A Troina, in trincea contro la feroce mafia dei pascoli: “Lo Stato qui non c’è”

“Caro presidente Mattarella, caro ministro Salvini: non lasciateci soli”. Fabio Venezia ha 37 anni, è stato rieletto otto mesi fa per il secondo mandato col 78% dei voti, centrosinistra. Siamo a Troina, sempre nell’aspra provincia di Enna, ad appena 70 chilometri dal capoluogo che qui però significa almeno un’ora e mezza di auto se va bene, c’è sempre una frana in agguato. Il sindaco Venezia ha quasi messo in fuga la “mafia dei pascoli”. E aspetta un segnale da Roma, un aiuto dallo Stato.

È sposato e ha due figli, 3 e 5 anni. Non è semplice di per sé la vita da sindaco di un paesino come Troina, capitale per i Normanni nell’XI secolo prima della conquista di Palermo, oggi novemila abitanti, inerpicato nel Parco dei Nebrodi a 1100 metri, da qui si vede la maestosità dell’Etna. La vita può anche essere un inferno a Troina se ormai quattro anni di vita da sindaco sono trascorsi con la scorta, necessaria perché più volte Venezia è stato minacciato dai “boss dei pascoli” a cui l’amministrazione comunale tenta di sfilare le terre. Proprio quelle terre, campagne e sassi al crocevia tra le province di Enna, Messina e Catania, sono divenute ormai da decenni fonte di reddito per l’attività criminale e per il sostentamento delle “famiglie”: con semplice richiesta all’Agea, l’ente governativo dei finanziamenti per attività agricole, qui c’è chi percepisce 450 euro a ettaro l’anno senza averne diritto. Senza considerare il pizzo e le angherie subite dalle aziende agricole “sane” rimaste.

Venezia, con un po’ di ingenuità, appena insediato, a soli 31 anni, si è opposto a questo “sistema”, ma adesso non ne può più e invoca l’aiuto dello Stato. A gennaio ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al ministro dell’Interno Matteo Salvini. “Ho chiesto sostegno, pronto anche alle dimissioni. La risposta dei concittadini è stata commovente, tutti in piazza a chiedermi di restare in ogni caso e a questo punto lo devo a loro”. Rilancia Fabio Venezia. Tutto si gioca sui 3600 ettari (su un totale di 4200) di campagne contese alla mafia dei pascoli. I clan non aspettano i progetti dello Stato, se un terreno rimane abbandonato per troppo tempo “loro” ritornano. E “loro” sono cosche collegate agli Ercolano Santapaola di Catania e ai Tortoriciani. Nomi che fanno tremare anche quassù, fino al municipio: sopra il portone del palazzo comunale campeggiano le foto di Falcone e Borsellino, con tanto di scritta a sostegno del magistrato Nino Di Matteo. Una scelta di campo totale e non scontata da queste parti.

“Abbiamo messo in campo un progetto”, spiega il sindaco Venezia. Un’idea complicata e tortuosa come le strade che portano qui: “Il progetto ha tre diramazioni. Stiamo comprando razze di asini in via di estinzione: il ragusano, il pantesco di cui rimangono solo cinquanta esemplari in Sicilia, e il cavallo sanfratellano. La seconda cosa è il georesort: vogliamo inauguare un polo di turismo naturalistico ristrutturando una caserma-rifugio. E, infine, c’è la filiera della legna: abbiamo la possibilità di gestirne ottomila tonnellate l’anno occupandoci anche di trasformazione e commercializzazione. Porterebbe ad almeno sessanta posti di lavoro per giovani della zona. Partiremo da maggio lanciando una campagna di crowdfunding perché ci servono più di due milioni e mezzo di euro. Ma non basterà, è ora che lo Stato si faccia sentire e se nessuno lo farà non pensino poi di farsi vedere qui per passerelle a cose fatte”. A Roma il presidente Sergio Mattarella ha già avviato un dialogo col Viminale sul caso Troina. Nel frattempo Fabio Venezia pensa anche al futuro: “Terminato il mandato dovrò comunque portare i miei figli lontano da questi luoghi, da Troina. Non posso costringerli a una vita sotto scorta”.

In questi ovili Riina ordinò: “Uccidiamo il giudice Falcone”

L’ultimo boss della fazione filo-stragista dei Corleonesi di Totò Riina ancora operativo e regnante sul proprio territorio, Giovanni Monachino, è stato arrestato ieri, ventisette anni dopo esser stato il “vivandiere” del capo dei capi. Monachino, 56 anni, mise a disposizione dei vertici della Cupola i luoghi dei summit che tra 1991 e 1992 deliberarono anche la condanna a morte di Giovanni Falcone con la strage di Capaci. A quelle maledette riunioni della “commissione regionale” di Cosa nostra, nel cuore della Sicilia più aspra, parteciparono, oltre a Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Madonia e Benedetto Santapaola, i più feroci tra i “padrini” della mafia siciliana sull’asse Palermo-Catania. Durante l’ultimo summit, febbraio ’92, fu accolta la decisione di Riina: “Uccidiamo Falcone”. Incontri avvenuti in sperduti ovili della “famiglia” di Giovanni Monachino, messi al setaccio nelle scorse ore, che anche in questi anni sono stati sede di riunioni, come quella che ha deciso un omicidio divenuto snodo fondamentale nelle indagini. A Pietraperzia c’era una delle cinque cosche storiche della provincia di Enna: è stata azzerata dal Ros dei carabinieri con i 21 arresti dell’operazione Kaulonia, coordinata dal sostituto procuratore di Caltanissetta Pasquale Pacifico.

I legami con i Corleonesi e il controllo delle elezioni

I boss di Pietraperzia sono legati a doppio filo coi Santapaola: agli atti il video di un incontro dei due gruppi nel 2016 a Catania. E “amici fidati” dei Riina, come da conversazioni di Gaetano, fratello di Totò, che si leggono nell’ordinanza di arresto del 2011. Senza pausa alcuna dai tempi delle Stragi hanno svolto il ruolo di anti-Stato con forte radicamento territoriale nella zona di Enna. Così Giovanni Monachino finisce dietro le sbarre insieme col fratello, Vincenzo, 52 anni, detto “il dottore” o “il dentista” per il suo impiego in uno studio odontotecnico, e con gli altri diciannove uomini di Cosa nostra appartenenti alla cosca. Associazione a delinquere di stampo mafioso, il capo d’accusa, “per commettere delitti di ogni genere – si legge nell’ordinanza d’arresto del gip David Salvucci –: omicidi, estorsioni, usura, traffico di sostanze stupefacenti, rapine, detenzione e porto d’armi”. Non c’era, fino a ieri, quasi nessuna attività, attorno a Enna, che non ricevesse l’attenzione della famiglia di Pietraperzia, impegnata “nell’acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o, comunque, il controllo di attività economiche quali forniture per la realizzazione di opere pubbliche e private, concessioni, appalti di opere pubbliche, nonché per realizzare illeciti vantaggi di vario genere e per procurare voti in occasioni di consultazioni elettorali”. E ancora riscossione del pizzo e sostegno materiale alle famiglie dei carcerati affiliati, affari direttamente curati dallo stesso Giovanni Monachino per affermare la presenza del capo e il potere sul territorio. Crimini decisi e preparati nei quartier generali della cosca: gli ovili. Disseminati per queste campagne, raggiungibili solo dopo camminate di chilometri per strade impervie, sono proprio queste stalle i luoghi in cui i boss fuggono da orecchie indiscrete e da possibili sorveglianze, gli stessi casolari dei summit delle Stragi.

Così trenta “gazzelle” dell’Arma hanno proceduto incolonnate nella notte tra lunedì e martedì sulla Statale 560 per raggiungere Pietraperzia, paesino di settemila anime arroccato in mezzo a un nulla di campagne e rocce, divenute sedi, nel corso degli anni, anche di soggiorni per latitanti. Tra trazzère e masserie ben ammucciate, nascoste a dovere, sempre qui in provincia di Enna, fu trovato nel 2007 Daniele Emmanuello, in fuga da undici anni, in quel momento considerato il secondo più pericoloso della lista in Sicilia dopo Matteo Messina Denaro: le cose non andarono per il verso giusto e la cattura si trasformò in una sparatoria con due proiettili della polizia che colpirono in testa il mammasantissima lasciandolo in un lago di sangue sul terriccio. E chissà quanti altri capi mafia in fuga dalla giustizia hanno trovato o stanno trovando rifugio in un angolo di questo territorio inaccessibile e severo. Non a caso tra agosto 1991 e febbraio 1992, tra un summit e l’altro negli ovili della famiglia di Pietraperzia, proprio Riina e Provenzano soggiornarono da queste parti per diverso tempo, come ha rivelato il pentito Leonardo Messina nel corso del processo ’ndrangheta stragista di Reggio Calabria. C’è anche chi sussurra a bassa voce che il fantasma dello stesso Messina Denaro, latitante dal 1993, sia apparso in alcune occasioni nel buco nero di Enna, teatro di una Cosa nostra arcaica con coppola e lupara.

Elicottero e sirene, ma le luci restano spente: tutto serrato

L’operazione Kaulonia è filata liscia. I Monachino sono stati buttati giù dal letto alle tre dai cento carabinieri del Ros e dei Cacciatori mobilitati, con un elicottero sopra le loro teste. Nonostante il trambusto non una luce si è accesa dalle finestre serrate di case e palazzi: Pietraperzia è “piovra” vecchio stampo, qui nessuno vuole vedere e nessuno vuole sentire. Al Ros e alla Dda di Caltanissetta per venirne a capo sono serviti due anni di indagini a tappeto con cimici disseminate nei posti più impensabili. È nell’ovile di Vincenzo Di Calogero, uno degli arrestati, che viene deliberato l’omicidio di Filippo Marchì del rivale clan Saitta: trivellato con un fucile calibro 12 e una pistola 7,56 il 16 luglio 2017 a Barrafranca da Calogero Bonfirraro e Angelo Di Dio, entrambi tra gli arrestati. Ma proprio questo spietato assassinio è stato lo scacco matto di Dda e Ros.

Per il resto, infatti, niente telefonate, niente discorsi espliciti, ma solo un linguaggio in codice da allevatori di pecore, rivelato agli inquirenti da Gaetano Curatolo, detto “Tano Stidda”, un altro degli arrestati, mentre cerca di istruire un sodale proprio sulle modalità di comunicazione, finendo per tradirsi perché captato da una microspia: “Per telefono non devi parlare! Noi parliamo sempre di pecore, di agnelli, di cavalli, di giumente… se io voglio parlare con lui… noi dobbiamo parlare di pecore… noi capiamo tutte cose”.

Grande scoperta: l’Italia è indebitata

La nuova fase di Repubblica, ora diretta da Carlo Verdelli, si fonda sul titolo a caratteri cubitali in prima pagina. Approccio che colpisce, purché non si parli di economia. Dopo una sorprendente prima pagina dedicata a Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, per fargli urlare nel titolone “apriamo i cantieri” (concetto mai espresso prima), ieri Repubblica ha presentato ai suoi lettori un’altra rivelazione: l’Italia ha parecchio debito pubblico sulle spalle. Il titolone “Governo in debito” si reggeva su un comunicato stampa di Unimpresa, una associazione di micro-imprese, che due giorni prima aveva fatto due conti: “Raddoppiata la velocità di crescita del debito pubblico nell’ultimo anno. Da gennaio 2018 a gennaio 2019, la voragine si è allargata di 71 miliardi di euro al ritmo di quasi 6 miliardi al mese”. Si immagina lo sconcerto dei giornalisti economici di Repubblica: perché riprendere l’aritmetica di un’associazione che si limita a rielaborare dati noti? È una notizia che il debito salga quando per mesi e mesi si è discusso di deficit e spread? E perché l’allarme di Unimpresa vale più delle statistiche ufficiali? Ma non c’è tempo per discuterne, a Repubblica stanno già lavorando a un paio di copertine dal sicuro impatto, pare riguardino la scomparsa delle mezze stagioni e un retroscena sull’imminente ritorno dell’ora legale.

Imane, la procura va avanti “a tutto campo”

Ieri è stato un giorno di ancora maggiore dolore, per la famiglia Fadil che attende dal 1 marzo di sapere come è morta Imane. Suo fratello Tarek si è presentato all’obitorio civico per il riconoscimento della salma. Poi i medici legali, Cristina Cattaneo per la Procura e Michelangelo Casali per la famiglia, hanno eseguito l’autopsia per prelevare gli organi che saranno ora analizzati.

Tra circa un mese potranno arrivare le risposte alle domande poste dalla Procura di Milano, che indaga per omicidio volontario, ma non esclude alcuna pista: morte naturale per una malattia fulminante non ancora individuata, avvelenamento inconsapevole, avvelenamento doloso. Quello che è stato già accertato dalle analisi effettuate finora è la massiccia concentrazione di metalli pesanti, cadmio, antimonio e cromo, nel corpo della modella. Quello che è stato invece già escluso è la contaminazione radioattiva, scartata nei giorni scorsi dai tecnici dell’Arpa e dell’Istituto di Fisica dell’Università Statale di Milano, dopo che un test precedente aveva individuato tracce di raggi alfa. Escluse dosi di radiazioni pericolose per i medici legali, l’autopsia è stata eseguita senza particolari precauzioni.

Imane Fadil era la principale testimone del processo Ruby 3 in cui Silvio Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari, con l’accusa di aver pagato il silenzio dei testimoni sulle feste del bunga-bunga ad Arcore. È morta il 1 marzo all’ospedale Humanitas, dove era stata ricoverata il 29 gennaio con sintomi compatibili con l’avvelenamento. “I familiari sono molto provati”, ha dichiarato l’avvocato Mirko Mazzali, legale della famiglia. “Sono molto arrabbiati, perché non riescono a capire come sia possibile che una persona sia morta così giovane. Nessuno della famiglia si capacita della morte. Stanno riflettendo sul fatto che è stata ricoverata per un mese, senza che si sia arrivati a una diagnosi”.

Intanto proseguono le indagini “a tutto campo”, guidate dal procuratore aggiunto di Milano Tiziana Siciliano e dai sostituti procuratori Luca Gaglio e Antonia Pavan, fiancheggiati dalla Squadra mobile della Questura di Milano. Solo dopo che saranno arrivati gli esiti degli esami autoptici, la Procura potrà dare il via libera ai funerali e alla sepoltura di Imane.

Paura di perdere: anche i renziani dicono di sì a Mdp

In prima fila, c’erano Andrea Orlando e anche Leoluca Orlando, Monica Cirinnà, Sergio Lo Giudice, e, a lato, Dario Parrini, come resto del renzismo. Una specie di rivoluzione estetica-antropologica per la prima direzione del Pd della nuova segreteria. Nicola Zingaretti fa un intervento di un’ora, senza frizzi e senza lazzi. Dando, però, una direzione chiara sulle alleanze,per le Europee e le Amministrative: ovvero, pure in forme diverse, apertura a tutti, e soprattutto agli ex Pd, ora Mdp. Anche se ribadisce: “Alleanza non significa convergenze che mettono indietro le lancette della scissione. Non è mio obiettivo e credo non lo sia nemmeno per Articolo 1 che va a un congresso per divenire un soggetto politico”.

Alle Europee, ci sarà una lista unica con il Pd, gli europeisti di Calenda e i civici. “Serve una lista che si muove con questa missione, con un programma di grande rinnovamento e credo sia giusto che nel simbolo sia presente anche la dicitura Siamo Europei”. Invece, la galassia di liste con cui andare in coalizione alle amministrative Zingaretti la presenta così: “C’è Italia Comune di Pizzarotti e Pascucci, che hanno fatto molti accordi in Italia come in Piemonte; ci sono le liste civiche legate a sindaci comunque argine allo sfondamento della destra: c’è +Europa, c’è Democrazia solidale; c’è Campo Progressista”. Per cercare di ottenere l’appoggio di tutti, Mdp in testa, si stanno muovendo tutti, anche per la la paura di perdere. Dario Nardella, che corre per la riconferma a Firenze, è in trattativa da mesi (anche se per ora il riscontro è negativo), Sergio Chiamparino, che si ricandida in Piemonte, ha chiesto una mano. E su tutti, a tessere le fila complessive, è Luca Lotti. La paura di perdere fa passare in secondo piano quelle che furono vere e proprie guerre sante.

E così l’area di Martina e quella di Lotti e Guerini votano sì alla relazione. Mentre Roberto Giachetti afferma che tale proposta è “ambigua”. E alla fine, i suoi 17 si astengono. Una maggioranza bulgara per il nuovo segretario. Che manda un messaggio a tutti: “Finora ho una lista di 700 capilista”, scherza.

Il resto va per immagini che mostrano il movimento. Lo staff di Zingaretti fa bonificare gli uffici da cimici eventuali, Paola De Micheli chiama un sacerdote di fiducia a benedire il suo. Tra gli interventi, c’è un inedito Francesco Bonifazi, mai salito sul palco sinora. E al banco della presidenza, spicca l’attivismo di Anna Ascani, vicepresidente che passa il tempo a digitare sullo smartphone. Stile del Renzi che fu. Il quale, ovviamente, in direzione non si fa vedere, ma prova la controprogrammazione via e-news: “La questione educativa rimane centrale per oggi e per domani. Sarà centrale fra i temi della Fondazione che stiamo per lanciare da Milano. E sarà centrale anche tra i temi della Leopolda che, attenzione, si svolgerà il 18, 19, 20 ottobre”.

Ma il segretario va per la sua strada: ieri ha incontrato Nencini per dar vita al coordinamento delle opposizioni annunciato all’Assemblea. E dopo Marcucci, capogruppo al Senato, pure Graziano Delrio, capogruppo alla Camera. Nel frattempo, i martiniani si riuniscono e riflettono: entrare in maggioranza è questione di ore.

La Recalcaspesi mantiene il bacio

evviva evviva, esce Mantieni il bacio, il nuovo libro di Massimo Recalcati, caposcuola della psico-banalisi di derivazione lacanian-renziana. Il lieto annuncio lo dà Natalia Aspesi su Repubblica, con una recensione scevra di servo encomio, anzi pregna di spunti critici. “Se si leggono le parole che Massimo Recalcati dedica all’amore, ci si innamora: non necessariamente di lui, che tanto non ricambierebbe… ma proprio dell’amore amore”. Due volte, massì, abbondiamo. Del resto, come dimenticare il suo programma-sfollagente su Rai3 Lessico amoroso che ha desertificato gli ascolti e fatto la gioia di Maurizio Crozza? “Recalcati ha incantato una vasta folla di telespettatori (2% di share, ndr), già a letto ma amorosamente svegli, oltre alla piccola audience attorno a lui in studio, che pendeva dalle sue labbra e da tutta la sua persona, voce, parole, occhiali, gesti, capelli grigi giovanilmente spettinati, completo blu: altro che Gregory Peck!”. Del resto, è o non è “il più glamour degli psicoanalisti”? E giù “grande cura, sapienza e semplicità” dinanzi a “volti soprattutto femminili lucenti di commozione, sguardi ammaliati”. In una parola: “il paradiso recalcatiano”. Così, senza mai esagerare, la Aspesi saluta l’approdo in libreria dell’Opera che “trasforma in un libro il lessico amoroso televisivo”. Ma, soprattutto, mantiene il bacio.

Povero Pallotta, gli hanno fatto una Totòtruffa chiamata Stadio

Forse se gli avessero fatto vedere, in tempo utile, il mitico Totòtruffa 62 chissà, James Joseph Pallotta detto Jim avrebbe capito al volo in che razza di trappolone stava per ficcarsi con lo stadio di Tor di Valle. Perché la vecchia commedia alla romana, da Steno a Camillo Mastrocinque appunto, ci ha già raccontato tutto sulle solenni fregature prese (e date) dagli ammericani a Roma.

I malcapitati in cadillac spediti da Alberto Sordi- Nando Mericoni ner burone della marranella, causa difficoltà linguistiche (“all right all right”). Ma soprattutto il paisà Decio Cavallo a cui la coppia con destrezza Totò-Nino Taranto “vendono” la Fontana di Trevi (“con dieci milioni te la cavi”, “sì è proprio un bel bisiniss!”).

Sì, è stato tutto scritto. L’americano con la grana che nell’immaginario giallorosso avrebbe solcato l’oceano col leggendario valiggione zeppo di dollari per costruire una squadrona più bella e più superba che pria. La retorica declamatoria sullo scudetto prossimo venturo di Tom Di Benedetto, il primo è un po’ stralunato presidente paisà (“Roma non è stata costruita in un giorno”), che un bel giorno puff scomparve dalla città dei papi, come il marziano Kunt di Flaiano.

Promesse impietosamente rinfacciate notte e dì sulle radio della capitale dai tifosi imbufaliti dopo otto anni in cui “non si è vinto niente li mortacci loro”. Nelle vesti di Totò e Nino Taranto le giunte Alemanno e Marino che ricambiano la sòla dello scudetto che non viene “vendendo” a James autorizzazioni, permessi, ponti e varianti che non hanno.

Per poi salire sull’otto volante di Virginia Raggi: prima no, poi sì, quindi forse. Che adesso è diventato un boh, l’interiezione preferita all’ombra dei Fori. E, nel frattempo, ecco i proclami multipli con festose cerimonie annesse. La più gettonata quella di Virginia, stremata dopo una nottata in bianco pora stella a tagliare cubature e che al fine annuncia: ce l’abbiamo fatta Roma avrà il suo stadio (Quando? Boh). Con accanto l’avvocato Mauro Baldissoni, plenipotenziario di Pallotta, con quella faccia un po’ così di chi non sa ancora come la prenderà il padrone, che da tempo qualcosa ha subodorato. Precisamente il giorno in cui egli scoprì dai giornali che l’area di Tor di Valle – luogo desolato, discarica a cielo aperto, habitat di zoccole (nel senso dei ratti ma non soltanto) – si era improvvisamente trasformata nella Persepolis dell’Agro romano, scrigno di inestimabili tesori archeologici, ancorché da stimare. E che, in sovrappiù, per le loro fregole da bisiniss gli americani rischiavano di mettere a rischio la mirabile pensilina della tribuna dell’ippodromo, chiuso da anni, progettata dall’architetto Julio Lafuente. Un capolavoro dell’architettura moderna il cui stato di abbandono non aveva emozionato nessuno finché James detto Jim non era apparso all’orizzonte (ma qui siamo dentro Febbre da cavallo).

Per non parlare del pericolo di apocalittiche inondazioni del vicino Tevere, che perfino i più romani de Roma irresponsabilmente ignoravano. A Boston, insomma, a qualcuno cominciano a girare le scatole anche perché con gli amici di Unicredit era stato chiaro quando si erano rivolti a lui, uomo forte del Raptor Fund, comproprietario dei Boston Celtics (basket), affinché si accollasse una gloriosa società piena di debiti (con la banca) e sull’orlo del disastro. In soldoni: io di calcio non so nulla e della Roma neppure ma se mi fate fare i lo stadio, ok il prezzo è giusto. Ok rispose Unicredit sempre in soldoni: visto che gli porti un investimento da un miliardo di euro e migliaia di posti di lavoro, in Campidoglio vedrai ti accoglieranno come il messia. E per rendergli tutto più facile insieme ai buffi della As Roma gli accollarono anche il costruttore Luca Parnasi e i terreni con le zoccole.

Il problema fu che insieme all’estroverso palazzinaro James dovette accollarsi in blocco la sua catena di affetti (per ritrovarci in Amici miei manca solo il cane Birillo). Comprese le mazzette e i favori che l’estroverso palazzinaro distribuiva generosamente, previa comunicazione telefonica. In modo che alla magistratura non sfuggisse neppure un sospiro. Un fattivo contributo alla giustizia che lo accomuna all’ex presidente del consiglio comunale, il grillino Marcello De Vito, pure lui finito dietro le sbarre poiché assai facondo nell’esporre i desiderata al sodale Mezzacapo (un nome da Totò, Peppino e… la malafemmina).

Insomma: altro che Fontana di Trevi, provate voi a comprare il nulla del nulla – neppure una pietra, un’impalcatura, che so una staccionata – per 73 milioni di euro. Tanto ha scucito in otto anni l’americano contribuendo, si presume, alla prosperità di numerose famiglie.

Comprensibile che adesso James minacci di vendere la Roma al primo arabo che passa (l’ultimo, Al Qaddumi, meriterebbe un film a parte: firmò un preliminare con Pallotta per entrare in società ma poi si scoprì che era l’unico sceicco squattrinato in circolazione). E siccome Virginia tentenna, assediata dalla rivale Roberta Lombardi che pretende lo stop allo stadio, Baldissoni evoca il danno erariale, con relativo processone. Ma qui siamo dentro Un giorno in pretura.

Salvini si convince: “Sì alla cittadinanza al piccolo Ramy”

Ramy Shehata diventerà presto cittadino italiano per meriti speciali. Il tredicenne egiziano che ha sventato la strage del bus di Milano ieri era a Parma, allo stadio Tardini, dove è stato salutato da tutti i giocatori azzurri prima della sfida con il Liechtenstein. Ieri, soprattutto, si è risolta la questione sulla concessione a Ramy della cittadinanza italiana, andata avanti per giorni. L’ha annunciato Matteo Salvini durante la registrazione del Maurizio Costanzo show: “Dico sì alla cittadinanza a Ramy perché è come se fosse mio figlio e ha dimostrato di aver capito i valori di questo paese. Sono tenuto a far rispettare le leggi, ma per atti di bravura o coraggio le leggi si possono superare”. Alla fine il capo della Lega si è convinto: era stato lui stesso la sera prima a dire che non c’erano “elementi per concedere la cittadinanza”. I 5Stelle considerano il cambio di rotta di Salvini un successo personale di Luigi Di Maio: “Nei giorni scorsi avevo inviato una lettera ai ministeri competenti per chiedere di conferire la cittadinanza al piccolo Ramy. Sono felice di aver convinto anche Salvini”, ha detto il leader grillino. Il ragazzino ha espresso la sua gratitudine a entrambi i vicepremier: “Sono felicissimo, ringrazio Salvini e Di Maio”.

Provvidenza divina: il Papa in visita dalla Raggi

Benedetta Virginia Raggi, quanto aveva bisogno di un aiuto dall’alto. Nel momento più complicato della mai esaltante avventura da sindaco di Roma, è arrivata una piccola manifestazione della provvidenza divina, che ha assunto le fattezze bonarie di papa Bergoglio. Il pontefice è salito al Campidoglio e si è affacciato insieme a lei dal balcone che dà sui Fori imperiali, e sugli obiettivi dei fotografi.

È la prima volta che Francesco sale i gradini che portano alla sede politica della città eterna, ed è la quarta volta in assoluto che un Papa entra in Campidoglio. Prima di lui era toccato a Paolo VI nel 1966, Giovanni Paolo II nel 1998 e Benedetto XVI nel 2009. Tutti “cittadini romani”, tutti a ribadire la solenne convivenza di sovranità temporali e spirituali nella storia di questa disgraziata città.

Francesco – raccontano le cronache pontificie – è stato accompagnato da una nutrita delegazione di cardinali e arcivescovi ed è rimasto a Palazzo Senatorio per circa due ore. Si è trattenuto per un colloquio privato con la sindaca – e un saluto ai di lei familiari – durato una ventina di minuti. Poi, finalmente, la photo opportunity sul balcone. Ha tenuto anche un breve discorso ai dirigenti dell’amministrazione comunale: “Tutti si sentano coinvolti nell’obiettivo di raggiungere una rinascita morale e spirituale di Roma”. Un’allusione nemmeno velata alle recenti cronache politiche e giudiziarie (l’arresto per corruzione del presidente del consiglio comunale De Vito). Non è mancato nemmeno un riferimento alle precarie condizioni della capitale: “È un organismo delicato, che necessita di cura umile e assidua e di coraggio creativo per mantenersi ordinato e vivibile, perché tanto splendore non si degradi”. Chi la amministra, ha aggiunto, deve “affrontare una sfida epocale”.

Sta diventando davvero una sfida epocale – disperata – quella di Virginia Raggi. Matteo Salvini ieri non ha perso l’occasione per infierire: “La città è invasa dalla monnezza e da topi che sembrano canguri. Bergoglio? Dev’essere andato a benedirla”.

Meglio la benedizione, comunque, della scomunica. Ricordate Ignazio Marino? Fu forse il primo sindaco della storia di Roma a essere “dimissionato” dall’aperta ostilità della Santa Sede (oltre che dall’operazione di palazzo ordita dallo stesso partito che l’aveva fatto eleggere).

La maldestra ricerca dell’approvazione papale del chirurgo culminò in un imbarazzante inseguimento durante la prima visita di Francesco negli Stati Uniti, a Philadelphia. Bergoglio lo denunciò in conferenza stampa: “Io non ho invitato il sindaco Marino, chiaro? E neppure gli organizzatori, ai quali l’ho chiesto, lo hanno invitato”. Il carico finale ce lo mise la trasmissione La Zanzara, dove un imitatore di Matteo Renzi fece straparlare monsignor Paglia: “Certo che Marino si è imbucato. Ha cercato di sfruttare questa situazione, e questo fa imbestialire il Numero Uno”. Lo schiaffone celeste fu poi usato dal vero Renzi e dai suoi tenenti romani per far fuori il sindaco (e consegnare la città ai Cinque Stelle). La Raggi avrà pure tanti problemi, ma di sicuro non quello del Papa.

“Luigi non si riferiva a me, ma il silenzio è bellissimo”

L’uomo che riempiva le piazze tace da 40 giorni, e più sta zitto, più le telecamere sotto casa sua aumentano. “Le troupe restano qui giorno e notte, è incredibile” racconta Alessandro Di Battista a chi lo ha sentito in questi giorni. Non lo mollano, l’ex deputato che deve ancora decidere se rifarsi sotto. Ossia se tornare in tv e nei comizi nella campagna elettorale per le Europee, quella in cui il M5S si giocherà parecchio e Luigi Di Maio, il capo politico, quasi tutto. E nonostante mal di pancia e dubbi più o meno diffusi per la sua “latitanza”, nel Movimento sperano ancora che scenda in campo.

Perché per ricucire con tanta base delusa ripartendo dai temi identitari, dall’ambiente al no al Tav fino ai risarcimenti ai truffati dalle banche, Di Battista serve, eccome. “Ma io non mi sono dato una scadenza precisa, non c’è nessuna riserva da sciogliere e nessun termine” ha spiegato l’ex deputato ai suoi interlocutori. Ed è tranquillo, ha assicurato, anche perché “restare in silenzio è bellissimo”.

Però se lui non parla Di Maio lo fa, più volte al giorno. Per esempio in un video su Facebook di lunedì scorso il vicepremier sembrava proprio mordere lui, l’ex trascinatore di folle grilline, quando ha scandito che “questo non è il momento di fare viaggi, è il momento di combattere”, con un riferimento che a tutti è parso alla vicina trasferta di Di Battista in India, a ridosso delle Europee. E anche l’elogio di “quelli che non hanno mai mollato” pareva un’unghiata ad personam. Ma l’ex eletto romano è di un altro avviso.

E a chi gli chiedeva un commento in queste ore, lo ha detto dritto: “Ho sentito Luigi, mi ha detto che non si riferiva a me. E sono certo che sia così”. D’altronde da quanto è rientrato in Italia Di Battista continua a ripetere che lui sta con Di Maio, e che appoggia anche la sua riforma del M5S, quella per dotarlo di una struttura con un coordinamento nazionale e referenti regionali, facendo saltare il dogma dell’obbligo del doppio mandato almeno per i consiglieri comunali. Ma di certo non sarà nelle liste per le Europee. “Non mi candiderò, l’ho detto appena sono tornato in Italia e non cambio idea” ripete Di Battista nelle conversazioni private. Anche se glielo hanno chiesto, “più volte, e più persone”. Insomma non sarà il capolista in tutte le circoscrizioni, come pure sperava più di qualcuno ai piani alti del Movimento.

Resterà un “privato cittadino” nella sua Roma, dove hanno appena arrestato il presidente del Consiglio comunale, il 5Stelle Marcello De Vito. Il primo nella storia del M5S a finire in manette. E ovviamente a Di Battista parlamentari e amici hanno chiesto un parere. E lui è stato duro: “Questa notizia mi ha fatto enormemente arrabbiare, qualora venisse condannato De Vito dovrebbe cambiare città. Chi professa l’onestà deve essere più onesto di chi non la professa”.

Certo, poi ci sarebbe tutto il resto, la questione dello stadio della Roma, su cui però Di Battista ha mostrato di non voler entrare, perché è una vicenda di cui non si è occupato direttamente. Anche se dopo l’arresto di De Vito nella pancia del M5S romano il tema si è riaperto, come una ferita. Così ieri su Repubblica Roberta Lombardi, avversaria irriducibile della sindaca Virginia Raggi e vicina all’ex presidente del Consiglio comunale, ha picchiato sodo: “Raggi non può fare finta di nulla, sullo stadio il consiglio comunale dovrebbe annullare in autotutela la delibera, perché, come ha detto la procura, è possibile ci sia stato un vizio nell’individuazione dell’interesse pubblico”.

E in giornata la deputata Carla Ruocco, altra antagonista storica della sindaca, ha rilanciato l’intervista con un tweet d’assalto: “Stop allo stadio. Il parere del politecnico dipinge scenari catastrofici: arresti per corruzione, interesse pubblico forse viziato, viabilità paralizzata. Una domanda alla giunta: chi ci guadagna da tutto ciò?”.

Sillabe arroventate, che hanno alquanto irritato il M5S nazionale. Quello che aspetta Di Battista, il Godot che resta una carta in più. Da giocare, per non perdere l’intera posta.