“Che gioia il film della Rai su Tina, eroina borghese”

“Il più importante insegnamento che Tina Anselmi mi ha lasciato è la forza, la coerenza, lo stare esattamente dove si vuole essere. La decisione della Rai di dedicarle un film per la tv mi riempie di gioia”. Anna Vinci, giornalista e scrittrice, è stata una delle persone più vicine a Tina Anselmi negli ultimi anni della sua vita. A lei ha dedicato due libri: la biografia Tina Anselmi. Storia di una passione politica e La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi. Libri da cui è stato tratto il soggetto per la sceneggiatura (firmata da Monica Zappelli) per un film tv prodotto da Bibi film di Angelo Barbagallo per Rai Fiction, che andrà in onda nella prossima stagione televisiva.

Ieri Tina Anselmi avrebbe compiuto 92 anni (è scomparsa nel 2016). È stata partigiana, democristiana, prima donna ministro e presidente della commissione sulla P2.

Tutta la sua vita è importante. Anche quando, da ministro della Sanità, diede il via libera, da cattolica, alla legge sull’interruzione di gravidanza, dopo il referendum. Ma l’esperienza più importante, quella che le ha cambiato la vita, resta l’inchiesta sulla P2.

Su questo lei ha scritto un libro, basato sui suoi diari. Come ne parlava, Tina Anselmi, di quella vicenda?

Diceva: “Non mi hanno ammazzata perché credevano che, come donna, non sarei andata fino in fondo”. E invece ci è riuscita. Mentre nella sua esperienza partigiana il nemico era chiaro, visibile, con la P2 – diceva – il nemico era più pericoloso perché subdolo, nascosto tra le pieghe dello Stato. Quando nel 1985 venne eletto al Quirinale Francesco Cossiga, disse: “Sarà la pietra tombale sulla ricerca della verità”.

Gelli tentò di incontrarla.

Sì, le chiese un incontro nel 2014, e lei rifiutò, tramite sua sorella.

Come definirebbe Tina Anselmi?

Un’eroina borghese. Era della stessa pasta di Ambrosoli, Falcone, Borsellino, Nino Di Matteo. Di quelli che, quando incrociano la storia, se ne fanno carico. Era una cattolica democratica, un soldato della Dc, e si piegò alle direttive di partito anche quando decisero di non trattare con le Br per la liberazione di Aldo Moro. Per lei, morotea, fu un dolore enorme.

Era di Castelfranco Veneto, il Veneto bianco e contadino del dopoguerra.

Era di origini popolari, ma al tempo stesso aveva una cultura politica raffinatissima. Ed era bella, di una bellezza forte e autentica. Mi diceva: “Guarda che io sono signorina per scelta, non per forza…”. Ebbe un grande amore che poi morì, per questo non si sposò mai.

Come stava Tina Anselmi nell’Italia di oggi?

Non credeva ai Masaniello, a quelli che si ergono a salvatori in nome del popolo. Non le piacevano le scelte politiche fatte per assecondare gli elettori. Un politico, secondo lei, deve fare anche scelte impopolari, non guardare alle elezioni. Ma non esprimeva giudizi, non ne aveva bisogno: la sua storia parlava per lei. Credeva molto, però, nella saggezza dei giovani.

A fuoco anche discarica lombarda: oggi analisi dell’aria

Una grande nubenera ha oscurato il cielo comasco: a causarla, l’incendio di una discarica di Mariano Comense, nella giornata di ieri. Il fuoco avrebbe divorato i rifiuti indifferenziati della raccolta urbana, costringendo a un intervento tempestivo sul posto la squadra emergenze di Arpa Lombardia insieme ai vigili del fuoco, in un’operazione di spegnimento che si è protratta per diverse ore. Giovanni Marchisio, il sindaco di Mariano, ha invitato i cittadini a tenere chiuse le finestre, mentre avveniva il monitoraggio dei microinquinanti grazie all’installazione sottovento di un campionatore. Non è stata rilevata una presenza significativa dei contaminanti rilevabili, ma nel corso della mattinata di oggi un primo campione dovrà essere esaminato dal laboratorio Arpa per valutare la necessità di proseguire con il monitoraggio. Le cause sono ancora da rintracciare, ma l’ipotesi più accreditata è che siano accidentali, nonostante si tenga alta l’allerta: nel 2018, infatti, la stessa discarica era andata a fuoco due volte in una settimana.

Tangenti a tavola: “Presi 5 mila euro a una cena”

Su una cosa l’ex presidente dell’Assemblea capitolina Marcello De Vito e il suo amico avvocato, Camillo Mezzacapo, sembrano essere d’accordo: “Una conoscenza in comune non si nega a nessuno”. È quanto emerge da una conversazione del 18 febbraio scorso, mentre i due – ora in carcere per corruzione – pensando di organizzare una cena “discutono di altre operazioni che stanno conducendo – si legge negli atti – e fanno riferimento a dei soggetti, referenti di importanti fondi immobiliari, con cui andranno a breve a pranzo”.

Non dicono chi sarebbero le persone coinvolte ma spiegano che “hanno interesse a coltivare una conoscenza all’interno del Comune”. Mezzacapo afferma: “Questa costruisce, fa cose immobiliari, una conoscenza al Comune sai, fa sempre co… non si nega a nessuno”. E De Vito: “Esatto, proprio così”. La conversazione intercettata rivela un mondo dove le cene d’affari divengono incontri anche per riscuotere soldi. Il 4 febbraio infatti, mentre De Vito e Mezzocapo “discorrono del denaro provento delle loro attività illecite”. Affermando “che non sarebbe il caso di generare dei flussi di denaro durante il mandato di De Vito”, parlano delle “sponsorizzazioni” riscosse durante una cena e “della strategia da proseguire in merito alla loro società (Mdl) fino a quando De Vito non avrà terminato il mandato”. Dice Mezzacapo il 4 febbraio: “Cioè la chiudiamo, distribuiamo. Poi, liquidi e sparisce tutta la proprietà, non c’è più niente e allora per questo tu lo devi fa quando hai finito quella cosa (…) hai capito il senso… cerchiamo di fargli arrivare qualche sponsorizzazione perché fino adesso abbiamo preso i 5 mila a una cena…”. Sembra quindi che i soldi siano stati presi durante una cena.

Nel registro degli indagati della Procura di Roma è stato iscritto anche l’amministratore delegato di Acea, Stefano Donnarumma, accusato di corruzione per due sponsorizzazioni da 25 mila euro ciascuno girate, tra giugno 2018 e gennaio 2019, a De Vito e Mezzacapo attraverso la società Prime Time Promotions di Stefania Scorpio, l’imprenditrice (indagata per corruzione) nota per organizzare da anni anche il “Concerto di Natale in Vaticano”. La vicenda è stata rivelata ieri da L’Espresso. Lo stesso sistema sarebbe stato utilizzato da Giulio Gravina, l’imprenditore che controlla l’Italpol, azienda di sicurezza che lavora con commesse pubbliche soprattutto in Atac, la società dei trasporti romani. Proprio in Italpol lavorava la sorella di De Vito, Francesca, ora in aspettativa non retribuita: estranea alle indagini è ora in consiglio regionale. Secondo le accuse, quindi, Gravina “prometteva in favore di De Vito, per il tramite di Mezzacapo e con il concorso di Stefania Scorpio, somme di denaro per lo svolgimento della sua funzione pubblica (…) e in genere per l’asservimento della stessa agli interessi del gruppo imprenditoriale”.

Roma brucia: rifiuti ancora in fiamme e niente telecamere

Una decina di tram guasti, trentotto autobus, due impianti di smaltimento rifiuti e centinaia di cassonetti andati a fuoco. Da oltre un anno le fiamme avvolgono sedi e mezzi di due municipalizzate romane: l’Atac e l’Ama. E puntualmente la Procura di Roma apre fascicoli per capire le cause degli incendi e se vi sia o meno una regia comune. L’ultimo, in ordine cronologico, riguarda l’impianto Tmb di Rocca Cencia, di proprietà dell’Ama. L’incendio si è sviluppato intorno alle sette di domenica sera danneggiando la vasca di ricezione dei rifiuti e alcuni macchinari utili alla separazione della spazzatura.

Per gli inquirenti è complicato capire come mai sia divampato l’incendio, anche perché l’impianto che sorge nella zona est della Capitale è sprovvisto di telecamere e la sicurezza è affidata solo a ditte specializzate, dai cui dipendenti è partito l’allarme che ha scongiurato conseguenze più gravi. Per risalire alle cause la Procura, che ha aperto un fascicolo per incendio colposo, ha delegato le indagini al Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri, e presto verrà affidata una consulenza tecnica per escludere o meno l’ipotesi del sabotaggio. Quel che è certo è che al momento 700 tonnellate di rifiuti indifferenziati non possono essere trattati nell’impianto, visto che la prima linea è stata sequestrata e la seconda è inservibile a causa di un guasto. Così la spazzatura indifferenziata verrà momentaneamente smistata nei due Tmb di Malagrotta, di proprietà del “re dei rifiuti” Manlio Cerroni, e presso il tritovagliatore di Rocca Cencia. “L’ho creato io, può immaginare il mio dispiacere”, dice adesso Cerroni. Ad ogni modo l’entità del rogo è stata inferiore rispetto a quello che l’11 dicembre scorso ha colpito il Tmb Salario.

In quel caso i pm indagano ipotizzando un altro reato: disastro colposo, anche se vi è il sospetto di un sabotaggio. Occorre capire infatti come mai le telecamere di sicurezza, come rivela la perizia depositata in Procura, siano state spente il 7 dicembre, quattro giorni prima che le fiamme distruggessero l’impianto su cui i magistrati avevano già aperto due precedenti fascicoli nei quali si ipotizzano due diversi reati: inquinamento ambientale e attività di rifiuti non autorizzata.

Ancora differente la questione che riguarda i mezzi pubblici. Sono 38 gli autobus che dal primo giorno di gennaio 2018 al 14 marzo scorso hanno preso fuoco: dalla centralissima via del Tritone fino alle periferie come Primavalle passando per il Grande Raccordo Anulare. Anche in questo caso i pm hanno chiesto l’aiuto di consulenti specializzati. E la perizia depositata dagli esperti era stata chiara: nessun sabotaggio, nessuna manomissione, nessun reato. I consulenti hanno infatti analizzato sei mezzi che erano stati avvolti dalle fiamme. Due erano troppo danneggiati per essere esaminati. Gli altri quattro invece erano mezzi molto vecchi. Inoltre sarebbero stati riparati con ricambi non originali, in qualche caso già usurati in quanto prelevati da altri mezzi. Altre perizie sono in corso e gli investigatori non escludono nessuna pista investigativa.

Un altro capitolo invece è relativo ai tram: sono una decina quelli su cui i magistrati romani hanno deciso di indagare. Ed effettivamente hanno scoperto che qualcosa non torna. Nelle sabbiere (il sistema frenante di emergenza) sono state trovati mozziconi, legnetti e altri oggetti. Dunque è certa l’ipotesi dolosa, ma in assenza di immagini riprese dalle telecamere è impossibile accertare eventuali responsabilità.

Torino, chiesti 14 anni per banda dello spray di Piazza San Carlo

La baby-gang dello spray quel giorno voleva scatenare il caos sperando di riuscire a commettere qualche rapina. Ma nel panico generale ci furono due morti e 1.692 feriti, di cui 20 per lo spargimento di spray. È il drammatico bilancio della sera del 3 giugno 2017, quando Piazza San Carlo cadde in preda al panico durante la proiezione su maxischermo della finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid. Ed è anche la cifra che la Procura di Torino ha usato come metro di giudizio per la richiesta di condanna dei quattro giovani italiani di origine marocchina, ritenuti responsabili di aver scatenato il caos con l’uso di spray: un giorno di reclusione per ciascun ferito, e cinque per quelli direttamente colpiti dallo spray, per un totale di 14 anni circa per ognuno degli imputati, secondo i pm Roberto Sparagna e Paolo Scafi. L’accusa principale nel processo che si sta celebrando con rito abbreviato è di omicidio preterintenzionale, per la morte di Erika Pioletti e Marisa Amato, avvenuta a causa delle lesioni riportate nella calca, oltre a rapina aggravata e lesioni.

“L’appello a suo favore? Né mi pento, né scappo”

Cremonese di nascita, 54 anni, scrittore dalla penna robusta, Sandrone Dazieri nel 2004 fu tra i firmatari dell’appello a favore di Cesare Battisti, il terrorista dei Pac che oggi confessa i suoi omicidi. Si leggeva tra le altre cose: “Nulla lega Battisti a terrorismi di sorta. Trattarlo oggi da criminale è un oltraggio alla verità”. Ripartiamo da qui? Manco per niente. “Oggi viviamo in un Paese fascista”

In che senso?

Il destino di chi ha firmato quell’appello è sempre lo stesso: voi giornalisti state cercando quelle persone perché all’epoca hanno voluto dire qualcosa contro il senso comune. Poi era una petizione, non abbiamo mica sparato.

Battisti però ha confessato.

Non sono pentito. Abbiamo perso una scommessa. Eppure oggi non troverai nessuno di quei firmatari pronto a confrontarsi. Trovi me e allora sai che ti dico andassero a vaff… quelli che piuttosto che spiegare le proprie opinioni preferirebbero gettarsi dentro a un tombino.

Oggi però quell’appello stride davanti alle ammissioni.

Lo firmai nel 2004 per riaprire il dibattito sugli anni di Piombo. All’epoca e anche oggi c’è ancora gente che deve dire la verità, di Battisti poi me ne frega il giusto. Quando parlò con me si professava innocente. Nulla sarebbe cambiato se già avesse confessato gli omicidi. La richiesta di rileggere gli anni di Piombo sarebbe rimasta la stessa. Quel documento era legato al momento storico, con Battisti in Francia, arrestato e in attesa di estradizione. Quando è fuggito in Brasile, quella petizione per quanto mi riguarda ha perso di senso. In quel momento ci interessava comprendere le contraddizioni degli anni di Piombo.

Che pensa di Battisti?

Non ho alcuna indulgenza per lui. Quando ho fatto politica non sono mai stato amico di gente come Battisti. Anzi, loro, forse anche più della polizia, erano i miei veri nemici. E poi scusa Battisti è uno dei tanti. Ha fatto casino, ha ucciso. E alla fine si è dissociato, si dice così mi pare?

Pare sia proprio così.

Io comprendo la volontà di gogna che nutrono i parenti nei confronti degli assassini dei loro familiari, avrei lo stesso sentimento se fosse successo a me. Oggi però nessuno vuole rileggere quel periodo.

Oggi ha ancora senso capire gli anni di Piombo?

Gli italiani hanno altro a cui pensare. Se all’epoca credevamo di avere un interlocutore nella sinistra che potesse dare il via a un cambiamento sociale, ora non lo credo più.

Perchè?

Oggi l’ordine è dire: ragazzi state buoni e non portate un pensiero critico. Non prendo nemmeno in considerazione la posizione del ministro Salvini, ma anche dall’altra parte non mi pare ci sia più alcuna volontà. C’è il movimento antagonista che discute, ma non è in grado di proporre un cambiamento sociale e poi si occupa più giustamente di salvare persone nel Mediterraneo.

Ora Battisti chiede perdono: “Le sentenze dicono il vero”

Trentquattro anni dopo la prima sentenza e a poco più di due mesi dal suo arresto, Cesare Battisti confessa. Succede in due giorni e in sei ore di verbale nel carcere di Oristano. Maglietta e jeans, senza più la barba da latitanza, l’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo (Pac) ammette i quattro omicidi che oggi gli valgono una condanna all’ergastolo. Conferma esecuzioni, gambizzazioni, rapine. Parla di sé e non di altri. Con lui l’avvocato Davide Stecchanella, davanti il capo del pool antiterrorismo di Milano Alberto Nobili e Cristina Villa, l’investigatore della Digos che lo ha scovato fino in Bolivia.

Di fronte al magistrato, Battisti appare provato. È stato lui a chiedere l’interrogatorio. Nelle pause domanda come sta suo figlio. Chi lo ascolta intuisce un percorso di revisione. Un tragitto iniziato non il 13 gennaio scorso, giorno della cattura, ma forse già nel 1985 quando da latitante viene condannato in primo grado. Da lì in poi Battisti sarà solo un terrorista in fuga. Da allora, è stato spiegato dalla sua difesa, non ha più commesso reati. L’obiettivo è evitare la “pericolosità sociale”. Torniamo agli omicidi. Sono quattro, due eseguiti materialmente, due ai quali ha partecipato. Classe ’54 di Cisterna di Latina, Battisti è all’inizio un criminale comune. Primo arresto 1972. In carcere a Udine conosce Arrigo Cavallina, ideologo dei Pac. Quando esce le rapine diventano “espropri proletari”. Arriveranno i morti. Il 6 giugno 1978 a Udine Battisti spara e uccide il maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro. Pochi mesi dopo, il 19 aprile 1979 a Milano colpisce a morte e alle spalle Andrea Campagna, agente in forza alla Digos. In mezzo, il 16 febbraio 1979, Battisti partecipa agli omicidi del gioielliere milanese Pierluigi Torregiani e del commerciante Lino Sabbadin, militante dell’Msi, ucciso a Mestre. Una scia di sangue che Battisti ha sempre negato. Metterà a verbale: “I quattro omicidi, i tre ferimenti e una marea di rapine e furti per autofinanziamento, corrispondono al vero”. Non entra nei particolari delle vicende, solo si limita a dire: “Le sentenze hanno detto la verità”. Poi precisa: “Io parlo delle mie responsabilità, non farò i nomi di nessuno”. Torna dunque su se stesso: “Quando ho ucciso per me era una guerra giusta”. Poi una riflessione: “La lotta armata ha impedito lo sviluppo di una rivoluzione culturale, sociale e politica nata nel ‘68. Gli anni di piombo hanno impedito quella spinta culturale che stava nascendo in Italia” ma “allora ci credevo come altri”. Sui fiancheggiatori, l’ex Pac ha spiegato: “Non ho avuto alcuna copertura occulta (..) e mi sono avvalso delle mie dichiarazioni di innocenza per ottenere appoggi dell’estrema sinistra in Francia, Messico e Brasile”. Tra questi anche l’ex presidente del Brasile Lula.

L’ex terrorista dei Pac ha confessato di aver partecipato anche al ferimento – tra il 1978 e il 1979 – di tre persone, tutte gambizzate. In particolare ha sparato contro Diego Fava, “colpevole” di non rilasciare abbastanza certificati medici ad alcuni operai. Gli altri due sono: l’agente di custodia del carcere di Verona Arturo Nigro e il medico della casa circondariale di Novara Giorgio Rossanigo. Alberto Nobili ha poi spiegato: “Battisti ha riconosciuto che le istituzioni hanno agito con il codice in mano contro il terrorismo”.

Chiare le parole del procuratore Francesco Greco: “Questa confessione fa giustizia di tante polemiche che ci sono state in questi anni, rende onore alle forze dell’ordine e alla magistratura di Milano e fa chiarezza su un gruppo, i Pac, che ha agito in modo efferato”. Battisti, in questo suo percorso “che non è di pentimento”, ha chiesto perdono. Si legge nel verbale: “Mi rendo conto del male che ho fatto e chiedo scusa ai familiari”. Per i parenti “le scuse” arrivano solo per ottenere sconti di pena. Uno scenario, quello di eventuali benefici, che se pur negato dalla difesa, viene in qualche modo ventilato da fonti qualificate degli inquirenti. Di certo le confessioni di Battisti, come spiegato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, possono essere una spinta per ottenere dalla Francia l’estradizione dei 14 terroristi ancora rifugiati Oltralpe.

Dazn, multa Antitrust di 500mila euro: spot ingannevoli e scorretti

Mezzomilione di euro di multa per “pubblicità e informazioni ingannevoli sul pacchetto Calcio 2018/19”. Questa la sanzione che l’Antitrust ha inflitto a Perform Investment Limited e Perform Media Services che offrono il calcio in streaming su Dazn. L’istruttoria era stata avviata lo scorso agosto, subito dopo la campagna pubblicitaria lanciata da Dazn attraverso degli spot che enfatizzavano la possibilità di fruizione del servizio “quando vuoi, dove vuoi”, senza però fare riferimento alle limitazioni tecniche che avrebbero potuto renderla complicata o impedirla, proprio come hanno poi dimostrato le difficoltà incontrate dai clienti nelle prime settimane di avvio della piattaforma. Inoltre, per l’Antitrust è stata scorretta anche la modalità di adesione al servizio sul sito di Dazn: “Al consumatore veniva prospettata la possibilità di fruire di un mese di prova gratuito”. Peccato che per alcuni mesi la creazione dell’account abbia determinato la conclusione del contratto con Dazn che, in assenza di disdetta, ha dato inizio agli addebiti mensili. A febbraio scorso, per le modalità di rinnovo e sottoscrizione degli abbonamenti per la stagione calcistica 2018-2019 L’Antitrust ha inflitto a Sky una multa di 7 milioni.

Il governo dialoga con l’informazione. Ma sui fondi pubblici resta lo scontro

Se si pensa che nel libro Siamo in guerra, Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo dicevano alla stampa e ai giornalisti “siete morti”, il fatto che il primo premier pentastellato, Giuseppe Conte, e il suo delegato all’editoria, Vito Crimi, abbiano aperto gli Stati generali dell’editoria è una notizia. E così è stata accolta dagli operatori. Nonostante persista lo scontro sui contributi pubblici, ad esempio, Crimi ha potuto annunciare un tavolo sulle querele temerarie (quelle fatte a prescindere, per intimidire la stampa) promosso dal ministro delle Giustizia, Alfonso Bonafede.

Il segnale di attenzione del governo c’è stato tutto, a cominciare dal saluto di benvenuto del premier Conte: “Non c’è niente di peggio che chiudersi in una stanza ed elaborare una proposta senza confronto”, ha detto nel suo breve saluto.

I risultati si vedranno perché il dibattito di ieri è stato abbastanza generico. Dagli editori l’unica proposta di sostanza, presentata dal presidente della Fieg, Andrea Riffser, è quella dei prepensionamenti, oltre all’edicola digitale dove dovrebbero lavorare i giornalisti a contatto con i cittadini e la “par condicio” offerta anche sui quotidiani. Il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Claudio Verna, ha difeso l’istituto della categoria mentre il segretario della Fnsi, Raffaele Lorusso, ha chiesto di difendere il lavoro vero ma anche i contributi pubblici per garantire il pluralismo dell’informazione. Sul punto del finanziamento pubblico c’è la maggior chiusura da parte di Crimi: “Se l’idea è continuare a pensare che l’unica forma per sostenere l’editoria è il contributo diretto non ci siamo; no alla concorrenza sleale”.

Il percorso degli Stati generali si articolerà su cinque aree tematiche: l’informazione primaria, cioè le agenzie, “che sono troppe” ha detto ancora Crimi, i giornalisti, l’editoria, il mercato e i cittadini. Cinque anche le fasi della discussione: a partire dal mese di aprile ed entro il termine di 30 giorni, si potranno presentare idee e proposte in una sezione del Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria. Poi a maggio ci sarà una serie di incontri specifici con ogni categoria; a giugno un secondo dibattito pubblico.

Il Dipartimento provvederà a fare una sintesi delle proposte ricevute e a luglio si terrà il terzo e conclusivo incontro pubblico, con i documenti conclusivi.

In seguito al lavoro di sintesi il Dipartimento elaborerà le proposte di legge definitive da sottoporre al governo, che saranno presentate nel mese di settembre 2019.

Voto sul copyright, la norma salva i big e chi è già tutelato

Nel tentativo di accontentare tutti viene sempre fuori un disastro, soprattutto quando i testi su carta si scontrano con la realtà. Se oggi il Parlamento europeo dovesse votare il via libera alla direttiva sul copyright così come è (può essere infatti modificata), cambierebbe la circolazione dei contenuti online così come la conosciamo e si rischierebbe una lunga serie di incidenti, criticità e contenziosi. D’altronde, nelle sue valutazioni positive lo aveva anticipato a febbraio il relatore Axel Voss quando, annunciando un buon compromesso, aveva previsto che “le singole parti” sarebbero state comunque “scontente” per qualcosa.

Cos’è. È un testo che si propone di adattare la legge europea del 2001 all’economia digitale. L’obiettivo è garantire remunerazioni eque ai creativi e agli editori di contenuti sul web. Dopo l’approvazione della direttiva – si è spinto perché arrivasse in aula prima delle europee – toccherà agli Stati recepirla con leggi nazionali.

L’iter caotico. Se ne discute da quasi due anni. A luglio del 2018 il Parlamento aveva bocciato una prima riforma, poi a settembre aveva approvato la propria posizione negoziale su un nuovo testo. Il 18 gennaio, però, il Consiglio dell’Ue aveva respinto il mandato per la fase finale dopo l’opposizione di 11 paesi. A sbloccare la situazione era stato un accordo tra Francia e Germania. Parigi era contraria a introdurre un’esenzione per le piccole e micro imprese, mentre Berlino insisteva sul punto. Le negoziazioni si sono chiuse il 13 febbraio. Oggi si vota.

Il testo/1.Due i punti controversi. Il primo è l’articolo 11 che crea un nuovo diritto per gli editori. Dovranno autorizzare ogni ri-pubblicazione delle notizie e la riproduzione di articoli dovrà essere soggetta ad una licenza, tranne nei casi in cui si tratti di “singole parole o estratti brevi”. Non c’è però indicazione precisa di cosa significhi: basterà anche un titolo? La decisione sarà fissata nelle norme nazionali con una conseguente frammentazione normativa proprio in quel mercato digitale unico europeo che si cerca di costruire. Google ha precisato che non firmerà accordi con tutti gli editori insieme, ma valuterà caso per caso.

Il testo/2.Secondo l’articolo 13 tutte le piattaforme online che consentono il caricamento di contenuti agli utenti devono acquisirne le licenze e impedire che siano pubblicati contenuti che le violino il copyright. Non c’è una eccezione generale per le Pmi, ma sono esentate le imprese esposte al pubblico da meno di 3 anni, con un fatturato annuo sotto i 10 milioni e con meno di 5 milioni di visitatori unici al mese. Con questi limiti sarebbero quindi colpiti solo i big. È impossibile però per una piattaforma acquisire le licenze per qualsiasi contenuto, tanto meno preventivamente. Chi le gestisce dovrà a rivolgersi agli intermediari (come la Siae) che così saranno avvantaggiati dalla nuova norma, magari con accordi ad hoc. E gli artisti invogliati a farsi rappresentare da loro.

I filtri.Tecnicamente, l’applicazione dell’articolo 13 passa attraverso la necessità di filtrare automaticamente e preventivamente (quindi non su segnalazione) i contenuti immessi (dai testi ai video). Metodi e sistemi che più sono sviluppati, più sono costosi e quindi non adatti a tutti né reperibili. Dovrebbero poi assicurare massima precisione e affidabilità. Esempio: la direttiva prevede esoneri per la satira e i cosiddetti “meme” (solitamente foto con frasi satiriche). Ma se un sistema automatico rilevasse una violazione di copyright nella foto utilizzata e la rimuovesse? È già successo e succederà ancora.

Il paradosso.Insomma, i forti restano forti e possono decidere di fare il bello e il cattivo tempo, i perdenti riacquistano un po’ di terreno. E i piccoli? La direttiva prevede il diritto degli autori e degli esecutori a una remunerazione adeguata e proporzionata al rilascio o al trasferimento dei loro diritti, introduce un obbligo di trasparenza sullo sfruttamento delle opere autorizzate e un meccanismo di adeguamento delle retribuzioni, accompagnato da un meccanismo alternativo di risoluzione delle controversie. Ma questa non è una questione che riguarda la coscienza dei “giganti del web” o quanto questi paghino, bensì di chi sta in mezzo.

Il voto di oggi.La votazione sarà una sorpresa. In questi mesi ci sono state pressioni e proteste fortissime dalle piattaforme, dagli editori e dagli utenti. Tutti i gruppi parlamentari sono spaccati su questi due articoli, di cui il M5s ha chiesto la cancellazione. Nel Pd, che si è espresso sostanzialmente a favore, c’è chi si oppone (come gli europarlamentari Benifei e Briano) mentre il centrodestra è stato favorevole fin dall’inizio.