Brexit, la farsa che svilisce la democrazia in tutta l’Ue

La saga della Brexit evoca un verso famoso di T.S. Eliot: “C’è ancora tempo per un centinaio di indecisioni / e per un centinaio di visioni e revisioni / prima di prender un tè col toast”. Chi si aspettava che il summit Ue della settimana scorsa avrebbe sciolto ogni questione è rimasto deluso. Ha stabilito soltanto che c’è rimasto tempo per tè e toast, tutto è ancora possibile. Dopo mesi di estenuanti negoziati, tuttora non sappiamo se il Regno Unito lascerà davvero l’Europa e, se sì, a quali condizioni. Gli inglesi sono spaccati come mai prima e il summit ha rivelato divisioni analoghe tra gli altri 27 membri dell’Ue. Questa è una cattiva notizia i milioni di europei intrappolati “dal lato sbagliato” del confine della Brexit. E ancor di più per le imprese attive su entrambi i lati del canale della manica.

Il concetto ripetuto da Theresa May e dai funzionari Ue – “Ci sono solo due modi per lasciare l’Unione: con accordo o senza accordo” – è fuorviante. Un’opzione “senza accordo” non esiste perché è impossibile costruire un muro in mare che separi completamente la Gran Bretagna dall’Ue. Ventimila leggi e regolamenti legano insieme i due fronti. Se le vecchie regole verranno rimpiazzate da quelle nuove, la transizione può causare grandi sofferenze e caos. La scelta è tra più o meno caos, ma un accordo di qualche genere alla fine dovrà essere. La domanda è quale prezzo sono disposti a pagare i due contraenti. Gli inglesi paiono pronti a sostenere il grosso dei costi del divorzio, ma i cittadini dall’altro lato della Manica, che non hanno votato per la Brexit, potrebbero rivelarsi meno disponibili a farsi carico di fardelli a cui i loro politici non li hanno preparati.

Dopo il referendum Brexit, noi abbiamo assistito a uno sconvolgente malessere democratico. Questo è paradossale perché si è sempre detto che il vero tema della Brexit era la “volontà popolare”, il tentativo di riportare il potere da piazza Schuman in Bruxelles sulle rive del Tamigi.

L’essenza della democrazia è la mediazione di interessi confliggenti in modo pacifico. Il consenso è difficile da ottenere, ma la democrazia assicura che la minoranza sconfitta accetti le decisioni prese secondo procedure concordate. Questo richiede un dialogo genuino, disponibilità al compromesso e rispetto per gli oppositori politici e i loro punti di vista. Abbiamo visto molto poco di tutto questo nella saga Brexit. In parte perché la decisione originaria è stata presa con un referendum. E i referendum generano sindromi plebiscitarie che lasciano poco spazio alla deliberazione e molto alla demagogia. Questioni complesse sono ridotte a scelte semplici e il vincitore ottiene tutto, senza bisogno di cercare compromessi.

In assenza di solide strutture democratiche a livello europeo, il referendum resta sempre una tentazione per chi vuole legittimare decisioni difficili. Lo abbiamo visto in Gran Bretagna ma anche in Olanda, Italia e Francia. Questi referendum paiono festival del populismo più che feste della democrazia. Tutto questo rende sempre più urgente che la questione democratica diventi il primo obiettivo di una riforma dell’Ue. Servono sbocchi istituzionali per la partecipazione dei cittadini, o questi si ribelleranno.

Anche i Parlamenti nazionali risultano indeboliti dalla Brexit. Quelli continentali sono stati spettatori passivi del melodramma inglese, pregando e sperando che il negoziatore di Bruxelles, Michel Barnier, ottenesse un compromesso accettabile per tutti. La House of Commons inglese ha provato ad affermare la sua sovranità, nobile sforzo finito in farsa. Col passare del tempo, le spaccature politiche si sono moltiplicate e nessuno si è dimostrato in grado di costruire maggioranze plausibili. Come ha ben riassunto il giornalista Simon Jenkins, “è così che le nazioni scivolano verso la guerra, con i loro leader che attraversano i corridoi del potere percuotendosi il petto e invocando la furia divina sui loro nemici”.

Ciascun Parlamento del continente ha la sua storia, la sua organizzazione, le sue procedure, eppure la faziosità istituzionalizzata e le litigate chiassose sono diffuse ovunque. E non ci si stupisce che i sondaggi mostrino scarsa fiducia nei Parlamenti. Eppure, per quanto disfunzionale, il sistema della rappresentanza parlamentare resta un pilastro della democrazia in Europa.

Si dice spesso che dopo la rivoluzione neo-liberista i mercati abbiano l’ultima parola sulla democrazia, che i Parlamenti non possano più prendere decisioni sgradite alla finanza. La vicenda Brexit dimostra che non sempre i mercati riescono a far andare le cose come vorrebbero: non sono mai stati entusiasti del divorzio dall’Ue ma la loro posizione è stata ignorata dal referendum e anche dopo, quando almeno auspicavano un’uscita rapida e consensuale. I protagonisti del processo democratico sono rimasti sordi alle richieste dei mercati. Eppure la democrazia si è dimostrata non soltanto inefficace, ma anche ossessivamente ripiegata su se stessa. Questo non fa ben sperare per il futuro. Democrazia e capitalismo devono lavorare insieme in armonia, altrimenti rischiamo paralisi decisionale, proteste, caos. E in questo clima di disordine, prosperano i demagoghi. Non soltanto in Gran Bretagna, ma in tutta Europa.

Ancora scandalo: dal terrorismo al password-gate

Ancora uno. Periodicamente tocca fare i conti con questo incipit perché ormai periodicamente il social network di Mark Zuckerberg affronta una grana che lo riguarda, un po’ perché l’attenzione è più alta e un po’ perché gli interessi sono così grandi da non poter passare inosservati. Giovedì, l’ultima notizia: almeno duecento milioni di password degli utenti sono state archiviate su un file non criptato. Il social lo ha anche ammesso in un post pubblico: “Come parte di una revisione della sicurezza di routine a gennaio, abbiamo rilevato che alcune password utente venivano archiviate in un formato leggibile all’interno dei nostri sistemi di archiviazione dati interni. Abbiamo risolto questi problemi e, per precauzione, notificheremo a tutti le password che abbiamo trovato memorizzate in questo modo”. Un malfunzionamento che ha riguardato soprattutto gli account di Facebook Lite, la versione “leggera” dell’applicazione utilizzata nei paesi meno sviluppati.

Tutto è partito da una denuncia firmata dai ricercatori di KrebsOnSecurity, secondo i quali le password di milioni di utenti di Facebook sarebbero state archiviate in testo normale (di prassi, invece, queste informazioni sono crittografate), accessibili in questa forma ai circa 20mila dipendenti dell’azienda di Menlo Park, nel cloud aziendale. Il problema è che le probabilità che le password utilizzate per accedere a Facebook siano uguali a quelle utilizzate per gli altri servizi sono molto alte. “Per essere chiari – spiega però Facebook – queste password non sono mai state visibili a nessuno al di fuori di Facebook e non abbiamo trovato alcuna prova fino ad oggi che qualcuno abbia abusato internamente o vi abbia fatto un accesso improprio. Stimiamo che notificheremo centinaia di milioni di utenti di Facebook Lite, decine di milioni di altri utenti di Facebook e decine di migliaia di utenti di Instagram”.

Ancora uno, quindi: dopo Cambridge Analytica, poi la falla nei token di accesso di milioni di account. Qualche giorno fa era stato Mark Zuckerberg a parlare del futuro del social network, dell’integrazione fra Facebook, Instagram e WhatsApp, ponendo l’accento sulla tutela della privacy facendo riferimento diretto ai governi che gli chiedono sempre più spesso di di bypassare la crittografia end to end di WhatsApp per entrare nelle chat e scovare potenziali criminali. A Londra, un team di sviluppatori mostra come sia possibile proteggere la sicurezza del proprio account con una autenticazione a due fattori sviluppata proprio nella City. “Per noi – spiegano – è importante garantire la sicurezza degli utenti e ci piace pensare a casi limite come quelli di governi che intendono mettere a tacere attivisti o giornalisti, magari sottraendo loro il profilo e impedendo loro di parlare ed esprimere il loro pensiero sulla piattaforma e ai propri seguaci”. Di solito l’autenticazione a due fattori richiede l’inserimento del numero di telefono su cui ricevere un sms con un codice da fornire alla app. Anche in questo caso, però, Facebook ha ricevuto in passato critiche per aver – secondo i detrattori – conservato questi numeri in favore degli inserzionisti. Così, a maggio 2018, per cancellare ogni sospetto il social network ha sviluppato un sistema di autenticazione che ricorre ad applicazioni esterne e non necessita più del numero. Anche perché rassicurare sulla sicurezza e la privacy è ormai una pratica quotidiana a Facebook. “Non tutti usano la piattaforma con le migliori intenzioni – spiega ancora uno dei dipendenti di Londra che fa parte del team Community Integrity – e questo è solo un riflesso della società. Il nostro obiettivo è minimizzare le cattive esperienze dell’utente”. Dal revenge porn, con strumenti che intercettano immagini e video il più velocemente possibile (addirittura appena immesse se il soggetto interessato le fornisce alla piattaforma prima) fino al terrorismo: “Sul quale – specificano, anche vista la vicinanza temporale con il caso della Nuova Zelanda – riusciamo a intercettare il anticipo più del 99,9 per cento dei contenuti”. E come si spiegano quindi gli ultimi scandali? “A fare notizia purtroppo è quel restante 0, 0001 per cento che sfugge. E che dobbiamo riuscire a recuperare”.

Facebook & C: così cambiano i social per non scomparire

È grande la sede di Facebook a Londra, alti palazzi che si notano poco e affacciano su una corte interna. Prima erano la sede di un centro di smistamento postale della Royal Mail. Si percepisce che all’interno c’è movimento, che c’è chi pensa e progetta. Quando si accede, i colori dell’arcobaleno spiccano in ogni angolo: pareti, led, poltrone. Tutto è esageratamente colorato. Ad ogni piano, accanto agli ascensori, è stata installata una antica cassetta della posta rossa con lo stemma inglese, nelle micro cucine super-accessoriate c’è una decorazione realizzata da un artista. La sede pullula di vita. Da fuori, però, è solo una distesa di pareti grigie. Un po’ una metafora dell’apparenza del social network negli ultimi mesi, costellati da fuoriuscite celebri e rivelazioni che hanno fatto calare ancora una volta le azioni in Borsa dando l’idea che l’azienda di Menlo Park – a dispetto delle evoluzioni annunciate da Instagram e della sua progressiva crescita – non se la cavi proprio benissimo. Ma è davvero così?

 

Come appare, come è davvero

A Londra arriviamo in occasione dei 15 anni del social network: chiamano l’evento “open house” o anche fiera. Le porte aperte di questa sede, che ha poco più di 2mila dipendenti servono a mostrare a cosa lavorino le braccia operative di Facebook. In particolare, le braccia europee visto che per ora lo scenario Brexit non sembra essere un problema. “Londra è il nostro più grande hub di ingegneria al di fuori degli Stati Uniti – spiegano – con oltre la metà del team in loco dedicato all’ingegneria. Sono più di 1200 gli ingegneri e i tecnologi che lavorano qui oggi”. A incontrare stampa ma anche aspiranti dipendenti sono proprio loro, ingegneri e sviluppatori, insieme ai responsabili dei prodotti. Volti che raramente si vedono e sentono parlare in occasioni pubbliche, quella parte di lavoratori che sviluppano, creano e che quindi tengono davvero il passo con gli obiettivi della piattaforma.

 

La Open House e le menti dell’azienda

Sono organizzati in stand: basta un rapido giro per identificare il filo rosso di una delle strategie economiche di Facebook: accrescere il proprio business e la propria presenza nei paesi e quindi nei mercati emergenti. In Europa, negli Usa e nei paesi avanzati Facebook ha da tempo raggiunto l’apice produttivo e di sviluppo, per forza di cose la sua crescita è destinata a proseguire a ritmi più lenti rispetto al passato, i problemi che sta affrontando spesso superano i vantaggi economici. Raggiungere e aggiungere nuovi mercati è quindi una prospettiva sfidante. “Una delle sfide di Facebook in futuro è questa – spiega Kyle McGinn, director of product management – e bisogna identificare soluzioni pratiche per quelle zone dove le condizioni sono meno facili e i dispositivi meno avanzati”.

 

Inserzioni e pubblicità, collegare Fb e Whatsapp

Ma come fa un’azienda che per vocazione deve tecnologicamente ipersvilupparsi a farsi spazio in questi mercati? Col paradosso del passo indietro. La tecnologia avanza in modo tale da riuscire a svilupparsi anche lì dove l’arretratezza tecnologica non lo permetterebbe. Non ce lo spiegano direttamente, ma appare chiaro dai prodotti e dai racconti: “La diffusione di Facebook Lite sta crescendo in modo esponenziale e crediamo continuerà” spiega Rags Vadali, Product Manager di Facebook che si occupa degli strumenti per migliorare le prestazioni delle pubblicità e per gli inserzionisti. Facebook Lite è la versione più leggera del social network, che quindi è in grado di girare bene su smartphone meno moderni e con banda di Rete più bassa. Una delle immagini sui monitor ha come titolo “Facebook Lite Ads” e mostra un pc in mezzo ad una famiglia di indiani. Un pulsante permette con un clic di mettere in collegamento gli inserzionisti con gli utenti, ma fuori da Facebook: si viene reindirizzati su Whatsapp (il programma di messaggistica istantanea di proprietà di Facebook) da dove si può chiedere assistenza e informazioni. Il motivo è semplice: Whatsapp nei paesi emergenti ha già superato la diffusione di Facebook. C’è poi la funzione che permette di tradurre automaticamente l’inserzione nella lingua che l’utente del paese dichiara di parlare o che è stata rilevata dalla targhetizzazione del social. “In questo modo ognuno può vedere la pubblicità nella propria lingua”, spiegano. E ogni inserzionista aprirsi a nuovi mercati.

 

Rimpicciolir(si) per i nuovi mercati

Tre passi ed ecco che ci spiegano come sia stato essenziale per Facebook trovare il modo di comprimere le foto, farle diventare più leggere, affinché sia facile e veloce caricarle anche con una banda molto limitata e in situazioni disagiate. Una delle slide mostra “Le sfide dei mercati emergenti”, un grafico che riporta il grado di larghezza di banda per il download da mobile nel mondo. Agli ultimi posti ci sono Africa, Sudamerica e vaste zone dell’India e dell’Asia. Insomma, mentre si svolgono guerre e corse per il dominio del 5G, Facebook e gli altri hanno capito che c’è bisogno anche di rallentare.

 

Il supporto alle attività locali

Certo, non solo: una delle dimostrazioni riguarda infatti gli ultimi ritrovati nello sviluppo della realtà aumentata e dei nuovi filtri per le videocamere. Un’altra, invece, ha la chiara intenzione di convincere gli utenti che per raggiungere e trovare un negozio o una attività che magari ha su Facebook la propria pagina promozionale non ci sia alcun bisogno di uscire dall’applicazione. “Location Health Checks – spiega Marek Matejka, ingegnere del team Offline Solution – serve ad aiutare i business a fornire una migliore esperienza agli utenti che cercano informazioni utili sulle location fisiche come negozi, ristoranti, hotel o musei”. Dunque: mappa dettagliata, informazioni sugli orari di apertura, informazioni sui contatti telefonici o su riferimenti sbagliati di posizione sulla mappa.

Secondo i dati forniti dall’azienda, ci sono 18 milioni di piccole imprese in Europa che utilizzano Facebook. Come dire: chi avrà bisogno di Google o Tripadvisor nei prossimi anni se tutte le informazioni saranno disponibili qui?

 

I numeri, la mutazione per competere

La piattaforma, insomma, cerca di riassettarsi e ritrovarsi proprio mentre perde utenti sempre più giovani. Secondo Edison Research nell’ultimo anno solo negli Stati Uniti è stata abbandonata da oltre 15 milioni di utenti. Ma sono per lo più giovani che migrano verso Instagram, piattaforma di cui a Londra non c’era traccia ma che sta spingendo sul lato business: è della scorsa settimana l’annuncio che sarà possibile fare acquisti direttamente sul social. La proprietà è sempre di Menlo Park, quindi non c’è aria di crisi. La vera risorsa di Zuckerberg è sempre la stessa: arrivare prima degli altri su quella che sarà la nuova tendenza. O crearla: è lo stesso.

Clima, guerre e cemento: 54 siti Unesco in pericolo

Uno dei grandi meriti della mobilitazione per il clima che Greta Thunberg ha saputo innescare è il suo carattere quintessenzialmente internazionale. In un momento in cui i fantasmi dei nazionalismi riprendono carne e riprendono armi, abbiamo bisogno come il pane di ricordare a noi stessi il nostro comune interesse generale: la salvezza comune dell’umanità dal disastro ambientale che incombe. Alle retoriche delle identità nazionali (alimentate spesso – è il caso italiano – dall’ignoranza circa i veri caratteri nazionali) è vitale opporre un discorso pubblico fondato sul principio di un’identità più decisiva: quella umana. C’è poco da fare: la sopravvivenza della specie umana, legata alla sopravvivenza del pianeta, dovrebbe convincerci a focalizzare ciò che ci unisce. L’Unesco, finalmente, potrebbe giocare un ruolo importante.

 

Beni dell’umanità: una sfida al sovranismo

Diciamo la verità: l’agenzia dell’Onu per il patrimonio culturale, fondata all’indomani della sconfitta dei fascismi nel 1945, non ha mai avuto una funzione veramente centrale. Certo non in Italia, dove la nomina gialloverde di Lino Banfi è solo l’ultimo tocco di grottesco alla deprecabile tradizione che ha ridotto la nostra Commissione Unesco a un ricettacolo di baroni accademici impresentabili, boiardi di stato, politici trombati e varia umanità in disuso.

Eppure, mai come oggi ci sarebbe bisogno di far conoscere a tutti il concetto stesso di “patrimonio culturale dell’umanità”. Se in ogni stato-nazione, infatti, il patrimonio culturale è uno dei principali elementi di definizione della nazione stessa (in Italia è l’unico, l’articolo 9 della Costituzione), pensiamo alla potenziale suggestione della definizione simbolica e della narrazione di un patrimonio culturale europeo (non per caso un vuoto clamoroso nella mancata costruzione di un’Europa oggi in caduta libera), e soprattutto di quello dell’umanità. Definire, spiegare, diffondere i connotati di un canone di luoghi e monumenti che ci definiscono come “umanità” e che appartengono moralmente a tutti gli esseri umani (al di là delle differenze etniche), significa poter far comprendere i doveri dei singoli e degli Stati verso l’unica casa comune: la Terra.

È proprio qua che giustizia sociale e giustizia ambientale si intrecciano: un’evidenza oggi negata dal razzismo miope e ipocrita di chi sostiene che la risposta alle migrazioni sia “aiutarli a casa loro”. In questo slogan c’è la totale inconsapevolezza del ruolo dell’Occidente nell’innesco delle migrazioni: perché è il nostro colonialismo, il nostro schiavismo (circa dodici milioni di neri africani rapiti e venduti come schiavi lungo tre secoli), la nostra predazione delle loro risorse, la nostra industria delle armi e le guerre che essa alimenta, la nostra distruzione dell’ambiente e del clima a trasformare la loro casa in un inferno, facendoli fuggire: le loro migrazioni sono causate dalla nostra ingiustizia, e poi si scontrano con il muro della nostra avarizia. Ma c’è anche qualcosa di ancor più profondo. Incardinare il discorso sull’opposizione quasi ontologica tra noi e loro vuol dire pensare in termini di identità escludenti e contrapposte (la nazione, l’Occidente, i salvati). Ognuno a casa propria. Qua non si tratta di politiche: si tratta di visione del mondo, di concezione del futuro. O meglio di una non-visione del mondo, di una non-concezione del futuro: della scelta disperata di chiudere rabbiosamente gli occhi di fronte a una realtà ineludibile che non si riesce ad accettare. Perché non ci sono, né ci potranno mai più essere, “case” recintate, nostre, esclusive. Nessuna giustizia sociale è realizzabile, o anche solo pensabile, senza una giustizia ambientale: e questa riguarda l’unica casa di tutti, la Terra. È per queste ragioni che la grande mappa che vedete in queste pagine dovrebbe essere appesa in ogni aula scolastica del mondo. In essa sono segnalati i siti culturali o naturali del mondo seriamente in pericolo: le “cose” che nella nostra “casa” comune hanno bisogno di più cura, amore, attenzione.

 

La difesa del patrimonio di tutti i popoli

Il comma 4 dell’articolo 11 della convenzione internazionale del 1972 per la protezione del patrimonio culturale mondiale prevede che “il comitato Unesco allestisce, aggiorna e diffonde, ogni qualvolta le circostanze lo esigano, sotto il nome di ‘elenco del patrimonio mondiale in pericolo’, una lista di beni per la cui salvaguardia sono necessari grandi lavori e per i quali è stata chiesta l’assistenza giusta la presente Convenzione. Questo elenco contiene una valutazione del costo delle operazioni: vi possono essere iscritti soltanto beni del patrimonio culturale e naturale minacciati di gravi e precisi pericoli, come la minaccia di sparizione dovuta a degradazione accelerata, progetti di grandi lavori pubblici o privati, rapido sviluppo urbano e turistico, distruzione dovuta a cambiamenti d’utilizzazione o di proprietà terriera, alterazioni profonde dovute a causa ignota, abbandono per ragioni qualsiasi, conflitto armato o minaccia di un tale conflitto, calamità e cataclismi, grandi incendi, terremoti, scoscendimenti, eruzioni vulcaniche, modificazione del livello delle acque, inondazioni, maremoti. In caso d’urgenza – prosegue -, il Comitato può in qualsiasi momento procedere ad una nuova iscrizione nell’elenco del patrimonio mondiale in pericolo, e dare diffusione immediata”.

Se analizziamo le minacce che incombono sui luoghi simbolo oggi compresi nell’elenco, vediamo che possiamo sostanzialmente ricondurle a quattro macro-cause: la guerra, l’inadeguatezza della tutela, lo sviluppo insostenibile, la mercificazione. In ultima analisi, appare flagrante la responsabilità della ferrea dittatura del mercato: direttamente o indirettamente causa comune di tutte le altre cause.

Sono i conflitti armati o il terrorismo a mettere in pericolo i siti del Niger, i sei della Siria e i cinque della Libia, quelli di Iraq e Afghanistan (i famosi Budda di Bamyan), le due città di Sana’a e Shibamin Yemen, la città vecchia di Hebron, in Palestina e due siti in Mali, tra cui Timbuctù. L’incapacità di tutelare, restaurare e fare manutenzione danneggia la Basilica della Natività a Betlemme, la città storica di Zabid, in Yemen, le storiche raffinerie cilene e i monasteri medioevali in Kosovo, e i monumenti di Djenné in Mali.

Le foreste del Belize e le Isole Salomone, le foreste pluviali del Madagascar e quelle tropicali in Indonesia, la riserva statunitense delle Everglades e quella di Rio Plàtano in Honduras, le fortificazioni di Panama, numerosi parchi nazionali africani, il centro storico uzbeco di Shahrisabz e la montagna di Potosì in Bolivia sono vittime dello stesso sviluppo insostenibile che devasta il clima del pianeta.

Ed è, infine, l’interesse economico a militare contro il centro storico di Vienna, nel cuore della vecchia Europa: dove la speculazione edilizia non accetta di rinunciare ad un enorme centro commerciale verticale che cancellerebbe la forma della città storica. Stessa storia per il porto vecchio di Liverpool, che si vorrebbe cancellare in un lifting commerciale, e per Gerusalemme, strangolata, con il suo paesaggio, dalla speculazione edilizia e dalla macchina infernale del turismo religioso.

 

La minaccia sono gli Stati

Certo, si possono e si devono fare mille critiche a questa lista di emergenze: la prima delle quali riguarda la sua esiguità, dovuta all’incredibile reticenza che induce a ritenere ufficialmente in pericolo solo 54 sui 1.092 siti del patrimonio umano censiti dall’Unesco. Sono gli stati nazionali (e specialmente quelli occidentali, ricchi e potenti) a non gradire affatto che i propri siti siano dichiarati a rischio: preferendo un danno irreversibile al patrimonio ad un momentaneo danno di immagine. Solo rimanendo a quelli italiani, saltano subito agli occhi quelli che bisognerebbe aggiungere: per esempio Venezia, senza più abitanti, devastata da turismo di massa e Grandi Navi, e a serissimo rischio di cancellazione a causa dell’innalzamento del livello dei mari collegato al cambio climatico; il centro storico di Napoli, in bilico tra saccheggio, crolli e gentrificazione selvaggia; quello di Firenze, che una recente modifica del regolamento urbanistico permette di sfigurare. E sono solo pochissimi esempi del miope perbenismo della diplomazia di questa agenzia dell’Onu.

Eppure, perfino nella sua timidezza, la mappa rossa dell’Unesco è una miniera di informazioni, un potente stimolo alla presa di coscienza collettiva. C’è infatti una ragione assai pratica e urgente per smettere di dividerci in base al colore della pelle e alle differenze religiose: ed è la salvezza dell’unico patrimonio culturale umano. E dell’unico pianeta che abbiamo.

“Io, ambasciatore dell’Unesco. Porto simpatia, oltre non vado”

Lino Banfi, comico per famiglie, umorista dei nostri pomeriggi in ciabatta, è andato trasformandosi, per via della galoppante esigenza di dare un quoziente scenico al governo del cambiamento, nella cifra, nel rating politico dell’esecutivo gialloverde. Dunque la deduzione piuttosto sprezzante: comico da avanspettacolo per un governo da avanspettacolo. La scelta di Luigi Di Maio di indicare lui, pingue campione della risata post prandiale, come membro della commissione Unesco, l’organismo dell’Onu che si occupa e tutela i tesori immortali dell’umanità, dell’arte e della cultura, è stata perciò ritenuta una cartolina perfetta della identità culturale del nuovo potere.

Banfi, lei ha l’età della saggezza e la politica è anche teatro.

Lo so. Sono stato amico di Bettino Craxi, ho votato anche per lui. Un giorno mi dice: Lino, tu devi candidarti in Parlamento. Gli rispondo: io devo soltanto far ridere gli italiani! E lui, di rimando: perchè noi non li facciamo ridere?

Un comico popolare è moneta sonante per chi governa: umanizza il potere e lo rende amico.

Guardi quella parete: Cavaliere, Commendatore, Grand’Ufficiale, Cavaliere di Gran Croce. Tutti i sigilli del merito. Giorgio Napolitano mi fece una confidenza: hai avuto tutto, non posso insignirti di alcunchè purtroppo.

Le firme che decretano gli onori fanno la storia della Repubblica.

Iniziò Sandro Pertini. Gli piacque assai la deviazione pugliese di Pianto antico di Giosuè Carducci. Imbrattai quel pianto con il dialetto della mia Canosa, e quella poesia, invece che portare dolore condusse all’allegria.

Leggo anche le firme di Francesco Cossiga e Ciriaco De Mita, quelle di Scalfaro e di D’Alema.

Mi ha sorretto la popolarità e anche il senso della misura, la cornice entro la quale la mia comicità aveva vita e produceva simpatia.

È stato riverente.

Dunque: la mia famiglia ha sempre votato a destra, e anch’io sono stato elettore del Movimento sociale, ho ammirato Giorgio Almirante, prima di fare altre scelte. E ho sempre saputo che essere di centrodestra, un moderato, in un mondo dove la sinistra è stata egemone, dava una condizione di inferiorità.

Si è fatto i fatti suoi, diciamo così.

E se le dicessi che invece sono stato io a usare la politica?

Le risponderei: in che senso?

Nel senso che facendo finta di niente ho preso in giro come ho potuto e saputo. Non parlerò mai della statura di Fanfani, non mi fate dire una parola sul perchè è basso! Non dicevo e dicevo.

Tutto qua?

Anche con Aldo Moro. Si parlava tanto della destalinizzazione in Unione Sovietica. Riflettevo spesso sulla demoralizzazione in Italia.

Lei ha fatto cinema, teatro e televisione. E nella televisione ha sempre occupato la rete ammiraglia, Raiuno.

Quante volte Silvio Berlusconi mi ha offerto l’esclusiva per Canale 5. Ho sempre rifiutato. Il mio volto è associato a Raiuno, e in quel canale le mie fiction hanno fatto successo e storia. Sono divenute un brand nel brand.

Le sue fiction l’hanno portato ad essere ambasciatore dell’Unicef.

Un’esperienza formidabile. Sono stato in Angola e in Eritrea. Fui ricevuto a New York da Kofi Annan, l’allora segretario dell’Onu. E quando mi trovai nella sala, insieme agli altri ambasciatori nel mondo, vedendo i grandi del cinema, della musica, dell’arte, capii il valore, il senso, e l’onore di essere testimone di quella organizzazione.

Non ha pensato che Di Maio, infilandola nella commissione Unesco, abbia pensato di mettersi in tasca a buon mercato un po’ delle simpatie che sono solo sue?

So per certo che Di Maio si è presentato un giorno nell’orecchietteria dei miei figli portando per il mio compleanno (l’82esimo) un mazzo di fiori. Io ero là per puro caso e mi ha subito confessato di essere un cultore del mio umorismo. E quando poi ho ricevuto la nomina che è stata resa pubblica, senza che sapessi nulla, nella manifestazione dei Cinquestelle per il reddito di cittadinanza, ho messo subito le cose in chiaro. Io ho accettato, e ringrazio, di portare un alito di simpatia per l’Unesco e le sue attività. Lo faccio volentieri e sono grato davvero. Oltre questo confine non si va.

Banfi e la cultura: una faccenda complicata.

Vengo da Canosa di Puglia, sono il titolare vivente del “porca puttena!”, che è la sintesi linguistica terronizzata dell’italiano medio. Avrà diritto ad essere rappresentato?

Baudolo, Lupolo.

Lei sta descrivendo i confini lessicali del mio umorismo, l’indice analitico del costume italiano. Guardi, questa è una bella lettera di Federico Fellini, l’ho incorniciata.

“Caro Banfi, ho una calligrafia che fa venire i nervi anche a me”.

Mi spiegava perchè l’avesse scritta a macchina. Volle assolutamente leggere in anteprima il mio libro, che era un resoconto della mia vita nell’avanspettacolo. Gli mandai il manoscritto, era così coinvolto…

Far ridere costa fatica.

Proprio oggi con mia moglie eravamo nel parcheggio di un ospedale romano. Lei stava per inciampare e io l’ho sorretta. Un tizio, riconoscendomi, mi ha gridato: A Lino, ce devi far ridere!. Pesa questa cosa a volte, sa?

Ce devi far ridere, Lino

Avrei voluto fare un’ultima serie di “Nonno Libero”, ma in Rai sono stati di diverso avviso. Mi accorgo infatti che sono sempre di più quelli che mi dicono “grazie per averci fatto ridere”, traducendolo al passato. La vita è questa, buonasera.

L’ultimo mistero su Pasolini: agli atti una foto di Carboni

Una foto di Flavio Carboni si fa largo tra le carte ormai sepolte della ultima inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, avvenuto la notte fra il 1° e il 2 novembre 1975. Una indagine durata cinque anni (2010-2015). Mentre l’unico processo ha visto condannato il solo Giuseppe Pelosi nel ‘79. Pelosi che, allora 17enne, non sarebbe stato in grado di massacrare da solo lo scrittore.

La foto di Carboni, con i suoi dati personali, spunta all’interno di un album allegato a un verbale del 28 aprile 2011. Nel verbale, un uomo sentito su quanto apprese de relato da un testimone diretto della notte del delitto all’Idroscalo di Ostia, riferisce un’altra dinamica dell’omicidio. Anche lui sostiene che ci fossero più macchine e più persone sulla scena del crimine quella notte mentre si consumava la mattanza. Fatti questi, diversi da quelli suggellati dalla verità processuale ma confermati nel 2011 anche dai figli del pescatore Ennio Salvitti che allora viveva in una delle baracche di via dell’Idroscalo. Salvitti fu intervistato a caldo il 2 novembre 1975 da Furio Colombo per la Stampa, la mattina stessa del ritrovamento del corpo, e già allora rìferì della presenza di più persone sul posto e di Pasolini che gridava: “Mamma, mamma, mamma!”. La Procura non ha tuttavia creduto alle dichiarazioni che hanno ricostruito questa dinamica. È bene chiarire che la persona interrogata dagli inquirenti nel 2011, sentita anche dal Fatto, non riconosce in Carboni l’uomo di cui parlava il testimone diretto nel verbale, anzi indica un’altra persona. Impossibile saperne di più dalla Procura dove l’indagine era condotta dal pm Francesco Minisci che ha chiesto l’archiviazione disposta nel 2015.

Un investigatore di allora conferma l’interesse per Carboni, un uomo, ricorda, “entrato in ogni scandalo italiano”, ma non ha potuto o saputo ricordare il motivo per cui tra le foto del fascicolo ci fosse anche quella del discusso imprenditore.

Flavio Carboni non è certo una persona qualunque. Legato in passato a esponenti della criminalità romana e a uomini di Cosa Nostra presenti a Roma sin dagli anni 70; coinvolto nelle vicende del crac del Banco Ambrosiano (condannato), nell’omicidio del banchiere Roberto Calvi (assolto) e nei fatti della P3 (condannato in primo grado), Carboni ha avuto rapporti anche con Domenico Balducci. Detto Mimmo er cravattaro, Balducci era tra i più noti usurai di Campo de’ Fiori a Roma nel decennio 70-80, poi uomo di fiducia del boss siciliano operante allora nella Capitale, Pippo Calò. È stato ucciso nel 1981. Balducci, Ernesto Diotallevi e Calò furono processati per associazione a delinquere insieme a Carboni e a un rampollo dei conti Grazioli, tutti poi assolti definitivamente nel 1987 (stralciata, a causa di malattia, la posizione di Calò). È noto poi il legame fra Balducci, Diotallevi e Danilo Abbruciati: l’uomo cerniera fra criminalità romana, estrema destra, Servizi segreti e imprenditoria. Di recente, in un’audizione dell’ultima Commissione Moro, è stato confermato almeno un suo incontro con agenti del Sisde (attuale Aisi).

Abbruciati è stato tra i sospettati delle indagini sulla morte di Pasolini insieme a molti altri, come ad esempio i tre boss italo-marsigliesi, Bellicini-Berenguer-Belardinelli. Una banda, quella dei marsigliesi, presente a Roma nei primi anni 70 fino al 1976, operativa soprattutto nel campo dei sequestri e legata alla P2. A indagare sui rapporti fra i loro sequestri e la destabilizzazione dello Stato sarà il giudice Vittorio Occorsio, ucciso nel 1976 da Pierluigi Concutelli, che il Fatto ha intervistato nel 2014 proprio sull’omicidio dello scrittore. Abbruciati, prima di diventare un boss della Magliana, era stato contiguo a quel clan. Nell’inchiesta Pasolini compare poi Bruno Nieddu, personaggio noto per la sua partecipazione al tentato omicidio del vicepresidente del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone (per il quale Carboni sarà prima condannato come mandante, poi assolto), l’evento in cui Abbruciati restò ucciso. Le impronte digitali di Abbruciati e Nieddu, tra molte altre, sono state confrontate con i profili genetici individuati sui reperti della notte in cui morì Pasolini. La comparazione eseguita dal Ris è risultata negativa ma questo tecnicamente non scioglie i dubbi.

Carboni ha sempre negato la conoscenza diretta con Abbruciati, confermando invece quella con Diotallevi, Calò e Balducci. Lo ribadisce anche al Fatto, per il quale, attraverso il mensile FQ Millennium, nell’aprile 2018 aveva ripercorso già alcune tappe di quegli anni.

“No, mai conosciuto Abbruciati – ribadisce Carboni –, non davo tutta questa rilevanza ai rapporti di Diotallevi, che ho conosciuto tramite la zia della sua compagna, Filomena Angelini. Non c’era motivo che io negassi la mia conoscenza (di Abbruciati, ndr), mi ha presentato tante persone”. Filomena Angelini è stata imputata e poi assolta nello stesso processo conclusosi nel 1987.

Carboni nega anche qualsiasi rapporto con esponenti dell’estrema destra. Tuttavia dalle carte allegate alla relazione della Commissione d’inchiesta sulla P2, salta fuori un appunto del Sismi (oggi Aise), datato 24 luglio 1982, che invece riferisce di rapporti diretti fra Abbruciati e Carboni. In particolare di “assegni di Carboni in favore di Abbruciati emessi dalla Cassa di Risparmio di Roma, agenzia 11 di Via Appia”. Non è chiaro quando.

L’appunto del Sismi, mai pubblicato, registra anche il rapporto di amicizia fra Carboni e l’ex questore Francesco Pompò (imputato e poi assolto nel processo finito nell’87 e indagato anche nel vecchio processo per la strage di Bologna). Carboni, in relazione all’inchiesta sul delitto Pasolini, ci ha poi detto: “Il collegamento con me lo si spiega solo dalla mia conoscenza con Diotallevi”. Ma l’imprenditore afferma di non sapere se questo possa avere incidenza sull’omicio Pasolini, con il quale dichiara comunque di non aver nulla a che fare.

Ad entrare nelle ultime indagini della Procura sull’omicidio dell’Idroscalo è poi un altro nome legato al clan dei tre marsigliesi: Antonio Pinna, di origine sarda, scomparso il 16 febbraio 1976 e il cui corpo non è mai stato trovato. Su Pinna e il suo ruolo nei sequestri con i marsigliesi ha indagato il magistrato Ferdinando Imposimato: carte acquisite nell’inchiesta sulla morte dello scrittore. Carboni sostiene di non conoscere Pinna, che entra nel caso per via del possesso di un’auto uguale a quella del poeta, ma di diverso colore: un’Alfa GT 2000.

“Abbiamo fatto quello che i colleghi di un tempo non avevano fatto”, riferisce uno degli inquirenti. Tra tutti i segreti e le ombre ancora da svelare dell’Italia di quegli anni, una cosa è però certa: sul feroce omicidio di Pier Paolo Pasolini c’è ancora molto da fare.

La foresta del Congo: il Wwf accusato di colonialismo verde

Il 4 marzo scorso, un’inchiesta del sito Usa BuzzFeed ha rivelato che il Wwf finanzia le forze paramilitari responsabili di atti di violenza in Africa e in Asia. Mentre l’Ong britannica Survival International ha lanciato una campagna accusando il Wwf di “colonialismo verde” per un progetto di parco nazionale. Questo comprende l’area della foresta di Messok Dja, nel nord-ovest del Congo, in una regione chiamata Tri national Dja-Odzala-Minkebé (Tridom) e riconosciuta come “riserva della biosfera transfrontaliera”. È il Wwf ad aver convinto Congo, Camerun e Gabon a fare nel 2015 un accordo di cooperazione finalizzato a preservare la biodiversità della regione.

Il Tridom si estende su 178.000 km quadrati, quattro volte la Svizzera: il 10% del totale delle foreste del bacino del Congo, a cavallo tra sei paesi (Camerun, Repubblica centrafricana, Repubblica del Congo, Repubblica democratica del Congo, Gabon e Guinea equatoriale). Il Tridom è “una delle aree forestali più incontaminate del Congo” che ospita, tra l’altro, “la più importante popolazione di elefanti della regione, di gorilla occidentali e di scimpanzé dell’Africa centrale, e undici specie di scimmie”, spiega il Wwf. Il fogliame denso della foresta di Messok Dja è “un importante corridoio di migrazione per gli animali tra i parchi nazionali del Camerun e della Repubblica del Congo”, precisa il Wwf a Mediapart. Secondo l’Ong, questo ecosistema è minacciato dal bracconaggio che alimenta i traffici commerciali internazionali, tra cui il mercato illegale di avorio. Deve dunque essere protetto. Ma per Survival International, che ha denunciato il Wwf nel 2016, creare un parco naturale, dove nessuna attività umana sarebbe autorizzata, è una follia. Si metterebbe in pericolo l’esistenza stessa degli 8 mila abitanti della regione che si sostentano e si curano con le piante, i frutti selvatici e gli animali del posto. Una parte degli abitanti, inoltre, i Baka, un popolo autoctono semi-nomade, vive in accampamenti nella foresta. L’interesse dei Baka è anzi di difenderla perché da essa dipende la propria sopravvivenza. “Se la foresta ha una tale biodiversità, come sottolineato dallo stesso Wwf, vuol dire che i popoli che vi hanno sempre vissuto hanno saputo preservarla. Allora, perché cacciarli via?”, si chiede Fiore Longo, antropologa del Survival International.

Il progetto orientato alla “santuarizzazione” del Messok Dja è una forma di “colonizzazione verde”, perché è portato avanti essenzialmente da un attore esterno, il Wwf, “che pressa da anni per la sua creazione”, sostiene Fiore Longo. “Le autorità nazionali sono le sole istanze abilitate a avviare progetti di questa portata. Le altre parti in causa, come le Ong e dunque anche il Wwf, intervengono solo dopo”, afferma il Wwf. È del resto il ministero congolese dell’Ambiente a condurre il progetto.

Ma è noto da più di 30 anni che il Wwf influisce sulle politiche ambientali della regione. Come la Wildlife Conservation Society (Wcs) e l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Uicn), altre due agenzie di conservazione occidentali, così il Wwf possiede un know-how, una forza di comunicazione e di mobilitazione di fondi che gli Stati locali non hanno. I finanziatori preferiscono versare il denaro all’Ong, che considerano più competente dei governi locali in materia di protezione della natura e gestione dei fondi. Nel 2016, il Wwf ha ricevuto un milione di euro dall’Ue nell’ambito di una partnership con il Congo per la gestione del versante congolese del Tridom. Una parte dei fondi è per la creazione del parco del Messok Dja.

Ma Survival International parla di “colonialismo” per un altro motivo: il parere delle popolazioni locali non sembra essere stato preso in considerazione. Stando alle regole interne del Wwf e alla norma internazionale del Consenso libero e informato preliminare (Clip), nessun progetto in grado di esercitare un impatto sulle terre e le risorse di una comunità dovrebbe essere realizzato senza l’accordo di questa comunità. Il Wwf sostiene che sta facendo tutto il necessario: ha iniziato con l’identificare le “parti interessate” per poter poi stabilire chi usa la foresta di Messok Dja e starebbe preparando una procedura di Clip. Ci vorrà molto tempo e potrebbe “sfociare in un decreto che accorda la protezione rinforzata al Messok Dja.

Il Wwf farà del suo meglio per lavorare con le parti per individuare il modo migliore per proteggere queste terre”. Anche se la Clip fosse portata avanti, essa risulterebbe viziata, dice Survival International, perché i Baka da anni vengono violentemente allontanati dal Messok Dja dai guardaparco, dipendenti del governo congolose, ma formati e finanziati dal Wwf. Fiore Longo racconta di aver incontrato a febbraio 12 comunità locali contrarie al progetto. Finora il Wwf ha favorito le discussioni per un accordo tra Congo e due grandi imprese forestali. L’Ong ha anche portato avanti delle discussioni con le autorità per convincerle a annullare i permessi minerari concessi nel Messok Dja. Per il giornalista tedesco Wilfried Huissman, autore di un libro e di un film molto critici nei confronti del Wwf, “l’Ong ha sempre visto nelle popolazioni autoctone del sud una minaccia per la natura pura e incontaminata. È un modello di conservazione razzista”, ha detto al Der Spiegel.

La polemica sul Messok Dja ha comunque un merito: ha fatto luce sul fallimento della politica di conservazione introdotta nella regione dalla colonizzazione europea. La creazione dei parchi resta associata all’espulsione delle popolazioni che ci vivono. Le aree protette sono il 9,8% del Congo, contro lo 0,12% formalmente attribuito alle comunità forestali. Ma il loro obiettivo di conservazione non è stato raggiunto: la biodiversità è in declino nel 50% delle zone protette nelle foreste tropicali di tutto il mondo, secondo uno studio scientifico del 2012. Il Wwf non è stato in grado di fornire a Mediapart un bilancio del piano di conservazione messo in atto in Congo.

Per ora la priorità del Wwf e dei finanziatori è di spegnere la miccia accesa da BuzzFeed. L’Ong britannica Rainforest Foundation Uk (Rfuk) ha chiesto alla Commissione europea di prendersi le sue responsabilità ordinando un’inchiesta sui finanziamenti Ue concessi alle aree protette del bacino del Congo, cioè almeno 258 milioni di euro in 27 anni. Nel 2016, questa organizzazione aveva raccolto numerose prove della violazione dei diritti umani in almeno nove aree protette che ricevono il sostegno Ue. La Commissione europea ha ignorato sia i dati della Rfuk, sia quelli di Survival International.

(traduzione Luana De Micco)

Venezia diventa réclame: chiese tappezzate di spot

“La Pasqua dei Giudei era vicina e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio quelli che vendevano buoi, pecore, colombi, e i cambiavalute seduti. Fatta una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio, pecore e buoi; sparpagliò il denaro dei cambiavalute, rovesciò le tavole, e a quelli che vendevano i colombi disse: ‘Portate via di qui queste cose; smettete di fare della casa del Padre mio una casa di mercato’”.

Può essere che nelle copie del Vangelo possedute dalla curia patriarcale di Venezia manchi il capitolo due di Giovanni, da cui è tratto questo passaggio. Ma anche i tre Sinottici raccontano la stessa storia, e san Marco – con cui Venezia e la sua chiesa si identificano – aggiunge che Gesù accusò i mercanti di aver fatto della sua casa “una spelonca di ladri”. Tanto più colpisce la scelta del patriarcato veneziano: accogliere sulla facciata di oltre cinquanta chiese grandi cartelloni pubblicitari: i mercanti sul tempio. Lo hanno annunciato don Gianmatteo Caputo, delegato della Curia per il patrimonio culturale ecclesiastico, e la soprintendente lagunare Emanuela Carpani: e la notizia ha fatto in pochi giorni il giro del mondo, come tutte quelle che riguardano l’agonia senza fine di Venezia.

Lo scopo è la sopravvivenza delle chiese: come dire, prostituzione per vivere. Non c’è dubbio che il problema esista, e sia gigantesco: a Venezia (ma anche in ogni città storica italiana: si pensi al crollo del soffitto di San Giuseppe dei Falegnami a Roma, al turista ucciso da un crollo in Santa Croce a Firenze, allo strazio senza fine delle chiese di Napoli…) le chiese monumentali, cioè gli organi pregiati del gran corpo del nostro patrimonio culturale, hanno bisogno di manutenzione straordinaria, anche perché non esiste più quella ordinaria. Non c’è borsa e non c’è testa per assicurare la sopravvivenza dell’Italia sacra: la crisi delle vocazioni e la giusta determinazione dei pochi giovani preti a non fare i custodi di un museo, i bilanci ecclesiastici sempre più magri e i tagli selvaggi al bilancio statale dei Beni culturali hanno condotto a un vicolo cieco. E finisce che l’esasperazione conduca a strappare la sferza di cordicelle dalle mani del Signore, supplicando i signori mercanti di prender posto sulle pareti del tempio.

Credo tuttavia, da cittadino e da cristiano, che sia un errore grave. Da cittadino penso che il bilancio dello Stato sia pieno di risorse male allocate. Un libro di Carlo Cottarelli di qualche anno fa, “La lista della spesa”, spiegava egregiamente (e non esattamente da sinistra) come sia possibile recuperare una montagna di soldi senza distruggere i servizi.

Dunque: la potenza mediatica di Venezia (pienamente confermata dall’eco di questa stessa notizia) non si poteva usare per lanciare una campagna di opinione e costringere il governo a togliere fondi (per esempio) alle grandi opere inutili e dannose per destinarli alle cinquanta chiese in pericolo in Laguna? Ancora: esistono gli sponsors, ma anche i mecenati (quelli che donano senza chiedere nulla in cambio). In Italia lo dimentichiamo, ma in Francia si tira su un miliardo di euro l’anno con donazioni anche minuscole.

E Venezia è ormai una città del jet set internazionale: il patriarca, il soprintendente e il sindaco avrebbero dovuto mettersi col cappello in mano in televisione di fronte al mondo, prima di imboccare la scorciatoia.

Che è una scorciatoia scellerata, perché perverte il senso stesso del patrimonio culturale. La privatizzazione dello spazio pubblico è una causa della crisi della democrazia in occidente: “Quando il mercato esercita il diritto di prelazione su qualsiasi spazio pubblico … la gente corre il rischio di perdere la capacità … di autogovernarsi”, ha scritto Cristopher Lasch. E che il patrimonio culturale, che la Costituzione mette al servizio del “pieno sviluppo della persona umana”, diffonda campagne che inducono bisogni inesistenti è una bestemmia civile. Ciò che avrebbe dovuto farci liberi, ci fa schiavi: come ha ben spiegato il filosofo della politica Michael Sandel, la pubblicità “incoraggia le persone a volere cose e a soddisfare i propri desideri, mentre l’istruzione incoraggia le persone a riflettere in modo critico sui propri desideri, per frenarli e per elevarli”. Senza dire che Venezia, già città morta, così si trasformerà definitivamente in un supermercato, una parodia di Times Square o di Piccadilly Circus. Da cristiano, poi, penso che non si possano servire insieme due padroni: o Dio, o il denaro. Almeno il patriarcato ha fatto una scelta: come le scuole dei preti contro cui scriveva don Milani, “mattina e sera al servizio d’un padrone solo”, il denaro.

Eppure Papa Francesco ha scritto chiaramente, nella Evangelii gaudium, cosa pensa della pubblicità: “La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo … Questa economia uccide”. Quella pagina, a Venezia, deve aver fatto la stessa fine dei Vangeli: bruciata sull’altare dell’unico vero dio. Il Mercato.

Mr. Antirazzismo: “L’eroe è Carlo Ancelotti, mica io”

“Mi sono avvicinato e l’ho rimproverato, di brutto. Ma c’era qualcosa che non tornava. È stato un compagno di squadra a dirmi che un giocatore dell’altra squadra, lo aveva chiamato in quel modo lì”. Il modo lì è una cortissima coperta di Linus. Sta per “negro di merda”, ovviamente. Igor prende sottobraccio il piccolo Yassine, cerca di rincuorarlo. Poi, va dal collega avversario e gli spiega i fatti. La risposta del mister, se possibile, è ancora più deprimente: “Dai, in fondo sono cose di campo, succede”. Altroché se è vero, son cose che succedono in campo (e, a dire il vero, anche fuori), ma qui stiamo parlando di adolescenti e l’episodio ha valore doppio.

Il mister del Rozzano, che ha fretta e non vede la tensione scemare, conclude con lo sbrigativo: “Ok, cosa vuoi fare?”. Igor, cosa vuol fare, lo decide nei pochi passi che lo separano dal suo spogliatoio, dove Yassine è in lacrime, e ai ragazzi dice: “Lasciamo il torneo”. A volte, quello che sembra un burrone, è uno scalino basso così. Tutti accolgono la proposta, con entusiasmo.

E così la squadra se ne va, con i genitori sugli spalti che all’inizio guardano senza capire, poi sì che capiscono. “I genitori ambiscono, i ragazzi sognano, a me interessano i secondi”, dice Igor. Il gesto non resta ignoto, pian piano si alza un “polverone sano” che isserà Igor su ribalte impensabili. Di gesti simili, sui campi più sperduti della penisola, ce ne saranno a decine. Capita che uno, e solo quello, per motivi imprevedibili, li riassuma tutti. La Figc gli assegna il premio Astori e l’iscrizione di diritto nella Hall of Fame del calcio italiano, il Presidente Mattarella gli conferisce l’Onore al merito insieme ad altri cittadini, per “esempio civile”. “Emozione pura ma non credo di essere un eroe. Ha sicuramente rischiato di più Ancelotti chiedendo gesti forti contro il razzismo per i fischi a Koulibaly. In ballo c’erano interessi enormi e non era scontato mettere l’uomo davanti all’allenatore. Lui l’ha fatto, gli fa onore”.

Ancelotti ha voluto conoscere e ha ospitato Igor a Castel Volturno, mentre dal Comitato regionale lombardo, ad esempio, non sono arrivate nemmeno le congratulazioni. Inutile chiedergli cosa più l’abbia colpito, di questa vicenda: “Quell’insulto, così vergognoso. Non ti aspetti questa cattiveria a quell’età, riflette un ambito famigliare complicato”. Igor nella vita fa il venditore ambulante di carne, la sua famiglia venne via da Napoli che aveva tre anni: “Nel bergamasco, dove sono cresciuto e dove ho giocato a livello dilettantistico, non ho contato le volte che venivo chiamato terrone dagli spalti. So bene il dolore urticante di quegli insulti”. Ti senti più allenatore o educatore? “Educatore, non ho il minimo dubbio”. Tutti gli allenatori delle giovanili lo sono? “Non direi. In gran parte si sentono educatori ma con l’ambizione di diventare allenatori, e l’ambizione sposta molto gli equilibri”.

Come sia cambiato il rapporto con i colleghi, è presto detto: “Qualcuno guarda strano, altri mi fanno i complimenti. È in quel momento che mi rendo conto di aver fatto la cosa giusta. Molti considerano il settore giovanile solo come una rampa di lancio per le loro carriere, ma qui si ha a che fare con età così sensibili, l’approccio pedagogico è decisivo. Nella nostra scuola calcio non si sfornano calciatori. Delle decine di ragazzi che passano di qui, nessuno – forse – diventerà professionista. Capita però che, a volte, i ragazzi mi dicano o scrivano: grazie mister, perché ci insegni queste cose. Gli rispondo che non mi interessa parlargli solo di tagli e diagonali, ma di farli divertire un po’ di più e insegnargli a stare in gruppo, a tirar fuori quello che sono. Il calcio, lo sport in generale, serve soprattutto a questo”. E cosa pensi si ricorderà Yassine, di questa vicenda, tra 20 anni? “Spero che la consideri come un primo piccolo, e doloroso, passo verso un’integrazione totale”. Non conta vincere o perdere, l’importante è non perdersi: “Preciso”.