La saga della Brexit evoca un verso famoso di T.S. Eliot: “C’è ancora tempo per un centinaio di indecisioni / e per un centinaio di visioni e revisioni / prima di prender un tè col toast”. Chi si aspettava che il summit Ue della settimana scorsa avrebbe sciolto ogni questione è rimasto deluso. Ha stabilito soltanto che c’è rimasto tempo per tè e toast, tutto è ancora possibile. Dopo mesi di estenuanti negoziati, tuttora non sappiamo se il Regno Unito lascerà davvero l’Europa e, se sì, a quali condizioni. Gli inglesi sono spaccati come mai prima e il summit ha rivelato divisioni analoghe tra gli altri 27 membri dell’Ue. Questa è una cattiva notizia i milioni di europei intrappolati “dal lato sbagliato” del confine della Brexit. E ancor di più per le imprese attive su entrambi i lati del canale della manica.
Il concetto ripetuto da Theresa May e dai funzionari Ue – “Ci sono solo due modi per lasciare l’Unione: con accordo o senza accordo” – è fuorviante. Un’opzione “senza accordo” non esiste perché è impossibile costruire un muro in mare che separi completamente la Gran Bretagna dall’Ue. Ventimila leggi e regolamenti legano insieme i due fronti. Se le vecchie regole verranno rimpiazzate da quelle nuove, la transizione può causare grandi sofferenze e caos. La scelta è tra più o meno caos, ma un accordo di qualche genere alla fine dovrà essere. La domanda è quale prezzo sono disposti a pagare i due contraenti. Gli inglesi paiono pronti a sostenere il grosso dei costi del divorzio, ma i cittadini dall’altro lato della Manica, che non hanno votato per la Brexit, potrebbero rivelarsi meno disponibili a farsi carico di fardelli a cui i loro politici non li hanno preparati.
Dopo il referendum Brexit, noi abbiamo assistito a uno sconvolgente malessere democratico. Questo è paradossale perché si è sempre detto che il vero tema della Brexit era la “volontà popolare”, il tentativo di riportare il potere da piazza Schuman in Bruxelles sulle rive del Tamigi.
L’essenza della democrazia è la mediazione di interessi confliggenti in modo pacifico. Il consenso è difficile da ottenere, ma la democrazia assicura che la minoranza sconfitta accetti le decisioni prese secondo procedure concordate. Questo richiede un dialogo genuino, disponibilità al compromesso e rispetto per gli oppositori politici e i loro punti di vista. Abbiamo visto molto poco di tutto questo nella saga Brexit. In parte perché la decisione originaria è stata presa con un referendum. E i referendum generano sindromi plebiscitarie che lasciano poco spazio alla deliberazione e molto alla demagogia. Questioni complesse sono ridotte a scelte semplici e il vincitore ottiene tutto, senza bisogno di cercare compromessi.
In assenza di solide strutture democratiche a livello europeo, il referendum resta sempre una tentazione per chi vuole legittimare decisioni difficili. Lo abbiamo visto in Gran Bretagna ma anche in Olanda, Italia e Francia. Questi referendum paiono festival del populismo più che feste della democrazia. Tutto questo rende sempre più urgente che la questione democratica diventi il primo obiettivo di una riforma dell’Ue. Servono sbocchi istituzionali per la partecipazione dei cittadini, o questi si ribelleranno.
Anche i Parlamenti nazionali risultano indeboliti dalla Brexit. Quelli continentali sono stati spettatori passivi del melodramma inglese, pregando e sperando che il negoziatore di Bruxelles, Michel Barnier, ottenesse un compromesso accettabile per tutti. La House of Commons inglese ha provato ad affermare la sua sovranità, nobile sforzo finito in farsa. Col passare del tempo, le spaccature politiche si sono moltiplicate e nessuno si è dimostrato in grado di costruire maggioranze plausibili. Come ha ben riassunto il giornalista Simon Jenkins, “è così che le nazioni scivolano verso la guerra, con i loro leader che attraversano i corridoi del potere percuotendosi il petto e invocando la furia divina sui loro nemici”.
Ciascun Parlamento del continente ha la sua storia, la sua organizzazione, le sue procedure, eppure la faziosità istituzionalizzata e le litigate chiassose sono diffuse ovunque. E non ci si stupisce che i sondaggi mostrino scarsa fiducia nei Parlamenti. Eppure, per quanto disfunzionale, il sistema della rappresentanza parlamentare resta un pilastro della democrazia in Europa.
Si dice spesso che dopo la rivoluzione neo-liberista i mercati abbiano l’ultima parola sulla democrazia, che i Parlamenti non possano più prendere decisioni sgradite alla finanza. La vicenda Brexit dimostra che non sempre i mercati riescono a far andare le cose come vorrebbero: non sono mai stati entusiasti del divorzio dall’Ue ma la loro posizione è stata ignorata dal referendum e anche dopo, quando almeno auspicavano un’uscita rapida e consensuale. I protagonisti del processo democratico sono rimasti sordi alle richieste dei mercati. Eppure la democrazia si è dimostrata non soltanto inefficace, ma anche ossessivamente ripiegata su se stessa. Questo non fa ben sperare per il futuro. Democrazia e capitalismo devono lavorare insieme in armonia, altrimenti rischiamo paralisi decisionale, proteste, caos. E in questo clima di disordine, prosperano i demagoghi. Non soltanto in Gran Bretagna, ma in tutta Europa.