Gubitosi lascia, entra Labriola. Ultimo scontro in cda su Kkr

Alla fine Luigi Gubitosi si fa da parte definitivamente. Ieri l’ex Ad di Tim ha rassegnato le dimissioni anche dal Consiglio di amministrazione, dopo un braccio di ferro durato settimane. All’ultima riunione dell’anno è arrivato il passo indietro che permette di fare così posto in cda a Pietro Labriola, già nominato direttore generale. L’addio è arrivato dopo che il manager ha ottenuto la manleva legale ma senza una buonuscita.

A fine novembre Gubitosi si era dimesso dopo lo scontro con il primo azionista, la francese Vivendi (23,7%) che l’ha sfiduciato, mossa che ha trovato l’accordo anche del secondo socio dell’ex monopolista, la pubblica Cassa depositi e prestiti (9,8%). Lo scontro è partito dai pessimi risultati operativi della società. Da inizio anno, Tim ha rivisto per tre volte le stime dei profitti, l’ultima mercoledì, a causa soprattutto del flop della partnership con Dazn per la Serie A, che ora si vorrebbe rinegoziare (la partita finirà probabilmente in tribunale). Ma ad accendere la contesa è stato soprattutto l’improvviso ingresso in campo di Kkr, ottima conoscenza di Gubitosi che solo nell’estate 2020 l’ha fatto entrare nella rete di Tim (Fibercop). Mentre il manager – ex di Wind, Rai e Alitalia – vacillava, il fondo Usa ha proposto una manifestazione di interesse “non vincolante” a 0,5 centesimi per azione, valorizzando Tim 11 miliardi (contro i 7,5 miliardi del precedente valore in Borsa). La mossa non è bastata a salvare Gubitosi. Saltato lui, ieri il cda si doveva pronunciare sulla possibilità, chiesta da Kkr, di effettuare una due diligence, cioè un’analisi dettagliata dei conti di Tim, una richiesta inusuale visto che di norma si fa per società non quotate, mentre il colosso telefonico è soggetto alla massima trasparenza finanziaria imposta dalla Borsa.

Ieri era attesa la risposta. Mentre andiamo in stampa, il cda, iniziato in mattinata e proseguito a oltranza, non si è ancora concluso. La proposta di Kkr è finalizzata a uno spezzatino di Tim per vendere i vari rami aziendali sul mercato, valorizzando il titolo. Operazione che partirebbe dallo scorporo della rete che verrebbe ceduta allo Stato per il tramite di Cdp. Nei giorni scorsi è emerso che sia la Cassa sia Vivendi erano intenzionati a bocciare la proposta di Kkr e, nel caso, procedere autonomamente allo scorporo della rete. Un allineamento che però ieri in cda ha avuto qualche frizione, con la richiesta – a quanto filtra – del consigliere Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cdp, di concedere invece la due diligence a Kkr. L’unica certezza è che, senza l’ok dei primi due azionisti, nulla può avvenire in Tim. In caso di bocciatura, la palla passa a Kkr: o rinuncia o alza il prezzo e presenta una vera offerta vincolante.

A Mps servono altri 2,5 mld e 4mila esuberi: palla alla Ue

Un aumento di capitale da 2,5 miliardi, da realizzare entro l’anno prossimo, la cui dimensione è stata ridotta grazie al rafforzamento autonomo del patrimonio di base pari all’1,7% dell’indicatore Cet1 realizzato nei primi nove mesi di quest’anno. In parallelo, il taglio del 20% dei dipendenti, oltre 4mila in meno, grazie a uscite volontarie concordate, per realizzare un risparmio a regime sui costi del personale di 275 milioni l’anno. Sono due dei capisaldi del piano industriale stand alone 2022-26 approvato ieri dal consiglio di amministrazione del Monte dei Paschi dopo il fallimento della trattativa con UniCredit. Il progetto prevede un miliardo di costi di ristrutturazione e “la completa rispondenza alle indicazioni dello stress test 2020”, oltre che ai requisiti di capitale di vigilanza. Ma per attuarlo dovrà avere il via libera di Bce e Commissione Ue.

Il progetto mira alla discontinuità del modello di business “per creare le basi di una nuova e più snella Mps”. Tre i pilastri: rifocalizzazione verso la clientela fatta di famiglie e piccole e medie imprese, radicale semplificazione del modello operativo, investimenti digitali focalizzati. Tra gli obiettivi ci sono la prosecuzione della riduzione dei crediti a rischio e “un’adeguata remunerazione agli azionisti”. La banca ha fretta e vuole risultati già dall’anno prossimo. Per il 2024 il piano prevede un utile ante imposte di 700 milioni, con un rapporto costi-ricavi al di sotto del 60%, un costo del rischio di 50 punti base, un ritorno sul capitale tangibile dell’8,5-9% (11% nel 2026) e un patrimonio di vigilanza al 14% e 17,5% nel 2026, prima di dividendi e della rivalutazione delle partite fiscali.

Il grosso dei risparmi si giocherà sul taglio del personale. La banca parla di “attivazione di un piano di uscite volontarie, con risparmi di circa 275 milioni l’anno” per la maggior parte realizzati entro il 2024 in funzione delle trattative con i sindacati. I dati sono coerenti con quelli anticipati dall’ad, Guido Bastianini, nella sua recente audizione alla Commissione parlamentare sulle banche: il manager aveva spiegato che 4mila uscite volontarie avrebbero un costo di 300 milioni l’anno. Dunque il progetto del Monte prevede l’uscita volontaria anticipata di un bancario ogni cinque: a fine 2020 Mps contava circa 21.400 dipendenti per un costo annuo di 1,42 miliardi. Su questo fronte l’accordo con i sindacati sarà imprescindibile, ma non facile: già nei giorni scorsi la First Cisl aveva chiesto che il nuovo piano industriale non faccia “ricadere sul personale il taglio dei costi”.

Per il 2026 il piano prevede prestiti a rischio lordi inferiori al 4% di quelli totali, in linea con l’attuale livello e con le migliori banche italiane. Il progetto punta poi a ridurre sotto i 2 miliardi (al lordo degli accantonamenti già effettuati) i rischi legali delle cause mosse dagli azionisti per difetti di informativa finanziaria: dopo l’accordo raggiunto il 7 ottobre con la Fondazione Mps, che ha ridotto il contenzioso di 3,8 miliardi, nel quarto trimestre la banca ha chiuso altre cause per oltre 200 milioni.

Servirà però l’approvazione della Bce e della direzione Concorrenza della Commissione Ue, che devono esprimersi anche sulla partecipazione del ministero del Tesoro, primo azionista del Monte con il 64%. In base all’accordo sulla ricapitalizzazione precauzionale del 2017 stretto tra Roma, Francoforte e Bruxelles, la quota pubblica avrebbe dovuto essere ceduta entro quest’anno. Mps ricorda che “le posizioni delle autorità europee costituiscono un presupposto” per poter effettuare l’aumento di capitale e che “attualmente non è in grado di fornire una stima precisa dei tempi necessari per portare a termine i rispettivi processi, ma assicura che fornirà il massimo impegno” per ottenere velocemente il via libera.

Nomine, decreti, codicilli: il lavoraccio per avere un Mite a misura d’impresa

Se c’è una cosa che è data quasi per scontata nei Palazzi romani è che l’avventura politica di Roberto Cingolani non durerà a lungo: che Mario Draghi resti a Palazzo Chigi o meno, è l’opinione pressoché unanime, il ministero della Transizione ecologica (Mite) è destinato a cambiare guida.

Tanta sicurezza nei corridoi della politica o delle partecipate è in bizzarro contrasto con l’attivismo dell’interessato, il quale in queste settimane si dedica anima e corpo, tra le molte altre cose, a costruire un dicastero fatto a sua immagine e somiglianza, in particolare quanto a quell’ambientalismo a misura d’impresa che sembra essere il suo più convinto marchio di fabbrica.

Il Fatto ha già raccontato che a capo del dipartimento che dovrà coordinare i 70 miliardi “green” del Piano di ripresa e resilienza Cingolani ha destinato Paolo D’Aprile, consulente di McKinsey che col ministro ha scritto proprio la parte del Pnrr dedicata alla transizione verde (la nomina è attesa in Consiglio dei ministri). È di ieri invece la denuncia di Europa Verde riguardo a una nomina nel cda di Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), ente pubblico vigilato dal Mite che supporta a livello tecnico e scientifico il ministero e, per non fare che un esempio, coordina e indirizza le Arpa regionali.

Ebbene, nel board dell’ente che partecipa al Sistema nazionale di protezione ambientale (Snpa), Cingolani ha indicato pochi giorni fa l’avvocato Cristina Sgubin, “che è segretaria generale di Telespazio, società della Leonardo Spa, la stessa società dove il ministro Cingolani ha lavorato come capo della divisione tecnologica e innovazione”, spiega Angelo Bonelli. Peraltro Sgubin viene proprio da Leonardo: fino a giugno era capo staff dell’amministratore delegato Alessandro Profumo, cioè quello che ha assunto il ministro nella ex Finmeccanica. Non solo: l’avvocato Sgubin “è anche membro del cda della società Vianini, quotata in Borsa, che fa capo al gruppo Caltagirone, attiva nel settore delle costruzioni e della produzione di cemento”. Cosa ci faccia nel cda di Ispra lo sanno solo dio e il ministro…

Questa disinvoltura è però quasi un marchio di fabbrica di Cingolani. È stata da poco nominata, ad esempio, la commissione che dovrà valutare le candidature alle nuove direzioni generali istituite con la riorganizzazione del ministero: solo che – invece dei soliti esperti esterni (professori, magistrati, avvocati, eccetera) – stavolta a scegliere i dg saranno tutti membri degli Uffici di diretta collaborazione del ministro, cioè lo staff di Cingolani.

Una decisa innovazione procedurale che ne incrocia un’altra: come Il Fatto ha già raccontato, una di quelle poltrone (la direzione Affari europei e internazionali) è destinata al diplomatico Alessandro Modiano. È il nome concordato tra Luigi Di Maio e Cingolani per il posto di Inviato speciale per il clima, ma il secondo ha preteso che Modiano prima lasciasse la Farnesina per andare a lavorare al Mite: chissà se la commissione di “diretta collaborazione” conosce questa storia.

È tutto un lavorio di decreti legge, Dpcm, decreti ministeriali regolamenti, nomine dirette e di rimbalzo questa costruzione di un ministero a forma d’impresa: una fabbrica di San Pietro che a breve rischia di non avere più San Pietro, ma parecchi amici suoi.

Gira da giorni, per dire, una bozza che corregge il Dpcm pubblicato a settembre che, sulla base di un precedente decreto, ha riorganizzato il ministero. Un lungo incrocio di testi normativi che serve a venire incontro alla sottosegretaria Vannia Gava, che quanto a tener da conto l’interesse delle imprese in materia ambientale non ha nulla da imparare: di fatto – aggiungendo cinque misere parole al Dpcm (“enti, organismi e imprese pubblici”) – il nuovo testo concordato con Cingolani consentirà alla leghista di assumere temporaneamente nel suo staff due dirigenti di Eni di cui il suo lavoro a Roma pare non poter fare a meno, cosa che a oggi sarebbe vietata.

 

Delocalizzazioni, c’è l’intesa: più costi per chi viola le norme

C’è il bicchiere mezzo pieno – la norma, finalmente, dopo quattro mesi di scontri con la Confindustria di Carlo Bonomi e i suoi addentellati al governo – e quello mezzo vuoto: il testo ha perso diversi pezzi lungo il suo percorso iniziato ad agosto. Fatto sta che le misure per contrastare le “delocalizzazioni selvagge” finiranno, via emendamento, nella manovra di Bilancio, ultimo treno possibile prima della paralisi legislativa che accompagnerà la partita del Quirinale.

Ieri lo ha stabilito un’intesa tra il ministro dello Sviluppo, Giancarlo Giorgetti, grande avversario del provvedimento, e quello del Lavoro, Andrea Orlando, che insieme alla viceministra al Mise, Alessandra Todde (M5S) aveva avviato la partita mettendo a punto un decreto, che però è stato impallinato per mesi.

Il testo di agosto – elaborato dopo la crisi della fiorentina Gkn (componentistica auto) i cui 422 lavoratori furono licenziati via email per spostare la produzione all’estero – s’è trasformato sostanzialmente in una procedura obbligatoria da seguire per le aziende che vogliono chiudere o licenziare. Le imprese con più di 250 dipendenti che vogliono lasciarne a casa almeno 50, devono dare preavviso a enti territoriali, ministero e sindacati almeno 90 giorni prima, ed entro 60 giorni predisporre un piano per mitigare gli effetti della decisione indicando “le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica degli esuberi”, “le azioni finalizzate alla rioccupazione” come la formazione, “le prospettive di cessione dell’azienda o di rami dell’azienda con finalità di continuazione dell’attività” e “i tempi e le modalità di attuazione”. Chi non rispetta la procedura vedrà raddoppiare il costo di finanziamento della Naspi imposto dalla legge Fornero. Se invece non trova l’accordo con i sindacati, il contributo è moltiplicato di 1,5 volte.

Proprio sulle sanzioni si è svolto l’ultimo braccio di ferro con Giorgetti, che per mesi ha bloccato il provvedimento bollato come “punitivo” da Carlo Bonomi. Esultano Enrico Letta e Giuseppe Conte. “Chiedere che si rispetti un percorso e che si lavori per trovare soluzioni alternative a licenziamenti o delocalizzazioni non è anti-impresa, ma responsabilità sociale”, ha detto Todde, che si è battuta fino alla fine, spesso in solitaria, per evitare che il provvedimento naufragasse.

La vicenda dà la cifra delle difficoltà a spingere il governo Draghi verso misure che spostino l’asse della politica economica a favore dei lavoratori. Dal testo iniziale è infatti saltata la multa del 2% del fatturato e la black list, con tanto di obbligo a restituire i fondi pubblici, per le aziende che violavano le norme. Per la Fiom “il testo è una mera proceduralizzazione che non prevede un ruolo attivo dello Stato né un vincolo alla responsabilità sociale dell’impresa” e rischia di essere controproducente. Stessa linea della Cgil che parla di norme “troppo timide” e che chiede che almeno siano applicabili alle vertenze in corso.

Vitalizi, la Camera vuole rifare tutto: troppi tagli alle pensioni dei deputati

E ora si dovranno rifare tutti i conti per ricalcolare daccapo i vitalizi, naturalmente a vantaggio di Lorsignori: il tribunalino interno della Camera ha infatti bocciato il taglio degli assegni degli ex deputati in vigore da appena tre anni. Asfaltando, in particolar modo, l’algoritmo messo a punto dall’Istat e dall’ex presidente dell’Inps, Tito Boeri, che aveva abbattuto gli importi, specie per chi aveva goduto per più tempo del regime retributivo.

Con una sentenza peraltro parziale (la delibera del 2018 è oggetto di ricorso anche per altri aspetti), il Consiglio di Giurisdizione ha dichiarato intanto illegittima la delibera in questione “nella parte in cui prevede che il coefficiente di trasformazione che concorre al computo della rideterminazione dei trattamenti, sia riferito all’età anagrafica del deputato alla data di decorrenza dell’assegno vitalizio o del trattamento previdenziale pro rata, anziché alla data di entrata in vigore della medesima delibera”. Conseguentemente è stata dichiara anche illegittima la tabella che stabiliva i montanti contributivi a seconda dell’età contro cui in centinaia e centinaia di ex inquilini di Palazzo hanno fatto ricorso. E che da ieri possono brindare, perché la sentenza stabilisce che l’Amministrazione di Montecitorio ora debba “rideterminare ciascun trattamento”.

Il presidente della Camera Roberto Fico minimizza perché, almeno per ora, è fatto salvo il ricalcolo su base contributiva: “La sentenza del Consiglio di giurisdizione sul superamento dei vitalizi conferma l’impianto della delibera che ho fortemente voluto nel 2018. Il taglio dei vitalizi resta, così come resta un consistente risparmio di risorse. Andiamo avanti con il nostro lavoro e con l’impegno a rendere la Camera dei deputati sempre più giusta, equa ed efficiente”.

Ma è un fatto che salteranno i tagli, in alcuni casi dell’80 per cento in altri del 40 o 50 che finora hanno consentito alla Camera di risparmiare milioni. “Sono state corrette le riduzioni che non sono risultate proporzionali alle somme percepite dai singoli ex deputati, e che finivano per colpire maggiormente, a parità di trattamento, le persone più anziane d’età”, spiega il dem Alberto Losacco, presidente del Consiglio di giurisdizione di cui fanno anche parte Stefania Ascari del Movimento 5 Stelle e Silvia Covolo della Lega. Organismo che già lo scorso hanno aveva smontato un altro pezzo della delibera riallargando i cordoni della borsa: cancellata la necessità di dover dimostrare di non percepire altri redditi di importo superiore all’assegno sociale e di avere patologie di una certa gravità per ottenere una mitigazione del taglio al vitalizio, un doppio requisito ritenuto troppo drastico e dunque impallinato in sentenza.

Ieri, a finire nel tritacarne è stato invece il coefficiente con cui vengono calcolati gli assegni, anch’esso ritenuto troppo penalizzante, come spiega una nota del Consiglio di Giurisdizione che parla di “effetti indesiderati” della delibera “emersi in esito all’esperienza applicativa oramai quasi triennale” e che “hanno potuto essere rimossi eliminando le sole parti della delibera che rendono iniquo il criterio di computo dei trattamenti”. Dopo la sentenza di ieri, sempre che la prassi venga rispettata, l’Amministrazione della Camera dovrebbe opporre ricorso e presentare la richiesta di sospensiva degli effetti della decisione in attesa dell’appello.

Draghi tace (e teme i no). L’ultimo avviso da Salvini

Arrivare al 4 gennaio, quando Roberto Fico convocherà le Camere per l’elezione del Presidente della Repubblica, senza esplicitare la propria volontà di salire al Colle, ma anche senza negarla. Questo è l’obiettivo di Mario Draghi. Un percorso non facile, con la strada per il Quirinale che si fa via via sempre più complicata e piena di ostacoli. Dopo l’Economist, ieri è arrivato pure Matteo Salvini a dire che deve rimanere a Palazzo Chigi. Posizione difficilmente definitiva, ma che ora è un altro ostacolo da rimuovere.

Per questo, la tradizionale conferenza stampa di fine anno è stata anticipata al 22 dicembre. L’intenzione è quella di evitare che si trasformi in una continua variabile di un’unica domanda sulla candidatura del premier a presidente della Repubblica. Che la domanda verrà posta è dato per scontato. E Draghi risponderà nella maniera più aderente alla Costituzione possibile (che poi è anche quella per evitare una vera risposta): “Deciderà il Parlamento”. Almeno stando alle intenzioni di queste ore. Perché il pragmatismo del premier è noto, come pure è evidente che la situazione è in evoluzione.

Nei palazzi della politica si racconta che il trasferimento da Palazzo Chigi al Quirinale era in qualche modo tra le regole di ingaggio di Draghi a capo del governo. Accordi sfumati, che le parti non confermeranno mai. Ma la situazione si è ingarbugliata sempre di più.

Prima il Financial Times e poi l’Economist si sono espressi perché il premier vada avanti. Non un dettaglio: gli stessi poteri e le stesse cancellerie internazionali che hanno voluto l’arrivo dell’ex Bce al posto di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi adesso insistono perché rimanga dov’è. La proroga dello stato di emergenza resta un’ammissione implicita che permangono le ragioni per cui il premier è stato a suo tempo chiamato.

Per rimanere agli ostacoli, poi, ce n’è uno concreto e visibile. Il nome di Silvio Berlusconi: se Matteo Salvini e Giorgia Meloni non lo inducono a fare un passo indietro, viene a mancare la prima condizione per l’elezione del premier. La larga maggioranza, alla prima chiama. Il modello Ciampi.

La fragilità dei gruppi parlamentari, con l’alto rischio di franchi tiratori, è ormai tema talmente noto da essere diventato già quasi letterario. Ma la questione che diventa via via più evidente è l’ambivalenza, dei leader politici, di cui lo stesso Draghi è consapevole. Qualcuno a un certo punto dovrebbe candidarlo il premier. E ancora non è accaduto ufficialmente. Non è un caso, allora, che il ragionamento che si fa a Palazzo Chigi è che a un certo punto i capi dei partiti dovranno chiarire la loro posizione, esercitare la loro funzione. E permettere al Parlamento di fare altrettanto. L’unico che finora sembra pronto ad andare diritto su Draghi, più per disperazione che per convinzione, è Enrico Letta: per assenza di altre soluzioni, per evitare di trovarselo sulla sua strada al momento delle elezioni. Al Nazareno si stanno attrezzando a immaginare un governo di scopo con la stessa maggioranza che arrivi a fine legislatura. Soluzione di certo più indolore per il Pd che per il centrodestra. E se anche Giorgia Meloni guarda a Draghi come il presidente che potrebbe avere l’autorevolezza per darle l’incarico (e alla sua elezione come occasione per andare alle urne), Matteo Salvini si contorce tra i dubbi. “Io faccio lo sforzo di stare con il Pd e Draghi se ne va? Abbiamo prolungato lo stato d’emergenza fino al 31 marzo e lui se ne va?”, ha detto ieri.

La sua idea resta quella di eleggere un presidente (non il capo del governo, ma neanche Berlusconi) alla quarta chiama. Anche se – come tutti – è consapevole che se Draghi è in campo, nessuno potrà dirgli di no. Neanche lui. E infatti lascia intendere un’uscita dall’esecutivo in caso di un successore. Non solo: vorrebbe che Draghi dichiarasse le sue intenzioni. Tradotto: darebbe il suo appoggio su richiesta, in cambio di qualche contropartita. Esattamente lo scenario che il premier esclude. A sparigliare potrebbe essere il solito Matteo Renzi, che ieri ha riunito i gruppi di Iv. Tutti si aspettavano una discussione sulla federazione con Coraggio Italia, ma lui non ne ha neanche parlato. Mentre sul Colle ha fatto una serie di considerazioni. “Non sono io che posso dare le carte sul Quirinale”, ha detto. E – mentre ha liquidato Berlusconi come un’ipotesi “impossibile” – ha chiamato il Pd: “Metta insieme tutti, con un nome condiviso da tutti”. Altrimenti, “diventa un terno al lotto”. Chi c’era, ci ha visto un identikit di Draghi. E anche una sfida al Pd, con l’offerta di restare tra gli stabilizzatori. Il “terno al lotto” evoca un ragionamento che nei Palazzi in questi giorni fanno in molti: il nome di Draghi potrebbe entrare in gioco anche alla ventesima votazione, per evitare il tracollo del sistema. Sarebbe il modello Napolitano. Che poi, andrebbe bene pure per convincere Sergio Mattarella. “I due devono decidere insieme qual è la situazione migliore”, dice e ribadisce chi li conosce entrambi. Il timore è che invece del tracollo arrivi il guizzo alimentato dall’insofferenza nei confronti del premier. Da Paolo Gentiloni a Marcello Pera, da Pier Ferdinando Casini a Marta Cartabia, da Giuliano Amato a Luciano Violante. Senza dimenticare Berlusconi. Tutte ipotesi che potrebbero diventare reali.

In cella l’ultrà “amico” di Salvini

Era il dicembre 2018 quando all’Arena di Milano l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini abbracciava Luca Lucci durante le celebrazioni per i 50 anni della Curva sud. Già allora il capo degli ultras milanisti aveva collezionato un patteggiamento per spaccio. Ma per Salvini non fu un intralcio. Tre anni dopo, Lucci, detto il Toro, è di nuovo finito in carcere.

Arrestato ieri su richiesta della Procura di Milano assieme ad altre sette persone. Otto misure cautelari per spaccio di droga. Sei di loro sono rappresentanti della curva rossonera. L’indagine nasce come stralcio dal maxi-fascicolo del 12 aprile 2019, dopo il tentato omicidio dell’ultrà milanista e trafficante di droga, Enzo Aghinelli. Fin dall’inizio si è pensato che il fatto fosse maturato all’interno di dinamiche di curva. Eppure, a oggi, nessuna quadra giudiziaria è stata raggiunta. Da lì i riflettori della Squadra mobile si sono puntati su alcune figure della curva. Come Francesco Marasco, che nel novembre 2019 viene arrestato per spaccio. È il punto di partenza per arrivare a Lucci. L’inchiesta si basa perlopiù sull’analisi delle chat criptate dell’app Encrochat e sulla cosiddetta “droga parlata”. Intercettato, spiega Marasco: “Loro (la polizia, ndr) cercano di far cadere il pilastro grande (…). Ma lui (Lucci, ndr) fa tutto con il telefono”. Secondo il pm Leonardo Lesti, come si legge nella sua richiesta d’arresto, è emerso “un modus operandi, caratterizzato dall’impiego di sistemi di comunicazioni criptate inattaccabili, rappresentati da telefoni cellulari Bq Aquaris”. Con Lucci che dimostra di “avere grosse disponibilità di denaro contante, tanto che è in grado di pagare subito dopo la fornitura di 90 chilogrammi di hashish i quasi 300 mila euro del prezzo”. Tra i destinatari delle misura anche Rosario Calabria, titolare del ristorante “I Malacarne” storico ritrovo dei rossoneri e il parente Rosario Trimboli, originario di Locri. Dalle chat emerge come Lucci fosse in grado di trafficare decine di chili di droga in modo continuo. In un caso ha investito 75mila euro per 10 chili di cocaina, parte di un carico di 300 chili sequestrato in Brasile. Il suo fornitore principale resta ignoto, il nickname criptato è Remoteback. Lucci invece si fa chiamare Belvaitalia. Dice Lucci: “Mi serve tutto, erba e fumo, se porti organizziamo”. L’altro: “Dimmi quanti chili vuoi”. A giugno i due sono ancora in chat. Lucci: “Serve troppo”. Il fornitore: “Ne ho una tonnellata in casa (…). Già venduti 180 chili e 20 a te poi finito”. Lucci: “Portane altri che lunedì serve a me”. Il modus operandi emerge in una chat dove Calabria chiede 10 chili. Lucci: “No, mi prendono tutti 20 o 30. Se per te vuoi 10 devo associarti a uno che prende anche lui”. Insomma un vero lavoro. Dice Lucci: “Ho mezzo milione di lavoro in Marocco”. Un amico dice: “Io spaccio” e dei rischi penali “me ne fotte”. Lucci risponde: “Idem (…). Fino alla morte!”.

Il primo cittadino attacca il “Fatto”

Il sindaco di Sesto San Giovanni, Roberto Di Stefano (Lega), ha dedicato la parte conclusiva del suo intervento in Consiglio comunale, giovedì, al Fatto Quotidiano e alla nostra inchiesta sui finanziamenti elettorali ottenuti da lui e da sua moglie, Silvia Sardone. Ha attaccato con espressioni pittoresche e diffamatorie (“falsità”, “macchina del fango”) quanto scritto su questo giornale, senza peraltro smentire neanche uno dei fatti raccontati, tutti provati dai documenti di cui il Fatto è in possesso. “Un coacervo di conflitti d’interessi e di relazioni incestuosamente inopportune”, come abbiamo scritto. A Di Stefano sono arrivati 10 mila euro dal senatore Paolo Romani, poi diventato il venditore dell’area Falck di Sesto a Hines e Prelios. Alla moglie sono stati versati 12 mila euro da società coinvolte nell’affare immobiliare, con garante Cristina Crupi, contemporaneamente anche capo di gabinetto del sindaco di Sesto: riceve i soldi per Silvia Sardone e nello stesso tempo lavora con Di Stefano sulle partite urbanistiche a cui sono interessati proprio i generosi finanziatori della europarlamentare.

Uggetti, il ricorso del Pg: “Non può essere assolto”

In sei pagine di ricorso in Cassazione, la Procura generale di Milano fa a pezzi le motivazioni della sentenza con cui il sindaco di Lodi, Simone Uggetti, e i suoi tre coimputati, sono stati assolti in appello (dopo la condanna in primo grado). E chiede che la sentenza sia annullata dalla Suprema corte. “Le condotte contestate agli imputati nel presente processo devono ritenersi pacificamente accertate”, scrive il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo, “in quanto provate, oltre che da deposizioni testimoniali, anche da prove documentali costituite da atti pubblici, corrispondenza elettronica, registrazioni in presenza, intercettazioni telefoniche e informatiche. Gli stessi imputati”, fa notare il pg, “hanno ammesso o comunque non hanno contestato neppure negli atti d’appello di avere posto in essere le condotte ad essi ascritte, limitandosi a contestarne la rilevanza penale”.

È pacifico dunque che il sindaco Uggetti si sia accordato con l’avvocato Cristiano Marini (rappresentante della società Sporting Lodi) per fargli vincere la gara per la gestione delle piscine comunali della città: con un “bando cucito addosso”, ribadisce il ricorso. E con il sindaco ben conscio di ciò che stava facendo: tanto che, ad aggiudicazione avvenuta, Uggetti “dopo essersi confrontato con Marini su eventuali indagini in corso, ordinava la formattazione del suo computer e cercava di avvicinare il colonnello Benassi della Guardia di finanza per tentare di carpire notizie su eventuali indagini in corso sul bando”.

Infine, “la Corte d’appello, dopo avere ricostruito i fatti in modo assolutamente conforme alla sentenza di primo grado, ne ha ribaltato la decisione di condanna sulla scorta di un’interpretazione definita come ‘costituzionalmente orientata e conforme in particolare al principio di offensività’ dell’articolo 353 del codice penale”. Ma così ha contraddetto “clamorosamente l’orientamento totalitario della giurisprudenza di legittimità, senza essere in grado di menzionare neppure un precedente di merito a sostegno della sua decisione”. Tutto sbagliato, spiega il pg: “Al contrario, la totalitaria giurisprudenza di legittimità interpreta la nozione di turbativa illecita in modo assolutamente estensivo dal momento che il bene giuridico tutelato dall’articolo 353 del codice penale va individuato in primo luogo nella salvaguardia della libertà di iniziativa economica, attraverso la quale si realizza poi anche l’interesse della Pubblica amministrazione”.

La turbativa d’asta è “un reato di pericolo dal momento che per la configurazione del reato non si richiede che alla lesione della libertà di iniziativa economica consegua necessariamente la lesione effettiva dell’interesse economico della Pubblica amministrazione. Ne consegue che il reato in esame si consuma anche con il solo ‘turbamento’ della gara a prescindere dall’effetto pregiudizievole o meno che ne sia conseguito per la Pubblica amministrazione”.

“Nel caso di specie, appare evidente l’idoneità a turbare la procedura di gara”: “Infatti risulta provato che la distribuzione dei punteggi originariamente individuata” viene rivista insieme, dal sindaco e dal candidato che doveva vincere a ogni costo. Alla fine i punteggi sono cambiati, diventando quelli scritti da Marini negli “appunti annotati da quest’ultimo sulla copia del bando”. “L’invasiva interferenza del Marini” ha “compromesso la regolarità della procedura in modo sostanziale e non meramente formale come ritenuto dalla Corte d’appello”.

Il ricorso boccia la sentenza d’appello anche per mancanza di motivazione. “Neanche un rigo di motivazione sulla quantificazione dei punteggi”: i 15 punti per “il radicamento territoriale (ma Uggetti ne avrebbe voluti 20, addirittura limitati al solo comune di Lodi) e per il coinvolgimento di altre associazioni sportive dilettantistiche lodigiane (20 punti), avevano consentito di escludere” altri concorrenti (Sporting Management di Verona e Acquatica Sport di Castel Leone) e “a Sporting Lodi di prevalere sul secondo classificato che aveva presentato offerta economica più bassa (premiata con soli 10 punti contro i 20 originariamente previsti)”. Invece “venivano sminuiti i requisiti dell’offerta economica e degli investimenti per la riqualificazione degli impianti, con relativo risparmio di spesa per Sporting”. La sentenza è anche illogica, sostiene il ricorso, perché gli accordi segreti provano “esattamente il contrario di quanto illogicamente ritenuto dalla Corte: non l’assenza di sviamento di potere, ma la piena consapevolezza di avere illecitamente turbato la gara”.

“Molestò la collega”, sanzione al pm Creazzo

Perdita di 2 mesidi anzianità. È la sanzione che il Csm ha inflitto al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, accusato dalla pm di Palermo Alessia Sinatra di averla molestata sessualmente nel 2015 in un hotel romano durante un’iniziativa della loro corrente, Unicost. Il procedimento disciplinare, iniziato lo scorso maggio, si è svolto tutto a porte chiuse. Creazzo è stato considerato responsabile del capo di incolpazione che lo accusava di aver “leso la propria immagine e il prestigio dell’intera magistratura“, mentre è stato assolto dall’altro, la “violazione del dovere di correttezza ed equilibrio” per il “comportamento gravemente scorretto”. “È una sentenza ingiusta, sono innocente”, ha detto Creazzo.