Sto con Orsetti: l’occidente è senza valori

A proposito di Lorenzo Orsetti morto in battaglia combattendo con i curdi contro l’Isis, Vittorio Feltri scrive (Libero, 20 marzo): “Ci domandiamo perché abbia abbandonato la sua specialità di sommelier, non particolarmente stressante, per andare a fare il ganassa in una guerra alla quale nessuno lo aveva obbligato di partecipare. Non riusciamo a capire come mai un tranquillo cittadino italiano, lavoratore impegnato, a un certo punto della sua vita, autentico tran tran, decida di calcare il deserto allo scopo di diventare tiratore e abbattere il maggior numero di canaglie dello Stato islamico. Mistero insondabile”.

Io invece Orsetti lo capisco benissimo e non solo perché è andato a battersi per una causa giusta, quella curda, ma perché comprendo anche i foreign fighters che, all’opposto, sono andati a combattere per l’Isis. Quello che cercano di colmare questi giovani è il vuoto di senso che si è creato nel mondo occidentale o che di questo mondo ha fatto proprio il modello. Questo fenomeno si lega a quell’altro, anche se molto meno pericoloso, dei ragazzi che si danno agli sport estremi (bungee jumping, volcano boarding, crocodile bungee, limbo skating, wing-walking, scalare a mani nude un grattacielo). Poiché questa vita è un tran tran noiosissimo, come ammette lo stesso Feltri a proposito di Orsetti, tanto vale correre il rischio di perderla.

Come aveva preannunciato Nietzsche nella seconda metà dell’Ottocento, con un certo anticipo perché era un genio, Dio è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. È stato sostituito dalle ideologie nate dall’Illuminismo che proprio di Dio era stato l’assassino.

Ma dopo due secoli anche le ideologie sono morte. Cosa ci resta? La Democrazia. Ma la Democrazia è un sistema di regole e di procedure, non un valore in sé, è una scatola vuota che va riempita di contenuti. Purtroppo noi in Occidente questa scatola l’abbiamo riempita solo con contenuti materialisti e quantitativi, cioè, per dirla con Fukuyama, “la diffusione di una cultura generale del consumo” coniugata col “capitalismo su base tecnologica”.

Insomma si è voluto mutare l’uomo, quasi in senso genetico, in consumatore, suddito dell’Economia e della Tecnologia. E a me non pare affatto strano, lo ritengo anzi positivo, che i giovani, o perlomeno alcuni di essi, rifiutino questa degradazione che tanto sembra piacere a Vittorio Feltri ed è ritenuta necessaria dai padroni del vapore. Per usare una famosa frase di Oscar Luigi Scalfaro “io non ci sto” o, per meglio dire, non ci starei se avessi vent’anni e, naturalmente, il coraggio necessario.

L’eterna bufala della Flat Tax

Esce giovedì il libro “Flat Tax. Parti uguali tra disuguali?” degli economisti Massimo Baldini e Leonzio Rizzo. Ne anticipiamo un brano.

Da un paio d’anni si discute molto di flat tax. Nel maggio 2018 Movimento 5 Stelle e Lega hanno sottoscritto un contratto di governo che prevede per l’Irpef il passaggio ad una “quasi” flat tax con due aliquote, molto vicine tra loro: 15% e 20%. In realtà la flat tax ha fatto il suo esordio più di vent’anni fa. Nel 1994 Silvio Berlusconi, appena sceso in campo, promise un’aliquota unica al 33%. Qualche anno dopo, nel primo “contratto” con gli italiani firmato nel 2001 durante una trasmissione televisiva, il leader di Forza Italia passò a proporre due aliquote, 23% fino a 100 milioni di lire e 33% oltre. Nello stesso anno anche la sinistra fece la sua proposta in questa direzione: due aliquote, attorno al 30-33% la prima e al 37-40% la seconda, associate a un trasferimento universale per ottenere maggiori effetti distributivi.

Le elezioni del 2001 furono vinte da Berlusconi, però negli anni successivi non si arrivò alla flat tax, e neanche alle due aliquote. È curioso notare che, malgrado nessuna flat tax abbia fin qui visto la luce, e nonostante oggi la spesa pubblica da finanziare sia molto più alta rispetto al 1994, le varie proposte che si sono susseguite hanno visto via via ridursi l’aliquota promessa, tanto che il 33% del Berlusconi di un quarto di secolo fa ci pare quasi di sinistra. I conti pubblici peggiorano, il debito aumenta eppure le promesse elettorali diventano sempre più temerarie.

L’Istituto Bruno Leoni ha formulato, sotto la guida di Nicola Rossi, un ambizioso progetto di flat tax che non si limita a rivedere radicalmente l’Irpef, ma interviene anche su altri tributi come l’Iva e le cedolari sui redditi di capitale, sulle principali forme di entrata di Regioni ed enti locali, nonché su alcuni pilastri del welfare. La base imponibile dell’Irpef diventerebbe familiare e sarebbe tassata al 25%. La stessa aliquota si applicherebbe all’Iva (conservando le attuali aliquote ridotte), alle imposte sostitutive e sulle società. L’obiettivo dichiarato è la ridefinizione del rapporto tra Stato e cittadini, nel segno di una minore intrusione nei bilanci delle famiglie e nel funzionamento dei mercati.

Lo schema iniziale della flat tax proposta dalla Lega nel 2018, con aliquota unica al 15% applicata al reddito totale della famiglia e con progressività garantita da una deduzione calibrata sul numero dei membri del nucleo, viene poi sostituito nel contratto di governo da un’imposta a due aliquote, 15% e 20%, senza specificare il confine tra i due scaglioni, che da dichiarazioni di vari esponenti politici pare essere a 80mila euro.

Entrambe le proposte di flat tax (o quasi flat) vedrebbero il gettito ridursi in modo consistente: di 51 miliardi per lo schema del contratto di governo, di 37 miliardi nel caso della proposta dell’Istituto Bruno Leoni. I guadagni per un lavoratore senza carichi familiari sarebbero in entrambi i casi significativi a partire da 30mila euro, e poi crescenti all’aumentare del reddito. Sull’intera collettività, le due versioni della flat tax realizzano sostanzialmente lo stesso tipo di redistribuzione per gran parte delle famiglie. Sui redditi più alti l’incidenza è maggiore per la versione del contratto di governo grazie alla minore aliquota. In entrambi i casi una parte significativa dello sgravio fiscale va al 10% più ricco. Le classi medie otterrebbero circa il 25-20% del minor gettito, mentre al 40% più povero andrebbe solo il 4-7% del totale. Circa due terzi del risparmio d’imposta vanno al 20% più benestante delle famiglie. La riduzione dell’Irpef vale circa il 2-3% del reddito per la classe media, il 6-10% per i redditi più alti.

Gli effetti distributivi delle proposte di flat tax sono piuttosto chiari, e rappresentano il principale ostacolo all’adozione di un’imposta di questo tipo nei paesi dell’Europa occidentale che vogliano mantenere un welfare state di qualità. Certo l’Italia rappresenta un caso a sé sia perché il motore della crescita economica si è inceppato da tempo, sia perché l’Irpef è ancora un’imposta particolarmente pesante sui bilanci delle famiglie, più che in altri paesi europei. Una riduzione delle sue aliquote potrebbe rilanciare la crescita, ridurrebbe il cuneo fiscale e renderebbe l’Irpef meno penalizzante per dipendenti e pensionati. Questi obiettivi però possono essere realizzati anche con un approccio graduale e senza lo shock della flat tax, che rischia di mettere in crisi il bilancio dello Stato e la spesa sociale.

“Che schifo arbitri donne”: giornalista sospeso dall’Ordine

“Una cosa inguardabile, uno schifo vedere le donne venire a fare gli arbitri in un campionato dove le società spendono soldi”: con queste parole, il cronista di Agropoli Sergio Vessicchio commentava la presenza di Annalisa Moccia in qualità di assistente arbitro in una partita di calcio, descrivendola come “qualcosa di impresentabile per un campo”. Questi commenti gli sono valsi una sospensione dal Consiglio di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, e adesso si aggiunge un nuovo procedimento per recidiva, come comunicato dal presidente dell’Odg Campania Ottavio Lucarelli. Il presidente dell’Aia Marcello Nicchi si è detto “sconcertato dalle inqualificabili espressioni utilizzate”, esprimendo solidarietà alla Moccia. Dura anche la condanna di Titti Improta, presidente della Commissione Pari opportunità dell’Ordine dei giornalisti della Campania: “Le parole del cronista Sergio Vessicchio, nel commentare la presenza di un arbitro donna su un campo di calcio, sono offensive e del tutto irrispettose della dignità di una persona. Un giornalista ha il dovere di utilizzare le parole in maniera corretta”.

Petizione contro il prefetto che ha “cacciato” l’ex deputata

“Il prefetto di Gorizia sia destituito”. Lo chiedono gli attivisti e parlamentari di LeU, dopo che Serena Pellegrino, già vicepresidente della commissione Ambiente della Camera, è stata costretta a rinunciare a un evento del Movimento delle Agende Rosse a Monfalcone. La settimana scorsa, i promotori della manifestazione in cui la Pellegrino avrebbe dovuto discutere di ecoreati, sono stati informati dal prefetto Massimo Marchesiello che l’ex deputata non era gradita per le sue “valutazioni politiche nei confronti delle strutture governative anche di Gradisca”. Il riferimento è all’impegno della Pellegrino contro le violazioni nel centro di identificazione e espulsione di Gradisca (Gorizia). Per giustificare il proprio “niet”, il prefetto aveva poi aggiunto di voler mantenere l’incontro su toni “istituzionali”, non adatti a una ex deputata. E pazienza se invece, una volta che le Agende Rosse si sono defilate per protesta, lo stesso Marchesiello ha avallato la partecipazione di due candidate alle prossime amministrative di Modena. “Tali azioni non possono far parte delle prerogative prefettizie – scrivono su change.org i firmatari dell’appello, tra cui Rossella Muroni e Loredana De Petris – Il Quirinale intervenga affinché simili episodi non si ripetano”.

Insofferente alle regole: Corona torna in cella

Prima dentro, poi fuori e ora di nuovo in carcere. Fabrizio Corona è una storia senza fine. Ieri l’ex re dei paparazzi è stato riaccompagnato a San Vittore, dopo oltre un anno passato in affidamento terapeutico per curarsi dalla dipendenza dalla cocaina. Un altro periodo, però, l’ennesimo, molto travagliato dal punto di vista giudiziario e non solo. La polizia ieri ha fatto scattare l’ordine di carcerazione dopo la decisione del magistrato di Sorveglianza Simone Luerti, che ha sospeso per lui la misura alternativa per una lunga serie di violazioni, accertate dai carabinieri. Il punto centrale, come emerge dal provvedimento, è la sua “insofferenza” alle regole e la “incomprensione” da parte sua della misura dell’affidamento, manifestate dall’ex “re dei paparazzi” sia in un video su Instagram che in un’intervista, di fine febbraio scorso, a Non è l’arena di Massimo Giletti.

Nel filmato e in trasmissione l’ex fotografo dei vip, che da prescrizioni non avrebbe potuto neanche parlare dell’affidamento, ha detto, invece, che lui era stanco di tutti quegli obblighi. Ha dichiarato, secondo il giudice, in modo esplicito che le violazioni commesse in questi mesi erano volute. Dichiarazioni del tutto in contrasto con il percorso di recupero che deve intraprendere un condannato che sta scontando una pena in affidamento. Nel provvedimento c’è anche una lista di violazioni di prescrizioni “territoriali”, commesse prima di aver ricevuto una “diffida” con cui gli è stato imposto di non lasciare più la Lombardia. In precedenza Corona, come riporta il giudice, malgrado avesse l’autorizzazione per andare soltanto in un posto, andava anche da altre parti e non passava nemmeno per i commissariati, dove avrebbe dovuto indicare la sua presenza. Per due volte è risultato assente di notte dalla sua abitazione, non rispettando, dunque, gli orari imposti. Nella decisione non manca nemmeno un riferimento a quel comportamento “non congruo” nei confronti di Riccardo Fogli, ossia l’aver parlato di un presunto tradimento della moglie dell’ex componente dei Pooh durante la trasmissione L’isola dei famosi.

La Procura generale ha chiesto per due volte la revoca dell’affidamento. Ora, entro 30 giorni, la Sorveglianza dovrà decidere se Fabrizio Corona resterà in carcere, dove era già rientrato nell’ottobre 2016 per la vicenda dei soldi in contanti nel controsoffitto, che si è poi conclusa con una netta assoluzione nel merito.

Un filo nero: “C’è Bellini nel video della strage”

Un filo nero, nerissimo, lega la strage di Bologna alle stragi di mafia del 1992-93. È il filo stretto e annodato da Paolo Bellini, fascista con uso di mondo e contatti con apparati dello Stato. Un vecchio filmato amatoriale racchiuso in una dimenticata cassetta “Super 8” mostra un uomo che si aggira nei pressi del primo binario della stazione di Bologna. È il 2 agosto 1980. Da pochi minuti è esplosa la bomba che uccide 85 persone e ne ferisce 200. Quell’uomo, secondo la Procura generale di Bologna che sta compiendo l’ultima indagine sulla strage, ha una “spiccata somiglianza” con Paolo Bellini, militante di Avanguardia nazionale.

A girare il “Super 8” è un turista tedesco che si trovava quella mattina in stazione. Filma l’arrivo di un treno sul primo binario: sono le 10.13. Dopo 12 minuti, lo scoppio. La più cruenta delle stragi italiane. Il turista riprende a filmare: il marciapiede del primo binario, la sala d’aspetto, le macerie. Compare un uomo che potrebbe essere Bellini.

Gli avvocati dei familiari delle vittime hanno recuperato quel “Super 8” nell’Archivio di Stato e lo hanno depositato alla Procura generale. Gli ingrandimenti di alcuni fotogrammi mostrano un uomo con i capelli ricci, grossi baffi, sopracciglia folte. Davvero simile a Bellini nelle foto di quegli anni. Sulla base di questo videodocumento, la Procura generale ha chiesto la revoca del suo proscioglimento in istruttoria del 1992, per poter riaprire le indagini su di lui e tentare un riconoscimento antropometrico.

Oggi ha 66 anni, Bellini, fin da ragazzo militante fascista di Avanguardia nazionale. Fu indagato per la strage di Bologna, dopo che due testimoni lo avevano indicato presente in stazione la mattina del 2 agosto. Lui negò, fornì un alibi (un po’ traballante), fu infine prosciolto per mancanza di riscontri. Nel 1996, un’intercettazione ambientale torna a chiamarlo in causa. A parlare, intercettato, è Carlo Maria Maggi, capo di Ordine nuovo nel Triveneto, condannato per la strage di Brescia e morto a dicembre 2013. Dice a un familiare che la strage di Bologna è stata fatta dalla banda di Giusva Fioravanti e che l’esplosivo è stato portato dall’“aviere”.

È Bellini, dicono gli investigatori, che aveva il brevetto di pilota ed era noto negli ambienti fascisti proprio per la sua passione per il volo. È Bellini anche il personaggio che entra nelle indagini sulle stragi di Cosa nostra del 1993 e sulla trattativa in corso allora tra Stato e mafia.

Diventato confidente dei carabinieri, Bellini sostiene di essere stato mandato dal maresciallo Roberto Tempesta, in servizio al Nucleo tutela patrimonio artistico, a recuperare opere d’arte rubate da Cosa nostra. Con l’ok del generale Mario Mori, allora vicecomandante del Ros Carabinieri. Bellini s’infiltra in Cosa nostra e torna da Tempesta raccontandogli che i corleonesi di Totò Riina minacciavano di compiere attentati ai monumenti artistici italiani: “Che cosa succederebbe se Cosa nostra mettesse una bomba alla Torre di Pisa?”. Qualche investigatore ipotizza che sia stato lui a dare (o portare?) ai mafiosi l’idea di attentare al patrimonio artistico. Nel 1993, le stragi “in continente” colpiscono in effetti l’Accademia dei Georgofili a Firenze, il Padiglione d’arte contemporanea a Milano e due basiliche a Roma.

Durante il processo sulla Trattativa Stato-mafia, Bellini ha ripulito la sua versione. “Non ho mai pensato di organizzare un attentato alla Torre di Pisa. Fu Antonino Gioè che, pensando che non si poteva fare una trattativa reale con chi mi mandava da lui a recuperare le opere d’arte, non ritenendoli seri, buttò lì la storia della Torre di Pisa”.

Gioè era uno dei corleonesi che hanno partecipato all’attentato a Giovanni Falcone ed è poi morto in carcere, in un suicidio parecchio anomalo. “Fu Gioè un giorno a dirmi: ‘Che cosa accadrebbe se sparisse la Torre di Pisa?’. Ma quando dissi al maresciallo Tempesta quella frase, che cosa fecero? Nulla di nulla”, ha raccontato nel 2014 Bellini in aula.

Il filo nero delle stragi del 1993, a ritroso, arriva fino alla strage del 1980. Anche perché Bellini era in rapporti con un altro fascista, Sergio Picciafuoco, che era certamente presente il 2 agosto alla stazione di Bologna, fu condannato in primo grado per strage e poi assolto.

Per sapere come è morta Fadil si dovrà attendere un mese

Slitta l’autopsia sul corpo di Imane Fadil, la modella marocchina 34enne tra i testimoni chiave delle inchieste del Rubygate morta in circostanze misteriose il 1 marzo scorso dopo essere stata ricoverata per settimane all’Humanitas di Milano. La Procura di Milano, che ha aperto un fascicolo per omicidio volontario, per il momento non esclude nessuna pista. I pm sono ancora in attesa degli ultimi test effettuati dai laboratori dell’Enea di Roma per assicurare l’assenza di radioattività nel corpo della modella. Per questa ragione l’autopsia, inizialmente prevista per la giornata di ieri, è slittata almeno di un giorno.

Per i risultati definitivi bisognerà aspettare almeno un mese in quanto il quesito ha molte specifiche da prendere in considerazione: dall’avvelenamento per intossicazione da metalli o altro alla morte naturale per malattia rara fino alla malattia genetica. In tal senso verranno svolti “esami tossicologici, genetici e ogni tipo di analisi per non lasciare nulla di intentato” e dare così una risposta scientifica alla morte della giovane.

Saga di “Mr. medicine” tra mazzette, lingotti e il pouf pieno di Bot

Ci sono oggetti che diventano icone di una storia, o della Storia. Una delle icone di Mani pulite è il pouf di Duilio Poggiolini. Un morbido sedile, elegante e un poco kitsch, che faceva bella mostra di sé nel salotto della sua bella villa romana all’Eur, tra i divani e le poltrone. Non doveva essere proprio morbidissimo, perché quando la polizia giudiziaria andò a perquisirgli l’abitazione, ebbe l’idea di tagliare il tessuto del rivestimento e trovò che era imbottito di titoli di Stato: Bot e Cct per 11 miliardi e 200 milioni di lire.

Era il 1993 e il professor Poggiolini era il potentissimo e rispettato direttore centrale del ministero della Sanità. Era, soprattutto, il presidente del comitato scientifico che decideva l’inserimento dei farmaci nel prontuario nazionale. Poteva scegliere quali medicine potevano essere prescritte ai pazienti dai medici italiani e quali no, quali potevano essere rimborsate dal servizio sanitario nazionale e quali no. Lo decideva con accuratezza e le case farmaceutiche gli erano evidentemente grate, poiché nel ventennio della sua scientifica, competente ed esperta presenza al vertice del sistema di controllo del mercato delle medicine in Italia, tra il 1983 e il 1993, si stima che le mazzette pagate nel settore farmaceutico siano state di circa 7.500 miliardi di lire. Una bella fetta passarono per le sue mani e per quelle di sua moglie, Pierr Di Maria. Quando Mani pulite arrivò a scoprire la Tangentopoli farmaceutica, Poggiolini scappò. Ma dopo tre mesi di latitanza, il 20 settembre 1993 fu individuato e arrestato a Losanna, in Svizzera. I magistrati gli bloccarono 18 conti correnti a lui riferibili, per un centinaio di miliardi di lire. Nel caveau di una banca napoletana gli sequestrarono quattro casse che ricordavano i tesori dei pirati disegnati sui libri dei bambini: erano ricolme di monete d’oro, sterline, krugerrand sudafricani, Ecu, perfino monete antiche provenienti dagli scavi di Ercolano e dal medagliere del Museo archeologico di Napoli. Una quinta cassa conteneva pietre preziose, zaffiri, rubini, brillanti, una collezione di oggetti d’oro e una serie di rubli d’oro dello zar Nicola II. A parte, spuntarono dei lingotti d’oro da mezzo chilo l’uno, un centinaio. Gli trovarono anche 60 tele di gran pregio, dipinti che potrebbero formare un ben fornito museo della pittura dal Seicento a Picasso a De Chirico, del valore (a svenderle senza metterle all’asta) di almeno 5 miliardi di lire.

“Non immaginavo di essere così ricco”, commentò, dopo che la polizia giudiziaria gli aveva svuotato la casa, mentre i vicini credevano che “il professore” stesse facendo un trasloco. La moglie, Pierr Di Maria, era la sua più valida collaboratrice. Arrestata, trascorse 8 mesi nel braccio femminile del carcere di Poggioreale. Sarà poi condannata a 4 anni e le saranno confiscati 10 miliardi di lire, che si aggiunsero ai 29 miliardi confiscati al marito.

Vecchia scuola, quella del professor Poggiolini. Iscrizione alla loggia massonica segreta P2 di Licio Gelli, rapida carriera che lo porta ai vertici dell’alta burocrazia statale, a fianco di Francesco De Lorenzo, per tanti anni ministro della Sanità. Oggi, a 90 anni, Poggiolini è stato assolto per l’altra storia che gli ha segnato la vita, quella del sangue infetto venduto senza troppi controlli dalle case farmaceutiche (tra le più attive quella della famiglia Marcucci, la stessa del deputato Andrea Marcucci, turborenziano del Pd).

Morirono in tanti, tantissimi si ammalarono di Aids ed epatite, ma le responsabilità penali non sono state individuate. Il “re Mida della sanità” che non sapeva neppure quanto era ricco oggi è un vecchio con seri problemi di salute. “Percepisce una modesta e decurtata pensione”, spiega Luigi Ferrante, il suo avvocato storico. “Lo difendo gratuitamente. Non saprei neppure dove inviare le parcelle”.

Lasciata la sua bella villa romana, l’ultimo domicilio noto alle cronache è una casa di riposo abusiva alla Storta, periferia nord di Roma. Qualcuno la segnalò al commissariato di Primavalle per le condizioni precarie in cui versavano i degenti. Gli agenti nell’ottobre 2015 fecero irruzione e trovarono, tra gli altri ospiti, anche Poggiolini, avvolto in un liso cappotto di cammello.

“Sangue infetto”: i morti ci sono, i colpevoli no

Nell’aula 214 del Tribunale di Napoli sono appena scoccate le 15 e l’avvocato Luigi Ferrante accenna un sorriso dopo la sentenza di assoluzione per il processo ‘Sangue Infetto’: “Se telefonerò al mio cliente, Duilio Poggiolini, per comunicargli la buona notizia? Non credo, sono anni che non lo sento. Vive in una casa di riposo, non sta bene, presentai anche un’istanza, respinta, per non farlo processare perché non era in condizione di poter affrontare il dibattimento”.

L’ex Dg del servizio farmaceutico nazionale Poggiolini alla soglia dei 90 anni è ormai un ex re Mida della sanità, per lui dopo le condanne di Tangentopoli e le confische, si è aperto l’esilio dell’oblio. Per il suo avvocato, quello concluso ieri a Napoli con l’assoluzione dalle accuse di concorso in omicidio colposo “perché il fatto non sussiste” era un processo che Poggiolini non doveva neppure subìre. “Nonostante la normativa in questione fosse chiarissima, e riferisse la responsabilità dei controlli sugli emoderivati ad organi e istituzioni diverse dalla direzione generale del servizio farmaceutico – afferma Ferrante – sono stati necessari ben 23 anni per liberare il mio assistito da una contestazione così pesante”.

Poggiolini e gli altri sette imputati, tra cui ex tecnici e funzionari del gruppo farmaceutico Marcucci, difesi dagli avvocati Alfonso Maria Stile, Massimo Di Noia e Carla Manduchi, erano finiti alla sbarra dopo una lunga e complicata inchiesta iniziata nel 1996 e rimpallata tra più procure sulle migliaia di emofiliaci morti in seguito alle infusioni di sangue infetto da Hiv ed epatite, sacche di emoderivati ricavati dal plasma di donatori mercenari esteri, diffuse negli anni ’70 e ’80 dall’azienda fondata dal capostipite, Guelfo Marcucci, scomparso poco dopo il rinvio a giudizio. Altrimenti sarebbe stato assolto anche lui.

Il giudice monocratico Antonio Palumbo ha assolto tutti con formula ampia e tra novanta giorni ne apprenderemo le motivazioni. A credere nella colpevolezza degli imputati erano rimasti i familiari di nove deceduti, parti civili assistite dagli avvocati Stefano Bertone ed Ermanno Zancla. Non ci credeva la procura di Napoli: finite in soffitta le accuse di epidemia colposa (archiviate dal Gip) anche il pm Lucio Giugliano aveva chiesto l’assoluzione per l’omicidio colposo, ritenendo impossibile da provare il nesso di causalità tra le trasfusioni e la morte degli emofiliaci, sopraggiunta in qualche caso moltissimi anni dopo. E quasi certamente non ci credeva più neanche il ministero della Salute, che si era costituito parte civile chiedendo 55 milioni di euro di risarcimento danni e aveva depositato la consulenza di un medico. Nel corso del processo l’avvocatura dello Stato si è defilata, fino a rinunciare alle conclusioni. Che per il codice di procedura penale fa scattare la rinuncia al diritto a chiedere il risarcimento.

Stacchio e gli altri della legittima difesa ospiti del Senato

Domani al Senato dovrebbe essere il giorno dell’approvazione definitiva della legge sulla legittima difesa. È una delle bandiere di Matteo Salvini, che intende festeggiare l’evento in grande stile. Così ad assistere alla cerimonia nell’aula del Senato, il vicepremier ha invitato molti dei protagonisti dei fatti di cronaca che hanno alimentato il dibattito sull’uso delle armi: Graziano Stacchio, il benzinaio che sparò e uccise un rapinatore, Francesco Sicignano, che nella sua casa di Vaprio sparò e uccise un ladro, il tabaccaio Franco Birolo, anche indagato (e poi assolto) per eccesso colposo di legittima difesa per aver ucciso un ladro, e l’oste Mario Cattaneo. La loro presenza nell’aula di Palazzo Madama è stata annunciata da Elisabetta Aldrovandi, presidente dell’Osservatorio nazionale sostegno vittime. “Noi il 27 marzo prossimo, giorno previsto per l’approvazione della legge, saremo a Roma in Senato con Cattaneo – ha detto domenica Aldrovandi – e con noi ci saranno anche Graziano Stacchi, Francesco Sicignano e Franco Birolo”. Per Salvini e i suoi si annuncia un nuovo palcoscenico mediatico.