomatico. Il tour diede i suoi frutti: a fine aprile A2a, la multiutility controllata dai Comuni di Brescia e Milano, si è aggiudicata il 15% delle azioni di Epcg, la compagnia elettrica nazionale montenegrina. A settembre la quota è diventata del 43,7%, con una gara contestata dagli altri competitor. In Italia, l’affare fin dall’inizio ha destato sospetti: l’investimento di 436 milioni ha avuto come effetto immediato quello di ridare ossigeno alla Prva Banka, istituto in crisi di liquidità da cui il Montenegro ha fatto passare parte dell’investimento. Proprietario è il fratello di Milo Djukanovic, Aco, azionista di minoranza della miniera di carbone che alimenta uno degli impianti di Epcg. Di vantaggi per A2a non se ne vedevano. “Sapevamo che la fase di aggiudicazione aveva avuto delle ombre”, spiega Pippo Ranci, presidente del Consiglio di sorveglianza tra il 2012 e il 2014. A queste “ombre” non è mai stata data una vera spiegazione. I sospetti di corruzione sono stati alimentati dalla stampa in Italia e in Montenegro. “Quando sono arrivato – prosegue – il Montenegro era una delle questioni da risolvere”. L’investimento infatti continuava a pesare sul bilancio di A2a. L’azienda incassava pochissimi dividendi. Tanto che il nuovo management ha deciso di lasciare il Paese. La “put option” è stata strappata dopo una lungo negoziato ad aprile 2018. Prevede che entro luglio 2019 Epcg e il governo montenegrino si ricomprino le quote di A2a per 230 milioni. La società spiega che a oggi sono rientrati 120 milioni e si attende che Podgorica rispetti gli impegni. A bilancio ha ancora parcheggiato in Montenegro 109 milioni di euro di azioni, il 18,65% di Epcg.

Gli uomini di Djukanovic dietro alla trattativa

L’esperienza montenegrina di A2a volge al termine. I dubbi sull’inizio, però, restano. Chi ha guadagnato da quell’accordo? I sospetti portano alla famiglia Djukanovic e al suo alleato italiano, Berlusconi, che nega tutto. Qualche conferma in questo senso la fornisce Dusko Knezevic. L’imprenditore in guerra con Djukanovic era uno dei quattro proprietari dei fondi a cui il governo del Montenegro aveva svenduto il 15% di Epcg. Quote poi vendute ad A2a per entrare in Montenegro. Secondo Knezevic, la manovra è stata architettata con un complesso sistema di scatole cinesi per fare in modo che a guadagnarci fosse anche la famiglia Djukanovic. Questo schema sarebbe stato deciso da Berlusconi e Djukanovic, stando a quanto ha riferito l’imprenditore montenegrino. Knezevic l’avrebbe appreso da uno dei ministri più fedeli al presidente. “Non so i dettagli dell’accordo, so solo che Berlusconi e Djukanovic l’avevano costruito e che Duska Jeknic e una ragazza del Montenegro, vicina a Berlusconi, avevano partecipato alla trattativa”, spiega via mail a Irpi. Niccolò Ghedini, avvocato di Berlusconi, definisce “fantasiosa e priva di logica” la ricostruzione di un vertice del genere ed esclude che l’ex premier abbia favorito in alcun modo Djukanovic. Duska Jeknic è considerata una sorta di prestanome del presidente Djukanovic. Vedova dell’ex ministro degli Esteri, è stata indagata dalle procure di Bari e Napoli per associazione mafiosa e contrabbando, insieme allo stesso presidente. Era il 2003. A maggio 2009, mentre A2a entrava in Montenegro, Djukanovic in Italia ha ottenuto “l’immunità diplomatica”. L’archiviazione ha messo fine alle indagini sulla “Montenegro connection”, la mai dimostrata alleanza dei montenegrini con pezzi di Sacra Corona Unita e camorra. Secondo Knezevic, nell’operazione insieme a Duska Jeknic era coinvolto il cugino Damir Dado Asovic. La “ragazza del Montenegro”, invece, sarebbe Katarina Knezevic, ex Miss Montenegro, che diventerà poi la fidanzata dell’ex Cavaliere. Il primo incontro con Berlusconi, stando a quanto disse a Repubblica, sarebbe avvenuto a Podgorica proprio nel marzo di quel 2009.

Lo strano giro delle quote di Epcg ad A2a

Le azioni di Epcg non sono state vendute direttamente ad A2a, rivela Knezevic. Il sistema architettato da Djukanovic prevedeva che in mezzo ci fosse l’intermediazione di una società di broker con sede a Londra, la River Financial Trading Ltd. Questa società ha incassato a fine aprile 2009 6,8 milioni di euro per aver trovato un acquirente delle azioni di Epcg. Quello che non si può sapere, però, sono i beneficiari ultimi della misteriosa società inglese: la controllano delle offshore. Dusko Knezevic non sa se gli uomini dietro le società offshore fossero di Djukanovic, ma afferma che il sistema sia stato messo in piede da Duska Jeknic, che usava il cugino Damir Asovic “per raccogliere le provvigioni di River Financial”. Questa prima cessione, sostiene, avrebbe poi di fatto reso inutile il successivo bando fatto dal governo del Montenegro per vendere altre quote di Epcg. Già era stabilito che A2a avrebbe preso tutto. “La compravendita delle azioni Epcg tra privati era pienamente libera e perfettamente legale”, replica oggi A2a, respingendo le accuse.

La truppa di italiani in Montenegro

Dopo l’operazione di A2a, c’è stato un grande fermento di imprenditori e banchieri italiani in Montenegro. Tutti in qualche modo legati alla vicenda Epcg. A marzo 2010, River Financial è stata acquistata da uno studio di commercialisti svizzero, Luga Audit & Consulting Sa, gestito dall’italiano Oscar Ronzoni. Un mese prima dell’acquisto di Ronzoni, River Financial aveva aperto in Montenegro Bridgemont doo (oggi in liquidazione), società con sede dentro Hipotekarna Banka, istituto con azioni del fondo Atlas di Dusko Knezevic. L’azionariato della banca è italiano: la maggioranza è di Banca Generali, la minoranza delle famiglie Gorgoni e Montinari. Lorenzo Gorgoni è il nome più noto: partito dalla Banca del Salento, poi diventata Banca 121, è stato coinvolto nella vendita dell’istituto al Monte dei Paschi (di cui ne ha appesantito i bilanci). Gorgoni è legato da una lontana parentela a Raffaele Fitto, che nel 2009 era ministro per le Regioni nel governo Berlusconi. Nel cda c’è Alessandro Picchi, all’epoca socio di Morri & Associati, studio che ha negoziato l’ingresso in Montenegro di A2a. Ma il vero artefice dell’impresa è stato il presidente Pietro Giovannini – docente alla Sapienza, morto nel 2010 – col suo studio Giovannini&Partners.

Quando Verdini pensava al Montenegro

Giovannini durante la sua carriera ha lavorato in aziende vicine a Denis Verdini, negli anni in cui era stretto collaboratore di Berlusconi. Quando ha aperto Bridgemont era consigliere indipendente in alcune società del gruppo Bartolomei-Fusi. Riccardo Fusi è l’imprenditore che all’epoca era a capo della Btp, condannato a due anni per concorso in corruzione aggravata nel 2016. Il suo sponsor politico era Verdini, anch’egli condannato nell’ambito dello stesso procedimento. I due sono stati intercettati nell’inchiesta Grandi appalti mentre parlavano del Montenegro. “Domani Valentini va a Podgorica con un gruppo di imprenditori, vuoi andare anche tu?”, diceva Verdini al costruttore. Verdini consigliava di andare perché in Montenegro si potevano fare un sacco di soldi. Fusi alla fine non andrà, per impegni presi in precedenza. Oggi nessuno sembra guardare al Paese balcanico con interesse.

 

Il vero costo dell’ennesima rottamazione

Fare troppi condoni fiscali ha un effetto collaterale: si rischia che nessuno aderisca più perché convinto che, a breve, arriverà un’altra sanatoria ancora più conveniente. Le amnistie fiscali sono sempre state giustificate da un successivo inasprimento delle regole. In Italia, invece, conviene evadere perfino i condoni. Il sottosegretario all’Economia Massimo Bitonci, Lega, esulta perché “i dati aggiornati confermano il successo della rottamazione-ter, al 21 marzo sono infatti 443.570 le richieste di adesione protocollate”. Entusiasmo che andrebbe mitigato per varie ragioni. Le adesioni nello stesso periodo alla rottamazione del governo Renzi erano il doppio, ma queste 443.000 sono fin troppe. Perché c’è un costo occulto.

Il decreto fiscale collegato alla legge di Bilancio 2019 ha previsto che chi aderisce alla rottamazione ter delle cartelle esattoriali possa spalmare anche su cinque anni quanto il fisco sta cercando di riscuotere da lui. Al netto di sanzioni e interessi. In pratica un condono, perché premia chi ha tenuto comportamenti scorretti (chi ha saldato gli arretrati senza rottamazione ha pagato anche interessi e sanzioni). Chi dichiara di aderire, poi inizierà a pagare le rate a luglio. Così intanto si è messo al riparo da ogni azione esecutiva dell’ex-Equitalia. Se poi ci ripensa e non paga nulla o comunque non salda tutte le rate, intanto ha comprato tempo e protezione da riscossioni invasive. Non solo: più persone aderiscono alla rateizzazione, più soldi incassa subito il fisco. Ma ci sono vari creditori pubblici – Comuni, Regioni, enti vari – che in bilancio hanno quei crediti comprensivi di interessi. Prima o poi dovranno svalutarli, lasciando buchi nei loro conti. Nel lungo periodo siamo tutti morti, ma siamo anche sicuri che i condoni si rivelano un cattivo affare per tutti. Tranne che per gli evasori.

Massiah per sempre, il banchiere imputato salvato dalla vigilanza

A quanti lamentano che il governo giallo-verde ci fa spesso arrossire di vergogna negli ambienti internazionali bisognerà ricordare che è vero ma non è proprio una novità. Lo dimostra il caso dell’Ubi. Con l’alacre complicità del ministro dell’Economia Giovanni Tria, il sistema bancario sta facendo fare all’Italia una figura veramente barbina.

Il fatto si è consumato venerdì scorso. L’Assogestioni, che riunisce i fondi comuni d’investimento, ha lasciato scadere il termine senza presentare la sua lista per l’elezione del nuovo consiglio d’amministrazione di Ubi, mettendo la terza banca italiana in una situazione senza precedenti. All’assemblea degli azionisti del 12 aprile verranno eletti tutti i 15 candidati della lista presentata dal patto di sindacato tra gli azionisti cosiddetti storici di Brescia e di Bergamo, più la Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo. E non ci sarà nessuna funzione di controllo affidata ai consiglieri di minoranza. Per esempio, il decisivo Comitato controllo e rischi sarà presieduto, a termini di statuto, da Alessandro Masetti Dannini, esponente del patto di sindacato degli azionisti bresciani (non sembri una stranezza, guardiamo all’Europa ma la terza banca italiana è ancora soggetta agli equilibri di potere tra snervate oligarchie di campanile).

Assogestioni non ha rilasciato commenti, ma indiscrezioni attendibili confermano l’ipotesi più sensata: la mancata presentazione della lista manifesta una polemica presa di distanza dalla conferma sulla poltrona di amministratore delegato di Victor Massiah, alla guida di Ubi da 12 anni, cioè dalla fondazione del gruppo multiprovinciale. Massiah è imputato a Bergamo in un complesso processo per ostacolo alla vigilanza, nel quale, è bene tenerlo presente, la Banca d’Italia non si è costituita parte civile senza mai fornire una spiegazione, lasciandoci solo la deduzione che Massiah sia il banchiere più amato dalla vigilanza.

Come confermano molti precedenti. Il 18 gennaio 2017 l’Ubi ha comprato dal Fondo di risoluzione della Banca d’Italia tre delle quattro banche “risolte” il 22 novembre 2015 e 13 giorni dopo la vigilanza Bankitalia ha archiviato un procedimento sanzionatorio contro Ubi per questioni connesse al riciclaggio. Lo stesso riciclaggio sullo sfondo dell’ostacolo alla vigilanza per cui domani è attesa a Milano la sentenza sulla controllata IwBank, che vede imputato il vicepresidente uscente di Ubi Mario Cera. E ancora una volta la Banca d’Italia si è avvalsa della facoltà di non costituirsi parte civile.

Nel processo di Bergamo l’accusa è di aver manipolato l’assemblea degli azionisti del 2013 per mantenere il controllo sulla banca delle stesse oligarchie che oggi ripropongono Massiah. Le norme europee sull’onorabilità e adeguatezza dei banchieri vieterebbero la nomina di un imputato, ma in Italia le regole comunitarie si decantano nei convegni, poi basta non recepirle nell’ordinamento nazionale e l’empito europeista può andare a farsi benedire.

La puzza di bruciato può essere compiutamente apprezzato leggendo il passo con cui il Corriere della Sera, edizione di Bergamo, ha dato notizia della furbata brescian-bergamasca il 17 marzo scorso: “La moral suasion della Bce (molto più che suasion), relativa ai procedimenti giudiziari in corso, ha scalzato i due attuali vicepresidenti, Armando Santus e il vicario Mario Cera, consegnando così al placet degli azionisti una lista inattaccabile sotto questo profilo. (…) Victor Massiah in questo contesto resta in sella, seppure imputato. Trattandosi del perno attorno a cui ruota la banca, è evidente che per lui siano entrati in gioco altri elementi, anche presso la massime autorità”.

La massima autorità è Andrea Enria, da poco al vertice del Single Supervisory Mechanism, la vigilanza bancaria della Bce dove ha preso il posto della francese Danièle Nouy. Toccherà a Enria, dopo l’assemblea del 12 aprile, valutare se Massiah sia fit & proper secondo i parametri fissati nel 2013 dalla direttiva europea Crd IV, pensata proprio per dare un giro di vite ai banchieri troppo furbi. Par di capire che il tentativo di moral suasion si sia concluso con una tacita intesa: vengono fatti fuori gli imputati Cera e Santus in cambio di una chiusura d’occhio per l’imputato Massiah.

Che del resto Enria non potrebbe silurare comunque. La regola europea che esclude dal vertice delle banche gli imputati, non è applicabile in Italia, e se la Bce lo cacciasse Massiah avrebbe ottime probabilità di impugnare con successo la decisione davanti a un tribunale italiano. La CRD IV è stata infatti recepita solo nel maggio 2015, e il ministro Pier Carlo Padoan ha impiegato altri due anni per scrivere il decreto attuativo, pronto dal 22 settembre 2017. Ma non l’ha varato. Il suo successore Tria, in dieci mesi, non ha trovato trenta secondi liberi per firmare il decreto. Per questo Enria deve limitarsi alla moral suasion , e Assogestioni ai gesti di silenziosa protesta. Dei quali la presidente di Ubi in via di conferma Letizia Moratti ieri si è fatta elegantemente beffe: “Continueremo a lavorare con serietà indipendentemente dalle scelte che non sono state fatte dalla banca”. Visto che la presidente è eletta dal 20 per cento degli azionisti e l’Assogestioni conta per il 40 per cento, un bel “chi se ne frega” sarebbe stato più rispettoso.

Twitter@giorgiomeletti

Ue, passa la legge copyright: salva i grandi, non i creativi

Alla fine il Parlamento europeo ha votato sì alla riforma del copyright: la direttiva dovrà quindi essere recepita dagli Stati dell’Ue senza che questi possano sostanzialmente introdurre grandi modifiche.

Breve ricapitolazione: si tratta di una norma che cerca di garantire ai titolari di diritti d’autore di tutti i tipi più tutele e remunerazione per la circolazione delle proprie opere online. Nel farlo, però, si crea una serie di controindicazioni che di fatto limita la libertà della circolazione dei contenuti online, arricchisce gli editori (non automaticamente i creativi e gli autori), spinge a stringere accordi con le grandi piattaforme o con gli intermediari che – per le leggi di mercato – saranno più interessati ai grandi business e meno ai piccoli. La dialettica si è settata per due anni su due posizioni opposte: da un lato la difesa dei diritti dei creativi, dall’altro quella di Google e Facebook che si arricchirebbero sfruttandoli. L’esito, tra modifiche e discussioni e accordi, è stata una direttiva che di fatto colpisce poco le piattaforme (che appunto potranno ovviare stringendo accordi con i singoli attori e che sono già munite di filtri per setacciare eventuali violazioni di copyright e che intanto stanno sviluppando altri business), favorisce editori e intermediari per il diritto d’autore e lascia nell’incertezza l’ultimo anello della catena, i creativi, per i quali nel testo non sono previste tutele dirette sull’equo compenso e che potrebbero finire nel tritacarne degli algoritmi che setacciano i siti per cercare violazioni anche quando violazione non c’è o quando è legata all’esercizio della satira (che è esclusa dai vincoli ma rischia di essere oscurata per sbaglio).

“La direttiva è migliorata, ma porterà comunque ad incertezza giuridica e impatterà sulle economie creative e digitali dell’Europa”, ha commentato ieri Google mentre Facebook già da tempo ha invece messo in campo strumenti per la tutela dei diritti dei portatori di diritto d’autore e collabora attivamente per stringere accordi e intese che siano anche a loro vantaggio. “Restiamo in attesa di lavorare con politici, editori, creatori e titolari dei diritti mentre gli Stati membri dell’Ue si muovono per implementare queste nuove regole”, hanno detto ancora da Mountain View. Il testo dovrà infatti ora essere approvato formalmente dal Consiglio dell’Ue e poi gli Stati avranno due anni per accogliere le nuove norme. L’approvazione di ieri è arrivata con 348 voti a favore, 274 contrari e 36 astenuti.

Gli europarlamentari del Pd hanno parlato di “una grande vittoria delle idee, della creatività, della cultura, del giornalismo e della qualità delle opere”, come ha detto l’eurodeputato Enrico Gasbarra, il cui voto in Commissione Juri aveva permesso che la riforma continuasse il suo corso. Se avesse votato contro, si sarebbe infatti fermata. Scenario non auspicato da nessuno: la direttiva ha infatti molti aspetti positivi, sarebbe bastato discutere di più sui due articoli critici. Ma le pressioni hanno portato ad accelerare l’iter per chiudere tutto prima delle prossime elezioni. Ha votato a favore e compatta anche Forza Italia, contrari gli eurodeputati di M5s e Lega. “Il Pd volta le spalle a 5 milioni di cittadini che avevano firmato una petizione e chiesto cambiamenti alla direttiva copyright”, ha detto ieri Isabella Adinolfi (M5s).

Tajani ha fatto anche cose buone (copyright, censura e affini)

Antonio Tajani, lo diciamo in omaggio alla statistica, ha fatto anche cose buone, ma tra queste tenderemmo a escludere quelle che pertengono all’attività intellettuale e, per venire all’oggi, alla proprietà intellettuale. Ci si riferisce alla direttiva Ue sul copyright approvata ieri dall’Europarlamento presieduto da Tajani (sic), cantore agreste – a non dire pecoreccio – delle nuove norme. I tajanidi, com’è noto, sostengono che le grandi compagnie (Google & C) siano state sconfitte e che ora un mondo più giusto ci si para di fronte. La direttiva, in realtà, spinge i big della rete a concedere qualche spicciolo ai grandi produttori di contenuti (giornali, tv, etc.) uccidendo sul nascere quelli piccoli escludendoli dalle loro piattaforme per evitare guai. Il tutto, ciliegina sulla torta, mettendo in mano ai gestori (Google, Facebook & C.) la possibilità di decidere con un “filtro” automatico cosa può o non può essere pubblicato dagli utenti sulla base di una cervellotica definizione di “violazione del diritto d’autore” online: siamo alla privatizzazione della libertà d’espressione o, come ha detto l’Onu (sic), a “una risposta né necessaria, né proporzionata a eventuali violazioni del diritto d’autore”. È lo stesso stupidissimo dibattito già visto sulle fake news e i russi che fanno eleggere Trump grazie ai social. Ma bisogna sporcarsi le mani, dirà il lettore: la democrazia, la Costituzione, il bavaglio… Tutto vero, però è anche vero che il vecchio adagio dice che “a discutere con un Tajani ci perdi il tempo e il buonumore”. E sono entrambi così scarsi…

Sullo Ius soli il dibattito è falsato dalla malafede

Il dibattito di questa ultima settimana è la chiara dimostrazione che siamo un Paese senza speranza. I fatti: 51 bambini vengono sequestrati dall’autista del loro autobus. Ousseynou Sy, un 46enne di origini senegalesi (con inauditi precedenti per guida in stato d’ebrezza e violenza sessuale) in servizio per le autolinee di Crema, minaccia i ragazzini, poi sparge benzina sul bus: “Andiamo a Linate, oggi da qui non esce vivo nessuno”. Uno studente chiama i Carabinieri che intervengono e miracolosamente nessuno si fa male. Il ragazzino che ha salvato la situazione si chiama Rami, di origini egiziane. Assodato che per fortuna non ci sono vittime, la prima preoccupazione pare essere che il cattivo ha la pelle nera ma per fortuna è straniero anche l’eroico bambino: così si azzera il rischio fascismo che, si sa, è sempre in agguato. Si scopre che i genitori di Rami non hanno la cittadinanza italiana. Il ministro dell’Interno, sfoggiando un’ammirevole maturità, dichiara (poveri noi): “Rami vorrebbe lo Ius soli? È una scelta che potrà fare quando verrà eletto parlamentare, per ora la legge sulla cittadinanza va bene così come è”. Per fortuna che dice tutto da papà, perché non si era mai visto un ministro della Repubblica fare il bullo con un ragazzino di 13 anni. Poi papà Salvini concede (bontà sua) il premio a Rami, ma il danno è già fatto.

A questo punto il Pd, tra un festeggiamento e l’altro per la cura dimagrante di Renzi e pure degli elettori della Basilicata (dove, perdendo il governo della Regione, il partito è precipitato al 7 per cento), parte lancia in resta con la campagna dello Ius soli a suon di “è una battaglia di civiltà” e di “non abbiate paura” (rispettivamente Nicola Zingaretti e Beppe Sala, Walter Veltroni). Vi sentite in preda a un déjà-vu? L’effetto è un po’ quello: sembra di essere tornati indietro a quando un esecutivo di tutt’altro colore rispetto a questo fece di tutto per non approvare la legge (il cui testo fu licenziato dalla Camera nell’ottobre 2015, lasciando amplissimo spazio di manovra per la discussione in Senato). L’ex ministro Delrio dice: ci mancò il coraggio di mettere la fiducia (con cui quel governo approvò di tutto: dalla legge elettorale alla supposta abolizione delle Province, dal Jobs act ai decreti omnibus: in totale 66). Ora il coraggio, a differenza di don Abbondio, pare riescano a darselo: peccato che questo Parlamento non approverà mai la legge. Però non costa nulla fare finta che si possa, né lanciare appelli che sono poco più che mozioni sentimentali.

La questione meriterebbe una discussione seria. Siamo in balia delle stupidaggini: di chi dice che un ampliamento della possibilità di acquistare la cittadinanza iure soli, magari con meccanismi automatici al compimento della maggiore età, trasformerà l’Italia nella sala parto preferita delle donne africane (ma si ascoltano, quando parlano?); di chi propone lo Ius soli senza se e senza ma perché è una questione di civiltà. Nessuno che si degni di spiegare che la questione riguarda l’equilibrio tra i due modi di ottenere la cittadinanza (Ius soli e sanguinis).

Attualmente il riconoscimento della cittadinanza per discendenza da un antenato italiano può risalire fino all’Unità. Quindi persone che non hanno alcuna relazione con l’Italia ma hanno un bis-trisnonno emigrato possono ottenere la cittadinanza, dunque votare e incidere sulla composizione del Parlamento di un Paese dove non vivono e che sostanzialmente ignorano. Un ampliamento dello Ius soli imporrebbe un correttivo allo Ius sanguinis. Se la consapevolezza di quanto ci siamo rincretiniti fosse un poco più diffusa, forse avremmo meno aspiranti cittadini.

Addio a Emiliani, una vita spesa per la cultura

Andrea Emiliani (1931-2019) è stato “un fedele servitore dello Stato, uno storico dell’arte e un museografo profondamente legato al territorio e al paesaggio”. Così hanno voluto ricordarlo i fratelli Vittorio e Rina: una definizione che contesta l’attuale stato delle cose dei Beni culturali italiani.

Emiliani è stato innanzitutto un funzionario che ha dedicato la propria intera vita al bene comune attraverso il servizio nei ranghi della, oggi tanto disprezzata, “burocrazia” delle soprintendenze e dei musei. La sua levatura di studioso (riconosciuta, tra l’altro, dalla Medaglia d’oro per la cultura del presidente della Repubblica, dalla Legion d’onore francese, dall’appartenenza all’Accademia dei Lincei) è stata messa al servizio del governo del patrimonio culturale. Ed è proprio qua che sta la grandezza del modello italiano, finché è esistito: l’autorevolezza e l’autonomia intellettuale, alimentate dalla pratica della ricerca, permettevano ai soprintendenti di tenere testa al potere politico, con sguardo felicemente presbite (cioè capace di vedere bene lontano, e disinteressato ai rapporti di forza contingenti).

Ricercatore e funzionario, dunque: senza poter dividere una personalità dall’altra. Anche la seconda parte del ricordo di Emiliani contiene una formula che, un tempo ovvia, oggi suona come un ossimoro, una contraddizione in termini: “museografo profondamente legato al territorio e al paesaggio”. Come scrivono ancora Vittorio e Rina, “uno dei suoi libri più significativi resta Dal Museo al territorio, una concezione che gli ha fatto giudicare nel modo più negativo la recente riforma Franceschini che ha tagliato al contrario il rapporto fra Museo e territorio separando assurdamente la tutela (lasciata, indebolita, alle Soprintendenze) e la valorizzazione (affidata ai Poli Museali)”. Cultore degli scritti di Raffaello e Antoine Quatremère de Quincy (e dunque profondamente consapevole dell’importanza del contesto, unico vero capolavoro della storia italiana), Emiliani pensava i musei e le mostre non come effimere vetrine, ma come luoghi e progetti al servizio della conoscenza e della difesa del territorio. Un progetto di cittadinanza votato all’interesse pubblico, non una speculazione di mercato piegata agli interessi privati.

Emiliani sarà forse ricordato soprattutto per aver “intrapreso i censimenti integrali dei beni culturali e ambientali di intere vallate appenniniche in Emilia-Romagna”. Tra i fondatori dell’Istituto per i Beni Culturali dell’Emilia Romagna, egli riuscì a costruire un regionalismo non opposto alla statura nazionale del patrimonio culturale, ma anzi capace di integrarla. Tutto il contrario della secessione dei ricchi che, avviata purtroppo dal Centrosinistra, rischia ora di arrivare al traguardo per mano leghista, e anche proprio nella regione di Emiliani. La tensione tra stato e regioni è iscritta nel policentrismo della storia italiana, e il dibattito dell’Assemblea costituente, che portò all’articolo 9 della Carta, mostra tutta la difficoltà nel tenere insieme le due dimensioni. Nella tipica ipocrisia italiana (la “discordia tra i fatti e i detti” vituperata da Leopardi) le rivendicazioni delle regioni sono state sempre presentate come virtuose aspirazioni di tutela locale, ma hanno sempre nascosto la volontà di mano libera sul territorio. Emiliani era un profondo conoscitore della antica legislazione di tutela degli stati italiani pre-unitari, e della sua continuità con quella del Regno e poi della Repubblica: forse proprio per questo, insieme ai migliori della sua generazione, egli ha saputo dimostrare che la nostra doppia identità (locale e nazionale) può (e dunque deve) essere tradotta in una tutela più efficace e più vicina ai cittadini, non in un saccheggio. Anche per questo, perdere oggi Andrea Emiliani è particolarmente doloroso.

L’economia reale è sulla Via della seta

È inutile minimizzare, e ridurre quanto accaduto nei rapporti tra Italia e Cina a un semplice scambio di cortesie commerciali e di finezze su Marco Polo e Matteo Ricci (il gesuita del 500 divenuto mandarino cinese). Una volta tanto, i governanti italiani l’hanno azzeccata in pieno, entrando per primi nel più grande gioco geopolitico messo in piedi dai tempi della Conferenza di Bretton Woods del 1944 in poi, e dalla fondazione delle Nazioni Unite l’anno dopo.

Il progetto della Via della seta è l’impresa economica di maggiore respiro della storia umana. Per dimensione finanziaria (oltre 5 trilioni di dollari), impatto politico e ricadute culturali, esso incenerisce il Piano Marshall, che fu un affare da soli 130 miliardi di dollari tra Stati Uniti e un gruppo di 16 Paesi europei distrutti dalla guerra. L’esito dell’operazione lanciata da Pechino nel 2013 è scontato. La crescita della spina dorsale del mondo postamericano poggia infatti su forze di lungo periodo, quelle dell’integrazione eurasiatica, che è pressoché impossibile arrestare dopo il tramonto dei destini euroamericani. Le nuove forze superano di molto quelle che sono riuscite finora a bloccare l’apertura dell’Europa verso l’Iran e la Russia. La Via della seta è un gioco a somma zero solo per la parte perdente, rappresentata a) dalla finanza occidentale protetta dalla potenza americana e dai vertici dell’Ue, b) dal dollaro come valuta di riserva degli scambi mondiali, c) dalla concezione unipolare del governo del pianeta.

Per i quasi 100 partecipanti (su 192 Stati membri dell’Onu), il progetto cinese offre vantaggi schiaccianti. È la rivincita dell’economia reale, della produzione e del commercio di beni tangibili contro lo strapotere finanziario che lungo gli ultimi 50 anni ha condannato l’Occidente alla stagnazione e al regresso degli standard di vita del 90% della sua popolazione. Solo i banchieri che governano l’Unione europea attraverso Macron (banca Rothschild), Junker (lobby fiscale lussemburghese) e vari altri soggetti – commentatori di Repubblica inclusi – possono ignorare l’immensa opportunità che la Via della seta offre a nazioni manifatturiere come l’Italia e la Germania collegando direttamente l’Europa alla zona economica più vasta e dinamica del mondo, che produce la metà del Pil globale. Non si tratta infatti solo di Cina, ma di Asia Centrale, India, Indonesia, Vietnam, Corea del sud, e molti altri. Paesi di industria e di commercio, non succubi della finanza privata, dove la potenza del risparmio e dei mercati viene messa al servizio della produzione e della società, generando tassi di crescita impensabili nell’Europa di oggi.

La Via della seta è la proiezione estera di una formula vincente del rapporto Stato-mercato che a ben guardare non è affatto estranea né all’Italia né all’Europa. I miracoli economici realizzati durante l’età d’oro del capitalismo europeo – tra il 1945 e il 1970 – furono basati sugli stessi ingredienti dei successi orientali odierni: sottomissione della finanza all’industria e guida dei mercati da parte dell’ autorità pubblica.

Il capitalismo finanziario che impoverisce l’Occidente non può tollerare un progetto che non può controllare e dal quale non può trarre che benefici marginali. La Via della seta è un’entità autosufficiente dal punto di vista finanziario, potendo contare su una banca creata ad hoc nel 2015 assieme a tutti i principali Paesi europei – l’Aiib, Asian Infrastructure Investment Bank – e su un’altra banca multilaterale – l’Ndb, New Development Bank – partecipata dal gruppo dei paesi Brics. Il capitale di entrambe è di oltre 200 miliardi di euro ed eguaglia già quello della Banca Mondiale. E a questi erogatori di credito vanno aggiunti gli istituti finanziari interni alla Cina, che traboccano di disponibilità ancora più rilevanti.

Ma l’incubo più inquietante dei padroni dell’Occidente è una Via della seta che diventa nel giro di una ventina di anni l’asse portante di un commercio mondiale che avviene in euro, renminbi, rubli, rupie, yen e non più in dollari. Accelerando il crollo del pilastro fondamentale della supremazia americana sul pianeta. Il dollaro è la risorsa che ha consentito agli Stati Uniti di vivere al di sopra dei propri mezzi per almeno mezzo secolo, stampando moneta a volontà e inviando il conto al resto del mondo. Un pianeta de-finanziarizzato, de-dollarizzato e multivalutario, sarà anche un pianeta politicamente multipolare, con almeno 6 diversi centri di influenza, e nessuna potenza egemone. Ma dotato di un sistema di regole comuni che già esiste. Centrato sull’Onu e sullo scarso appetito per le armi e per le guerre da parte dei suoi partecipanti, con in primis l’Europa e la Cina. E nonostante l’ eccezione americana. La Via della seta, perciò, non è solo la strada verso una benefica integrazione eurasiatica. È un passo cruciale verso un mondo più prospero, pacifico e inclusivo, che va intrapreso senza esitazione.