Barca e la giustizia sociale 15 idee di sinistra per il Pd

Una volta c’era il “riformismo forte”. Oggi, commentando il piano curato dal Forum Disuguaglianze e Diversità (Fdd), presentato ieri a Roma, si passa al “riformismo radicale”. Le proposte del Fdd, ben 15, sono infatti “radicali perché spingono ai limiti del possibile gli spazi offerti dal capitalismo”. Rimanendo nel suo ambito, ovviamente, non si parla qui di rivoluzioni, con “riforme non riformistiche” che provano a osare un po’ di più e a suggerire idee inedite al centrosinistra di Nicola Zingaretti. Soprattutto sul piano della tecnologia e della conoscenza, del lavoro e dell’impresa, e di una tassazione e sostegno alle giovani generazioni.

Ad animare il ricco dossier prodotto dal Fdd è la giustizia sociale, obiettivo che muove l’ex ministro della Coesione territoriale del governo Monti, Fabrizio Barca, figura non catalogabile della sinistra, alla ricerca di idee e di respiro per smuovere la politica e la società. Barca è uno degli ispiratori e animatori del Forum che, partendo dalle idee di Anthony Atkinson, ha redatto un corposo documento di “15 Proposte per la giustizia sociale”, frutto del lavoro di un anno e mezzo fatto della partecipazione e contributo di un’ampia platea di studiosi, attivisti, studenti, operatori sociali.

Il Forum si è avvalso del sostegno di organizzazioni quali la Caritas, ActionAid, la Fondazione Basso, Legambiente, Cittadinanzattiva e ha lavorato con assemblee, seminari chiusi e aperti per circa due anni fino ad arrivare a un documento, consegnato anche al presidente della Repubblica, in cui oltre al lavoro di Atkinson, teorico e studioso della disuguglianza e della povertà, risente delle teorie di Thomas Piketty, di Amartya Sen e degli altri studiosi internazionali che si battono per la giustizia sociale.

Il punto di partenza è la rabbia e il risentimento che ispirano l’attuale “dinamica autoritaria” alla “ingiustizia sociale e alla percezione della sua ineluttabilità”. Tale ingiustizia è efficacemente raffigurata dalle tavole e i grafici da cui si può constatare come “l’1% più ricco della popolazione mondiale possegga il 25% della ricchezza” o come in Italia ci siano 5.000 individui più ricchi che posseggono il 7% della ricchezza nazionale. Mentre la povertà “tra il 2004 e il 2010, ha ricominciato a crescere e nel 2017 il 29% circa della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale”. Questa disuguaglianza impatta soprattutto le donne, il cui divario salariale con gli uomini cresce, l’ambiente e le giovani generazioni che rischiano di non avere sbocchi.

Le 15 proposte, mutuate, ma solo in parte, da quelle avanzate da Atkinson – che però si spingeva fino a una aliquota fiscale del 65% per i redditi più alti – muovono dall’idea della “conoscenza come bene pubblico mondiale” proponendo di modificare i due principi dell’Accordo Trips sulla proprietà intellettuale. Pensano per l’Europa a un “modello Ginevra” cioè “hub tecnologici sovranazionali di imprese” che redistribuiscono patrimoni e risorse, oppure a “missioni a lungo termine per le imprese pubbliche italiane”. L’idea-chiave è però quella di fare della giustizia sociale una “missione” che animi l’attività delle Università, ma anche della ricerca privata, mentre sul tema del web si propone una “sovranità collettiva sui dati personali e gli algoritmi” anche con “una pressione crescente sui giganti del web”. La sostenibilità ambientale, attraverso i canoni di concessione del demanio o strumenti come l’Ecobonus, va orientata verso la giustizia ambientale e il contrasto al cambiamento climatico.

Più rilevanti sono la proposta del “salario minimo legale” a 10 euro, sia pure in simbiosi con l’estensione dei contratti collettivi a tutti i lavoratori” e il varo di “Consigli del lavoro e di cittadinanza nell’impresa” per valutare strategie aziendali e organizzazione del lavoro. Fa capolino il tema delle “imprese recuperate” attraverso la proposta di incentivare “lo strumento dei Workers Buyout” cioè l’acquisto dell’impresa in crisi da parte dei suoi lavoratori e infine la proposta di una “tassazione progressiva sulla somma di tutte le eredità e donazioni” ma anche l’eredità universale “pari a 15mila euro, priva di condizioni e accompagnata da un tutoraggio che parta dalla scuola” per i diciottenni.

Non ci si avventura su temi più scottanti come la tassazione, la gestione del debito, le politiche macroeconomiche e forse questo è uno dei limiti del progetto. Nell’intenzione dei promotori, il dibattito è aperto e l’attesa è quella di avere delle risposte dalla politica. Hanno assicurato impegni figure “sociali” come Maurizio Landini, Annamaria Furlan, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, assessori e professori universitari. La politica, ovviamente, è la benvenuta, ma qui le cose sembrano più difficili.

Nissan, addio dorato per Ghosn: buonuscita da 40 milioni di dollari

L‘amministratore delegato di Nissan, Hiroto Saikawa, avrebbe accordato nel 2012 una buonuscita forfettaria da 40 milioni di dollari a Carlos Ghosn, dopo le sue dimissioni da presidente, come parte della proposta del pacchetto per la pensione che prevedrebbe anche uno stipendio annuo di circa 4,4 milioni di dollari, con la possibilità di salire a 6 milioni nel caso l’azienda avesse centrato alcuni obiettivi finanziari. Lo scrive il Financial Times precisando però che ancora non è chiaro se i termini sono contenuti nella stesura definitiva dell’accordo. Documento che, inoltre, avrebbe previsto un contratto di 10 anni come presidente emerito. L’ex presidente della Nissan Ghosn è stato arrestato lo scorso novembre con l’accusa di non avere dichiarato correttamente compensi ricevuti nel corso degli anni e lo scorso 7 marzo ha lasciato ieri il carcere dopo 108 giorni pagando 8 milioni di euro di cauzione (un miliardo di Yen). Vista l’enorme attesa dei media per la scarcerazione Ghosn era stato fatto travestire da operaio.

Banche, lite con Tria e commissione ferma al Colle

La vicenda dei rimborsi ai cosiddetti “truffati delle banche – 300 mila ex azionisti e piccoli obbligazionisti di Etruria & C. e delle popolari venete – diventa ogni giorno più surreale. Investe i vertici del ministero dell’Economia e i rapporti con Lega e M5S, ma anche il Quirinale, dove la commissione d’inchiesta parlamentare sulle banche è arenata da un mese per i dubbi su chi dovrà presiederla.

Ieri Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno intimato al ministro Giovanni Tria di firmare i decreti attuativi che daranno il via ai rimborsi stanziati in manovra (1,5 miliardi in tre anni). Il 9 febbraio Salvini e Di Maio a Vicenza avevano rassicurato le associazioni che i decreti sarebbero arrivati in settimana. Da allora è tutto fermo. Il motivo è noto: con una modifica alla Camera, si è eliminato l’obbligo di dimostrare la vendita fraudolenta dei titoli, nonostante il parere contrario del Tesoro, spaventato dalle possibili contestazione di Bruxelles. Cosa puntalmente avvenuta. A fine gennaio la direzione Concorrenza guidata dal commissario Margrethe Vestager ha chiesto spiegazioni sospettando un aiuto di Stato. Il ministero ha risposto, ma da un mese attende la replica. Da allora è tutto bloccato. “Sono certo che Tria firmerà i decreti in settimana, o li firmiamo noi”, ha minacciato Salvini, insieme ai capigruppo leghisti. Stessa linea di Di Maio: “Il rimborso deve arrivare subito”. La pressione è salita dopo la sentenza Tercas, con cui la settimana scorsa la Corte Ue ha demolito la linea seguita finora dalla Commissione sugli aiuti di Stato nelle crisi bancarie, mettendo in grave imbarazzo Vestager. Contattati dal Fatto, i suoi uffici non hanno voluto dire quando arriverà la risposta. Al Tesoro sperano arrivi in settimana e sia positiva, anche per evitare il rischio che ai dirigenti venga contestato un “danno erariale”.

Ieri Di Maio ha mostrato insofferenza anche sulla nuova commissione d’inchiesta sulle banche: “Non può più aspettare”, ha attaccato da Matera. Il testo è stato definitivamente approvato quasi all’unanimità alla Camera il 26 febbraio scorso. Da allora si attende la firma del Colle. Dopo servirà almeno un mese e mezzo per vederla partire. Di certo si andrà a dopo le europee. I suoi campi d’indagine sono vasti, ma tra loro ci sono la pessima gestione delle crisi bancarie da parte della Banca d’Italia e “le disposizioni emanate dalle autorità di vigilanza” sui “crediti deteriorati”, la cui svalutazione ha colpito i bilanci degli istituti e il loro valore di Borsa, proprio a partire dal prezzo attribuito alle sofferenze di Etruria & C. Da qui i timori del Colle sul rischio che Via Nazionale – alle cui pressioni è assai sensibile – finisca ancora sulla graticola. I 5Stelle sostengono che il problema dello stallo sia la presidenza: al Quirinale non piace il nome di Gianluigi Paragone, designato da Di Maio pubblicamente, e spera in una figura di garanzia. “Basta veti su di lui”, ha avvisato ieri il leader M5S. Il timore nel Movimento, però, è di assistere al copione già visto con Marcello Minenna, il candidato per la Consob appoggiato dall’ala radicale e sacrificato dopo mesi di stallo.

Ponte sullo Stretto, Impregilo insiste: vuole i 700 milioni

Eurolink non molla l’osso. Il consorzio costituito per realizzare il Ponte sullo Stretto di Messina ha deciso di fare ricorso contro la decisione del Tribunale delle imprese di Roma che lo scorso autunno ha detto no al risarcimento da 700 milioni, oltre a rivalutazioni e interessi, chiesto dopo lo stop all’opera imposto nel 2013 dal governo di Mario Monti. Il procedimento è ora incardinato di fronte alla Corte d’appello della Capitale, dove la prima udienza è stata fissata per il prossimo gennaio. Ma non è tutto.

Perché il consorzio – capeggiato da Impregilo e partecipato tra gli altri da Sacyr, Condotte d’Acqua, Cooperativa Muratori e Cementisti, Cmc di Ravenna, la giapponese Ishikawajima-Harima Heavy Industries Co. Ltd. e Argo Costruzioni – medita ulteriori azioni giudiziarie, anche nuove di pacca. La strategia giudiziaria verrà decisa definitivamente una volta che la Corte Costituzionale deciderà su un’atra questione correlata, sollevata da Parsons, che era stata individuata come Project Management Consulting del Ponte. Una questione che, una volta decisa, produrrà però effetti per tutti nell’ipotesi in cui l’incostituzionalità venga accertata. Nefasti, manco a dirlo, solo per le casse dello Stato. Come nella migliore tradizione il gioco delle grandi opere produrrà solo un risultato: le penali che verranno caricate sull’italico groppone.

La Consulta dovrà dire se la legge che nel 2012 ha fissato un indennizzo speciale per la caducazione dei vincoli contrattuali per la realizzazione del Ponte sia legittima: per tacitare ogni pretesa – si era infatti stabilito – sarebbe bastato pagare le prestazioni già effettuate più un altro 10 per cento, quando la normativa in materia di appalti pubblici prevede che la percentuale del deve essere calcolata sulle opere da eseguire, che da contratto del 2006 erano pari a 3.879.599.733 euro. Certo Eurolink avrebbe preferito realizzarlo il Ponte sullo Stretto e infatti all’ad di Salini Impregilo, Pietro Salini, erano brillati gli occhi quando l’allora premier Matteo Renzi nel 2016 aveva rilanciato il progetto (nonostante la causa fosse già in atto). Il dossier era finito su un binario morto, ma non la prospettiva per i costruttori di accaparrarsi un indennizzo da centinaia di milioni.

Ma chi dovrebbe sganciare il malloppo? Il Contraente generale Eurolink e Parsons hanno chiamato in causa il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la Stretto di Messina spa. Ossia la società concessionaria dell’opera (controllata da Anas) che ha chiesto da tempo, a sua volta, oltre 325 milioni di euro per gli oneri sostenuti per lo sviluppo del progetto. Più naturalmente gli importi che dovranno essere riconosciuti a titolo di indennizzo o risarcimento. Secondo quanto si legge nell’ultimo bilancio, anche la società in questione non intende arretrare di un millimetro rispetto alle richieste perché “è soggetto giuridico distinto sia dalle Amministrazioni interessate sia dai suoi Soci anche pubblici”. E quindi ritiene non solo corretto ma pure doveroso adottare tutte le iniziative, anche giudiziarie, a tutela del suo patrimonio. Dato che “la costituzione di un soggetto nella forma di società per azioni, ancorché per la realizzazione di un’opera pubblica in regime di concessione, non può comportare il venir meno dei principi disciplinati dalle norme di natura privatistica sulle società di capitali anche in materia di liquidazione, di responsabilità e di tutela dell’affidamento di terzi contraenti”.

La Stretto di Messina spa venne costituita nel 1981 e da allora di acqua ne è passata sotto i ponti. Tutti, tranne quello sullo Stretto. Dal 15 aprile 2013 è stata posta in freezer con la nomina contestuale di un commissario liquidatore: il professor Vincenzo Fortunato. Grane a parte, Fortunato lo è di nome e di fatto. Perché da allora percepisce (e continuerà a farlo fino alla fine della procedura di liquidazione che ha scavallato il lustro) 120 mila euro all’anno più altri 40 mila a titolo di variabile del compenso.

Tre giorni di proteste contro il Congresso della destra cattolica

Una ventina di cortei, flash mob e contro-manifestazioni accoglieranno il Congresso mondiale delle famiglie, la kermesse dell’ultradestra cattolica in programma a Verona questo fine settimana, dal 29 al 31 marzo. Tra le molte iniziative previste da venerdì a domenica spicca la mobilitazione dell’associazione “Non una di meno” di Verona che ha ribattezzato la tre giorni “Verona città transfemminista”: sono previsti convegni sulla teoria gender, laboratori di piazza contro sessismo e razzismo e la proiezione di cortometraggi. Il 30 marzo è in programma un corteo con movimenti nazionali e internazionali, al quale parteciperanno anche Laura Boldrini e Susanna Camusso e probabile anche la senatrice del Monica Cirinnà, prima firma della legge sui diritti civili. La manifestazione si concluderà davanti al Castello Scaligero, dove si terrà un flashmob: tutte le donne sono state invitate a partecipare indossando dei guanti da cucina. Domenica, nel giorno della ”Marcia per la famiglia” dei sostenitori della famiglia “tradizionale”, Verona sarà riempita, sul fronte opposto, da un’assemblea femminista e altri flash mob, convegni e dibattiti organizzati dall’area antagonista e dalle sigle Lgbt.

Calenda lo attacca, “Steve” fa il profeta

“Cherchez la femme” si diceva una volta, a proposito dei conflitti a sfondo giallo-rosa. Traslato nei consessi sovranisti-populisti, in cerca d’autore, si potrebbe dire “Cherchez la camera”, nel senso di telecamera. Perché lì, c’è Steve Bannon.

Qualsiasi cosa stia tramando, l’ex guru di Donald Trump, ormai è un fenomeno glam. Lunedì pomeriggio, dibattito con Carlo Calenda, moderato da Lucia Annunziata, a piazza Santi Apostoli. Palazzo storico, nella sede di Comin and Partners, società di comunicazione e relazioni istituzionali di grido.

Mentre il frontman dell’europeismo italiano (definiamolo così, Calenda) si intrattiene con un bicchiere di vino, l’americano è in una stanza a lato, letteralmente ricoperto da macchine fotografiche e telecamere, che rilascia interviste ai media di tutto il mondo, demonizzando gli accordi commerciali dell’Italia con la Cina e magnificando l’asse Salvini-Bolsonaro.

All’ingresso, un paio di camerieri in guanti bianchi, offrono acqua, prosecco, mandorle e nocciole. Nelle prime file si intravedono personalità varie. C’è qualche politico, tipo Giovanni Legnini, presente in quanto “cliente”: Comin gli ha curato la campagna elettorale per l’Abruzzo. E poi Salvatore Rossi, Bankitalia, Michele Valensise, Cda Tim, Ugo Brachetti Peretti, petroliere. “Se si arrabbia, qua ci compra tutta la baracca”, scherza la Annunziata. Sala con il palco, due sale laterali, allestite con mega schermi per giornalisti e lobbisti.

Bannon si presenta al dibattito di grigio vestito dalla testa ai piedi, Calenda esibisce una cravatta pastello. Bannon replica i comizi chefa in giro per il mondo, quotidianamente, ma una notizia la elargisce subito: “Ho parlato con i miei contatti nella Lega del Memorandum con la Cina”. Calenda si agita, gesticola, esibisce un inglese italianizzato, ma “fluent”. Si è preparato e a un certo punto sbotta: “Steve, devi studiare un po’” . Non ci sta a lasciare all’altro l’egemonia sulle classi popolari, pure se resta compìto nel suo ruolo di élite. “Noi siamo stati ingenui, ma voi non avete nessuna soluzione reale”, il suo mantra. “Steve, quando dici che l’Europa non funziona, quello che vorrei dirti è che è l’Europa delle nazioni che non funziona”. L’altro per buona parte del dibattito fa il muro di gomma. “Carlo” non lo dice mai. Tanto è vero che il primo scontro non arriva tra i due “dibattenti”, ma tra i due italiani. “Davos fa schifo”, dice l’Annunziata. E Calenda: “Devi decidere se partecipi o moderi”. Pronta risposta: “Un moderatore che non partecipa è un porta microfono”.

Bannon si scalda solo quando Calenda lo incalza a fare un esempio concreto sull’Europa che vorrebbe. “L’Italia un anno fa ha chiesto un cambiamento. Questo governo è stato un esperimento nobile”, dice. Poi predice grande successo elettorale dei sovranisti, ma assicura: “Nessuno vuole uscire dall’Europa”. E Calenda si lancia nell’invettiva: “Non farete nulla, l’unica cosa che sapete fare è dare la colpa all’Europa”. I tre tre si separano senza troppo clamore. Bannon con flash al seguito, Calenda che scivola di lato.

È Cina-mania: pure il Vaticano ha benedetto il comunista Xi

Il passaggio del presidente cinese Xi Jinping a Roma ha prosciugato il fiume Tevere e azzerato le distanze in geopolitica tra una sponda e l’altra, tra la Chiesa e l’Italia: il Vaticano di papa Francesco e il governo di Giuseppe Conte investono sul rapporto con Pechino. Ragioni diverse, strategie simili. E lo testimonia la presenza del premier al convegno sul volume La Chiesa in Cina, curato da padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti al tempo del pontefice gesuita.

Il linguaggio è sempre felpato e prudente, ma Roma, la doppia capitale, dei cattolici e degli italiani, sposta l’orizzonte verso Pechino e s’allontana dai classici riferimenti occidentali, dagli Stati Uniti. Non è una suggestione: è un fatto. Il premier Conte cerca capitali economici, denaro per le aziende, ossigeno per il prodotto interno lordo; papa Francesco cerca capitale umano, milioni di fedeli da sottrarre all’oppressione del regime per l’unità della Chiesa. Padre Spadaro, che da mesi dialoga col diffidente governo comunista per un viaggio di Jorge Mario Bergoglio a Pechino, evoca l’antica amicizia dei gesuiti con i cinesi, l’impegno dei missionari religiosi, da Matteo Ricci in giù, e chiosa con enfasi: “La Compagnia del Gesù ha sinizzato l’Europa. Fu una profezia”.

Accanto a monsignor Claudio Maria Celli, che ricorda gli sforzi degli ultimi pontefici nel ricostruire un contatto con la Cina comunista, il professor Conte ascolta in silenzio, a mani giunte, a suo agio, in perfetto stile ieratico. Non viene chiamato né presidente, né avvocato, ma professore. Conte ha frequentato a lungo Villa Nazareth, collegio universitario fondato dal cardinale Domenico Tardini, fucina di classe dirigente, tempio del cattolicesimo democratico. Al vertice c’è ancora l’anziano Achille Silvestrini, ma il capo è monsignor Celli e il professor Conte figura sempre nel comitato scientifico del collegio. Tra Celli e Conte c’è una robusta amicizia, il monsignore fu invitato anche al matrimonio del “professore”.

Il cardinale Pietro Parolin, attuale segretario di Stato e autore della prefazione al libro di Spadaro, fu direttore di villa Nazareth. Conte partecipa con i galloni del presidente del Consiglio, viene considerato, però, più di un ospite: uno del gruppo. Il premier rivendica con orgoglio l’asse con Pechino, l’adesione a una riedizione della Via della Seta, ma il volume di Spadaro – che mette insieme sette interventi di sette gesuiti – parla di un altro accordo, storico davvero, ugualmente criticato. Quello firmato tra il Vaticano e il governo di Pechino lo scorso settembre. Con l’ambizione di superare la divisione tra Chiesa patriottica (cioè del regime) e Chiesa sotterranea (cioè clandestina), papa Francesco ha riconosciuto i vescovi scomunicati perché scelti dal governo e stretto un patto, che non lascia completa autonomia al Vaticano, per le prossime nomine del clero. “Non si tratta della conclusione di un processo, bensì del suo reale avvio”, precisa soddisfatto Spadaro, davanti ai media ufficiali del governo cinese.

Conte svela che ha discusso di clima con Xi Jinping e che andrà a Pechino tra un mese. “Avanti senza sbandare e senza accelerare troppo”, dice ancora Spadaro. La Via (della Seta), però, è imboccata. Il Vaticano guarda all’Asia e non può ignorare la Cina, la Cina guarda all’Europa e non può ignorare il Vaticano. In mezzo, c’è il governo di Roma, che s’accontenta, che conta e riconta i (presunti) miliardi cinesi. Comunque, serve fede.

La foto manifesto di tele Sangiuliano

La fotografia accanto racconta più di mille parole. Il Tg2 celebra la vittoria del centrodestra in Basilicata con una gigantografia del Capitano esultante con Matera sullo sfondo, mentre il presentatore introduce il servizio sulla sua cavalcata trionfale: missione compiuta. L’inquadratura in campo largo con il sorrisone del leghista e il pollice in su resta fissa sullo schermo per 15 secondi consecutivi. Un capolavoro da letteratura distopica. Anche il servizio della sempre zelante Maria Antonietta Spadorcia si apre con le rotonde guance del ministro spalancate in un ghigno compiaciuto: “È un buonissimo giorno… è un buonissimo giorno”, ripete. “Basterebbe questa battuta – ci dice la Spadorcia – a far capire umori e prospettive di Matteo Salvini e della Lega. Regionali, 7 a 0. E la partita in Basilicata ha un valore doppio: abbattuta la roccaforte del Pd”. Qui si superano i confini e si battono i record del giornalismo lottizzato.

L’ultimo scontro è sulla cittadinanza onoraria per Rami

È ancora Rami, il ragazzino 13enne che ha sventato la possibile strage del bus di Milano, il protagonista del dibattito politico di queste ore. Luigi Di Maio ha parlato del giovane egiziano – ospite del programma di Fabio Fazio domenica sera – ed è tornato sul tema della cittadinanza onoraria: “Basta girarci intorno, bisogna dargliela subito”, ha detto il leader dei Cinque Stelle dopo le incertezze, sul tema, manifestate da Matteo Salvini. Due giorni fa il leghista aveva detto: “Rami vuole lo Ius soli? Si faccia eleggere”. Ieri il ministro ha aggiunto che sarebbe felice di concedergli la cittadinanza, ma “ci sono delle verifiche in corso”. “Ovviamente non sul ragazzo di 13 anni – ha spiegato – ma su altro che riguarda la concessione di cittadinanza”. Sarebbe emerso che un parente di Rami in passato ha avuto problemi con la giustizia. Circostanza starebbe orientando il Viminale ad attribuire la cittadinanza solo al ragazzino e non al resto dei familiari. Lo stesso Rami ieri ha lanciato una stoccata al ministro degli Interni durante una premiazione all’ambasciata egiziana: “Cosa avrebbe detto Salvini se tutti i ragazzi fossero morti? Di Maio – ha concluso – vuole darmi la cittadinanza, io mi fido di lui”.

La bugia sul ritorno dell’Italia bipolare

I risultati elettorali in Basilicata offrono una fotografia simile a quella già scattata in Sardegna, un mese fa. La differenza, non secondaria, è che nel frattempo il centrodestra continua ad aumentare il suo bottino regionale e vince ovunque per inerzia, candidando persino il generale Bardi, lucano non residente. Si pensi a Roma: se si andasse a votare domani, la destra a trazione fascioleghista o fasciosovranista vincerebbe facile. Questo però non risolve, ancora una volta, il rebus che avvolge il futuro di Matteo Salvini, sempre più padrone della scena politica. Il suo doppio forno fino a quando continuerà a rimanere aperto? Tutto scorre, in modo eracliteo, verso le fatidiche Europee di maggio, ma allo stesso tempo il capo leghista richiama l’essere immobile di Parmenide, per metterla in filosofia.

È probabile però che dopo la Basilicata, e a mano a mano che si avvicina il 26 maggio europeo, Salvini cominci a pensare a un eventuale piano B, al netto delle rassicurazioni pubbliche di ieri a Di Maio, il quale a sua volta ha “ringraziato” in modo scorbutico, arrivando a chiedere una sorta di chiarimento di governo. La verità è che per il leader leghista la vera incognita riguardante il M5S si chiama Giuseppe Conte, non Di Maio, considerato un capo in fase calante. Salvini non si fida di lui e non riesce a prevedere quali saranno le sue prossime mosse. Non solo. La destra egemonizzata dalla Lega (che in Basilicata vince ma non sfonda, rispetto al risultato abruzzese) non riesce neppure a capire quale sarà il suo avversario in caso di elezioni politiche anticipate, dove si voterebbe sempre con il Rosatellum. Al momento, il ritorno del bipolarismo è un’autentica fake news. Il quadro resta saldamente tripolare, anche se in modo completamente diverso al 4 marzo delle Politiche del 2018. E se il trend di queste Regionali (Abruzzo, Sardegna, Basilicata) dovesse essere confermato alle Europee avremmo due forze di peso uguale, Pd e M5S. Altro che bipolarismo.