Liquidità, tenere i soldi sul conto corrente non è né stupido né criminale

Colpevolizzare i risparmiatori per fargli commettere qualche passo falso. La stampa che si autodefinisce autorevole (Corriere della Sera, Sole 24 Ore, ecc.) ha scoperto un nuovo nemico da abbattere. È la massa di denaro che gli italiani tengono sui conti, stimata sui 1.400 miliardi di euro. La cosa dà fastidio. Esattamente come dà fastidio chi tiene il proprio Tfr in azienda. Infatti, in tal modo le banche, le assicurazioni e i cosiddetti consulenti non lucrano nulla sulle somme accantonate.

Seguendo un canovaccio sperimentato, i risparmiatori che non obbediscono a comando sono bollati di ignoranza finanziaria. Il minimo che gli venga detto è che perdono buone occasioni di guadagno, lasciando infruttiferi i propri risparmi. Al che però vengono in mente i diamanti rifilati a prezzi taroccati, le gestioni patrimoniali prive di ogni trasparenza e quella trappola micidiale che è la previdenza integrativa. E uno capisce perché si rifiutino, malgrado le pressioni, di comprare checchessia.

Ma non ci sarebbe solo un lucro cessante, bensì pure un danno emergente. Questi stupidi risparmiatori non si renderebbero conto che così l’inflazione erode la loro ricchezza. In realtà lo sanno benissimo che in potere d’acquisto ci rimettono circa l’1% l’anno. È lo scotto che accettano di pagare per non farsi sottrarre molto di più da banche, fondi e assicurazioni. Un’impostazione radicale, forse anche rozza, ma non priva di senso.

Se poi tutto ciò non basta, viene intervistato qualche economista di regime, spacciato per esperto, che spiega che il loro comportamento è dannoso alla collettività. Ostinandosi pervicamente a tenere i soldi sul conto, ostacolerebbero il rilancio dell’economia. Un’accusa senza senso. Alle banche italiane non manca denaro da prestare alle imprese, per giunta ottenendolo dalla Banca centrale europea al tasso dello 0%. I problemi sono altri, per cui chi tiene liquidità sul conto non deve sentirsi in colpa da nessun punto di vista.

Piuttosto ci si può chiedere se, proprio in un’ottica di massima sicurezza, non meriti prendere in esame qualche altra alternativa oltre alla liquidità. Giustissimo evitare i prodotti confezionati da banche e assicurazioni: fondi, certificati, polizze ecc. Ma la massima prudenza imporrebbe (anche) di difendersi da impennate inflattive, per quanto ora appaiano improbabili. E qui si può spaziare, con diversa sicurezza e redditività, fra Btp Italia, buoni fruttiferi postali indicizzati e titoli di Stato reali tedeschi.

 

I medici diminuiscono, colpa del governo

Flat tax, quota 100 e la nuova norma sblocca assunzioni sono “la tempesta perfetta” che metterà ko il nostro Ssn. Carlo Palermo, presidente di Anaao, ha ragione a pensarla così. Negli ultimi 10 anni i nostri ospedali hanno perso 10mila medici e 50mila infermieri. Ma ministero della Salute e Mef hanno stabilito che dal prossimo anno il livello di riferimento per le assunzioni sarà la spesa del 2018 aumentata del 5 per cento (per superare il vincolo del budget fermo al 2004 diminuito dell’1,4 per cento). Uno specchietto per le allodole. “Così – spiega Palermo – gli operatori sanitari persi dal 2009 non verranno recuperati. E con i 50 milioni di euro previsti in più si potranno far entrare solo 500 medici, insufficienti a colmare le carenze in corsia”. Entro il 2021 usciranno dal Ssn 20mila camici bianchi e altri 4500 con quota 100. Le specialità con più assenze, secondo l’Anaao, sono la medicina d’urgenza, la pediatria e l’anestesia-rianimazione. Le Regioni falcidiate sono soprattutto Piemonte (- 2004), Lombardia (- 1921), Toscana (- 1793), Puglia (- 1686), Calabria (- 1410) e Sicilia (- 2251). Intanto il Molise, dove i concorsi vanno deserti da un anno, richiama in servizio i pensionati.

Truffati, tartassati e litigiosi: il popolo delle polizze auto

Zurichassicura.it, mondoassicurazioni.net, futuraassicurazioni.it e assionline.it: questi sono solo gli ultimi siti fake che l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (Ivass) ha segnalato e fatto chiudere nelle scorse settimane. Ma questo non è bastato a evitare che migliaia di automobilisti fossero ingannati, perdendo centinaia di euro. Convinti di aver stipulato una polizza Rc auto regolare, i sottoscrittori si sono ritrovati tra le mani un documento con lo stesso valore della carta straccia. Con la doppia beffa di aver buttato i soldi del premio assicurativo e aver viaggiato con un’automobile senza copertura assicurativa con il rischio, in caso di incidente, di dover pagare tutti i danni all’altro guidatore, incorrere in multe, sequestro del veicolo e sospensione della patente. Questo perché dietro a quei siti segnalati – il cui nome ricorda tanto società vere o che comunque fa riferimento al mondo assicurativo – ci sono truffatori che si spacciano per intermediari assicurativi smerciando soprattutto tarocche polizze temporanee.

Tanto che tra il 2017 e il 2018 sono stati scoperti oltre 150 falsi siti per un giro d’affari illegale di oltre tre milioni di euro. Un fenomeno che, però, continua a crescere: dal primo gennaio al 15 marzo 2019 sono già stati scoperti 66 portali fake, dei quali solo il 40% è offline. Basta, invece, pensare che tra il 2015 e il 2016 di segnalazioni ce ne erano poche: allora a spopolare erano compagnie fantasma che, a prezzi decisamente bassi, hanno avuto successo soprattutto al Sud, dove le tariffe sono da sempre una mazzata. Ora il fenomeno dilaga in tutta Italia. È la rivoluzione digitale ad aver ridisegnando il settore assicurativo che, sull’onda tecnologica, propone prodotti sempre più personalizzati e meno costosi che attirano sempre più automobilisti che riescono a risparmiare tempo e denaro con polizze scontate anche di 150 euro rispetto alla media di mercato. Ma a causa della velocità di accesso, è anche sempre più facile imbattersi in nelle truffe, praticamente sotto gli occhi di tutti quando navighiamo in rete. Sono, infatti, profili su blog e social network, banner e inserzioni pubblicitarie a pagamento o, più semplicemente, una banale lista di nomi che esce dai motori di ricerca a rimandare a compagnie inesistenti.

Come ci si può tutelare? Il primo passo da fare per chi ha un qualsiasi dubbio è di rivolgersi all’Ivass per verificare se il sito segnalato figura tra quelli pirata già scoperti. Ma anche quando le truffe sono ben orchestrate, ci sono diversi accorgimenti da seguire: controllare sul sito dell’intermediario le sue generalità e il numero di iscrizione al Registro unico degli intermediari assicurativi (Rui) e diffidare da chi fornisce contatti esclusivamente tramite mail o Whatsapp. Un ulteriore campanello d’allarme deve scattare se viene chiesto di versare il premio con strumenti di pagamento online o carte ricaricabili che non consentono di risalire immediatamente all’identità dell’intermediario. Dal canto suo l’Ivass può solo segnalare questi siti o le compagnie farlocche alla polizia postale e all’autorità giudiziaria, mentre agli automobilisti non resta che pagare e pure tanto.

Così, nonostante la pancia delle assicurazioni si ingrossi sempre di più grazie alla raccolta premi nei rami vita e danni (pari a 107,1 milioni di euro nei primi nove mesi del 2018, in aumento del 5%), non c’è pace per le tariffe dell’Rc auto che hanno preso a risalire. Secondo l’ultimo bollettino dell’Ivass relativo al terso trimestre 2018, se su base annua il premio medio è risultato in flessione dello 0,3%, su base trimestrale ha invece ripreso a correre con un +1,9%. Numeri alla mano, l’assicurazione costa in media 419 euro con la metà degli assicurati che paga meno di 376 euro, mentre solo il 10% spende meno di 237 euro. Ma il vulnus dell’Rc auto, una delle 20 voci che pesa di più nel paniere dell’Istat, restano due discriminanti: l’età e la residenza. Il prezzo medio dei contratti stipulati dagli assicurati con età inferiore a 25 anni (l’1,4% del campione) schizza in media a 745 euro. Mentre sul fronte territoriale, se in Campania il prezzo medio è pari a 539 euro (a Napoli si arriva a 633,5 euro), in Valle d’Aosta scende a 303 euro. Non sottovalutando che un italiano su 4 ha già installato la scatola nera che consente di ottenere uno sconto sul prezzo finale.

Un settore, insomma, che non si fa mancare nulla, soprattutto quando si tratta di ricorrere ai giudici, come dimostrano il numero delle cause pendenti, civili e penali in ogni grado di giurisdizione nel comparto Rc auto. Tanto che, secondo l’Ivass, una causa ogni cinque sinistri varca le soglie di un tribunale. Con la Campania che si conferma la Regione con la maggior concentrazione di cause: il 37% delle oltre 230 mila cause in ambito nazionale; segue il Lazio con il 14,1%.

Trent’anni per la verità: anche in Veneto delitti e omertà di mafia

La signora è distinta, truccata con cura, i capelli biondi e bianchi in sapiente acconciatura. Sembra serena e a suo agio in mezzo a tutti quei giovani. Sarà un’insegnante o una psicologa, penso, venuta a parlare di memoria. Invece quando prende la parola indovino un tormento che fatica a farsi strada. La voce si rompe subito. Il racconto fa a pugni con le emozioni, per uscirne, come sempre in questi casi, più bello e cristallino.

Assisto così all’ennesima puntata di una storia nazionale, quella delle vittime innocenti di mafia. Che si allunga non solo perché, anche se meno di prima, le organizzazioni mafiose continuano a colpire. Ma pure perché sempre nuovi familiari prendono coraggio ed escono dall’anonimato. E dopo cinque, dieci, vent’anni scelgono di dichiararsi in pubbliche assemblee, per ritrovarsi un po’ più in pace con sé stesse. Spesso dimenticate perché chi cerca i nomi abbandonati dalla memoria va a setacciare le storie della Sicilia e della Campania o della Calabria. E magari invece i nomi sono lì, nelle regioni del nord, dove si continua a pensare che non ci siano.

Michela Pavesi è legata proprio a una di queste storie sconosciute. “Non ci posso pensare”, spiega a tanti giovani scout, parlando della nipote Cristina: “la magistrata negava che si potesse parlare di vittima di mafia perché in Veneto la mafia non c’era, perché la banda Maniero non c’entrava nulla con la Sicilia, era una cosa tutta di qui, la chiamavano la Mala del Brenta o no?, mi diceva”. E invece alla fine la banda Maniero è stata condannata proprio per associazione mafiosa, perché ci sono magistrati che inseguono le loro fantasie e ci sono invece quelli che applicano le leggi.

E Cristina Pavesi è oggi a tutti gli effetti vittima di mafia. È stata introdotta per la prima volta nell’elenco di Libera quest’anno per la grande giornata della memoria celebrata a Padova, dopo un lungo lavoro di ricostruzione condotto sul campo dai responsabili dell’associazione.

Ci sono voluti quasi trent’anni per avere ragione dei pregiudizi, e c’è voluta questa zia combattiva e legatissima alla nipote da cui la distanziavano solo pochi anni. “Suo padre morì di dolore un anno dopo il delitto e io sento il dovere di ricordarla, di non abbandonarla all’oblio”. Il racconto è di quelli che evocano lo sciagurato commento “nel posto sbagliato nel momento sbagliato”.

13 dicembre 1990, Conegliano Veneto. Gli uomini della banda Maniero in passamontagna che danno l’assalto a un treno portavalori, la sparatoria, i colpi che vanno alla cieca. Poi la scelta di usare il tritolo per avere ragione del vagone blindato aprendolo in due. L’esplosione che investe in pieno il diretto Bologna-Venezia che passa in quel momento dall’altra parte. Una studentessa di 22 anni che torna a casa dall’università a Bologna, felice perché il relatore desiderato le ha appena assegnato la tesi di laurea. Il boato e la morte incredibile. Crimine e destino alleati contro un’innocente, che sparisce subito dai radar della memoria antimafiosa.

È determinata, Michela Pavesi. Emozionata ma determinata. Sta facendo la sua battaglia perché la si smetta di baloccarsi con la teoria del Veneto innocente. Un silenzio acuminato si fa largo nella sala. Finché Michela Pavesi aggiunge al suo racconto un pezzo a sorpresa che leviga un poco lo smarrimento di chi ascolta. Perché oltre ai familiari stretti di Cristina c’è stata nel tempo una persona che non ha dimenticato quella ragazza. Ed è proprio un componente della banda, Paolo Pattarello. Che aveva partecipato all’assalto. Che cerca la zia, che le fa sapere di non sapersi dare pace da quel giorno, scrive che Cristina uccisa se la sogna di notte, che ha bisogno di domandare perdono. Chiede un incontro. Che avviene. L’uomo non deve ottenere sconti di pena, ha bisogno di rappacificarsi con se stesso. La zia di Cristina sembra guardare con dolcezza inaspettata a questa scelta di espiare moralmente, poiché, come ha detto lo stesso Pattarello, sul piano penale “è uno scandalo che nessuno abbia mai pagato per quella morte”. Ha perfino per l’uomo accenti di affetto. Io penso che l’animo umano è davvero un manzoniano guazzabuglio, che non so se saprei comportarmi come questa donna che alla nipote deve avere voluto un bene immenso. I giovani davanti a noi applaudono. Non hanno visto un lieto fine. Hanno solo visto che l’animo umano sa essere grande anche nelle storie dimenticate da tutti.

Figli in terapia intensiva:
lui sempre presente, io piango

Ciao Selvaggia, i miei piccoli alla nascita pesavano poco più di un kg, hanno passato 90 giorni in terapia intensiva tra tubicini e cappellini di cotone grossi come un’arancia. Giulio lo chiamavo lo Gnomo del Casentino. Ai parenti in visita a casa dicevo, dopo essermi sincerata dello zucchero nel caffè, che “lo gnomo era di là, sul divano” e giù tutti a ridere. Che mamma ganza, così libera da quel dolore. Si rideva quasi tutti. Il mio Giulio. Mi faceva una paura terribile. Apnee, il cuore che pareva far capricci, la pelle trasparente. Io stavo accanto a Dario: tra i gemelli pareva il più paffuto e bellino, e andava avanti senza intoppi. Dopo il cesareo, per tre giorni ho deambulato come uno zombie per il corridoio della maternità; le infermiere sembravano agenti di un Walking Dead tra partorienti. Il quarto giorno mi aggiustai i capelli sporchi in un foulard da diva ed entrai in terapia intensiva dai miei bimbi, in un ginepraio di tubicini, spie e fili. Dissi all’infermiere: “Bellodezia, quando mi date la versione wireless di questi qui?”. Lui rise, poco a dirla tutta. Sapeva che quella era la reazione di una mamma che non sa se uscirà davvero coi figlioli. Le mamme in quel reparto piangono, stanno mute, vomitano, alcune svengono. Altre ridono, vero. Ma non il primo giorno. L’infermiere mi dice: “Signora, se non se la sente di tornare qui per qualche giorno faccia pure, ci siamo noi con i bambini, può venire il padre e lei si prenda il tempo che le serve per piangere, pensare, tornare”. Non tornai per altri tre giorni. Piansi per altri tre giorni. Ma lì c’era Lui. Lui con loro, con me. Il Babbo Francesco. Silenzioso, forse meno ridanciano, ma accanto al suo Giulio. Col pudore e l’amore degli uomini grandi, ancora oggi gli resta accanto. Anzi, CI resta accanto. Un bacio a lui. Un bacio a tutti i babbi dei bambini nati prematuri che diventano madri, prima delle madri stesse.

A.

Un bacio a te, A., che hai saputo riconoscere un uomo così quando te lo sei trovato davanti.

Sindrome da crocerossina: “Accudisco tutti tranne me, ma la colpa è di mia madre”

 

Gentile Selvaggia, “Che altro deve farti ?” mi ha chiesto la mia amica Alessia. Senza sapere cosa risponderle, mi sono chiesta: perché non mi so difendere? Perché non so pretendere quell’attenzione che io sento di riservare agli altri? Credo per colpa di mia madre: lei mi ha insegnato ad essere accudente, prima verso mio fratello, poi verso mio marito, da lei sempre giustificato anche quando, anziché tornare a casa da me ed i suoi figli, andava in palestra a pomparsi il bicipite. Lei mi ha insegnato a non pretendere quello che era mio, anche solo un’infanzia gioiosa: mentre i miei compagni di classe raccontavano weekend di divertimento e d’allegria in famiglia, per noi la domenica passava con lei seduta davanti alla finestra aspettando che mio padre tornasse, ed io ero lì ma non ricordo cosa facessi, non ho memoria della mia immagine. Sono diventata presto l’uomo di casa: in assenza di mio padre sono diventata quasi il marito di mia madre, avevo un fratello più grande ma, in quanto maschio, doveva uscire con i suoi amici, doveva rimanere leggero. Io non ne ho mai avuto diritto: “Tanto lei sa badare a sè stessa” diceva mio padre. Solo che io badavo a tutti quanti, lui compreso. Quando sono diventata madre si è tutto amplificato perché non solo dovevo essere accudente verso la mia famiglia di origine, ma anche verso i miei figli. Poi ad un certo punto qualcosa in me si è rotto. Quando è morto mio padre è stato come qualcuno mi avesse sfilato la colonna vertebrale. Ho smesso di essere efficiente sul lavoro, come figlia, come sorella, come moglie. Mi sono separata. Ho trovato un compagno impresentabile, un Peter Pan a cui ho concesso tutto, anche il tradimento. L’ho scoperto spiandogli il cellulare ma oggi, anziché mandarlo a quel paese, sto ancora a spendere parole quando mi continua a dire che non dovevo spiarlo. A questo bambinone ho permesso caffè nascosti, “amiche” nuove di zecca, aperitivi, avances al limite del patologico. Messaggi ad una ex mai dimenticata. Ancora oggi mi chiedo perché ho dovuto piatire il suo amore. Perché ho voluto cercare di cambiarlo. A 40 anni ancora vive in casa dei genitori, un vero bamboccione. Ma io a quest’uomo ho voluto molto bene, ho pensato prima a lui e poi a me nonostante mi abbia tradita, trascurata, umiliata. E di nuovo vengo a domandarmi: possibile che anche adesso l’insegnamento di mia madre di essere accudente mi perseguiti?

Sono stata 3 anni con un uomo che mi faceva da figlio, quando invece solo io so di quanto avessi bisogno di un uomo che finalmente per una volta nella vita mi avesse saputo dire: “Ecco, mettiti seduta, ora ci penso io”. Voglio insegnare a mia figlia ad essere diversa. E io voglio imparare a volermi bene, perché la violenza non sono solo le botte, ma tutto ciò che ti limita nei sogni e nei desideri.

R.

 

Cara R., ‘accudire’ deriva da un verbo spagnolo che significa ‘rimettere una cosa al suo posto’. Ora che hai rimesso al suo posto l’inetto, comincia a farlo con te stessa. Se lo farai, tua figlia avrà la migliore maestra possibile.

 

Figli in terapia intensiva: lui sempre presente, io piango

Ciao Selvaggia, i miei piccoli alla nascita pesavano poco più di un kg, hanno passato 90 giorni in terapia intensiva tra tubicini e cappellini di cotone grossi come un’arancia. Giulio lo chiamavo lo Gnomo del Casentino. Ai parenti in visita a casa dicevo, dopo essermi sincerata dello zucchero nel caffè, che “lo gnomo era di là, sul divano” e giù tutti a ridere. Che mamma ganza, così libera da quel dolore. Si rideva quasi tutti. Il mio Giulio. Mi faceva una paura terribile. Apnee, il cuore che pareva far capricci, la pelle trasparente. Io stavo accanto a Dario: tra i gemelli pareva il più paffuto e bellino, e andava avanti senza intoppi. Dopo il cesareo, per tre giorni ho deambulato come uno zombie per il corridoio della maternità; le infermiere sembravano agenti di un Walking Dead tra partorienti. Il quarto giorno mi aggiustai i capelli sporchi in un foulard da diva ed entrai in terapia intensiva dai miei bimbi, in un ginepraio di tubicini, spie e fili. Dissi all’infermiere: “Bellodezia, quando mi date la versione wireless di questi qui?”. Lui rise, poco a dirla tutta. Sapeva che quella era la reazione di una mamma che non sa se uscirà davvero coi figlioli. Le mamme in quel reparto piangono, stanno mute, vomitano, alcune svengono. Altre ridono, vero. Ma non il primo giorno. L’infermiere mi dice: “Signora, se non se la sente di tornare qui per qualche giorno faccia pure, ci siamo noi con i bambini, può venire il padre e lei si prenda il tempo che le serve per piangere, pensare, tornare”. Non tornai per altri tre giorni. Piansi per altri tre giorni. Ma lì c’era Lui. Lui con loro, con me. Il Babbo Francesco. Silenzioso, forse meno ridanciano, ma accanto al suo Giulio. Col pudore e l’amore degli uomini grandi, ancora oggi gli resta accanto. Anzi, CI resta accanto. Un bacio a lui. Un bacio a tutti i babbi dei bambini nati prematuri che diventano madri, prima delle madri stesse.

A.

 

Un bacio a te, A., che hai saputo riconoscere un uomo così quando te lo sei trovato davanti.

 

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Ford Focus Active, quando la berlina non basta

Compatte e citycar non bastano più per affrontare le insidie della giungla urbana? Ford ha deciso di affiancare alla sua offerta di suv anche delle versioni crossover dei suoi modelli di taglia medio piccola: le Active. Dopo Ka e Fiesta, le cui varianti Active valgono rispettivamente il 40 e il 15% del totale vendite di quei modelli, ora è il momento di Focus, ovvero della berlina la cui nuova generazione arrivata in Italia nel settembre 2018 si è piazzata al secondo posto nelle vendite ai privati con il 18% di quota nel suo segmento, dominato dalla Vw Golf. “La metà delle Focus immatricolate in Italia è nell’allestimento ST Line – spiega l’ad della filiale italiana Ford Fabrizio Faltoni – con l’arrivo della Active prevediamo che 8 Focus vendute su 10 saranno ST Line o Active”.

In cosa consiste questo allestimento? Può contare su un assetto rialzato di 30 millimetri (163 in totale), che garantisce una seduta più alta sia a chi guida che ai passeggeri. In più, c’è una diversa connotazione a livello stilistico, con una griglia frontale trapezoidale di colore nero, barre al tetto, doppio scarico e cerchi da 17″, più tessuti interni con finiture dedicate. Non si può dire che, dal punto di vista dinamico, abbia le doti di un fuoristrada. Tuttavia, un selettore di guida permette di variare il comportamento dell’auto a seconda del fondo stradale con altre due modalità rispetto al passato: Active, che imposta controllo di trazione e stabilità per affrontare in modo sicuro terreni duri o scivolosi (erba, fango, ghiaia, ghiaccio) e Trail, che fa lo stesso in caso di fondi morbidi come sabbia o neve. Il listino della Active parte da 24.750 euro.

Psa-Fca, matrimonio che non s’ha da fare

Quella di Psa-Fca sembra storia già finita. L’ipotetica alleanza era tornata d’attualità dopo le dichiarazioni di apertura del numero uno del sodalizio francese Carlos Tavares durante e dopo il salone dei Ginevra, ma era stata più volte ventilata in passato. Nel 2016 ad esempio, prima che lo stesso Tavares decidesse di virare su Opel, forse per la presenza troppo ingombrante di Sergio Marchionne, proprio lui che aveva lasciato Renault-Nissan perché non voleva fare l’eterno secondo di Carlos Ghosn. Ma anche in tempi più recenti, tipo lo scorso luglio, quando a margine della semestrale del gruppo l’abile manager portoghese era stato esplicito: “i matrimoni si fanno in due, ma per gli azionisti Fca non siamo un buon partner”. Ebbene, le avances francesi sono state rispedite al mittente una seconda volta, visto che la famiglia Agnelli non sembra troppo convinta di un accordo frutto di una transazione basata per la gran parte su titoli del gruppo Psa, come riferito dal Wall Street Journal. Solo schermaglie? Forse. Ma intanto si rimane con l’attuale (e redditizia) collaborazione sui veicoli commerciali, con buona pace degli analisti che già prevedevano l’accesso da parte di Fca alle piattaforme elettrificate dei francesi, e a questi ultimi quello all’importante rete commerciale nordamericana (con il marchio Peugeot) del gruppo guidato da Manley. Con la possibilità di puntare, unendo le forze, dritti al mercato cinese. Dunque niente colosso mondiale da 9 milioni di auto all’anno, per ora. E i coreani di Hyundai-Kia continuano a stare alla finestra.

Porsche Cayenne Coupé: coda bassa e più sportività

Suv, alias “sport utility vehicle”. Per i costruttori d’auto, però, è l’acronimo finanziario di “veicolo da super utili”. Lo sa bene Porsche, che sdoppia l’offerta del suo celebre Cayenne con l’introduzione della relativa versione Coupé.

Tetto più inclinato verso la coda e ribassato di 20 millimetri, parafanghi allargati di 19 millimetri e targa posteriore spostata in basso, per giocarsela ad armi pari con la concorrenza di Audi Q8, Bmw X6 (antesignana del segmento nel 2007) e Mercedes Gle Coupé, tutte in zona 4,9 metri di lunghezza.

Auto di nicchia? Non proprio: Porsche stima che, prossimamente, il 50% delle Cayenne vendute avrà carrozzeria Coupé, lungamente attesa dalla clientela. Il che significa affari d’oro per i tedeschi, visto che la Coupé, a parità di meccanica, sarà venduta mediamente a circa 8 mila euro in più rispetto alla Cayenne convenzionale. I due modelli condividono la piattaforma con motore longitudinale, sospensioni anteriore a doppi quadrilateri e posteriore multilink a cinque leve. Porte e cofani sono di alluminio.

Sulla Coupé, però, spicca l’appendice aerodinamica retrattile posta alla base del lunotto: si estende di 135 mm a partire dalla velocità di 90 km/h per migliorare l’aerodinamica. Fan parte del corredo tecnico, di serie o a pagamento, trazione 4×4, asse posteriore sterzante, sospensioni pneumatiche, barre antirollio attive e impianto frenante con dischi carboceramici.

L’abitacolo a quattro posti vanta un suggestivo tetto panoramico in vetro (a richiesta quello alleggerito, di carbonio). Le sedute posteriori sono state abbassate di 3 centimetri, così la silhouette posteriore non sacrifica lo spazio riservato alla testa. Mentre il volume del bagagliaio va da 600 a 1.540 litri con schienali posteriori abbattuti. La strumentazione si compone di due schermi multifunzione da 7 pollici, divisi da un contagiri analogico, e in plancia c’è il display da 12,3 pollici dell’infotainment connesso alla rete.

Due i motori disponibili al lancio, entrambi benzina con cambio automatico a 8 marce: 3 litri V6 turbo da 340 Cv (0-100 km/h in 6 secondi, 243 km/h di punta), offerto a 86.692 euro, e 4 litri V8 biturbo da 550 Cv (0-100 km/h in 3,9” e 286 km/h), proposto a 151.230 euro. I consumi omologati oscillano fra i 9,3 l/100 km della entry-level agli 11,4 l/100 km della otto cilindri.

Niente diesel, pensionato da Porsche lo scorso settembre dopo un decennio di onorato servizio (invece, le dirette concorrenti ci credono ancora). Al suo posto arriverà, molto probabilmente, l’ibrido plug-in, con il sopracitato V6 abbinato a un’unità elettrica – per una potenza totale di 462 Cv – capace di marciare a zero emissioni per circa 44 km e fino a una velocità di 135 km/h.

Arriva il romanzo che visse due volte: lo scrittore traduce se stesso, in meglio

Enrico Pellegrini, giovane avvocato torinese che vive e lavora a New York, ha scritto pubblicato in Italia il suo terzo romanzo ( “Ai nostri desideri”, Marsilio ) e poi lo ha riscritto e pubblicato in inglese con un altro titolo ( “Something Great and Beautiful”, Other Press, New York ) e un sottotitolo che fa da ponte fra le due culture: “A novel of Love, Wall Street and Focaccia”.

Illustri linguisti hanno discusso a lungo sul tema “se una traduzione cambia un testo”. Il caso è interessante perché la traduzione, in questo caso, è d’autore. E mette a contatto due culture in cui una, quella americana, si aspetta sempre la battuta, la risata, un po’ di goffagine e un mondo in cui la ricerca di allegria sostituisce la americana (costituzionale) ricerca della felicità.

Pellegrini traduttore scorta Pellegrini autore nella sala d’attesa dei nuovi lettori, e ha la buona idea di alzare (persino nella grafica dei titoli) il suono giocoso delle parole.

E pratica il piccolo inganno di far risuonare allegria (come in certi programmi tv del pomeriggio negli USA) nelle prime pagine di una vicenda dove invece alza e abbassa le temperature del comico e di una certa seria ansietà come un espediente di regia delle pagine. C’è molta Italia nel romanzo di Pellegrini e l’autore non nega ai suoi lettori americani la bellezza eccessiva che si aspettano.

Ma la trovata è che tutto ciò che avviene nella narrazione (andare in America, vivere in America e fare la spola fra le stanze fredde e rischiose di Wall Street e quelle calde di una focacceria Italiana trapiantata negli States, che sta andando alla grande e sta per diventare un grande giro d’affari) è inchiavardato dentro un processo nel quale i personaggi della storia, in una serie di scene che sono uno strano presente alternativo al presente della storia, devono comparire e deporre, come in un video in cui puoi andare più avanti o più indietro nella storia, a tua scelta.

È qui che il traduttore presta all’autore un assist inconsueto e sorprendente perché a parte poche riscritture della vicenda, modula, nella voce americana, l’alternarsi di spunti lieti e drammatici, sottraendosi con bravura all’ “effetto italiano” della battuta da ridere. Il romanzo, come ricorderanno i lettori italiani, comincia in India, con la trovata di costruire un prologo quasi da opera lirica. Ovvio che nella versione inglese quella trovata provoca sorpresa, dunque interesse, e introduce bene alla prima scena di deposizione al processo (Wall Street contro focaccia) che guiderà la storia. Una sentenza la trovate nel libro. L’altra è che questa camminata sulla corda dalla storia italiana a quella americana (o meglio: da un “mood” all’altro) è riuscita.