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Il Movimento: Cinque stelle, mille controversie

Il Fatto sui 5Stelle e sulla giunta Raggi ha giudizi diversificati, come testimoniano gli ultimi articoli di Travaglio, Gomez e Padellaro. I grillini dovrebbero fare in ogni caso un “tagliando” sulla loro linea, e soprattutto riflettere sul metodo di formazione della loro classe dirigente, con la consapevolezza, tutti, delle aspettative che un anno fa gli elettori hanno riposto in loro, in un tempo in cui il vuoto è sempre più fluido. Evitando di imbarcare per esempio personaggi come il comandante De Falco. Il voto dell’anno scorso ai 5Stelle, con la dovuta prudenza e approssimazione, ha evocato il pasoliniano “Il Partito Comunista è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto…”

Travaglio ha preso lo spunto da Un nemico del popolo di Ibsen del 1882 in scena a Roma sulla degenerazione della democrazia, che rimanda alla nostra attualità, a quel che accade a Roma tra Campidoglio, Procura e redazioni dei giornali, all’immonda campagna contro la sindaca Raggi della “libera stampa” che, per il direttore del Fatto, dovrebbe interessare l’Ordine dei giornalisti. Per Gomez “La sindaca Raggi suscita malcontenti sempre maggiori… anche se è certamente vero che chi aveva governato Roma prima di lei aveva lasciato solo macerie… La miscela di delusione è diventata esplosiva, per disinnescarla la Raggi ha una sola possibilità: migliorare finalmente la vita dei romani”. Cosa che Gomez esclude che la sindaca sia in grado di fare! Infine Padellaro. Non è chiaro contro chi polemizzi in difesa della senatrice Fattori, alle cui competenze, per Padellaro, il M5S dovrebbe affidarsi per crescere. È noto che il M5S è il gruppo con il più alto numero di laureati. La Fattori sarebbe vittima, per Padellaro, di un preconcetto alimentato dagli stessi grillini, cioè di essere insofferente, insieme alla Nugnes, alle decisioni dei vertici del movimento. Le due parlamentari hanno votato sul caso Diciotti non solo contro la decisione dei vertici, ma contro la decisione della maggioranza degli iscritti. Non credo che le competenze di cui la Fattori è portatrice possano esentarla dal rispetto delle regole democratiche liberamente adottate dagli iscritti.

Salvatore Giannetti

 

Caro Salvatore,

credo che su un caso come la Diciotti fosse lecito almeno il “dissenso di coscienza”.

M. Trav.

 

Le democrazie mondiali sono minacciate dalle lobby

Trovo la notizia di lunedì 25 marzo sul Russiagate di una gravità indefinibile. Gli Stati Uniti sono la più grande democrazia del mondo e la più antica. Che il partito democratico statunitense abbia prodotto la caccia alle streghe contro Trump e i suoi presunti rapporti con la Russia la dice lunga su questo partito, che venne contestato nell’estate del 2016 dai sostenitori di Sanders per aver truccato le procedure delle primarie favorendo la Clinton. Tale comportamento somiglia a quello dei giornaloni e delle tv dell’establishment in Italia, quando devono diffondere disinformazione sul governo Conte e sui 5Stelle. Da molti anni si parla di democrazia malata e di poteri forti, specie delle lobbies. Ulteriori conferme di quale crisi attraversi la società politica occidentale.

Vincenzo Magi

 

Il “Giglio magico”: impreparati ma obbedienti a Renzi

Luca Lotti, ex braccio destro di Matteo Renzi, ha rilasciato un’intervista nel corso della quale ha ricordato l’esperienza di governo fatta.

Egli ha parlato anche del cosiddetto “Giglio magico” facendo le seguenti affermazioni: “Il Giglio magico era semplicemente un gruppo di persone che ha lavorato insieme e bene. È stato un periodo bellissimo.

Non c’è una sola organizzazione in cui un capo, un leader non si circonda di persone preparate e di fiducia… il Giglio ci ha fatto perdere le elezioni? Ma dai, non esageriamo. Dieci persone non hanno questo potere.

E anche la storia della conventicola dei toscani non regge.

C’erano Delrio, Padoan, Guerini: tutti hanno contribuito alla formazione del Governo Renzi e alle sue azioni” (estratto tratto dall’articolo di Goffredo De Marchis, Luca Lotti “Rivendico tutto anche il Giglio magico. Renzi? Si candiderà a Palazzo Chigi pubblicato su Repubblica, nel numero del 22/03/2019).

Sono affermazioni incredibili per la loro spudoratezza quelle di Lotti.

Il “Giglio magico” non era un semplice gruppo di persone preparate e di fiducia, ma un circolo chiuso di persone fedeli al capo, prevalentemente toscane e prevalentemente non preparate.

Il problema non è che Renzi si circondasse di persone di fiducia, ma che a esse affidava un potere eccessivo, bypassando quelli che avrebbero dovuto essere i centri veri del potere, cioè il governo e la direzione nazionale del Partito Democratico.

Quanto alla possibilità che il “Giglio magico” abbia fatto perdere le elezioni al Pd, forse è eccessiva, ma il fatto che Renzi abbia dato l’idea di contare soprattutto su alcune persone poco preparate a lui fedeli ha contribuito molto a dare di lui un’immagine negativa, che si è riflessa sul risultato elettorale.

Franco Pelella

Imane Fadil. Doveroso chiarire com’è morta, ma senza spettacolarizzare

 

Gentile redazione, ho seguito la vicenda di Imane Fadil, ma trovo insopportabile l’accanimento mediatico sulla vittima e persino sulla sua famiglia, inseguita dalle telecamere di questa o quella trasmissione tv. Anche voi avete approfondito il caso, ma mi chiedo: non si è passato il limite della cronaca, sconfinando nel voyeurismo? Grazie.

Violetta Piacentini

 

Cara Violetta Piacentini,quella di Imane Fadil è, come abbiamo già avuto modo di raccontare, prima di tutto una storia molto triste. Una storia di una giovane donna di 34 anni, molto bella, nata in Marocco ma in Italia da quando aveva 3 anni, col sogno di vivere in grande (e già così, di per sé, ci sono alcuni elementi che rendono tale storia “una storia” per i media: la giovane età, l’avvenenza, le origini “esotiche”…). Noi non sappiamo se e quanto Imane potesse pensare di aver vissuto in grande. Sappiamo però di quanto la sua vita fosse cambiata da quando mise piede a casa dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (elemento decisivo per rendere una storia di una ragazza tra tante, col desiderio di lavorare nel mondo dello spettacolo, “La storia”: tanto più che alla sua testimonianza – mai ritrattata – si deve tutto ciò che sappiamo delle famose “cene eleganti”, testimonianza chiave per i processi a carico di Berlusconi e di Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti). Sappiamo anche, purtroppo, come Imane fosse finita, e non mi riferisco solo alla sua morte (su cui la magistratura milanese sta indagando con zelo e su cui è doveroso tenere accesa una luce fino a quando non verranno chiarite tutte le relative circostanze, come la famiglia legittimamente chiede). Penso, piuttosto, a quanto Imane – hanno avuto modo di confessarcelo drammaticamente i suoi familiari – fosse stata distrutta da tutta la vicenda, prima che giudiziaria, mediatica. Consumata anche fisicamente da quella che era diventata per lei un’ossessione – la sua battaglia perché la verità venisse ristabilita nel processo Ruby – si è sentita più volte abbandonata, dopo essere stata “usata”. Da chi, all’inizio di tutto, le aveva promesso un programma in tv. Dal suo agente di allora. Da alcuni dei suoi avvocati. Dai noi giornalisti, anche (Imane si arrabbiava sempre, racconta la famiglia, perché il suo nome su stampa e tv veniva associato alla definizione “ex olgettina”: lei che olgettina non era, “con tutto il rispetto per le libere scelte altrui”, aggiungeva). Da chi specula oggi sul dolore di una famiglia. Da noi tutti, forse. Perché abbiamo, per anni, ignorato, negato, normalizzato tutto quello che succedeva, certe notti. Tranquilla Violetta, ricominceremo a farlo.

Maddalena Oliva

L’avvocato del diavolo e il ricatto alla Nike

C’è una legge (del taglione) in America: per un avvocato di Trump di nome Michael che finisce dentro, ce n’è uno anti-Trump di nome pure Michael che fa la stessa fine. Michael Avenatti, difensore di gente bella e soprattutto ricca, è stato arrestato a New York: avrebbe tentato d’estorcere alla Nike 22,5 milioni di dollari.

L’anno scorso, Avenatti s’era conquistato spazio – più nei gossip che nelle cronache – come legale della pornostar Stormy Daniels, in causa con il magnate presidente Donald Trump. Dopo qualche ora trascorsa in guardina, l’avvocato è stato rilasciato su cauzione di 300 mila dollari. Ma siccome le grane non arrivano mai sole, dalla California gli è arrivata un’accusa di frode bancaria, per essersi, fra l’altro, appropriato dei soldi d’un patteggiamento d’un suo cliente, pagandoci le spese d’una sua attività. Avenatti rischia la radiazione e pesanti condanne. Lui e Michael Cohen, l’ex avvocato paraninfo del presidente Trump, non sono due begli esempi. Cohen comprò in nero, con 130 mila dollari, il silenzio della Daniels – nome d’arte di Stephanie Clifford – ed è stato radiato dall’albo e condannato a tre anni di carcere. Clifford ebbe una storia con Trump nel 2006, quando il magnate neppure pensava di fare politica, ma era già sposato con Melania, che era incinta del loro figlio Barron.

Cohen, almeno, non ha mai pensato di candidarsi alla Casa Bianca. Avenatti, invece, l’anno scorso, aveva annunciato l’intenzione di correre per la nomination democratica. S’era poi ritirato adducendo “motivi familiari”. Lo fece dopo essere stato denunciato dalla moglie per violenza domestica ed essere stato ‘mollato’, come legale, dalla Daniels, che l’accusa di avere fatto causa per diffamazione a Trump a suo nome, ma a sua insaputa; la causa finì male e la pornodiva fu condannata a pagarne le spese.

Californiano di Sacramento, 48 anni, pilota automobilistico professionista in prove d’endurance – ha corso negli Usa e in Europa, anche alla 24 ore di Le Mans – oltre che avvocato di celebrità, uomini d’affari e aziende nella lista di Fortune, Michael John Avenatti, studente d’eccellenza alla prestigiosa facoltà di giurisprudenza della George Washington University, esibisce un curriculum fitto di successi e d’infortuni: il ricatto alla Nike, celebre marchio dell’abbigliamento sportivo, è forse il più grosso. L’accusa, formulata dalla procura federale di New York, è che Avenatti avrebbe chiesto all’azienda 22,5 milioni di dollari per non diffondere notizie che l’avrebbero danneggiata. L’accusa è stata formulata subito dopo che, con un tweet, il legale aveva convocato una conferenza stampa per denunciare uno scandalo nel basket universitario, di cui in questi giorni si disputa la fase finale del torneo, da cui escono le stelle della Nba. Avenatti, che nella circostanza rappresentava un ex allenatore di basket, sosteneva di avere le prove di pagamenti illeciti della Nike ad almeno tre cestisti di squadre del college. Per non renderle note, l’avvocato chiedeva 1,5 milioni di dollari di risarcimento e un contratto di consulenza tra i 15 e i 25 milioni di dollari. In alternativa, Avenatti proponeva alla Nike di pagare 22,5 milioni di dollari e chiudere così la faccenda. In una nota, la Nike precisa di collaborare da oltre un anno con le autorità in un’inchiesta sul basket negli Atenei. Nike e altri giganti dell’abbigliamento sportivo sono negli ultimi anni finiti nel mirino delle autorità per le sponsorizzazioni nel basket universitario. Lo scorso anno un ex manager di Adidas è stato accusato di tangenti a famiglie di giocatori.

Bouteflika tradito dal suo generale: “Deve andare via”

In Algeria l’esercito sta perdendo la pazienza. Pressato dalla piazza teme probabilmente di perdere il controllo della situazione. Così, il potente capo di Stato di maggiore, Ahmed Gaed Salah, ha rotto gli indugi e ha chiesto al parlamento di dichiarare il presidente Abdelaziz Bouteflika inadatto a ricoprire il suo incarico. Quindi impeachment per motivi di salute. Bouteflika infatti è gravemente malato.

Il generale Salah, intervistato dal canale televisivo privato Ennahar Tv, ha indicato un percorso legale e legittimo per arrivare a “schiodare” il presidente dalla sua poltrona, chiedendo l’applicazione dell’articolo 88 della Costituzione. “Può essere la soluzione politica chiara e valida per portare l’Algeria fuori dalla crisi”, ha aggiunto. La sua dichiarazione arriva il giorno dopo che Bouteflika ha rimosso il capo della televisione di Stato, Lotfi Chriet, rimpiazzato da un suo fedelissimo, Toufik Khelladi. Durante le manifestazioni di piazza che si susseguono da febbraio, l’esercito ha sempre tenuto una posizione di equidistanza tra dimostranti e governo, anzi sembrava quasi che parteggiasse per i primi. Niente uso delle armi, niente violenze, niente morti e/o feriti. E dall’altra parte nessuna devastazione, barricate, saccheggi. Sempre l’articolo 88 della Costituzione prevede che il presidente, se gravemente malato e quindi nell’impossibilità di esercitare le sue funzioni, può essere esonerato dall’incarico da una risoluzione del parlamento con il due terzi dei voti a favore. In questo caso il leader della Camera Alta, che ora è Abdelkader Bensalah, assumerebbe le funzioni di presidente della Repubblica per 45 giorni. Il capo dell’esercito – che nella stessa intervista ha definito le richieste della piazza “giuste e comprensibili” – ha un fortissimo potere in Algeria e la sua dichiarazione sembra quasi una minaccia per i sostenitori del regime: un colpo di Stato per domare chi non si adegua è sempre possibile. Il presidente algerino, che il 2 marzo scorso ha compiuto 81 anni, è malato e impossibilitato a partecipare alle riunioni pubbliche dal 2013, quando è stato colpito da un ictus. Da allora è finito su una sedia a rotelle, parla con difficoltà ed è incapace di esercitare un’adeguata attività politica. L’11 febbraio scorso ha annunciato, attraverso un comunicato, di correre ancora una volta alla massima carica dello Stato. Le elezioni in quel momento erano previste per il 18 aprile. Il suo messaggio ha scatenato le proteste della popolazione che il 22 febbraio è scesa in piazza contro quello che sarebbe il suo quinto mandato. Da quel momento le proteste di sono susseguite in tutto il Paese. L’11 marzo mezza inversione di marcia: Bouteflika – sempre con un documento giacché non parla alla nazione da almeno 6 anni – ha annunciato la sua rinuncia alla candidatura. Ma ha aggiunto di aver rinviato le elezioni a data da destinarsi. Un escamotage per prolungare in suo incarico all’infinito, hanno temuto gli algerini. La dichiarazione del generale Ahmed Gaed Salah finora ha provocato una certa soddisfazione, anche se da Algeri, al telefono con il Fatto, l’ex premier Abdelmalek Sellal chiosa “Aspettiamo che anche questa non sia una nuvola di fumo negli occhi e che il parlamento sospenda Bouteflika e fissi la data delle elezioni”.

Riciclo, ma anche inceneritori: dove finisce la carta

Facile essere d’accordo con Greta Thunberg, la 16enne svedese che ogni venerdì protesta per un mondo migliore. Ma quando si tratta di tradurre in scelte concrete quei nobili obiettivi, le cose si complicano: parti dalla raccolta della carta e arrivi al dibattito sulla necessità di costruire nuovi inceneritori. Marzo è il mese del riciclo della carta ed è in questo campo, in cui l’Italia è una sorprendente eccellenza, che si riassumono le sfide e i dilemmi di quella nuova filosofia verde che va sotto il nome di “economia circolare”. Una direttiva europea del 2015 impone all’Italia di raggiungere una quota del 75 per cento del riciclo di imballaggi nel 2025, ma già nel 2017 eravamo arrivati al 79,8 per cento. Ora resta l’obiettivo 2030 dell’85 per cento.

Dall’usa e getta alla raccolta differenziata

Nel 1985 in Italia si raggiunge l’apice dell’utilizzo degli imballaggi usa e getta, il consumismo anni Ottanta comincia a presentare il suo prezzo occulto in termini di discariche sature. Un gruppo di aziende del settore cartario crea quindi il Comitato per l’imballaggio ecologico (Comieco) che vuole recuperare i materiali a base di cellulosa: dai giornali ai cartoni. Il sistema poi si raffina negli anni Novanta, con il decreto Ronchi del 1997. Al posto di una catena che si regge sull’asse produttore-consumatore-discarica si cerca di costruire un sistema integrato in cui tutti sono coinvolti nel determinare il destino finale di un prodotto. Nasce il Conai, Consorzio nazionale imballaggi, un soggetto privato senza fini di lucro che raccoglie 850.000 aziende che producono o usano imballaggi (divise per sei categorie, acciaio, alluminio, plastica, legno, vetro, carta e cartone). In vent’anni Conai ha avviato al riciclo 50 milioni di tonnellate di rifiuti da imballaggio cosa che – secondo le stime – ha evitato l’immissione nell’aria di 40 milioni di tonnellate di anidride carbonica e la costruzione di 130 discariche di dimensione media.

Il principio è che il primo utilizzatore di un imballaggio deve pagare al consorzio un contributo che servirà a finanziare lo smaltimento. Nel caso della carta il contributo è salito a gennaio 2019 da 10 a 20 euro a tonnellata. Conai incassa il contributo e lo gira a Comieco che, a sua volta, lo ridistribuisce ai 5.500 Comuni con i quali è in convenzione e che così vengono indennizzati dei costi che comporta la raccolta differenziata. Attività che, stimano gli esperti del settore, occupa in media due minuti al giorno dell’italiano medio.

Ma sono due minuti da cui dipende un intero settore in crescita: su 100 tonnellate immesse sul mercato dal settore cartario italiano, 55 derivano da materiali di riciclo. La media nazionale di carta riciclata per abitante è intorno ai 54 chili all’anno, ma con grandi differenze, al Nord si arriva sopra i 70, nel Mezzogiorno – dove la situazione un po’ sta migliorando – siamo ancora sotto i 40.

Investimenti e brevetti per la sfida alla plastica

Più carta si ricicla, più il settore attira investimenti: l’industria cartaria investe 420 milioni in Italia ogni anno, ma quel che più conta è che tra 2010 e 2015 sono stati concessi 316 nuovi brevetti per gli imballaggi in carta e cartone ma soltanto 126 per quelli in plastica. È vero che ci sono le bioplastiche, che riducono drasticamente l’inquinamento (l’Italia può contare su Mater Bi di Novamont), ma si è affermata una nuova sensibilità per cui, per la prima volta, la plastica va azzerata, non sostituita da plastica più sostenibile. Molti Comuni stanno facendo a gara per conquistare il titolo di “plastic free”: a Livorno il sindaco Filippo Nogarin ha installato nuove fontane che hanno ridotto l’acquisto di bottigliette d’acqua; a Roma c’è una proposta di togliere tutta la plastica dai catering del Comune; vari altri sindaci Cinque Stelle, da Follonica a Pachino (Palermo), hanno promulgato ordinanze per azzerare il ricorso da parte della pubblica amministrazione a plastiche monouso. Il ministero dell’Ambiente, per dare l’esempio, ha iniziato a sostituire i distributori di bottigliette con dispenser di acqua.

In questa guerra alla plastica si aprono spazi per la carta riciclata. In una ricerca per il consorzio Comieco, il professore di Management al Sant’Anna di Pisa Marco Frey ha censito alcune delle innovazioni che puntano a conquistare un mercato che finora non esisteva: quello degli imballaggi di carta che sostituiscono la plastica. Dal 2015, per esempio, l’azienda Bio-On sta sperimentando degli imballaggi che sembrano tetrapak ma mischiano carta e bioplastica, sono impermeabili e si riciclano più facilmente. C’è un progetto di doggy bag all’italiana che si chiama “rimpiattino”, un imballaggio accattivante che dovrebbe servire a introdurre in Italia un principio americano verso cui c’è ancora una certa diffidenza: il diritto di portare a casa il cibo (e il vino) che viene ordinato al ristorante ma non consumato per intero. Il Consorzio Bestack e l’Università di Bologna stanno poi lavorando a un “imballaggio attivo”, cartone ondulato che contiene un additivo di “oli essenziali” che permette di aumentare fino a tre giorni la vita commerciale (in gergo shelf life) dei prodotti alimentari. Minore la turnazione sugli scaffali, minore il consumo di imballaggi e lo spreco di cibo.

La ribellione della Cina e i termovalorizzatori

La tecnologia aiuta ad aumentare la vita degli imballaggi e a ottenere qualità migliori con minore consumo di materia prima, i comportamenti virtuosi dei consumatori permettono di riciclare sempre più carta. Ma alla fine qualcosa da smaltire in modo tradizionale resta sempre. Anche perché c’è un limite al numero di volte che un imballaggio o un giornale può essere riciclato. Il 7 per cento del macero è composto da materiali non riciclabili, in gergo pulper. E non ci sono molte soluzioni possibili: o finisce in discarica o viene bruciato. Fino al 2018 il pulper, come molti altri scarti di altri settori, finiva in Cina. Ma nell’estate del 2017 Pechino ha notificato all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che non era più disposta a fare da pattumiera dell’Occidente: ora importa carta da riciclo soltanto se ha sostanze contaminanti inferiori allo 0,5 per cento del totale. Colpa degli inglesi che non sanno fare la raccolta differenziata e mandavano in Cina troppe schifezze, spiegano le aziende italiane.

La conseguenza positiva della svolta cinese è che in Italia apriranno tre nuovi impianti per gestire quel macero che prima andava in Cina. Lo squilibrio storico che vedeva il settore italiano esportare macero e importare prodotto finito, pagando così due volte, si riduce di anno in anno. C’è però un effetto negativo, come spiega Andrea Bianchi di Confindustria: “Se sale il costo dello smaltimento del pulper si blocca tutta la filiera del riciclo”. Tradotto: se alle imprese del settore cartario costa troppo liberarsi della parte non riciclabile, avranno ben pochi incentivi a investire sulla catena del riciclo. Perché i vantaggi della maggiore efficienza vengono neutralizzati dall’aggravio finale. Per questo un po’ tutti nel settore, dalle cartiere ai sindacati ai consorzi, chiedono che si “chiuda il ciclo”. Tradotto: che vengano creati inceneritori (nel mondo della carta preferiscono chiamarli “termovalorizzatori”) dove bruciare gli scarti. Così le imprese potrebbero risparmiare sui costi di smaltimento – la discarica è un salasso – e produrre energia con cui alimentare il resto della lavorazione o che comunque può essere venduta all’esterno. Il sogno è il modello scandinavo in cui le imprese hanno il proprio inceneritore e il “ciclo” del rifiuto si chiude in casa: tutto quello che si può riciclare viene riciclato, il resto diventa energia. Ma è assai difficile spiegare a quegli stessi ambientalisti che propugnano la raccolta differenziata che il necessario complemento debbano essere degli inceneritori. Il sindaco di Livorno Nogarin è uno dei più attivi nell’associazione dei Comuni nel promuovere il riciclo, ma non ha alcuna intenzione di fare marcia indietro su uno dei suoi temi preferiti: “L’inceneritore di Livorno chiuderà nel 2021, è una decisione ponderata e abbiamo lavorato a lungo per prepararla, nessun posto di lavoro è a rischio”. Fine della discussione. La Lega la pensa diversamente: a un recente convegno di Comieco, il presidente della commissione Ambiente della Camera, il leghista Alessandro Benvenuto, ha promesso al settore “impianti per la corretta gestione degli scarti di processo da sottrarre alla discarica”. Cioè più inceneritori. Il sottosegretario al ministero dello Sviluppo, Andrea Cioffi (M5S), ha garantito il contrario.

Stuprano a turno una 19enne e filmano al cellulare: arrestati

L’hanno fatta ubriacare, stuprata a turno e ripreso la violenza con uno smartphone. Roberto Mirabella (20 anni), Salvatore Castrogiovanni e Agatino Spampinato (19 anni) sono stati arrestati con l’accusa di violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza americana di 19 anni. L’aggressione è avvenuta la sera del 15 marzo a Catania, quando la giovane si trovava insieme a un’amica in un pub del centro. I tre aguzzini si sono avvicinati, e quando la 19enne è rimasta sola, l’hanno convinta a spostarsi da un’altra parte. Arrivati nei pressi della loro auto, spingendola con forza l’hanno obbligata a salire. La ragazza ha tentato invano di chiamare il 112. Raggiunto un luogo appartato, i tre catanesi hanno abusato a turno della vittima. Il giorno successivo, la ragazza si è confidata con la madre e la sorella, per poi sporgere denuncia accompagnata dalla famiglia che la ospita. I tre aggressori sono stati identificati grazie a due video: il primo girato dalla 19enne nel pub insieme ai ragazzi, il secondo filmato da uno dei fermati durante lo stupro, e inviato alla giovane proponendole di rifarlo.

Panico piazza San Carlo, i legali: “Risarcimenti fino a 30mila euro”

Non ci sono soltanto i danni fisici per i feriti della tragedia di piazza San Carlo la sera del 3 giugno 2017, quando migliaia di tifosi della Juventus scapparono in preda al panico per la paura di un attentato. Ci sono anche, forse soprattutto, i danni morali provocati dalla paura e dal panico. Tuttavia, a quasi due anni dai fatti, le assicurazioni non hanno ancora indennizzato i feriti. Per sbloccare questo stallo 63 avvocati, torinesi ma non solo, hanno preparato un manifesto in cui elencano undici criteri da seguire per quantificare i danni non patrimoniali che – stimano – possono essere compresi in un range tra i cinque mila e i trentamila euro “salvi casi del tutto eccezionali”. Il loro conteggio non è astruso. Si basa innanzitutto sulle tabelle adottate dall’Osservatorio sulla Giustizia Civile presso il Tribunale di Milano, “adeguatamente personalizzati” in base ai casi particolari, ma anche su alcuni precedenti. Uno dei riferimenti è quello dei risarcimenti ai passeggeri della Costa Concordia: “A tutte le persone che si trovavano sulla nave la sera dell’incidente è stato liquidato – scrivono – un danno non patrimoniale autonomo per la terribile esperienza vissuta dall’inizio della tragedia al momento del salvataggio”. E poi ci sono anche i casi degli operai della ThyssenKrupp di Torino che hanno ottenuto un indennizzo “per il profondo turbamento” vissuto anche se non erano al lavoro la notte del rogo.

Fine di un’epoca e “metoo”: Scaraffia dice addio al Papa

La professoressa Lucetta Scaraffia ha lasciato la direzione di Donne Chiesa Mondo, inserto femminile e non femminista dell’Osservatore Romano, quotidiano ufficiale del Vaticano, dopo sette anni e due pontificati. Scaraffia ha gestito il mensile con un gruppo di colleghe, un esperimento unico nel maschilismo consacrato della Chiesa. Assieme a Scaraffia, all’unisono, le redattrici smettono di contribuire al supplemento dell’Osservatore Romano: “Ci sentiamo circondate da un clima di sfiducia e progressiva delegittimazione per metterci sotto il controllo degli uomini”. Riferimento esplicito ad Andrea Monda, nuovo capo dell’Osservatore, che ha tentato, rivela la storica, di avocare a sé la guida del mensile.

Il Vaticano produce una miriade di notizie più o meno sapide, spesso oblique e perciò da maneggiare con cautela. Ci sono vari modi per interpretare e valutare le dimissioni di Scaraffia, di sicuro è un colpo all’immagine di papa Francesco che ha cercato, per ora invano, di nobilitare la figura femminile nella Chiesa, sempre ai margini, priva di potere, di voce, di ruolo, ridotta a servitù degli uomini, costretta a vittima silente di abusi sessuali, come scoperto di recente in Francia.

1. Scaraffia firma il primo “metoo” vaticano, le donne laiche, per la prima volta, si ribellano al maschilismo imperante nella Chiesa, denunciano una cappa di insopportabile ipocrisia, il ritorno all’antica subalternità in ogni campo e in ogni spazio della Chiesa, dopo uno sforzo editoriale e intellettuale. Il mensile ispirato da Joseph Ratzinger e supportato da Jorge Mario Bergoglio, tradotto in più lingue e stampato in Spagna, Francia e Italia, ha promosso la riflessione, la meditazione, la lettura del Vangelo. “Non siamo state noi – scrive Scaraffia a papa Francesco – a parlare per prime, come forse avremmo dovuto, delle gravi denunce dello sfruttamento al quale numerose donne consacrate sono state e sono sottoposte (sia nel servizio subordinato sia nell’abuso sessuale), ma lo abbiamo raccontato dopo che i fatti erano emersi, anche grazie a molti media. Non abbiamo più potuto tacere: sarebbe stata ferita in modo grave la fiducia che tante donne avevano riposto in noi”. Ecco, il mensile non ha taciuto, ma qualcuno – e l’ex direttrice indica Monda – ospita opinioni di altre donne con altri sguardi, retrivi, polverosi, dannosi per la Chiesa e le donne. Monda respinge le accuse, ovvio, e assicura che l’inserto non sarà debellato, ma rinnovato e consegnato ancora a una donna.

2. Scaraffia e colleghe erano l’ultimo avamposto di una struttura dei media vaticani che non esiste più, germogliata col pontificato di Ratzinger, estirpata o appassita con il paziente e inesorabile rovesciamento curiale imposto da Bergoglio. Andrea Monda, che ha collaborato con il giornale dei vescovi Avvenire e La Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, ha ricevuto dal pontefice gesuita l’incarico al vertice dell’Osservatore lo scorso 18 dicembre, dopo 11 anni di direzione di Giovanni Maria Vian. Quel giorno, Francesco ha assunto pure il giornalista Andrea Tornielli al Dicastero per la comunicazione, affidato da luglio a Paolo Ruffini, il primo ministro laico del Vaticano. Quasi in contemporanea, Greg Burke e Paloma García Ovejero si sono dimessi dalla sala stampa Vaticana. Non si tratta di coincidenze.

3. Combattere le pedofilia e rendere la Chiesa più donna: due obiettivi, o due miraggi, di papa Francesco. Falliti, per adesso. Rincorsi, tra scandali, rinunce, dossier, condanne (vedi il cardinale Pell). Durante il seminario contro gli abusi, papa Francesco ha chiesto a una donna, Linda Ghisoni, sottosegretario al Dicastero per la famiglia, la vita e i laci, di tenere una relazione. E l’ha ringraziata con una frase aggiunta a braccio nel discorso: “Invitare a parlare una donna sulle ferite della Chiesa è invitare la Chiesa a parlare su se stessa, sulle ferite che ha”. Oggi quelle ferite, per altri motivi, sono ancora più dolorose.

Che i carcerati mangino gelati

Si fa presto a dire “stare al fresco”. Almeno nelle carceri italiane, dove il termometro in estate fa segnare temperature record. Ma se le strutture italiane sono vecchie come il cucco (oltre che sovraffollate), i detenuti con la bella stagione ben potranno ristorarsi comunque. Come? Mangino gelati. Lo ha suggerito il sottosegretario alla Giustizia della Lega, Jacopo Morrone. Che rispondendo al question time alla Camera ha tagliato corto sulla possibilità di installare ventilatori: sempre che le celle fossero dotate di prese di corrente (e non è scontato), gli impianti elettrici non reggerebbero il carico. Niente da fare anche per gli apparecchi autoalimentati perchè a quel punto si porrebbe il problema della spesa per la sostituzione delle batterie. Per non parlare della questione delle lame che “quand’anche di plastica, potrebbero essere agevolmente fatte oggetto di uso improprio, e quindi costituire un potenziale pericolo di sicurezza”. E quindi non resta che il gelato. O al limite usare il ventaglio.

“Ero considerato un intellettuale, nessuno mi ha mai dato la caccia”

Sardegna carcere di Oristano. L’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo (Pac) parla per la prima volta. Subito entra nel merito e rivela un dato clamoroso: “Nessuno mi ha dato la caccia”. Oggi ha 64 anni, sulle spalle quattro omicidi e un ergastolo. È lucido, sintetico, ragionevolmente critico. Dieci le pagine di verbale per rimettere insieme una latitanza durata 38 anni. Battisti conferma la verità delle sentenza, per lui e per gli altri condannati. Non fa nomi. Ma spiega quella caccia mancata: “Gli appoggi di cui ho goduto sono stati il più delle volte di carattere politico, rafforzati dal fatto che io ero ritenuto un intellettuale, scrivevo libri, ero insomma una persona ideologicamente motivata, per cui nessuno sentiva il bisogno di agire contro di me”.

“Questo mio ruolo da intellettuale era anche una precisa garanzia che, a prescindere dal mio passato, ero ormai una persona non più da ritenersi pericolosa”. Non solo. Chi lo ha aiutato, mai si è posto il problema delle sue responsabilità. Battisti spiega: “Sono stato supportato nella mia latitanza da partiti, gruppi di intellettuali, soprattutto nel mondo editoriale, come sostegno ideologico e logistico”. E ancora: “Io sono stato” aiutato “per ragioni ideologiche e di solidarietà e posso anche dire che non so se queste persone si siano mai chieste se io fossi effettivamente responsabile dei reati per cui sono stato condannato. Io ho sempre professato la mia innocenza e ciascuno è stato libero di interpretare questa mia proclamazione come meglio ha creduto, ma posso dire che per molti di questi il problema non si poneva, andava semplicemente sostenuta la mia ideologia dell’epoca dei fatti”. Poi precisa: “Tra gli italiani nessuno mi ha mai aiutato o ha favorito la mia latitanza”.

Cambia tema: “Io non sono un killer ma sono stato una persona che ha creduto in quell’epoca nelle cose che abbiamo fatto e quindi la mia determinazione era data da un movente ideologico e non da un temperamento feroce (…). A ripensarci oggi provo una sensazione di disagio ma all’epoca era così”. I reati quindi. Quattro omicidi, gambizzazioni, rapine. Battisti si sofferma su due in particolare: quelli del gioielliere milanese Pierluigi Torregiani e del commerciante di Mestre Lino Sabbadini, entrambi ammazzati il 16 febbraio 1979. Battisti è condannato per aver partecipato e non per essere l’esecutore materiale. Eppure, per sua stessa ammissione, fu lui a pianificare l’azione: “C’erano state discussioni anche accese sulla sorte del Sabadin e del Torregiani. La maggioranza, me compreso aveva deciso di procedere (…) al ferimento (…). Accadde però che la persona incaricata dell’azione lo uccise. Voglio ancora precisare che quando qualcuno del nostro gruppo decise di collaborare, essendo io latitante, per questi due omicidi accusò me di essere stato il più deciso sostenitore della morte in modo da alleviare in qualche modo la responsabilità di chi era già detenuto”.

Sugli altri due, il maresciallo Antonio Santoro (Udine, 6 giugno 1978) e l’agente della Digos di Milano Andrea Campagna (19 aprile 1979), Battisti rivela i mandanti: “Per Santoro l’indicazione venne dai compagni del Veneto per le ‘torture’ commesse nel carcere a carico dei detenuti politici (…). Per Campagna, cui io ho partecipato sparando, l’indicazione è stata data dal collettivo (milanese, ndr) di Zona Sud”. Tutto avviene tra il 1978 e 1979. Due anni dopo già Battisti pensa di dissociarsi. Spiega: “Se non fossi evaso nel 1981 (…) anche io avrei fatto parte del gruppo di coloro che si sono dissociati dalla lotta armata e avrei reso in quegli anni dichiarazioni relative alle mie responsabilità, esclusivamente riguardanti la mia persona senza chiamare in causa altri soggetti”. Quell’evasione dal carcere di Frosinone aveva uno scopo preciso. “Gruppi armati di differente collocazione (…) ritenevano che io avrei potuto incontrare alcuni elementi e portare un messaggio che poi sarebbe stato finalizzato a cessare l’attacco armato nei confronti dello Stato ma mantenere la disponibilità delle armi per scopi difensivi e aiutare altri compagni a evadere”. Battisti nulla fa di tutto questo ma subito rifugia in Francia. Prima di entrare nella lotta armata è solo un criminale comune. “Ho cominciato a delinquere a 17 anni (…). La mia famiglia è sempre stata vicina al Pci (…) ed essendo stato iscritto alla Fgci e poi a Lotta Continua ho dato denaro provento di furti e rapine per la causa comunista”. In carcere a Udine cambia tutto: “Ho conosciuto Arrigo Cavallina che faceva parte di Rosso, la sede della cui rivista omonima era ubicata a Milano in via Disciplini”. La rivista sarà la base del movimento autonomo milanese. Qui si formò chi uccise a Milano l’agente di polizia Antonio Custrà (Via De Amicis, 14 maggio 1977) e il giornalista del Corriere della sera Walter Tobagi (via Salaino, 28 maggio 1980).

Poi ci sono gli anni francesi. Un periodo in cui quel mostrarsi intellettuale impegnato gli garantisce una perfetta copertura. “In quegli anni mi sono mantenuto scrivendo libri e per alcune riviste, tra cui Playboy (…). Avevo contatti con grandi case editrici e guadagnavo abbastanza per mantenere la mia famiglia e comprare una casa nella regione di Parigi (…). Avevo venduto i diritti per adattare a film il mio libro Ultimo sparo; facevo sceneggiature per mini serie tv. Lavoravo anche per Antenne 2”. Questo il suo profilo. Poi arriva il 2004 e la fuga. “Quando sono andato via dall’Italia ho avuto i documenti da un amico di famiglia, quando sono andato via dalla Francia, avevo documenti falsi francesi (…). Dal 2004 al 2007 ho vissuto in semi-clandestinità mantenuto grazie al sostegno del Sindagato Universitario Sintusp, ideologicamente schierato a sinistra ma senza connotazioni di violenza, che mi sostenne come rifugiato politico”. Poi il passaggio in Brasile. “Avevo documenti regolari perché il Presidente Lula mi aveva concesso la residenza permanente sul territorio, non ero, ma un immigrante”.

E si arriva a pochi mesi fa. “Sono rimasto in Brasile sino al novembre 2018 (…). A causa della politica di Bolsonaro decisi di scappare in Bolivia dove peraltro avevo rapporti con lo storico David Choquehuanca con il quale avevo già contatti per la scrittura del libro Chilometro zero, che però probabilmente verrà intitolato Verso il sole morente”. Battisti svela poi chi lo ha aiutato a passare in Bolivia. “Lo conoscevo come presidente della gioventù di Evo Morales (…) Dalla frontiera, ovvero da San Matias, mi ha accompagnato sino a Santa Cruz della Sierra. Si è trattato di una condotta di solidarietà nei mie confronti”. Basta, chiuso. Un ultimo atto di “scuse” ai familiari delle vittime e una precisazione: “Non cerco benefici, non ci spero almeno a breve”. Poi alle 10:10 del 24 marzo si chiude il verbale. Battisti torna in cella.