Gentile Selvaggia, “Che altro deve farti ?” mi ha chiesto la mia amica Alessia. Senza sapere cosa risponderle, mi sono chiesta: perché non mi so difendere? Perché non so pretendere quell’attenzione che io sento di riservare agli altri? Credo per colpa di mia madre: lei mi ha insegnato ad essere accudente, prima verso mio fratello, poi verso mio marito, da lei sempre giustificato anche quando, anziché tornare a casa da me ed i suoi figli, andava in palestra a pomparsi il bicipite. Lei mi ha insegnato a non pretendere quello che era mio, anche solo un’infanzia gioiosa: mentre i miei compagni di classe raccontavano weekend di divertimento e d’allegria in famiglia, per noi la domenica passava con lei seduta davanti alla finestra aspettando che mio padre tornasse, ed io ero lì ma non ricordo cosa facessi, non ho memoria della mia immagine. Sono diventata presto l’uomo di casa: in assenza di mio padre sono diventata quasi il marito di mia madre, avevo un fratello più grande ma, in quanto maschio, doveva uscire con i suoi amici, doveva rimanere leggero. Io non ne ho mai avuto diritto: “Tanto lei sa badare a sè stessa” diceva mio padre. Solo che io badavo a tutti quanti, lui compreso. Quando sono diventata madre si è tutto amplificato perché non solo dovevo essere accudente verso la mia famiglia di origine, ma anche verso i miei figli. Poi ad un certo punto qualcosa in me si è rotto. Quando è morto mio padre è stato come qualcuno mi avesse sfilato la colonna vertebrale. Ho smesso di essere efficiente sul lavoro, come figlia, come sorella, come moglie. Mi sono separata. Ho trovato un compagno impresentabile, un Peter Pan a cui ho concesso tutto, anche il tradimento. L’ho scoperto spiandogli il cellulare ma oggi, anziché mandarlo a quel paese, sto ancora a spendere parole quando mi continua a dire che non dovevo spiarlo. A questo bambinone ho permesso caffè nascosti, “amiche” nuove di zecca, aperitivi, avances al limite del patologico. Messaggi ad una ex mai dimenticata. Ancora oggi mi chiedo perché ho dovuto piatire il suo amore. Perché ho voluto cercare di cambiarlo. A 40 anni ancora vive in casa dei genitori, un vero bamboccione. Ma io a quest’uomo ho voluto molto bene, ho pensato prima a lui e poi a me nonostante mi abbia tradita, trascurata, umiliata. E di nuovo vengo a domandarmi: possibile che anche adesso l’insegnamento di mia madre di essere accudente mi perseguiti?
Sono stata 3 anni con un uomo che mi faceva da figlio, quando invece solo io so di quanto avessi bisogno di un uomo che finalmente per una volta nella vita mi avesse saputo dire: “Ecco, mettiti seduta, ora ci penso io”. Voglio insegnare a mia figlia ad essere diversa. E io voglio imparare a volermi bene, perché la violenza non sono solo le botte, ma tutto ciò che ti limita nei sogni e nei desideri.
R.
Cara R., ‘accudire’ deriva da un verbo spagnolo che significa ‘rimettere una cosa al suo posto’. Ora che hai rimesso al suo posto l’inetto, comincia a farlo con te stessa. Se lo farai, tua figlia avrà la migliore maestra possibile.
Figli in terapia intensiva: lui sempre presente, io piango
Ciao Selvaggia, i miei piccoli alla nascita pesavano poco più di un kg, hanno passato 90 giorni in terapia intensiva tra tubicini e cappellini di cotone grossi come un’arancia. Giulio lo chiamavo lo Gnomo del Casentino. Ai parenti in visita a casa dicevo, dopo essermi sincerata dello zucchero nel caffè, che “lo gnomo era di là, sul divano” e giù tutti a ridere. Che mamma ganza, così libera da quel dolore. Si rideva quasi tutti. Il mio Giulio. Mi faceva una paura terribile. Apnee, il cuore che pareva far capricci, la pelle trasparente. Io stavo accanto a Dario: tra i gemelli pareva il più paffuto e bellino, e andava avanti senza intoppi. Dopo il cesareo, per tre giorni ho deambulato come uno zombie per il corridoio della maternità; le infermiere sembravano agenti di un Walking Dead tra partorienti. Il quarto giorno mi aggiustai i capelli sporchi in un foulard da diva ed entrai in terapia intensiva dai miei bimbi, in un ginepraio di tubicini, spie e fili. Dissi all’infermiere: “Bellodezia, quando mi date la versione wireless di questi qui?”. Lui rise, poco a dirla tutta. Sapeva che quella era la reazione di una mamma che non sa se uscirà davvero coi figlioli. Le mamme in quel reparto piangono, stanno mute, vomitano, alcune svengono. Altre ridono, vero. Ma non il primo giorno. L’infermiere mi dice: “Signora, se non se la sente di tornare qui per qualche giorno faccia pure, ci siamo noi con i bambini, può venire il padre e lei si prenda il tempo che le serve per piangere, pensare, tornare”. Non tornai per altri tre giorni. Piansi per altri tre giorni. Ma lì c’era Lui. Lui con loro, con me. Il Babbo Francesco. Silenzioso, forse meno ridanciano, ma accanto al suo Giulio. Col pudore e l’amore degli uomini grandi, ancora oggi gli resta accanto. Anzi, CI resta accanto. Un bacio a lui. Un bacio a tutti i babbi dei bambini nati prematuri che diventano madri, prima delle madri stesse.
A.
Un bacio a te, A., che hai saputo riconoscere un uomo così quando te lo sei trovato davanti.
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