“Zinga” pensa a nascondere il simbolo. I renziani: “Basta esultare per il 2° posto”

Ci sarà stamattina al Nazareno la prima direzione dell’era Zingaretti. Due giorni dopo il voto in Basilicata, il neosegretario punta a farsi dare il mandato per la costruzione delle liste in vista delle Europee e delle Amministrative. Sono due le principali questioni sul tavolo: il rapporto con Liberi e uguali e il simbolo. In linea con il trend delle ultime Regionali, il candidato del centrosinistra per le elezioni lucane, Carlo Trerotola, ha preso il 33,1%, con 7 liste complessive, ma il Pd è precipitato al 7,8%. In questo contesto, il presidente dem ha convocato la riunione oggi.

Al centro, dunque, le alleanze elettorali. Zingaretti porrà prima di tutto la questione del rapporto con Roberto Speranza e gli altri. Sull’alleanza per le Amministrative, l’accordo con gli ex dem è già chiuso. Ma punta a farselo votare oggi, in maniera da non avere recriminazioni un domani. Per quel che riguarda le Europee, la trattativa con gli ex dem sulla lista che vedrà andare insieme il Pd, Carlo Calenda e una serie di “civici” non è ancora chiusa. Ma Zingaretti continua a pensare che non gli conviene accogliere gli ex compagni. E poi, c’è l’alleanza con la lista che vedrà correre insieme + Europa, Pizzarotti e i prodiani.

Altro punto all’ordine del giorno il simbolo del Pd. Meglio presentarlo o meglio toglierlo? “Purtroppo in Basilicata avevamo presentato addirittura 4 simboli diversi. Anzi, per la verità, il simbolo del Pd non era stato neanche presentato. C’era un’unica dicitura, ‘Comunità democratiche’”, ha affermato ieri Zingaretti. Per adesso, l’idea è quello di presentarlo, ma nascondendolo con altri elementi. Ovvero, “richiami” non ben identificati alla presenza di Calenda e alle altre componenti in lista.

Nel frattempo, quel che resta del renzismo, prova a rimanere in vita, con strategie contrapposte. “Friuli, Trento, Molise, Abruzzo, Sardegna e #Basilicata. Alla sesta volta credo che persino il grande Toto Cutugno abbia smesso di esultare per il 2º posto. Noi abbiamo intenzione di andare avanti parecchio?”, scrive su Twitter Anna Ascani. È la parte ultrà che risponde a Renzi, che si muove con due diversi obiettivi. Il primo, cercare di segnare qualche punto all’interno del Pd. Il secondo, mettersi in pole position per entrare in un eventuale partito di Matteo, ancora in itinere.

Altra partita, quella della minoranza che fa capo a Luca Lotti, Lorenzo Guerini e Antonello Giacomelli. Lotti ha appena fatto un’intervista a Repubblica, per dire che Matteo si ricandiderà premier, ma nella quale ha chiarito la sua permanenza nel Pd. Sta trattando per i posti. Non solo per la segreteria (che oggi Zingaretti non dovrebbe varare), ma soprattutto per le elezioni. Per le Europee, l’accordo con la maggioranza per ora si è chiuso su tre nomi di capolista: Giuliano Pisapia al Nord Ovest, lo stesso Calenda al Nord Est e Simona Bonafè al centro. Restano in ballo le altre due circoscrizioni.

Sullo sfondo, le possibili elezioni politiche. Perché il Pd zingarettiano ora punta a un voto anticipato, al più tardi nella primavera 2020. Anche visto il fatto che i gruppi parlamentari sono il frutto delle liste fatte da Renzi. La settimana scorsa, il segretario è andato in Senato a parlare con Andrea Marcucci, nel tentativo di stabilire un rapporto. Ma sono già partiti i conteggi futuri. Secondo le proporzioni attuali, ai martiniani spetterebbero non più di una quarantina di parlamentari. E a Lotti non più di 25. Ecco l’agitarsi preventivo.

Nelle stanze del Nazareno cominciano le grandi manovre. Luigi Zanda è pronto a passare al setaccio i conti del precedente tesoriere, Francesco Bonifazi. Ed è saltata la prima testa, quella di Alessio De Giorgi, responsabile social, vicinissimo a Renzi. Anche se Matteo, quando deve segnalare qualcosa a cui tiene, lo fa da solo: domenica, su Instagram ha postato una foto della sua bilancia, a quota 80,6 Kg. “Era uno dei miei obiettivi del 2019 tornare a un peso forma accettabile”. Contento lui.

Di Maio simula: “È andata bene”. Poi accusa tutti

Sorride e giura che per carità, il M5S non ha mica perso. Però subito dopo morde senza citarlo il trascinatore sparito dai radar, Alessandro Di Battista, a cui ricorda che “non è il caso di fare viaggi”. Poi promette che il governo durerà quattro anni, “basta rispettare il contratto”. Ma in serata fa sapere che con la Lega “potrebbe andare meglio, quindi serve un chiarimento”. Tutto è se vi pare, e la certezza è che a parlare è Luigi Di Maio, capo dei 5Stelle come al solito battuti in una regione, però questa volta senza prendere una batosta.

E basta a Di Maio per dare la colpa alla stampa, “che parla di crollo ma la verità è che abbiamo battuto tutte le altre liste, compreso il Carroccio”. E anche Roberto Fico cerca di aiutarlo, facendo trapelare che “il M5S resta il primo partito in Basilicata, ed è un risultato prezioso”. Ma la realtà forse è altrove. È nello sfogo di un big: “Se andiamo avanti così sarà un Vietnam”. E in altre sillabe, proprio sue, proprio di Di Maio, che trasudano rabbia. Perché il vicepremier morde Di Battista: “Non è il momento di mollare, è il momento di dare ancora di più. Non ci sono viaggi da fare…”. E il riferimento alla prossima trasferta in India dell’ex deputato è evidente. Come la successiva unghiata: “Qualche portavoce ha paura di andare in tv perché teme di essere aggredito”. Ed è un dito puntato contro il veterano che doveva recuperare la base, dando battaglia sui temi identitari come l’ambiente e il no al Tav. Insomma doveva (dovrebbe) aiutare a tenere a sinistra, dove il Pd recupera terreno nei sondaggi stando fermo, ed ecco perché Di Maio strilla contro i dem battuti “e il bipolarismo che non c’è”. Solo che l’ex deputato latita da oltre un mese, anche perché vuole capire se le promesse sulla Torino-Lione e sulla revoca della concessione ad Autostrade verranno mantenute. Invece Di Maio ha fretta e lo rampogna. Anche se Di Battista serve, per evitare il baratro nelle Europee. Lo pensano ancora ai piani alti, e lo dice il senatore Gianluigi Paragone, convinto che “per vincere è necessario un M5S cazzuto, e comunque non possiamo fare a meno di Alessandro”. Perché c’è voglia di vecchi bandiere.

Proprio ieri, a La Stampa, il premier Giuseppe Conte l’ha buttata lì: “Possiamo aggiungere temi condivisi al contratto di governo”. E per il corpaccione del gruppo parlamentare sarebbe un’ottima mossa. Gianluca Perilli, vicecapogruppo in Senato: “È necessario che il Movimento porti avanti temi identitari, dai diritti civili come il fine vita e la parità di genere a provvedimenti di carattere sociale. E per metterli sul tavolo si può fare ricorso il comitato di conciliazione, previsto dal contratto ma mai attivato”.

E un altro senatore, Emanuele Dessì, gli fa eco: “I diritti civili sono fondamentali”. Ma poi si torna a Di Maio, che a Quarta Repubblica ringhia contro la Lega: “La convivenza potrebbe andare meglio se si evitasse di mettere sempre quella parolina in più che sporca ogni provvedimento del M5S. Invece io ho taciuto sui rimpatri che non vengono ancora fatti”. Ma gli è tornata la voce, a occhio.

Il doppio forno continua. E si apre il caso Piemonte

Matteo Salvini procede come un rullo compressore. Senza però rinunciare ai toni pacati di chi ha fatto il colpaccio, inanellando una serie di successi, l’ultimo con il voto in Basilicata: fra una manciata di giorni o poco meno intende chiudere con Silvio Berlusconi la partita della candidature alle prossime elezioni regionali. A partire dalla corsa per la presidenza del Piemonte dove non è un mistero, la Lega vorrebbe imporre un suo uomo, galvanizzata dall’affermazione del Carroccio in Basilicata dopo l’exploit della lista in Abruzzo e il successo, seppure sotto le aspettative, in Sardegna.

Ma l’obiettivo del leader leghista, impegnato in queste ore a rassicurare tanto il centrodestra con cui corre unito alle regionali, quanto i 5 Stelle alleati di governo, è quello di umiliare il Pd. Quello che neppure il neosegretario Nicola Zingaretti torna a far volare, ma soprattutto quello dei potentati regionali. Dando tempo al tempo, con un po’ di fortuna e un asso nella manica: candidare tre donne nelle altre regioni rosse (Emilia Romagna, Toscana e Campania) per suggellare il definitivo bagno di sangue per i dem. “Stiamo arrivando dappertutto e spazzeremo via la vecchia classe politica”, ha detto Salvini. Prima però c’è il Piemonte. Qualunque sarà il candidato, espressione del Carroccio o di Forza Italia (come era inizialmente negli accordi in seno al centrodestra), “c’è da risolvere una pessima gestione da parte della giunta Chiamparino” ha detto Salvini parlando dal quartier generale di via Bellerio a Milano dopo l’ennesima vittoria, la settima, del centrodestra. Che in un anno supera il centrosinistra con 10 regioni conquistate a 9.

Il risultato in Basilicata torna a ringalluzzire il fronte di chi gli chiede di tornare tra le braccia di Berlusconi e Giorgia Meloni. E di staccare la spina all’alleanza di governo con i 5 Stelle. Usciti di nuovo sconfitti alle urne, ma che il Capitano non intende mortificare: “Gli sconfitti stanno a sinistra. I 5 Stelle hanno avuto un buon risultato rispetto alle ultime regionali e se fossi in Luigi Di Mario non sarei preoccupato” dice. Stoppando subito chi tenta di stanarlo sull’autosufficienza leghista, magari dopo le Europee: “Si sta meglio in due” dice schivando la tentazione della vanagloria.

Del resto non c’è fretta di passare all’incasso: il doppio forno funziona e regge, soprattutto per le debolezze altrui: far saltare il banco, anzi i banchi con Berlusconi da una parte e Di Maio dall’altra, al momento non gli conviene. Specie quando ancora c’è da risolvere la questione del partito che dovrà cambiare nome e identità per trovare una formula che suggelli il respiro nazionale e non più territoriale. E ponga al riparo la nuova Lega dalle richieste della magistratura che obbligano il Carroccio a restituire i 49 milioni di rimborsi indebitamente percepiti.

Mentre si cerca la quadra su questi aspetti legati alla governance interna, Salvini pensa già alle prossime scadenze elettorali: le amministrative che si terranno in concomitanza con le Europee, ma pure gli appuntamenti con cui ci si dovrà misurare nei prossimi mesi. In autunno si torna alle urne in Emilia Romagna dove il candidato sarà della Lega a meno di uno scambio dell’ultima ora con Forza Italia sul Piemonte. E poi ci sono gli appuntamenti del 2020: in Toscana la Lega vorrebbe candidare Susanna Ceccardi. In Umbria è in pole la senatrice Donatella Tesei da Montefalco, pasdaran salviniana. E la Campania? Qui si tenterebbe l’impronunciabile: in molti accarezzano l’idea che Giuseppina Castiello possa spuntare la candidatura per la presidenza strappandola a Mara Carfagna, nemica di Salvini.

Macron e Xi firmano 14 contratti: quello Airbus vale 30 miliardi

Nella spendida seraparigina c’è il vertice euro-cinese, per carità, con Angela Merkel e Jean Claude Juncker invitati all’Eliseo dal padrone di casa Emmanuel Macron per parlare con Xi Jinping a nome dell’Europa. E certo, la Francia aveva già espresso a voce “la preoccupazione sua e dell’Europa per i diritti umani e le libertà individuali in Cina” attraverso “un discorso franco che deve portarci a passi avanti concreti”. Prima e insieme a questo, però, e in attesa della concretezza sui diritti, il presidente Macron – che qualche giorno fa rimproverava all’Italia di muoversi da sola con Pechino invece di accodarsi alle mosse Ue – giusto ieri ha firmato quattordici concretissimi accordi commerciali col suo omologo cinese che spaziano dal settore nucleare all’aeronautica, dalle navi all’ambiente all’energia eccetera eccetera. Il tutto all’insegna di un “multilateralismo forte” e di un confronto economico “leale ed equilibrato”. È in questo spirito che la China Aviation Supplies Holding Company ha firmato ieri un maxi-ordine di 290 Airbus A320 e dieci A350 per la bellezza di 30 molto concreti miliardi di euro.

Arriva il golden power sul 5G: stop ad acquisti anche per un sospetto

La Commissione Ue,nell’incontro di oggi a Strasburgo, si occuperà anche di “sicurezza informatica e delle reti 5G”. Intanto il governo italiano, rispondendo alle preoccupazioni (o minacce) statunitensi sul ruolo delle aziende cinesi, si è portato avanti e nell’ultima bozza del decreto Brexit – approvato “salvo intese” mercoledì scorso e poi sparito dai radar – fa la sua comparsa l’ampliamento del golden power proprio alle reti 5G. La nuova norma prevede, e solo per l’internet di quinta generazione e solo per le aziende non Ue, che il governo possa esercitare i suoi poteri speciali nei settori strategici (bloccare, ad esempio, un’operazione) quanto all’acquisto di “beni e servizi relativi alla progettazione, realizzazione, manutenzione e gestione” delle reti 5G, ma anche “l’acquisizione di componenti ad alta intensità tecnologica” necessarie alla realizzazione o alla gestione. Non solo: il golden power potrebbe essere esercitato anche se si sospettano “fattori di vulnerabilità che potrebbero compromettere l’integrità e la sicurezza delle reti e dei dati”. Di fatto, il governo potrà escludere le cinesi Huawei e Zte (e la coreana Samsung), essendo gli altri giganti del 5G la svedese Ericsson e la finlandese Nokia.

Il vecchio re arrestato e rieletto: “Ho portato tanti voti, avrei vinto”

“non mi caverà una sola parola di bocca. La mia carriera politica si avvia alla conclusione. Della Basilicata parla mio fratello Marcello”. La Basilicata per un ventennio è stata affidata in comodato d’uso alla famiglia Pittella di Lauria. Il primogenito di Don Mimì, medico e senatore socialista deceduto l’anno scorso, è infatti Gianni, medico, oggi senatore del Pd, ieri europarlamentare, l’altro ieri assessore alla regione. Il secondogenito è Marcello, medico, oggi consigliere regionale di opposizione, ieri governatore, l’altro ieri assessore della Regione.

Marcello Pittella resta il re lucano.

Il re senza trono.

Una forza della natura: 9mila preferenze, primo degli eletti, con la lista personale.

Che fa più del Pd e di FI.

Porta in consiglio con le sue sole forze altri 4 consiglieri di diretta emanazione.

E taciamo dei voti raccolti dagli altri amici nelle liste collegate, ai quali avevo chiesto un sacrificio: correre per portare voti al centrosinistra.

Sebbene impedito dagli arresti domiciliari.

Impedito è la parola giusta.

Per qualche raccomandazione di troppo nella sanità. E che sarà mai!

Non mi tiro indietro, conosco il bisogno. Lei converrà. Magari non siamo nell’ortodossia, magari la raccomandazione è sconveniente, ma più di questo non c’è.

Nulla nulla?

Assolutamente…

Anche due suoi amici intimi (Cifarelli e Braia), indagati, sono stati eletti.

Il mio credo garantista mi fa dire che il giudizio finale è lo spartiacque. Bisogna considerare innocenti tutti fino a sentenza definitiva.

Pittella è innocente.

Gliel’ho detto. Il mio comportamento da un punto di vista etico può essere discusso ma assolutamente…

Tanto è vero che era pronto a ricandidarsi a governatore.

Lo meritavo. E l’80% del mio partito chiedeva il bis.

Candidato per rispettare la volontà popolare.

Novemila preferenze dove le mette? Preferenze singole, personali, dedicate. I voti non sono patate, non è che la semina si fa una volta e poi per tutta la vita dormi tranquillo. I voti bisogna innaffiarli ogni giorno, sono il frutto dell’impegno, dell’empatia, della dedizione.

Pittella forever: il Fatto.it le dedica l’apertura.

Concordo. È meritata.

Diciamocelo: Marcello Pittella avrebbe potuto gareggiare da governatore e perfino spuntarla.

Il bis era nelle cose. Avrei potuto illustrare i tanti impegni assunti, quelli portati a termine, le cose belle fatte.

Non l’hanno voluta.

Torno a fare il consigliere.

Non si stanca mai.

La politica è dedizione, missione.

E passione.

Passione, naturalmente. Ricordi che avevo rinunciato a candidarmi alle Politiche lo scorso anno. Ritenevo giusto ripresentarmi in Regione.

Con lei in campo il Pd non avrebbe preso la batosta…

Con me in campo… beh posso dire che il collegio uninominale me lo sarei guadagnato.

Senta Marcello, ma non è che siano troppi i Pittella per la Basilicata.

Forse è troppo, sì.

Le fa onore questa sincerità.

Però non si resta sulla cresta dell’onda per 50 anni per decreto. Vuol dire che c’è un lavoro, un impegno, una dedizione.

La passione, dicevamo…

La passione, esattamente.

Comunque, il Pd perde e Pittella con la sua lista personale vince. Anche nell’ora mesta della débâcle un nome si stacca e avanza.

La realtà è insuperabile. Bisogna tenerne conto.

Mettiamo che Zingaretti la chiami domani per un impegno nazionale.

Io ci sono.

Non dubitavo.

Vado dove servo.

A proprosito di servitù: il petrolio, oltre che annerire le montagne, serve alla Basilicata? I giovani scappano, il trend demografico piega verso il declino…

Si potevano fare accordi migliori con l’Eni. Io sono arrivato quando i negoziati erano già chiusi.

Il petrolio inquina, i lucani tossiscono.

Le royalties servono a tenere in piedi l’Università, a pagare i forestali. Se non ci fosse il petrolio…

Lei non si capacita del perché non sia governatore. Ha indicato Trerotola alla guida solo per dimostrare come si possa perdere.

Trerotola è un nome rispettato, è riuscito a tenere in piedi le diverse anime, ha affrontato una sfida difficilissima.

Senza un Pittella al governo la Basilicata sarà una gattina cieca.

Buonasera.

Il generale temeva d’esser stato bruciato, ma alla fine ha vinto

“I lucani hanno risposto presente”! È un ex generale della Finanza in pensione e quindi parla come un generale, il neo governatore della Basilicata Vito Bardi, l’uomo scelto da Silvio Berlusconi per estirpare la pianta appassita del centrosinistra nell’ex feudo dei Pittella’s. Bardi, ex vicecomandante generale delle Fiamme Gialle, residente a Napoli, due volte indagato a Napoli dal pm Henry John Woodcock e due volte archiviato, che non si è potuto auto-votare e che ancora non ha deciso se andrà a vivere in Basilicata. “Penso che mi trasferirò, ho una casa vicino a Potenza”, ha detto ai microfoni di Un giorno da Pecora. Bardi che parla “sia lucano che napoletano”, tifa Napoli e Potenza “visto che una gioca in A e l’altra in C”, e assapora Amaro Lucano sin da bambino, “me lo faceva bere mia nonna anche quando avevo 10 anni”. Fin qui il colore. Ci sarebbe un’altra capitale del Mezzogiorno che ha fatto parte prepotentemente della vita e della carriera di Bardi, ed è Bari.

Da Bari infatti si sviluppa una vecchia storia che lo collega a Berlusconi. È quella delle escort che l’imprenditore pugliese Gianpaolo Tarantini ingaggiava per allietare le serate dell’allora premier. Bardi – come ha ricostruito ieri Repubblica – fu tra i pochi partecipanti il 26 giugno 2009 a una riunione di coordinamento tra i pm baresi e i finanzieri che indagavano sulle cene eleganti a Palazzo Grazioli. È lì in qualità di comandante interregionale del Sud e, scrivono i magistrati di Lecce, è presente “per riprendere aspramente e con toni assai duri il colonnello del nucleo di Polizia tributaria che aveva omesso di tenerlo aggiornato sul contenuto e lo sviluppo delle indagini”. Ai pm di Lecce che gli chiedono perché voleva essere informato lui, quando la linea gerarchica prevedeva che il colonnello riferisse al comandante regionale, Bardi risponde con una serie di “non so” e “non ricordo” fino al punto di prospettare “il dubbio di non essere stato presente a quella riunione”. L’indagine leccese non riuscirà a chiarire come effettivamente andarono le cose e perché Bardi fosse così interessato a un’inchiesta che segnò l’inizio della fine del governo Berlusconi. Poco dopo Bardi diventa vicecomandante generale. Poi finisce nel mirino della Procura di Napoli.

Indagine P4. Un imprenditore, Luigi Matacena, che ha ‘scudato’ 2 milioni e mezzo di euro dalla banca Hsbc di Lugano e fa parte della ‘lista Falciani’, racconta a Woodcock di aver pagato nel 2010 un pranzo con Bardi e un altro generale della Finanza, Michele Adinolfi. Penalmente irrilevante, forse i commensali non sapevano. Poi Woodcock e l’attuale procuratore capo di Potenza Francesco Curcio il 9 marzo 2011 raccolgono un verbale di Luigi Bisignani che tira in ballo genericamente Bardi come presunta ‘fonte’ delle soffiate che avvisarono l’ex magistrato ed ex deputato di Forza Italia Alfonso Papa dell’esistenza dell’inchiesta. Il 14 marzo Bisignani è più preciso: “(Papa, ndr) mi disse che era andato anche da Bardi il quale gli aveva confermato dell’esistenza dell’indagine, ma che, tuttavia, lo aveva rassicurato dicendo che era di scarso peso”. Il generale spiegherà di aver solo fatto il suo dovere: riferì ai superiori gerarchici dell’inchiesta ma nega di essere la fonte di Papa. Gli approfondimenti investigativi gli daranno ragione.

Siamo al 2014. Mentre i carabinieri del Noe che indagano su Cpl Concordia intercettano il renziano Dario Nardella mentre discute con il generale Michele Adinolfi l’organizzazione di un pranzo tra loro due e Bardi a casa di Adinolfi, circostanza anche questa penalmente irrilevante ma che aiuta a capire la rete dei rapporti del generale nella politica e nel corpo, Woodcock indaga nuovamente Bardi per rivelazione di segreto ma in un altro fascicolo: Mendella, uno dei pupilli del generale, viene arrestato per corruzione e si fa viva l’ex moglie di un imprenditore delle farmacie che dice di sapere dell’esistenza di un esposto anonimo sui rapporti tra il marito e il colonnello Gdf: “Mendella disse al mio ex marito che era stato chiamato dal suo Comandante Generale Bardi e che a seguito di tale esposto anonimo le società di mio marito sarebbero state destinatarie di una verifica della Finanza”. Anche stavolta l’indagine su Bardi si dissolverà nel nulla. Il generale si farà intervistare dopo l’archiviazione: “Ero a fine carriera, avrei potuto avere altri incarichi, ma le occasioni sono state bruciate. I pm non mi hanno mai sentito, avrei chiarito tutto subito”. L’occasione invece è arrivata, in politica. E Bardi l’ha afferrata al volo.

Anche il Sud s’è destro, ma il tripolarismo è vivo

È difficile trarre conclusioni univoche da un voto come quello della Basilicata: solo trecentomila elettori (peraltro con un’astensione che sfiora il 47%) e un sistema di potere in dissoluzione dopo scandali a ripetizione. Numeri da prendere con le molle, dunque, anche se qualche notizia c’è e la più rilevante è questa: il centrodestra, imbarcando una discreta dose di trasformisti, strappa la Regione al centrosinistra dopo oltre due decenni e lo fa candidando un generale della Finanza, Vito Bardi.

C’è poi una notizia correlata a questa: la Lega di Matteo Salvini è davvero diventato un partito nazionale e in un’estrema periferia meridionale come la Lucania mette assieme il 19% dei voti, un’enormità che segue il 27% in Abruzzo e l’11% in Sardegna (a cui però va sommato il 9 e dispari del Partito sardo d’azione, federato con Salvini). La terza notizia, ma questa difficilmente sarà riconosciuta dai grandi media, è che il Movimento 5 Stelle barcolla ma non crolla: pur perdendo ottantamila voti rispetto alle Politiche, resta il primo partito col 20 virgola qualcosa per cento e, nel complesso, se la cava meglio rispetto al 2013 (Luigi Di Maio può così scansare le Idi di marzo grilline, in attesa del dopo-Europee).

Si sfascia invece – ed era prevedibile visti gli scandali sofferti e più in generale l’aria che tira nel Paese – l’antica struttura di potere del Pd in Regione, che aveva vinto le ultime quattro tornate con percentuali tra il 67 e il 60%: il candidato del centrosinistra Carlo Trerotola, scelto dal predecessore indagato Marcello Pittella e noto per le passate simpatie missine, s’è fermato al 33,1% nonostante la coalizione larga “alla Zingaretti” comprendesse anche la lista progressista messa in piedi dal bersaniano lucano Roberto Speranza. Notevole, infine, che gli eletti del centrosinistra siano praticamente solo “pittelliani”: nelle istituzioni regionali il centrosinistra è oggi di fatto un “partito personale” o, meglio, “familiare”.

Per suffragare quanto detto finora bisogna usare un po’ di numeri e fare confronti col passato. Il caso più rilevante riguarda ovviamente il centrodestra, che nel novembre 2013 aveva messo assieme in tutto 48mila voti pari (19,4%) e ora passa a 124mila (42,2%). All’interno della coalizione, la Lega – che sei anni fa alle Regionali non correva, mentre alle Politiche di febbraio 2013 aveva raccolto 382 preferenze – passa dai 19.700 voti del 4 marzo scorso (6,2%) ai 55.300 attuali (19,1%) e nonostante un’affluenza in calo di oltre 50mila unità. Forza Italia, invece, conferma il suo declino e raccoglie 26.400 voti (9,1%) contro i 29mila delle regionali precedenti (12%) e i 38.900 delle Politiche (12,4%). Notevole che, a stare ai numeri, questa volta la Lega non si sia limitata a cannibalizzare l’alleato, ma abbia sostanzialmente sottratto i suoi voti a Pd e soci. Il centrosinistra in sei anni passa infatti da 147mila a 97mila voti totali (dal 59,6% al 33,1%), la lista del Pd da 58.700 (24,8%) a 22.400 voti (7,75%) passando per i quasi ottantamila delle Politiche del 2018 (25,6%). Restano stabili, ma residuali, i voti a sinistra dei democratici: erano 12mila e dispari nel 2013 e quelli sono in questo 2019.

Il caso più complesso è quello del M5S: resta il primo partito nella piccola Basilicata, ma coi suoi 58.600 e dispari voti (20,3%) tracolla rispetto alle Politiche di un anno fa, quando ramazzò il 44,3% e 139mila voti abbondanti. Un crollo simile ad altri (l’Istituto Cattaneo calcola che, dove si è votato dopo le Politiche, il Movimento è passato dal 36% al 15%), ma anche un andamento abbastanza tipico per i 5 Stelle tra voto nazionale e locale. Il precedente, molto simile, è quello del 2013, quando in Basilicata passarono dai 75.260 voti delle Politiche di febbraio (24,2%) ai 21.219 voti delle Regionali di novembre (9%).

Il particolare positivo per Di Maio e soci è che domenica c’è stato pochissimo voto disgiunto tra candidato e lista (60.070 al primo, 58.658 alla seconda): potrebbe significare che esiste uno “zoccolo duro” grillino ormai non disprezzabile. La notizia della morte del tripolarismo – parafrasando una celebre battuta attribuita Mark Twain – potrebbe essere grossolanamente esagerata.

Amaro lucano

Immaginate che accadrebbe se i 5Stelle, anziché espellere Marcello De Vito dopo l’arresto per corruzione, si alleassero alle prossime elezioni comunali con lui, promotore di una lista denominata “Avanti Roma” e per giunta nascondessero il proprio simbolo miniaturizzandolo sotto uno strano logo “Comunità Pentastellate”. Arriverebbe l’ambulanza e se li porterebbe via tutti, fra le risate generali e la preoccupazione dei sanitari. Invece è esattamente quel che ha fatto il Pd in Basilicata, nell’indifferenza generale (soprattutto degli elettori). In quella regione, governata per oltre 40 anni dalla Dc di Emilio Colombo e per 25 dal centrosinistra dei Pittellas, si è votato ora perchè il 6 luglio scorso il governatore Pd Marcello Pittella era stato arrestato in un mega-scandalo di raccomandazioni e concorsi truccati nella sanità. Più o meno la stessa scena si era verificata nel 2013, quando il governatore Pd Vito De Filippo si era dimesso anzitempo per lo scandalo Rimborsopoli, trascinando anche allora la Regione alle elezioni anticipate. De Filippo fu subito premiato con un posto di sottosegretario da Renzi e Gentiloni.

Insomma, erano almeno 10 anni che il Pd lucano tentava di convincere gli elettori a votargli contro. Ma quelli niente, continuavano imperterriti a premiarlo, incuranti degli scandali. Stavolta, all’ennesimo tentativo, l’impresa di consegnare al centrodestra anche la riottosa Basilicata è finalmente riuscita. E così domenica, mentre a Roma tuonava contro i 5Stelle che avevano espulso De Vito un paio di minuti dopo l’arresto, il Pd si presentava in Lucania alleato con “Avanti Basilicata”, la lista di Pittella che, in caso di condanna in primo grado, perderebbe il posto in base alla legge Severino. Candidava a nuovo governatore un fedelissimo pittelliano, tal Carlo Trerotola, noto per i trascorsi giovanili nel Msi e per le serenate senili alla buonanima di Almirante, dunque molto di sinistra, col contorno di due candidati imputati. E nascondevano il simbolo del Pd miniaturizzandolo sotto uno strano logo “Comunità Democratiche”, che riusciva in un’altra triplice impresa: scendere dal 24,8 al 7,7%; prendere meno voti della lista dell’ex governatore arrestato (all’8,6%); e gridare alla quasi-vittoria (Repubblica, sempre spiritosa, parla di “tenuta del centrosinistra” e di “botta al governo”), al ritorno del bipolarismo destra-sinistra e all’immancabile disfatta dei 5Stelle (che hanno raddoppiato i voti delle regionali e dimezzato quelli delle politiche, mantenendo comunque l’inutile primato di partito numero uno in Regione).

Ora, quando si vota alle Regionali, vince chi arriva primo e va al governo. In Basilicata, come già in Abruzzo e in Sardegna, ha vinto il centrodestra che prima non governava, con un generale amico di B. che pare uscito dal film “Vogliamo i colonnelli”. E ha perso il centrosinistra che governava da sempre. I 5Stelle confermano la luna calante, che però si arresta sopra la soglia psicologica del 20%: e non era facile, in un voto dominato dai capibastone e dalle lobby locali, che infatti ha premiato liste colme di imputati. Ora, tentare di trapiantare questi dati su scala generale è assurdo, perchè i cosiddetti “centrosinistra” e “centrodestra” lucani non hanno nulla a che vedere con gli omonimi schieramenti nazionali: nessuno sa come voterebbe alle Europee chi ha scelto nel centrodestra “Idea-Un’altra Basilicata” e “Basilicata Positiva Bardi Presidente” (insieme 8,2%) e nel centrosinistra “Avanti Basilicata”, “Progressisti per la Basilicata”, “Partito socialista italiano”, “Basilicataprima Riscatto”, “Lista del Presidente Trerotola”, “Verdi Realtà Italia” (23,5% in tutto). Salvini è l’unico che va a gonfie vele anche in Lucania (prima non c’era, ora è al 19,1%), ma almeno lì ha bisogno degli alleati (che lo superano col 23,2%). Invece, su scala nazionale, ha da solo più del doppio di FI+FdI, ma li schifa al punto da non volerci governare insieme.
Sul disastro del centrosinistra l’incolpevole Nicola Zingaretti non fiata, anzi si consola: “L’alternativa a Salvini siamo noi”. Se parla della Basilicata, si spera che scherzi: un partito ridotto all’8%e costretto a nascondere il simbolo e coalizzarsi con l’ex governatore arrestato, può essere al massimo l’alternativa a se stesso. Se parla dell’Italia, anche se il 21% degli ultimi sondaggi fosse vero, dovrebbe spiegare dove prenderà il 30% che gli manca per superare il centrodestra (vicino al 50%), posto che con Di Maio non vuole prendere neppure un caffè. Il M5S, oltre alle migliorie organizzative che daranno frutti solo a lungo termine, deve prepararsi a una fase nuova: se è vero che si sono fermate sia la sua caduta sia l’ascesa della Lega, dovrebbe smettere di fasciarsi la testa e continuare a lavorare sulle leggi buone e identitarie, dall’acqua pubblica al salario minimo, e sperare in una partenza positiva del reddito di cittadinanza prima dello show down europeo. Ma senza più l’ansia di dover salvare a tutti i costi (Diciotti docet) la maggioranza giallo-verde: ormai l’eventuale caduta del governo terrorizza più Salvini che Di Maio. Salvini s’è gonfiato proprio perché sta al governo, mentre il M5S s’è sgonfiato proprio perché sta al governo (fa cose inevitabilmente divisive, e le comunica malissimo). Ma non è detto che la cura dimagrante di questi 8 mesi, per Di Maio&C., sia un handicap. Chi ha già perso molti voti e mantiene il suo zoccolo duro può stare al governo più serenamente: non teme di perderne altri e lavora per risalire. Invece per Salvini le Europee-boom potrebbero essere il bis di quelle del 2014 per Renzi: il canto del cigno prima che il pallone gonfiato cominci a sgonfiarsi. A quel punto, a giovarsene sarà chi si farà trovare pronto.

Stati e statisti. “Salvini prende le distanze da Xi” (

La Stampa, 24.3). Si vede che fa già capoluogo.

Guarda come rotolo. “Non ho mai fatto politica, non sono mai andato ai comizi se non a quelli di Giorgio Almirante. Ogni tanto lo ascolto anche adesso, ma non è una scelta politica…” (Carlo Trerotola, candidato del centrosinistra a governatore della Basilicata, in un comizio in piazza, 2.3). “Ma qual è il problema? Io ascolto i discorsi di Almirante, come mi capita di ascoltare i discorsi di Moro, o di Berlinguer. C’erano cose buone da una parte e dall’altra…” (Trerotola, La Stampa, 8.3). Fortuna che è del Pd, sennò gli davano del fascista.

Tony Diesel. “Che auto utilizzo? Io ho una Golf a Gpl del 2007… poi con mia moglie abbiamo appena comprato una Jeep Compass… diesel… lo so, non rimedierò mai a questo errore” (Danilo Toninelli, M5S, ministro dei Trasporti, Tg2 Motori, 18.3). Gretaaaaa, dove seiiii?

Voce del verbo. “Ancora un italiano su due ha fiducia in questo governo. Svegliatevi, aprite gli occhi e domandatevi: sono coglione o sono una persona intelligente? Risposta: sono un coglione” (Silvio Berlusconi, presidente FI, 15.3). Ma soprattutto: ero.

L’ultima speranza. “Berlusconi: ‘Basilicata? Sono fiducioso’” (il Giornale, 22.3). Spera nei coglioni.

Leggere e scrivere. “Sicuramente Silvio Berlusconi non ha ordinato il probabile avvelenamento di Imane Fadil” (Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano, 19.3). “Siccome la ragazza (Imane Fadil, ndr) aveva partecipato ad alcune serate ad Arcore (sic, ndr), ecco che per forza nella sua prematura scomparsa doveva esserci lo zampino di Silvio Berlusconi o chi per lui, come dato per certo da Marco Travaglio, uno che vede trame e complotti ovunque e sforna una condanna definitiva al giorno” (Alessandro Sallusti, il Giornale, 23.3). Già si sapeva che Sallusti non sa scrivere. Ora si scopre che non sa neppure leggere.

Avvisate Sallusti. “Giallo sulla morte della modelal del ‘caso Ruby’. È stata avvelenata. Morta a 34 anni Imane Fadil: mix di sostanze radioattive” (il Giornale, 16.3). “Avvisate Travaglio: la testimone morta non era radioattiva. Si sgretolano le ricostruzioni complottiste del Fatto” (il Giornale, 22.3). E Sallusti e il suo Giornale, di grazia, chi li avvisa?

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