Indagine sul babbo

 

16 luglio 2015 È la data del “presunto” incontro tra Tiziano Renzi, Carlo Russo e Alfredo Romeo. Secondo gli investigatori, sarebbe avvenuto a Firenze. “Dalle ore 15 circa del 16 luglio 2015 – scrivono i carabinieri – le utenze dei tre soggetti hanno ponti ripetitori che servono zone attigue, al centro di Firenze (…) (compatibili con un loro eventuale incontro”.

24 luglio 2015 Parte l’offensiva di Carlo Russo ai vertici Consip. Russo chiede a Tiziano informazioni su Marroni. Russo scrive: “L’uomo colorato l’hai visto?” E Tiziano: “Mi deve dire se viene questo fine settimana”.

3 agosto 2016 Nell’estate del 2016 prende vita l’accordo Romeo-Russo, in base al quale Russo assicurava un’influenza sui vertici della Consip in cambio di promesse di denaro. Il tutto per i pm all’insaputa di Tiziano Renzi. Il 3 agosto 2016 Romeo intercettato dice: “Noi dobbiamo fare qualcosa di strutturato”.

20 settembre 2016 Carlo Russo incontra l’ex tesoriere del Pd Francesco Bonifazi. L’obiettivo è consegnare un appunto “riguardante la cessione del quotidiano del Pd l’Unità a Romeo”.

26 settembre 2016 Dopo l’incontro con Bonifazi, Russo scrive a Tiziano Renzi: “Come stai? Sai o puoi sentire se ci sono novità?”. E Renzi: “non so di cosa”. Russo risponde: “Quella nota che ho lasciato a Francesco”. Tiziano: “Io non ho rapporti con lui e non so di cosa parli. Meglio se fai da solo, scusa”. E Russo chiude così lo scambio di messaggi: “(…)Mi sono accorto di aver scritto alla persona sbagliata”. Secondo i pm “è possibile desumere che già a quella data Tiziano Renzi avesse timore di essere sottoposto a controlli”.

18 ottobre 2016 Solo a fine settembre “Russo riferisce a Romeo di aver avanzato la proposta a Renzi”. Durante un incontro del 18 ottobre 2016, “mentre disquisisce con Romeo dell’accordo, Russo racconta di aver avuto conferma da una delle parti in causa 15 giorni prima. Russo si riferisce evidentemente a un incontro da lui effettivamente avuto con Tiziano Renzi il 29 settembre 2016”.

Salvataggio L’Unità, Renzi sr intermediario con Bonifazi

Per i carabinieri potrebbe essere stato Tiziano Renzi a mettere in contatto Carlo Russo con l’ex tesoriere del Pd quando l’amico del babbo del premier andò a parlare a metà settembre 2016 con l’allora tesoriere Pd dell’acquisto de L’unità da parte di Alfredo Romeo. Russo incontrò davvero Bonifazi ma poi Tiziano – sempre secondo l’ipotesi dei Carabinieri – non ne volle più sapere, almeno per telefono. Perché? Per i carabinieri “presumibilmente” già il 26 settembre 2016 probabilmente era stato avvisato da un uccellino che era meglio tagliare i ponti con Russo e i suoi progetti. Questa è una delle novità emerse dalle nuove carte dell’inchiesta Consip, che però “non mutano – come scrive il pm Mario Palazzi – le conclusioni della Procura di Roma”, cioè la richiesta di archiviazione per Tiziano. Ora bisogna vedere se il Gip è d’accordo.

Erano noti i colloqui intercettati nel settembre-ottobre 2016 tra Romeo e Russo. I due discutevano del salvataggio de L’Unità come possibile contropartita dell’intervento in favore di Romeo da parte di Russo sui renziani. La novità è il ruolo di Tiziano.

Il 9 settembre del 2016 (venerdì) Tiziano scrive a Russo su Telegram: “Lunedi anticipa telefonata con messaggio wzapp e poi chiamalo per app (appuntamento, Ndr) stesso giorno”. Quindi Russo, su indicazione Telegram (non intercettabile) di Tiziano, contatta un soggetto che, secondo i carabinieri, potrebbe essere Bonifazi. Il 12 settembre 2016 Russo esegue e dice a Tiziano: “Fissato venerdì alle 17”.

Prima dell’incontro con Bonifazi, fissato probabilmente per il 16 settembre, Russo incontra Romeo il 14 settembre nell’ufficio romano dell’imprenditore. Dopo avere trattato il pagamento di 30 mila euro al mese per Tiziano Renzi (ignaro, secondo i pm, di questo accordo) Russo introduce il discorso de L’Unità. Romeo gli chiede il costo dell’operazione e Russo: “Un paio di milioni”. Il 16 settembre 2016 Russo incontra, stando all’ipotesi dei carabinieri, Bonifazi e gli parla del possibile acquisto del quotidiano da parte di Romeo. Bonifazi nel 2017 aveva spiegato: “Ho incontrato Russo per 10 minuti presso il mio studio. Mi ha riportato un potenziale interesse da parte dell’imprenditore Romeo a entrare come socio de L’Unità. L’incontro fu cordiale, ma spiegai l’impossibilità di dare seguito a tale interessamento perché – per policy della mia tesoreria – vi è una preclusione ad avere rapporti di natura economica con soggetti sottoposti a pendenze giudiziarie”. Nella mattina del 19 settembre Russo incontra Tiziano, secondo i carabinieri. Russo prepara anche una scheda biografica in cui tesse le lodi di Alfredo Romeo e il 20 settembre consegna l’appunto alla segreteria di Bonifazi al Nazareno. Ci disse l’ex tesoriere allora: “Non l’ho neppure letto (…) Non ho mai più avuto contatti di nessun tipo con Russo”.

Il Fatto lo ha richiamato ieri, alla luce delle chat inedite, per chiedergli se davvero Tiziano Renzi lo mise in contatto con Russo. L’ex tesoriere del Pd ha spiegato: “Mi pare di no, ma sinceramente non ricordo”.

Dopo l’incontro con Bonifazi, Russo ne parla con Renzi: “Sai o puoi sentire se ci sono novità”, gli scrive. Tiziano sembra cadere dalle nuvole: “Non so di cosa”. Allora Russo gli scrive: “Quella nota che ho lasciato a Francesco”. Tiziano replica stizzito: “Io non ho rapporti con lui e non so di cosa parli. Meglio se fai da solo scusa”. Passano 25 lunghi minuti. Russo poi scrive: “Scusa tu. Mi stavo mangiando il cervello. Poi mi sono accorto di avere scritto alla persona sbagliata. Scusa ancora”.

Un errore di persona che non convince i carabinieri: “Tali ultime conversazioni – scrivono – inducono a ritenere che Tiziano Renzi, in quel momento, sia intenzionato a prendere le distanze da Russo e dalle manovre da questo avviate, essendo stato presumibilmente avvisato dell’inopportunità di tenere rapporti con Russo”. I Carabinieri annotano che nonostante questo Russo continua a incontrare Romeo nel suo ufficio fino al 27 ottobre. Però va detto che il giorno dopo, 27 settembre, Russo dice a Romeo che il babbo frena: “Tiziano mi dice di chiederle… dice che lui è a disposizione… però dice aspettiamo a dopo il referendum”. Poi aggiunge: “Non vive nel terrore, di più.. e quindi, ma addirittura gli incontri di lavoro…. Tiziano che si fa (…) un posto poi un quarto d’ora prima sposta, cambia posto perché ora lo seguono”.

Chat Tiziano-Russo: “Buono l’incontro con Alfredo Romeo”

Ci sono nuovi elementi che confermano l’incontro tra Tiziano Renzi e Alfredo Romeo, avvenuto il 16 luglio del 2015. È un appuntamento – per i pm romani “presunto” – che sia Carlo Russo, amico del padre dell’ex premier, che Tiziano sembrano commentare positivamente nei messaggi scambiati quello stesso giorno. Sono le novità che emergono in una nuova informativa che riguarda il contenuto del cellulare di Russo. Ossia le chat con Tiziano Renzi che un’azienda tedesca è riuscita a estrapolare dopo che Russo si è rifiutato di fornire il proprio codice di accesso quando il telefono gli era stata sequestrato a marzo del 2017.

Le nuove circostanze emerse però non cambiano le sorti di Tiziano Renzi indagato per traffico di influenze nell’ambito dell’inchiesta Consip. I pm restano convinti della richiesta di archiviazione: Russo (ora accusato di millantato credito), quando prendeva accordi con Romeo al quale assicurava un’influenza sui vertici della Consip in cambio di promesse di denaro, lo faceva all’insaputa di Tiziano.

Renzi-Romeo-Russo in centro a Firenze

Nell’informativa si parla quindi del “presunto” incontro Renzi-Romeo-Russo. “Dalle ore 15 circa del 16 luglio 2015 – scrivono i carabinieri – le utenze dei tre soggetti hanno ponti ripetitori che servono zone attigue, al centro di Firenze (…) compatibili con un loro eventuale incontro”.

Quel giorno Tiziano alle 15.24 scrive a Russo su Telegram: “Ci sono”. E l’amico poco dopo, alle 15.43, risponde: “Ci siamo”. Evidentemente in quel momento Russo si trovava già con Romeo. Qualche ora dopo, alle 18.22, Renzi e Russo tornano a scriversi e sembrano commentare l’incontro.

Renzi: Impressioni?

Russo: A lui positivamente… A te?

Renzi: Buone speriamo che non mi pongano ostacoli.

Russo: Speriamo.

Come emerge da altre informative, sempre il 16 luglio 2015, alle 15 e 27 Romeo telefona alla sua collaboratrice Paola Grittani per avere dettagli sulle gare di Grandi Stazioni. Poi cinque minuti dopo, al figlio che lo chiama, dice: “Sto a Firenze … finisco questo incontro e ti richiamo dai”. Incrociando gli orari delle telefonate viene fuori che quando Romeo chiama la segretaria si trovava con Russo. Ma perchè l’imprenditore campano chiede di Grandi Stazioni? Di questo si parla nell’incontro a tre?

L’iniziativa a luglio 2016: “Hai visto l’uomo colorato”

Pochi giorni dopo l’appuntamento Romeo-Russo-Renzi parte l’offensiva verso Consip di Russo. Il 24 luglio 2015 Russo chiede informazioni a Tiziano sull’“uomo colorato”, per gli investigatori l’ex Ad di Consip, Luigi Marroni. È lo stesso che ai pm racconta “che in due occasioni, settembre 2015 e primavera 2016, Tiziano Renzi lo avrebbe pregato di ricevere Russo per dargli una mano. Si sarebbe trattato di una generica raccomandazione (…). Nel corso degli incontri con lui, Russo gli avrebbe poi chiesto di intervenire in alcuni appalti Consip, a favore di una società di cui l’ex manager non è riuscito a ricordare il nome”. Russo e Renzi quindi parlano dell’“uomo colorato” in due occasioni. Il 24 luglio 2015, quando Russo scrive: “L’uomo colorato l’hai visto?” E Tiziano: “Mi deve dire se viene questo fine settimana”.

I due tornano a parlarne a settembre del 2015, quando Russo incontrerà davvero Marroni. Un appuntamento che dalle chat sembra anticipato da Tiziano. Il padre dell’ex premier, il 13 settembre 2015 infatti scrive a Russo: “Parlato con colorato. Manda sms e poi chiamalo sennò non risponde”. E Russo: “Grazie. Ci avevo già fissato per martedì pomeriggio… ho parlato con la segretaria”. Il riferimento è Rosanna Galileo, segretaria di Marroni, che viene contattata da Russo. La donna, sentita come persona informata sui fatti, ai pm ha raccontato infatti che Russo l’aveva contattata, dicendole di aver avuto il cellulare di Marroni dall’ex sottosegretario Luca Lotti. Ne è la prova una mail con oggetto “11/09: confermata con lui. Lotti ha fornito cell Ad”.

Il 15 settembre 2015 quindi Russo incontra Marroni. E quel pomeriggio informa subito Tiziano: “Incontrato. Verifica e mi dice. Se intanto tu riuscissi a far/far fare uno sforzino sarebbe cosa buona…”.

Il pizzino e gli accordi nella Romeo Gestioni

Secondo i pm, l’incontro tra Tiziano Renzi e Alfredo Romeo, ove anche avvenuto, non è rilevante perchè è troppo lontano temporalmente dalla trattativa tra Russo e Romeo. E inoltre non esiste agli atti collegamenti tra l’incontro e la vicenda della gara Consip che interessava a Romeo.

Per i pm la “trattativa” tra Russo e Romeo (per i magistrati all’insaputa di Tiziano) prende il via solo nell’agosto del 2016. E si cristallizza poi con un pizzino scritto dall’imprenditore campano il 14 settembre 2016 e ritrovato strappato nella spazzatura il giorno dopo dal Noe, in cui è riportato “30 mila euro al mese per T.”, che secondo chi indagava era Tiziano Renzi, e di “5 mila euro al bimestre per C.R.”, Carlo Russo.

Solo a fine settembre 2016 secondo quanto riportato nella nuova informativa, “Russo riferisce a Romeo di aver avanzato la proposta a Renzi”. Durante un incontro del 18 ottobre 2016, “mentre disquisisce con Romeo dell’accordo, Russo racconta di aver avuto conferma da una delle parti in causa 15 giorni prima. Russo si riferisce evidentemente a un incontro da lui effettivamente avuto con Tiziano Renzi il 29 settembre 2016”. Dice Romeo: “Da quanto abbiamo detto, lei quando ha avuto l’ok”. E Russo: “15 giorni fa”. Romeo aggiunge: “ (…) Lei ha avuto l’ok, lei ha fatto il ragionamento quadro? Le è stato accettato?”. E Russo: “Ah!”.

I magistrati: “Non cambia nulla. Archiviare”

Leggendo il contenuto di queste nuove chat, inedite, però i magistrati romani non hanno cambiato idea: “Le nuove acquisizioni non mutano le conclusioni a cui è giunto questo ufficio”, scrivono al gip Gaspare Sturzo che deve decidere sulla richiesta di archiviazione di Tiziano Renzi. E aggiungono: “Non sono stati individuati nuovi elementi da cui inferire la conoscenza e la condivisione, da parte di Tiziano Renzi, delle trattative che Russo stava conducendo con Romeo anche a suo nome”.

Certezza della non-pena

Sarà il virus populista? Sarà il contagio sovranista? Sarà il vento di destra? Sarà l’allergia all’Europa? Saranno le fake news di Putin? Sarà che sta tornando il fascismo? Sarà che abbiamo smesso tutti di leggere i libri giusti? Può darsi. Mentre i più acuti intellettuali e giornalisti si massacrano di pippe mentali per spiegare perché la gente vota sempre all’opposto di come dicono loro, dimenticano che di solito la spiegazione giusta è sempre la più semplice. Chi non si dà pace per l’altissimo consenso di cui gode questo governo, e in particolare Salvini, dovrebbe leggere qualche saggio politologico in meno e qualche articolo di cronaca nera in più. Tipo quello sul tentato stupro dell’altra notte al parco torinese del Valentino. Una coppia di diciottenni si apparta su una panchina vicino al Po e viene aggredita da un uomo di colore che grida, indicando lei: “Adesso la uso un po’ io”. Come se la ragazza fosse un oggetto. E, brandendo una bottiglia rotta, mette in fuga il fidanzato, che corre a chiedere aiuto ai vigilantes della vicina discoteca Life. I quali chiamano la polizia. Intanto la fidanzata si divincola dal tentativo di stupro e scappa verso il fiume, ferita (prognosi di 30 giorni) e inseguita dal bruto. Che poco dopo viene placcato dagli uomini di una volante mentre sta per tuffarsi nel Po.

Le sue prime parole sono di scherno agli agenti: “Quello che fate non serve a un cazzo. Non servite voi, non servono i giudici: tanto io sono sempre fuori”. Il tizio ha 33 anni. Si chiama, o dice di chiamarsi, Gueladje Koulibaly. E proviene, o dice di provenire, dalla Guinea. Le forze dell’ordine lo conoscono bene: è un immigrato irregolare senza permesso di soggiorno né fissa dimora né occupazione, a parte lo spaccio di droga. Ha bivaccato a lungo nelle palazzine degradate del Moi (il villaggio olimpico di quell’enorme spreco che fu Torino 2006). Entra ed esce da una caserma alla questura al carcere, vantando vari precedenti per violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Ma non solo. Il 25 novembre scorso tenta di entrare nella discoteca Life, sempre la stessa, con la scusa di recuperare un inesistente pallone da basket perduto. I buttafuori lo respingono all’ingresso e lui, per vendicarsi, torna lì con una bomba molotov che per miracolo non riesce a lanciare contro il locale. I carabinieri lo inseguono e lo arrestano. Ma in un paio di giorni è di nuovo fuori, e torna a spacciare al Valentino. A metà marzo scoppia una rissa tra i migranti che occupano l’ex villaggio olimpico. I testimoni dicono alla polizia che l’ha provocata Koulibaly, ormai uccel di bosco.

Intanto il questore firma il suo decreto di espulsione, che però è scritto sull’acqua: l’Italia non ha accordi di rimpatrio con la Guinea, quindi il presunto paese d’origine difficilmente se lo riprenderà indietro; e comunque Koulibaly è irreperibile, dunque è impossibile anche solo consegnargli il pezzo di carta. Ora finalmente è in carcere per violenza sessuale e si spera che ci resti per un po’. Ma l’espulsione rimane una chimera. Salvini, letti i giornali (lui ai commenti preferisce la cronaca nera), ha subito twittato sarcastico, in terza persona: “Colpa di Salvini che è troppo cattivo… #tolleranzazero”. E immaginiamo che tanti padri e madri e figli, torinesi ma non solo, abbiano tirato un sospiro di sollievo perché al Viminale c’è un ministro che veglia su di loro. Molti, alle prossime regionali in Piemonte, voteranno Lega, anche se vengono da sinistra o dai 5Stelle. E lo faranno perché vedono in Salvini l’unico che parla di sicurezza, di certezza della pena, di tolleranza zero contro i crimini di strada (contro quelli finanziari e tangentizi molto meno, anche perché è alleato con un pregiudicato e lui stesso si circonda di inquisiti).
Hanno ragione? Naturalmente no. Da quando è ministro dell’Interno, cioè da nove mesi, Salvini non ha fatto assolutamente nulla per aumentare i rimpatri dei clandestini (18 al giorno, tanti quanti ai tempi di Minniti, su un totale presunto di oltre 550 mila): le espulsioni costano un occhio, richiedono più stanziamenti (mai visti), più agenti in strada per rintracciare gli irreperibili (mai visti) e soprattutto più accordi con i Paesi di provenienza (nemmeno uno in aggiunta a quelli vecchi con Marocco, Tunisia, Nigeria ed Egitto). Quanto alla certezza della pena, le uniche migliorie le ha firmate il ministro M5S della Giustizia Alfonso Bonafede, cancellando l’ennesima legge Svuotacarceri ereditata dal centrosinistra e varando la Spazzacorrotti per scoprire e punire più severamente i reati contro la Pubblica amministrazione. Secondo i sondaggi, è la legge più apprezzata del governo giallo-verde (80% di consenso). Ma di queste cose non parla nessuno. La “narrazione” dei media, filo-Salvini e anti-Salvini, è che fa tutto lui. Invece lui non fa nulla per nessuno, ma promette tutto a tutti. E continuerà a mietere voti e consensi finché durerà l’incantamento generale, o finché qualcun altro non riuscirà a contrapporgli una “narrazione” diversa, ma altrettanto efficace e possibilmente seguita da atti concreti, sui temi più caldi per l’opinione pubblica. Pretendere che un clandestino dedito allo spaccio e alla violenza, se non può essere espulso né condannato definitivamente in tempi ragionevoli, resti almeno in galera per un po’, è forse fascismo? Razzismo? Giustizialismo? No, è puro buon senso. Anzi, è un diritto sacrosanto dei cittadini. E anche dei tanti immigrati onesti che pagano per primi un surplus di xenofobia ogni volta che un immigrato commette delitti impunemente e si fa pure beffe dei magistrati e delle forze dell’ordine. Quando i presunti avversari e rivali di Salvini lo capiranno, sarà sempre troppo tardi.

Il ritorno di Mayall: stessa grinta, meno capelli

In questi giorni il padrino del Blues britannico, John Mayall, è in Italia per il suo nuovo tour: la coda di cavallo l’ha tagliata ormai da un pezzo, le canottiere riposte nei cassetti, sostituite da sobrie camicie che più si confanno a una persona di una certa età. Ma la grinta e la voglia di esibirsi di fronte al suo pubblico restano immutate. Eppure, dopo aver suonato con una schiera di musicisti di fama mondiale, aver inciso più di 30 dischi e svezzato gente del calibro di Eric Clapton, ti aspettavi che oltrepassata l’età pensionabile, Mayall si ritirasse a vita privata. E invece nel 2019 ha pubblicato un nuovo disco, il 36°, intitolato Nobody Told Me registrato nello Studio 606 dei Foo Fighters, dopo che il bluesman ha avuto seri problemi di salute che l’hanno costretto a cancellare una serie di spettacoli dal vivo. Ora è tornato in pista, e ieri sera era a Firenze. “Il tempo è volato dall’ultima volta che sono venuto in Europa: oggi sono euforico, questo tour è il regalo che mi concedo per festeggiare il mio 85° compleanno con i fans”.

“Prima mi fidavo delle cartomanti, ora solo dei libri”

Disarmante. Consapevole. Inconsapevole. Gli archetipi, le sovrastrutture, i “giochi di ruolo”, Arisa non li conosce. “E per questo pago un po’ lo scotto, però sto migliorando, con gli anni ho imparato”. È una delle voci più belle del firmamento italiano, una delle interpreti migliori, parola di Mara Maionchi che ha preso lei a esempio per sbugiardare il credo sanremese di Francesco Renga (“gli uomini sono superiori”). È in giro per concerti nei club, dopo l’uscita dell’album Una nuova Rosalba in città.

Insomma, è tra le più brave.

In realtà non ho mai studiato, non ho neanche idea di quello che faccio.

Istinto.

Cerco di dare intensità al canto, ma non ho alcuna percezione di quello che succede.

Sempre.

Accade anche durante le lezioni di canto: magari lì sbaglio, non arrivo dove dovrei, penso di non essere in grado, poi la docente mi mostra dei vecchi video dove ho già toccato quella vocalità.

Delle colleghe, chi la emoziona?

Ho pianto per brani di Emma, Elisa, Loredana Bertè, Giorgia; però in Italia è molto complicato.

Perché?

È un Paese che segue un po’ le mode, è difficile inserirsi.

Ora va la trap.

Mi piace, non sono contro.

A X Factor 17 è stata la prima a lanciare il rap con Lumi.

Mi sono incuriosita dai suoi contenuti, dalla testimonianza sui giovani, ma ha pagato lo scotto di essere un mio allievo, non è stato preso sul serio.

Definitiva.

Penso di penalizzare i ragazzi per la scarsa credibilità data a me dagli altri giudici; quella è una partita dove ci si dimentica del valore della bellezza e del talento, è più una questione personale.

Ora lavora con la Caselli.

Ha una cultura sconfinata, interagire con lei è un’esperienza rara di condivisione.

Quale consiglio le dà?

Di proteggermi.

Da lei o dagli altri?

Da tutti: sono troppo genuina e i rubinetti emotivi non li devi tenere sempre aperti.

Traduzione.

Questo è un lavoro, è giusto mantenere un contegno, non va preso tutto sul piano personale.

Lei e Sanremo.

Quest’anno è stata dura, prima dell’ultima serata mi sono ammalata, avevo la febbre e il contesto è diventato pesante: non volevo cantare, ma tornare a casa; se la situazione non è perfetta preferisco scendere dal palco e ascoltare gli altri.

E invece.

Ho resistito ed è stata una testimonianza di tenacia.

È sempre vegetariana?

Ma no, sono cresciuta in campagna, mio padre ha ancora le pecore, e vorrebbe darle via, ma nessuno le prende perché è un impegno troppo importante. Però ci tengo molto alle questioni ambientali.

È il momento di Greta.

Una volta con un amico, dopo un concerto, siamo rimasti per raccogliere da terra i bicchieri di plastica; poi in quel periodo mi era preso un trip: quando camminavo per strada, scovavo le bottiglie e le infilavo nei cestini.

Interviene praticamente…

Comunque capisco Greta quando viene attaccata: negli anni ho visto negli occhi delle persone che mi guardavano l’espressione tipica del “ma questa è scema”.

Quindi ha smesso?

Non mi va più di mettere a repentaglio il mio lavoro per la concezione della gente. Non mi voglio deprezzare a causa dei miei comportamenti.

Controlla le reazioni.

È facile restare soli; tempo fa, sempre con lo stesso amico di prima… si chiama Valerio Zito e lo saluto.

Salutiamolo.

Con lui mi ero mossa in Basilicata contro il petrolio, tutti a dirci “sì, sì”, poi ai fatti avevano altre priorità miste a scuse, come “ho mio figlio che sta male” o “devo andare a lavorare”. Ora basta, agisco nel mio piccolo.

Tipo?

Uso solo abiti di recupero, vintage, poi niente plastica.

Ha ancora paura di finire come Mia Martini?

No, ci ho fatto pace. E inoltre per vivere di questa professione è fondamentale lavorare su se stessi, è necessario centrarsi, essere sani, non cadere in dipendenze.

Capita di frequente?

La maggior parte degli artisti sono iper-empatici, portati a riempire quell’empatia con altre situazioni.

Definizione di Arisa…

La numero uno. Ma ancora non lo sono.

Chi lo è?

Elisa: è un’artista preparata, sa scrivere, interpretare, e soprattutto suonare.

Lei no?

È un complesso e non riesco a imparare a causa dell’ansia.

Così ansiosa?

Spesso non ricordo nemmeno le parole delle mie canzoni: ho talmente tanta paura di non essere che a volte non sono.

Dove cerca le risposte alla vita?

Una volta dai cartomanti, poi dagli psicologi, oggi dai libri. E i libri rispondono.

Quanto è cambiata in questi anni?

Tanto, e ho pure speso un sacco di soldi.

 

“L’eredità di mio marito resta a Parigi: in Italia troppo odio”

“Antonio era un cittadino del mondo, ma si sentiva a suo agio soprattutto a Parigi. Era il luogo fatto per lui: una fucina di idee. La Francia è un paese che protegge gli artisti, un ruolo ancora più importante oggi che l’arte sembra perdere peso”. Maria José de Lancastre ci risponde al telefono da Lisbona mentre si prepara a partire per Parigi. La compagna di vita e lavoro di Antonio Tabucchi parteciperà domani a una giornata di letture e interventi su “Tabucchi e il Portogallo” alla Fondazione Gulbenkian. È lei ad aver curato la mostra aperta sino al 28 aprile, a 7 anni dalla scomparsa dello scrittore. Se Tabucchi si divideva tra Portogallo e Italia, ha avuto un legame forte anche con Parigi.

Cosa l’ha unito alla città?

C’è un episodio che i “tabucchiani” conoscono a memoria. Prima dell’università, Antonio, un ragazzo di provincia all’epoca, ebbe l’opportunità di trascorrervi un anno. Gli si aprì un mondo. Vi trovò tutto ciò che amava: la letteratura, il cinema, il jazz. Incontrò persone di tutto il mondo. E poi il suo legame col Portogallo passa anche per Parigi. Prima di prendere il treno alla gare de Lyon, per tornare in Italia, si fermò ad acquistare un libro da un bouquiniste. Era la poesia di uno sconosciuto chiamato Pessoa. È da questo episodio che prende il via la mia mostra…

… che racconta il rapporto speciale di suo marito col Portogallo…

Ci sono i momenti chiave di quel legame: il rapporto con i surrealisti portoghesi, le foto scattate da Antonio nel Portogallo del 1967, il manoscritto di Requiem, uno dei suoi libri più importanti, immagini dei viaggi nelle Azzorre o a Macao, e i libri che ne sono derivati, come Notturno Indiano. Una vetrina è dedicata a Pessoa, la cui opera lo ha accompagnato fino agli ultimi mesi della sua vita. Con la Fondation Gulbenkian c’è una lunga storia. Una bella istituzione che, dagli anni 60, aiutò gli artisti che fuggivano la dittatura. Noi, da giovani, abbiamo usufruito di borse per le ricerche su Pessoa. Il legame è rimasto forte.

A Parigi tornavate spesso?

Era una delle nostre mete preferite, soprattutto dopo il 2000. Abbiamo acquistato un piccolo appartamento. Questo permise ad Antonio di stabilire rapporti più intensi con editori, scrittori e intellettuali, non solo francesi.

Cosa piaceva a suo marito della città?

Amava passeggiare al giardino del Luxembourg, vicino a casa, e sul lungosenna, tornare nei musei, andare al cinema. Aveva anche i suoi ristoranti preferiti e adorava lo champagne. Ma con l’età preferiva sempre di più stare a casa alla sua scrivania.

Pensa che Parigi abbia ricambiato l’affetto?

Sicuramente sì. Vi pubblicò alcuni libri in prima edizione, fu invitato a tenere lezioni a l’École des Hautes Études e al Collège de France, fece solide amicizie. Ci sono state manifestazioni molto sentite. Mio marito è morto il 25 marzo 2012. A maggio, la Maison de l’Amérique Latine, luogo che amava molto, organizzò un grande omaggio, con tante personalità e i canti degli zingari del circo Romanès. Nel 2013 decisi di donare i suoi manoscritti alla Bibliothèque nationale de France. Ci fu un grande entusiasmo e l’anno dopo organizzarono una grande mostra e dibattiti con scrittori e giornalisti, considerandolo uno scrittore, ma anche un intellettuale impegnato. Ora, alla Fondazione Gulbenkian vengono presentati due nuovi libri. È curioso come ci sia sempre una grande voglia di ricordarlo.

Perché non ha donato i manoscritti all’Italia?

Innanzitutto vorrei precisare che è stata una scelta mia, molto sofferta. Dalla Francia ho avuto subito tutte le garanzie di cui avevo bisogno. Dall’Italia le risposte sono arrivate con un po’ di ritardo. Ed è vero che temevo anche le lungaggini burocratiche, la disattenzione…

Pensa che la Francia lo ricordi più dell’Italia?

Questo no, non lo direi. In Italia ci sono state tantissime dimostrazioni di affetto, con più di una decina di volumi dedicatigli. Il doppio volume de I Meridiani del 2018 è un’opera eccellente. Feltrinelli ricorda quest’anno i 25 anni di Sostiene Pereira. A Vecchiano c’è stata la ricorrenza annuale. Ma in Italia le cose hanno seguito un percorso particolare. Antonio è stato sempre molto amato, ma si è anche attirato odi enormi per i fendenti che tirava a destra e a manca, in una difesa della democrazia in cui credeva profondamente. Si impegnò senza risparmio in una battaglia molto dura, forzando la sua natura di persona riservata, riflessiva, amante della letteratura e del sogno. Ma non fu invano, come capisco quando, spesso, mi dicono: “Quanto ci manca la sua voce!” .

Cosa penserebbe dell’Italia di oggi?

Sarebbe molto preoccupato e immagino che avrebbe continuato a esprimere con forza le sue idee, esponendosi come ha sempre fatto, facendo sentire la sua voce insieme a quelli, non molti, che in Italia hanno il coraggio di farlo.

Bollette e battute: Kiev va al voto tra Timoskenko e il comico Zelensky

“Gas”. Lungo le strade di Maidan nel 2014 le parole erano libertà e indipendenza. Oggi non ci sono più né le molotov, né le speranze di allora e si parla di termosifoni e bollette. “Quale dei candidati ci farà pagare meno il gas?”. Le schede elettorali giallognole sono pronte e le urne più incerte della storia d’Ucraina verranno aperte domenica prossima. Il presidente Poroshenko, di nuovo in corsa, aveva promesso riforme “ma sono arrivati solo scandali, aveva promesso la pace, invece ha moltiplicato la povertà, nessuno si fida più di lui”, dice Ljudmila, 63 anni, pensionata. “Ho fatto 25 anni l’infermiera, prendo 1700 grivne, 50 euro, non riesco neanche a pagare il riscaldamento”, allunga il volantino con il volto di Julia Timoshenko, che con la nota treccia bionda promette di triplicare gli stipendi. Nell’Ucraina di guerra, che vive tra propaganda e distorsione, aleggia sui politici il comico Vladimir Zelensky, probabile vincitore secondo i sondaggi. L’attore ha rifiutato ogni dibattito politico, fa monologhi e battute sul palco del suo show. Deve la popolarità alla serie tv Servitore del popolo, in cui interpreta un professore di storia idealista diventato capo di Stato per sbaglio. Tra finzione e realtà: ora l’uomo, proprio come il personaggio, potrebbe riuscirci. Alla fermata della metro Kreshatik un poster dice che “il signore del suono” è in città. Toto Cutugno ha cantato qui qualche giorno fa sfidando i deputati che lo hanno dichiarato persona non grata. Marc Innaro, corrispondente della Rai in Russia, non può entrare in Ucraina: la guardia di frontiera gialloblu gli ha negato l’ingresso senza motivo ufficiale, nonostante l’accredito. Tra gli altri 44 candidati registrati c’è il giornalista Dimitro Gnap, 41 anni, che ha passato gli ultimi dieci a scrivere di corruzione. L’uomo di Mosca è Yuri Bojko, dichiaratamente filorusso. Molti si fidano di Anatoly Hrytsenko, ex ministro della Difesa. Oleh Lyashko, radicale, promette di combattere la corruzione, un’abitudine così diffusa nel paese per cui Lyashko stesso è stato condannato.

Razzo di Hamas, l’Idf colpisce Gaza venti di guerra alla vigilia delle elezioni

Si torna a respirare un’atmosfera di emergenza e tensione sulla Striscia di Gaza dopo che un razzo con una traiettoria di 120 chilometri è esploso ieri mattina in territorio israeliano colpendo una casa a una ventina di chilometri da Tel Aviv causando il ferimento di sette persone, tra cui tre bambini. Dopo aver attribuito l’attacco ad Hamas, l’aviazione israeliana ha iniziato a colpire obiettivi in tutta la Striscia, fra cui l’ufficio del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che non era nell’edificio. di Gaza. Colpito il settore Nord, dove è stato centrato un campo di addestramento fino a Sud, nella zona di Khan Yunes, dove è stata bombardata una zona agricola per neutralizzare i tunnel di Hamas. Haniyeh ha ribadito, dopo l’inizio dell’attacco israeliano, che i palestinesi “sono pronti ad affrontare ogni offensiva israeliana a Gaza come a Gerusalemme e in Cisgiordania, o anche nelle prigioni”, alludendo agli incidenti avvenuti ieri nel carcere di Ketziot. In tutto il Paese sono stati aperti i rifugi pubblici: da Tel Aviv a le città di Rishon Lezion, Beer Sheva, Petah Tikva e Kiryat Gat. L’aviazione israeliana ha centrato anche un edificio di due piani nella centrale via Omar el-Mukhtar di Gaza City, dopo che le persone che vi si trovavano sono state avvertite dell’attacco imminente e hanno potuto lasciare il palazzo. L’escalation ha fatto rientrare prima del previsto a Tel Aviv il premier israeliano Benjamin Netanyahu, a Washington per firmare con Donald Trump il riconoscimento delle Alture di Golan. “Israele reagirà con forza all’attacco”, aveva promesso il premier che a poche settimane dalle elezioni politiche del 9 aprile si era sentito accusare dal principale avversario, l’ex generale Benny Gantz, leader del nuovo partito di centro ‘Blu e Bianco’ di non riuscire a garantire la sicurezza. Questo nonostante il dispiegamento da parte dell’esercito israeliano di due brigate a ridosso del confine, il richiamo dei riservisti e la chiusura dei valichi di frontiera con la Striscia, Kerem Shalom e quello pedonale di Eretz.

Russiagate senza la pistola fumante, Trump gongola

Il presidente Trump e il suo staff paiono l’emoticon della gioia: sorridono fino alle orecchie. Invece, i leader democratici sono il ritratto della frustrazione: fallito il piano A – il possibile impeachment – su cui molto puntavano, per andare alle elezioni nel 2020 col presidente sotto schiaffo, annunciano un piano B, senza molto crederci.

La stampa liberal cerca buone notizie dove, per lei, chiaramente non ce ne sono: “Bene che sia finita l’illusione della collusione” tra Trump e il Cremlino a Usa 2016, scrive il Washington Post, perché adesso ci si metterà di buzzo buono per battere il magnate e showman a Usa 2020, senza illudersi di poterlo fare fuori, strada facendo.

Al Cremlino, se la ridono dell’inefficienza americana: “Ci hanno messo due anni per smentire una chiara notizia fasulla, una fake news”. Il rapporto finale del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate, l’inchiesta sull’intreccio di contatti nel 2016 tra la campagna di Trump ed emissari del Cremlino, né assolve né condanna Trump: non certifica l’innocenza dell’allora candidato e ora presidente, ma non lo inchioda neppure alle proprie responsabilità. E Mueller non chiede rinvii a giudizio ulteriori, dopo quelli già ottenuti, petali del giglio magico del magnate presidente. E c’è chi, dopo averlo mitizzato, si ricorda che quel magistrato, onesto e integerrimo, era e resta un repubblicano storico, non è uno spericolato ‘liberal’. Il Piano B consiste nel non fare sconti al magnate e showman e nel portare avanti le altre indagini già avviate, spesso costole del Russiagate. Rischia, però, di crogiolarsi l’opposizione nell’illusione di eliminare il presidente in un’aula di tribunale, piuttosto che alle urne. Senza badare al fatto che l’opinione pubblica non s’è mai entusiasmata per il Russiagate e che una sfida giudiziaria può oscurare l’agenda democratica per Usa 2020 su temi come la riforma sanitaria, il cavallo di battaglia che a novembre consentì ai democratici di riprendere il controllo della Camera nel voto di midterm.

Chi non accantona l’ipotesi di impeachment, oggettivamente sempre molto lontana e più lontana oggi, fa notare che, del rapporto di Mueller, si sa per ora forse l’essenziale, ma non tutto. E, nell’attesa che il Congresso ottenga il documento integrale, o che i media americani trovino nell’Amministrazione Trump una gola profonda del XXI Secolo – non dovrebbe essere impossibile – bisogna contentarsi delle quattro paginette pubblicate dal segretario alla Giustizia William Barr, che non solo è un repubblicano, ma è pure un amico di Trump. Barr certifica che l’inchiesta non ha trovato prove che la campagna di Trump abbia cospirato e trescato con i russi per condizionare il voto. Però, “se il rapporto non conclude che il presidente abbia commesso reati, neppure esclude” che abbia tentato d’intralciare la giustizia, ad esempio licenziando il direttore dell’Fbi James Comey. Ciò detto, Barr e pure il suo vice, Rod Rosenstein, un altro repubblicano non amico di Trump, concordano: manca la pistola fumante e non c’è materia per incriminare il presidente. Trump gongola e ricicla il mantra della ‘caccia alle streghe’ con cui ha costantemente bollato l’inchiesta durata 22 mesi e costata 45 milioni di dollari ai contribuenti americani, ma rende pure omaggio a Mueller e fa il magnanimo (dà l’ok alla pubblicazione del rapporto). I democratici s’arroccano, chiedendo la pubblicazione di tutto il rapporto. E il New York Times ammette, pur controvoglia, che la chiusura dell’indagine rasserena l’orizzonte della presidenza Trump e rafforza il presidente per le battaglie a venire, prima e principale quella per la sua rielezione l’anno prossimo.