Vince Bardi, gode Salvini. Un altro tonfo dei 5Stelle

Vince ancora Matteo Salvini. Vince sempre la destra, anche in Basilicata. È solo la prima proiezione ma il margine è ampio: il centrodestra è stimato al 41,4%, il centrosinistra tra al 33,9, i 5Stelle al 20 e la sinistra tra al 4,7. L’affluenza è cresciuta rispetto alle Regionali di 6 anni fa: ha votato il 53,58% dei 570mila lucani che ne avevano diritto. Nel 2013 si fermò al 47,6%.

Insomma: a meno di clamorose sorprese nella notte – il giornale va in stampa mentre inizia lo spoglio – sarà l’ennesima festa per il Capitano e i suoi. La destra si prende la Regione per la prima volta: qui si era passati dalle giunte del centro-sinistra “organico” (Dc e socialisti, anni ‘70 e ‘80) a quelle dell’Ulivo, dell’Unione e infine del Pd.

Vince Vito Bardi, il candidato-generale della Guardia di Finanza che non ha potuto nemmeno votare, perché è residente a Napoli e non nella Regione che si appresta a governare. Perde il Pd che inaugura la segreteria Zingaretti con una sconfitta quasi annunciata, viste le inchieste che hanno affossato l’ultima giunta e la pochezza del candidato Carlo Trerotola, il farmacista che simpatizza per Almirante. Si chiude il dominio lucano dei Pittella, anche se i risultati della lista dell’ex presidente Marcello (Avanti Basilicata, tra il 6 e il 10%) confermano l’importanza della family.

Perdono soprattutto i Cinque Stelle, nella Ragione delle trivelle e delle battaglie ambientali. Alle Politiche del 4 marzo 2018 avevano centrato un risultato clamoroso (44,3%), ora i numeri sono più che dimezzati (anche se nel 2013 erano al 13,2%). Come già in Abruzzo e Sardegna confermano di essere irrilevanti nei voti amministrativi e logorati da un anno di convivenza al governo con un alleato troppo ingombrante.

Bardi, il generale in congedo delle fiamme gialle, è stato scelto da Silvio Berlusconi, ma il successo è tutto di Salvini. La Lega si avvicina a un successo impressionante: sei anni fa non si era nemmeno presentata, ora rischia di diventare il primo partito della Basilicata: secondo gli exit poll sarebbe tra il 16,5 e il 20,5%. Forza Italia tiene: è tra l’11 e il 15%, cifre simili a quelli delle ultime politiche e Regionali. Fratelli d’Italia è tra il 5 e l’8%.

Il doppio tavolo di Salvini continua a funzionare a meraviglia: a livello nazionale sta consumando i suoi alleati di governo, a livello locale è il perno di una coalizione infallibile: quella in Basilicata è l’ultima vittoria di un filotto iniziato dopo il 4 marzo: Trento, Friuli, Molise, Abruzzo e Sardegna. Manca l’ultimo tassello: il 26 maggio si vota in Piemonte e soprattutto per il rinnovo del Parlamento europeo. Un’altra batosta dei Cinque Stelle sarebbe difficile da ignorare per la tenuta del Movimento e dell’esecutivo.

Nel frattempo, per capire l’entità della più che probabile vittoria di Salvini e della destra in Basilicata, possono tornare utili alcune cifre.

La più clamorosa: non solo il centrosinistra ha vinto ininterrottamente dal 1995, ma dal 2000 i suoi candidati alla presidenza non avevano mai ottenuto meno del 60% (solo Marcello Pittella si era fermato al 59,6). La Lucania era a tutti gli effetti terra rossa.

Almeno fino al 4 marzo 2018: il 44,3% dei Cinque Stelle nelle Politiche aveva rivoluzionato la cartina politica della Regione. Un anno più tardi il vuoto lasciato dall’effimero exploit grillino non è stato colmato dai vecchi padroni ma dalla nuova coalizione egemone in quasi tutto il Paese.

Il centrodestra veniva dal 19,4% quasi imbarazzante delle Regionali del 2013 e nell’ultima decade non si era mai spinto al di sopra del 34,9% (Europee del 2009). Erano gli anni ruggenti del Cavaliere, ora siamo nella stagione del Capitano.

Acqua pubblica, la crociata grillina arriva in Aula

Dopo più di 10 anni di battaglia, i cui ultimi otto mesi sono stati scanditi dai lavori della Commissione Ambiente e da 250 emendamenti, il disegno di legge sulla gestione pubblica dell’acqua sarà discusso oggi in Aula. Il testo, a prima firma della Cinque Stelle Federica Daga (l’acqua pubblica è la prima delle cinque stelle de logo del Movimento), trae ispirazione dalla proposta di iniziativa popolare formulata nel 2007 dai Forum dei movimenti per l’acqua pubblica che raccolsero più di 400mila firme. E arriva a 8 anni dal referendum del giugno 2011 in cui 27 milioni di italiani (il 54% dei votanti) si sono schierati contro la privatizzazione e la mercificazione di una risorsa preziosa e comune. Ma se la volontà popolare è stata chiara, la stessa cosa non si può dire di quello che deciderà in Parlamento la maggioranza che, ancora una volta, si trova divisa con i due vicepremier Salvini e Di Maio pronti a ingaggiare una nuova battaglia.

“Fuori i profitti dall’acqua, fuori l’acqua dal mercato. Non intendiamo fare passi indietro”, ribadisce la Daga. Una rivoluzione che per i 5Stelle si basa sulla creazione di aziende speciali, facendo decadere le attuali concessioni e lasciando al ministero dell’Ambiente il compito di stabilire le tariffe. Il modello contestato è quello delle grandi multiutility quotate in Morsa, accusate di voler solo arricchire gli azionisti. Ma, nonostante il progetto dell’acqua pubblica sia anche a pagina 2 del Contratto di governo, la Lega ha idee opposte: punta a lasciare ai vari enti di governo la facoltà di scegliere tra società di capitali (individuate attraverso gare pubbliche), società a capitale misto pubblico privato e soggetti in house.

Contro la legge, fortemente sostenuta dal presidente della Camera Roberto Fico, c’è anche un altro fronte del no. Dai sindacati preoccupati per “il futuro di 70mila posti di lavoro” e “un blocco agli investimenti di 2,5 miliardi”, agli amministratori del Nord che rivendicano esperienze positive, fino ai gestori del ciclo idrico integrato che parlano di possibili perdite per lo Stato. Si tratta di 7 miliardi di euro all’anno di oneri ricorrenti, cui si aggiungono altri 15 miliardi di euro una tantum. Per sostenere il servizio idrico in assenza di tariffa, secondo uno studio elaborato dalla società di consulenza economica Oxera per Utilitalia (il servizio idrico in assenza di tariffa), si dovrà far leva sulla fiscalità generale e si potrebbe arrivare, per il primo anno, anche a 22,5 miliardi di euro.

Per conoscere i numeri si attende la relazione tecnica al provvedimento richiesta dalle opposizioni, oltre al parere del ministero dell’Economia per reperire le coperture di costi e oneri della gestione pubblica dell’acqua.

Accordo nel governo gialloverde permettendo.

Conte: “Non lavorerò a un nuovo esecutivo. La mia esperienza termina con questo”

“Non ho la prospettiva di lavorare per una nuova esperienza di governo”, quindi l’avventura a Palazzo Chigi terminerà con questo esecutivo. Dalla sua Puglia, Giuseppe Conte esclude altri impegni politici dal suo futuro (e prova a mettere a tacere le voci che si erano rincorse negli ultimi giorni su un possibile suo “movimento civico” pensato a sostegno dei pentastellati). “In questo momento siamo al governo non si può pensare ad una prospettiva di governo futura: gli italiani ci chiederanno conto di quello che abbiamo fatto ieri, oggi e domani mattina”, ha detto il premier a margine di un accordo tra Cnr ed Eni. “Non bisogna pensare come nella vecchia politica ad una chance di governo, iniziare a lavorare per un domani: sarebbe una prospettiva completamente sbagliata“

La marcia per il clima sparisce dai giornali

Due pesi, due misure. Da una parte c’è “l’onda verde”: i 50mila di sabato pomeriggio a Roma che, dopo la manifestazione del 15 marzo in difesa del clima, hanno organizzato un corteo chilometrico contro le grandi opere inutili. Dall’altra parte ci sono le madamine Sì Tav e gli umarell, sempre a caccia di nuovi cantieri per passare il tempo, che si sono ritrovati in piazza a Torino il 12 gennaio scorso. Ma quella che la stampa ha definito “onda arancione” era un po’ meno folta di due mesi prima: da 25 a 15 mila manifestanti. Eppure a leggere i giornali di domenica una cosa è lampante: della marcia che ha attraversato le strade di Roma, affollate da decine di comitati e gruppi di lotta territoriale – massiccia la presenza delle associazioni, degli studenti, dei movimenti No tav, i No Triv, i No Tap e dei cittadini di Taranto che chiedono la chiusura dell’Ilva – i maggiori quotidiani italiani non ne hanno dato riscontro, mentre la eco per la manifestazione di Torino negli scorsi mesi è arrivata direttamente sulle prime pagine.

“L’onda verde”, con le sue 160 sigle aderenti, non trova spazio per un articolo, un boxino o nemmeno una breve notizia fotografica nelle oltre 60 pagine del Corriere della Sera. Insomma, una non-notizia quella che ha visto per la prima volta in Italia un unico fronte per dire basta a un modello di sviluppo vincolato al fossile e allo sfruttamento dei territori. Dello stesso parere anche Il Giornale, Libero e Il Sole 24 Ore. Su Il Messaggero, il quotidiano storico della Capitale, del corteo si trova traccia a pagina 42, nelle pagine della cronaca di Roma. Ma già dal titolo “Esquilino blindato per i No Tav” si può capire che la notizia non è la lotta per l’ambiente e contro le grandi opere inutili, ma il centro della città paralizzato subito dopo la partenza del presidente cinese Xi Jinping.

Repubblica dedica alla marcia il basso di pagina 7, ma nel racconto non riporta le polemiche generalizzate contro i partiti politici: da Di Maio raffigurato come Gigi la trottola allo slogan “Meno Salvini, più pinguini”. Sabato è stato preso di mira per la sua posizione Sì Tav anche il neo segretario del Pd Zingaretti. A usare, invece, solo il taglio politico per raccontare di una sfilata in difesa dell’ambiente e della salute è La Stampa che a pagina 6 titola: “Migliaia in piazza contro le grandi opere. Usati dal M5s: ha tradito le promesse”. È così che studenti, ambientalisti, operai e intere famiglie si sono trasformati per il giornale promotore del Tav “in pentiti dichiarati” ed “arrabbiati contro Di Maio e il suo governo”. Forse sarebbe stato utile ricordare anche che l’obiettivo della marcia era lottare per migliorare il mondo in cui viviamo.

La Lega ora ammette il bluff: Olimpiadi, paga pure lo Stato

“Andate avanti voi, poi i soldi arrivano”. Il tacito accordo tra Lega e Regioni leghiste per salvare la candidatura di Milano-Cortina, blandendo il M5S, si sta già realizzando. Altro che Giochi dell’autonomia: se l’Italia se le aggiudicherà, le Olimpiadi invernali 2026 saranno pagate (anche) dallo Stato. C’è chi parla addirittura di un impegno scritto in uno degli ultimi consigli dei ministri. Di sicuro ormai anche fonti del governo confermano: “C’è la volontà politica di finanziare i Giochi”. Resta da capire come e quanto: intanto il sottosegretario Giorgetti promette un contributo per gli impianti. E in Senato arriva un ddl per stanziare 380 milioni.

Sono passati sei mesi dal via libera alla candidatura, a condizione dell’autofinanziamento di Lombardia e Veneto e del mancato onere per lo Stato. La Lega è stata favorevole ma senza esagerare, per non urtare la sensibilità degli alleati 5 Stelle (storicamente allergici ai cinque cerchi). Adesso il bluff viene smascherato. “Il governo dovrà trovare i fondi, viva le Olimpiadi”, tuona Salvini. Cos’è cambiato è presto detto: il Carroccio si sente forte, il M5s ha altri problemi. E c’è stato il finanziamento alle Atp finals di tennis a Torino, voluto proprio dai 5 Stelle con intercessione del premier Conte per restituire consenso alla sindaca Appendino. Un precedente pesante: diventa difficile dire no ai Giochi.

In caso di vittoria su Stoccolma (l’assegnazione a giugno), una parte delle Olimpiadi sarà pagata con fondi statali. Non tutte: l’idea è intervenire sulle strutture. Nell’ultimo vertice a Palazzo Chigi in cui è stato presentato lo studio costi-benefici (realizzato da La Sapienza e ovviamente positivo: +186 milioni) Giorgetti ha aperto alle Regioni: il governo finanzierà progetti specifici che possano lasciare un “eredità sociale” al territorio. In realtà nel dossier non ci sono tanti impianti che giustificano questa spesa. L’investimento più oneroso (il PalaItalia a Santa Giulia, 69 milioni di euro) è privato. La pista di bob a Cortina (47 milioni) è per una disciplina di nicchia), lo stadio del ghiaccio di Pinè a Trento vale 32 milioni. Un’idea potrebbero essere i villaggi olimpici, per cui erano già previsti 95 milioni pubblici (su 180 totali): diventeranno residenze universitarie e Milano, alloggi per la protezione civile a Cortina o per atleti a Livigno. Dettagli: un modo per spendere i soldi si trova. Nella prossima lettera che il governo invierà al Cio ad aprile potrebbe essere eliminata la clausola sull’ “autofinanziamento regionale”.

Sta al comitato di Mi-Co stilare la “lista della spesa” da presentare a Palazzo Chigi nelle prossime settimane. Intanto c’è chi pensa in grande. Il capogruppo leghista in Senato, Massimiliano Romeo, ha presentato un disegno di legge che prevede un contributo di 20 milioni di euro dal 2019 al 2022 e di 75 milioni dal 2023 al 2026. In totale fanno 380 milioni, più meno il costo delle Olimpiadi. Non si tratta di un’iniziativa individuale, ma di una proposta “condivisa con i vertici del partito” (cioè Salvini e Giorgetti). Il ddl in aula troverebbe sponda nell’opposizione, la Lega non vuole creare un caso in maggioranza, solo lanciare un messaggio chiaro agli alleati: i 5 stelle non possono più dire no. Così una cifra minore, più facile da stanziare e accettare per entrambe le parti, potrebbe essere inserita già in uno dei prossimi decreti. I soldi stanno arrivando: è solo questione di tempo.

giro Ma mi faccia il piacere

Pizza al Tav/1. “Patto Chiamparino-Pizzarotti: alleanza nel segno dei sindaci. Il presidente del Piemonte si allea con l’ex consigliere M5S: con noi il pragmatismo vince in politica” (Repubblica, 18.3). Ora il trasformismo si chiama pragmatismo.

Pizza al Tav/2. “La Lista di Italia in Comune debutta in Piemonte. Pizzarotti avverte Chiamparino: ‘Non si può parlare solo di Tav’” (La Stampa, 18.39. Giusto: potreste parlare anche di inceneritori.

Il corridore. “Corro, ora il Pd è molto più inclusivo. Sono pronto a fare il capolista nel Nord Ovest alle Europee. Dialogare con i 5Stelle? Impossibile” (Giuliano Pisapia, ex deputato ed sindaco di Milano per Rifondazione comunista, ora Pd, Corriere della Sera, 20.3). Sollievo fra i 5Stelle: con tutti i casini che hanno, gli mancava solo il dialogo con Pisapia.

Il paracadutista. “Alle Europee sarò capolista del Pd nel Nord Est” (Carlo Calenda, romano, ex Connfindustria, ex Ferrari, ex Italia Futura di Montezemolo, ex Lista Monti, ora iscritto al Pd ma fondatore della lista Siamo Europei, Repubblica, 20.-3). Resta da capire che cos’abbia fatto di male il Nord Est.

Comprensione. “Quando ha visto le immagini di quel tentativo di strage (dei 51 ragazzini sullo scuolabus di San Donato Milanese, ndr), che cosa ha pensato?”. “Sono fatti che creano angoscia e allarme, ma che vanno compresi. Nel senso di comprenderne la ragione” (Livia Turco, Pd, intervistata da Agorà, Rai3, 22.3). Dopo i compagni che sbagliano, gli immigrati che sbagliano.

I titoli della settimana/1. “Italia-Cina quasi amici”, “Macron bacchetta Conte sulla Tav: ‘Non perdete tempo, va fatta’” (Repubblica, 23.3). Dunque la Francia e la Cina sono sostantivi maschili. Invece il Tav (treno ad alta velocità) è femminile.

Il titolo della settimana/2. “Terrorismo buonista” (il Giornale, sull’autista di scuolabus d’origine senegalese che ha tentato di bruciare vivi 51 bambini, 21.3). Perchè, se era cattivista che faceva?

Due Conclavi e un papa a “sorpresa”: la paziente ascesa di Bergoglio

A distanza di quattro anni, comincia a delinearsi l’andamento dei cinque scrutini del Conclave del 2013 che portarono all’elezione del papa venuto “dalla fine del mondo”, l’argentino Jorge Bergoglio. Lo scoop è di Gerard O’ Connell, vaticanista di America, la rivista dei gesuiti di New York.

O’ Connell ha scritto un libro che uscirà negli Stati Uniti il 12 aprile ma il primo capitolo è stato anticipato dalla sua rivista e ripreso già dalla stampa italiana. Il libro s’intitola The Election of Pope Francis: An Inside Account of the Conclave That Changed History (Orbis Books). Dunque, secondo la ricostruzione del giornalista, la candidatura di Bergoglio fu forte sin dall’inizio, al punto da essere considerata una vera “sorpresa”. Il risultato del primo scrutinio fu questo: l’italiano Scola 30 voti; Bergoglio 26; il canadese Ouellet 22; l’americano O’Malley 10; il brasiliano Sherer 4. Indi una serie notevole di voti dispersi.

Da notare che alla vigilia il duello pronosticato da quasi tutti i vaticanisti era tra Scola, arcivescovo di Milano e ritenuto organico a Comunione e Liberazione, e Sherer, brasiliano di origini tedesche e grande conoscitore della Curia romana e dello Ior. Invece Bergoglio iniziò a imporsi da subito e suoi voti sarebbero stati 27 anziché 26 se una scheda non fosse stata annullata. Un cardinale aveva scritto erroneamente “Broglio”.

Per dirla con il cardinale Oswald Gracias: “Lo Spirito Santo stava già indicando, lo Spirito Santo ci stava guidando in una particolare direzione. Dio era lì”. Lo Spirito soffiava e diceva anche altre due cose. Primo: per la terza volta, dopo il 1978 e il 2005, il Conclave non voleva un italiano (in questo caso Scola). Secondo: dopo la clamorosa rinuncia di Ratzinger e gli scandali della Curia, l’inclinazione al potere fu un handicap per Sherer.

Non solo: in base alla nota ricostruzione di Lucio Brunelli su Limes, Bergoglio fu la “sorpresa” anche nel Conclave del 2005 che elesse Ratzinger: nei quattro scrutini di allora l’argentino prese, rispettivamente, 10, 35, 40 e 26 voti. Tenendo presente l’evento eccezionale delle dimissioni di un pontefice, il Conclave del 2013 sembra configurarsi anche come la seconda parte di quello del 2005.

Giovane è bello, ma il principio di realtà dovrebbe vincere

È davvero difficile spiegare a un uomo il sollievo provato da noi donne quando sono cominciate ad arrivare sulle scena pubblica coppie in cui lei era più grande di lui. Ci hanno provato in tutti i modi a screditarle – lei una cougar, lui un semplice toy boy, come se fosse impossibile un sentimento autentico con una grande differenza di età – ma alla fine che oggi una donna possa stare con un uomo più giovane è qualcosa di sdoganato, e non solo per le ricche e famose.

Così finalmente anche noi donne normali abbiamo cominciato ad abbandonarci senza vergogna, come gli uomini fanno dalla notte dei tempi, al piacere non tanto (o comunque non solo) di un corpo giovane, quanto soprattutto a quello di una mente giovane e quindi più ottimista e piena di speranza nella vita. Tutto bene quel che finisce bene? Sì e no, perché probabilmente, come dimostrano vari e recenti casi di cronaca, la parità di scelta di un partner più giovane si è tradotta anche in una maggiore libertà di trasgressione, e insieme esibizione – perché forse questi casi sono sempre esistiti ma tenuti segretissimi – anche quando l’altro è un ragazzino. Innamorarsi di un adolescente non è forse una cosa così abominevole. Grave è, invece, non saper anteporre a questo sentimento un principio di realtà che in un adulto dovrebbe essere il timone di ogni scelta, dimostrando così un infantilismo che rende pure faticoso capire chi dei due sia davvero il minore (anche se la legge parla chiaro). Sfortunatamente poi, una donna che fa sesso con un semi-bambino crea più scandalo nell’opinione pubblica di un caso inverso, come dimostra la morbosità dei media verso i due episodi di cronaca, e rischia di rendere più acuta la già dolorosa guerra tra i sessi. Le molestie femminili sono gravi come quelle maschili, ma oltre al danno sui ragazzini finiscono purtroppo per far male alle donne, e alla causa femminile, in misura persino maggiore.

Altro che balle: le donne orco stuprano maschi inermi

Gli psicoterapeuti lo sanno: il segreto meglio custodito nelle famiglie sono gli abusi perpetrati da donne adulte su figli, figlie, nipoti, allievi. Che anche una donna possa diventare non solo predatrice sessuale, ma addirittura orchessa, molestando un ragazzino o una ragazzina che da lei dovrebbe ricevere cura e protezione è impensabile, incredibile, indicibile. E così in episodi come quello dell’insegnante di Prato o dell’infermiera di Leini, indagate per violenza sessuale su quattordicenni, si preferisce svicolare nel crasso copione alla Alvaro Vitali (la “nave scuola”, la supplente porcona ecc.) oppure su scandalizzate misurazioni dello sdegno a seconda del genere della vittima. In realtà questi casi di pedofilia al femminile fanno vacillare due pregiudizi capitali riguardo al rapporto sessuale etero:

a) il maschio non ha mai nulla da perdere, anche se fa la terza media e viene reso suo malgrado padre di un bimbo;

b) la femmina, pure se adulta, nel sesso non è mai veramente attiva, quindi mai colpevole di sopraffazione tout court su un giovanissimo, al massimo di una manipolazione, diciamo, propedeutica. Insomma, donne sempre vittime, dei maschi o di se stesse, uomini destinati dalla natura a essere sempre i soli insaziabili beneficiari del piacere, padroni del proprio corpo ma schiavi del proprio membro, fin dall’infanzia.

Sono relitti di una concezione delle relazioni trogloditica, che non ha niente a che fare con la verità delle persone e l’unicità dei loro desideri manifesti e oscuri, a prescindere dal genere. Questa rassicurante ipocrisia è frutto di un’omertà che andrebbe spezzata, per il bene di tutti, innanzitutto dei bambini che “sembrano più grandi”, immaturi per il ruolo di toy-boy ma già abusabili come sex-toy. Come se l’erezione, che i maschietti hanno già in fasce, gli togliesse il diritto all’integrità, all’innocenza.

Il ‘Pipita’ bollito nessuno lo vuole

Se Ettore Scola fosse ancora tra noi un pensierino ce lo farebbe: 43 anni dopo “Brutti, sporchi e cattivi”, col protagonista Giacinto (Nino Manfredi) ossessionato all’idea di perdere il suo milione di lire, l’idea di girare “Brutto, grasso e bollito” col nuovo protagonista Pipita (Gonzalo Higuain) ossessionato all’idea di perdere il suo milionario ingaggio sarebbe una tentazione irresistibile. Per chi si fosse perso le ultime puntate della telenovela che vede il 31enne bomber argentino vestire i panni della Bella di Torriglia, quella che tutti vogliono ma nessuno se la piglia, ecco un breve riassunto al fixing di oggi, lunedì 25 marzo 2019.

Il Pipita nessuno lo vuole più . Due anni e mezzo dopo il suo passaggio dal Napoli alla Juventus per la sbalorditiva cifra di 90 milioni di euro (il trasferimento più costoso della storia del calcio italiano superato, due anni dopo, solo dall’affare CR7, pagato dalla Juve al Real 100 milioni), Higuain è diventato la mina vagante che terrorizza i club di mezza Europa; anche se ad oggi i sudori freddi li ha soprattutto la Juventus che a dispetto dei tentativi fatti per disfarsi del giocatore ne è ancora, a tutti gli effetti, proprietaria. Su Higuain, che pare ormai la controfigura di se stesso – sempre più grasso, sempre più ombroso, sempre più impresentabile – si sta giocando una gigantesca partita di ciapanò; con la Juventus, il Milan e il Chelsea impegnati a rifilarselo l’un l’altro perché una cosa è certa: chi se lo tiene sul gobbone muore. Ricapitolando. Il Pipita ha un contratto in essere con la Juventus che scade il 30 giugno 2021 e che prevede, per lui, uno stipendio di 18 milioni lordi (9,5 netti) a stagione.

Al Milan, che in estate lo aveva ingaggiato in prestito oneroso, per un anno, per 18 milioni, salvo scoprire di ritrovarsi in squadra una ciclopica palla al piede, non è parso vero di veder spuntare Maurizio Sarri – mentore del Pipita negli anni d’oro di Napoli -, ansioso di riportare Gonzalo alla sua nuova corte, quella londinese del Chelsea. Leonardo lo spedisce ad Abramovich impacchettato con tanto di nastro dorato, ma quando Sarri scarta il pacco trova la fregatura: Higuain è ormai un gatto di marmo, fifone come sempre (si rifiuta di battere il rigore nella finale di Coppa di Lega persa col City), isterico coi compagni e capace di far gol solo alla Croce Rossa (finora ne ha segnati tre, due all’Huddersfield ultimo in classifica e uno al Fulham penultimo). Giroud al confronto sembra Gerd Muller; Sarri è in evidente difficoltà e bastano due mesi, ai dirigenti del Chelsea per prendere la decisione già nota a tutti, quella del ritorno di Higuain alla Juventus, il 30 giugno, con biglietto di sola andata.

E insomma la patata bollente torna ora, di nuovo, nelle mani di Andrea Agnelli; che si era illuso che il Milan prima, o il Chelsea poi, riscattassero per 36 milioni il Pipita accollandosi il suo stipendio anche per le due ultime stagioni del sanguinoso contratto. Invece tutto questo non succederà; e i 18 milioni d’ingaggio del 2019-2020 più i 18 del 2020-2021 più i 36 della mancata cessione (totale 72) stanno già facendo suonare tutti gli allarmi nella stanza dei bottoni della Real Casa. Riusciranno i nostri eroi a sbolognarlo a qualche Giocondo? La risposta prossimamente al cinema. “Brutto, grasso e bollito”. In tutte le migliori sale.