“A vent’anni ne dimostravo 40: suonavo la chitarra, ma rimorchiavano gli altri”

Ha 62 anni, compiuti cinque giorni fa, eppure sul piano fisico non ne dimostra nemmeno cinquanta (“a vent’anni mi scambiavano per un quarantenne, quindi pareggio”), anche meno come impronta di vita e stile genitoriale: “A volte i miei figli mi guardano come il primogenito del Perozzi in Amici miei, con un’espressione tra lo stupito e lo sconcertato, della serie: ma che combina papà?”.

Quando parla sorride spesso, e spesso arriccia “quel naso triste come una salita. Quegli occhi allegri da italiano in gita”, parola di Paolo Conte nella sua Bartali; e come Bartali qualche salita l’ha scalata (“All’inizio apparivo talmente adulto che in compagnia teatrale dicevano: ‘Non potrai mai diventare un protagonista, al massimo un caratterista’”). Eppure il solo 2019 recita: protagonista della massima espressione nazional-popolare (Sanremo) e ora in sala con Bentornato Presidente, sequel di Benvenuto Presidente, film del 2013 in grado di superare gli otto milioni e mezzo d’incasso. Rarità in questi anni di lacrime. Frank Matano spiega: “Claudio ha la capacità unica di annusare l’aria e dettare i tempi: se c’è un clima non positivo, sa come invertire la rotta, come convogliare le energie”.

È descritto da leader.

Davvero lo ha detto?

Sì.

Mi fa molto piacere e credo sia vero, anzi è una delle qualità che mi riconosco. Oddio, non del leader, ma di capire cosa accade intorno a me.

Punto di forza.

Il timing è fondamentale, il senso del ritmo, capire quando è il momento di smetterla e quando di darci dentro, magari di aumentare i giri.

Nella vita o sul palco?

A volte le situazioni si possono confondere. Comunque con Frank mi trovo benissimo, insieme siamo perfetti: a Italia’s Got Talent siamo ai vertici del tavolo di giuria, quindi lontani, eppure ci capiamo senza neanche guardarci.

Tra di voi c’è una bella differenza di età.

Lui 29 io 62 anni, i suoi genitori sono più giovani di me, ma possediamo un linguaggio comune, ci scambiamo le reciproche passioni culturali.

Quali?

Gli parlo di Bertolt Brecht o Dario Fo, quindi cose antiche, lui risponde con gli stand up statunitensi che, beato, riesce a guardare in inglese. Di questo lo invidio tantissimo.

Dolori con l’inglese?

A scuola ho studiato francese, secondo i miei doveva diventare la lingua del futuro. A quei tempi ci sono caduti in molti.

Torniamo al timing…

Molto lo devo ai quindici anni di conduzione a Zelig, quel palco è stata una grandissima scuola, a volte vampirizzavo la scena, in altri casi restituivo linfa ai colleghi: secondo alcuni comici, senza di me non sarebbero mai riusciti a venir fuori.

Non tutti.

Checco Zalone o Ficarra e Picone erano bravi a prescindere dal mio contributo, parliamo di fuoriclasse.

È disciplinato?

Ho l’ascendente Vergine.

Sua moglie la definisce “irruento, disordinato e sempre in ritardo”.

Disordinato sì… (subito ci ripensa). Non è vero, lo dice lei, perché sostiene che i miei cassetti sono il caos, eppure trovo tutto, quindi si lamenta inutilmente.

Beghe da coppia.

E non ho mai mancato un appuntamento, non mi preparo prima, non sono uno che anticipa mostruosamente i tempi, arrivo all’ultimo, la valigia la compongo in dieci minuti.

Dinamiche.

Odio aspettare gli altri e odio arrivare in anticipo.

Cos’è importante sul lavoro?

Quando sei in tournée la disciplina è fondamentale, altro che nottate in bianco, sesso occasionale o droghe. Quelle sono leggende. E l’ho capito grazie agli Elii (Elio e le storie tese).

Professionisti seri.

Mi hanno sconvolto: un’estate sono stato con loro in giro per l’Italia, e il soundcheck era alle 16.30, poi cena alle sei e mezzo con davanti una bistecchina e l’insalata. E tutti a letto.

Tristezza.

L’anno dopo, impegnato da solo in una tournée teatrale, ho applicato le stesse regole, con l’intera troupe che mi guardava come un matto, quasi passavo d’antipatico perché non partecipavo alla liturgia del gruppo.

Vergassola narra che ai tempi del Derby finivate lo spettacolo e con Paolo Rossi vi sfogavate in interminabili sedute di biliardino.

Poi ripartiva di notte, tornava in Liguria, dormiva poche ore e la mattina stava al lavoro. Comunque ho passato anni di albe alterate, ma da sposato e con i figli si cambia, sono fasi normali della vita ed è folle ostinarsi nel voler mantenere immutate le dinamiche.

Cos’altro ha imparato negli anni?

Saper ascoltare, mi piace e serve. Purtroppo non so fingere quando non sono interessato, chi mi conosce sgama i tic involontari.

Quali sono?

Magari chiudo un occhio, poi guardo un punto nel vuoto, infine trattengo il classico sbadiglio.

Per molti suoi colleghi un attore deve essere un ladro.

Penso di sì, forse lo diceva anche Dario Fo; oramai l’inedito assoluto non esiste più, l’arte è renderla tua, e sotto qualche angolatura è un modo per mantenere in vita una creazione, per non dimenticare delle suggestioni.

Quasi un omaggio.

Uno dei miei sogni è quello della cover comica, esattamente come accade per la musica: portare su un palco una serie di comici che interpretano pezzi storici di colleghi del passato, una sorta di antologia della risata.

Ha studiato al Piccolo. Strehler lo ha conosciuto?

No perché ero iscritto alla Civica scuola d’arte drammatica del Piccolo di Milano: pochi anni prima c’era stata una rivolta e Strehler l’aveva quasi rifiutata.

Per Frassica la platea di Sanremo è la peggiore.

Invece a me è piaciuta, e pensare che tutti mi avevano preparato: “Occhio, è un pubblico difficilissimo”. In realtà no, temo solo la platea annoiata e silente, quella che spesso trovi alle prime, dove l’atteggiamento è quello di arricciare il naso.

Più difficile commuovere o strappare una risata?

In teatro il più grande complimento è quando dicono: “Lo vedi? non c’è un colpo di tosse”, vuol dire che il pubblico è coinvolto ed emozionato.

È così?

Non voglio diventare cinico, ma tutte le volte che ascolto questa espressione, penso: “Che cazzo ne sai? Magari stanno dormendo”.

Quindi?

La risata è vera, non puoi bluffare e se c’è ti arriva una scarica di piacere.

Se non c’è?

Si apre una lacerazione nel corpo, ti sotterreresti. Per fortuna mi è capitato poche volte e fuori dal palco scatta il vantaggio del cinema.

Protetti dallo schermo.

Dai film mi sono arrivate delle sorprese rare, con risate clamorose su punti che ritenevo bassi, e silenzi su passaggi per me basilari. Per questo mi piazzo dietro le quinte, voglio capire.

Sbircia.

La sera del sabato o il pomeriggio della domenica mi nascondo e resto.

Domanda anche gli incassi?

Ogni mattina controllo perché sono esercente, sono socio dell’Anteo di Milano (un multisala cinematografico), e alle otto meno un quarto mi arriva il resoconto.

Non sempre roseo.

Quest’anno il cinema italiano è stato una tragedia. Speriamo con Bentornato presidente.

Permalosi i politici?

Meno di quanto si possa immaginare, a volte il loro ego viene solleticato dall’attenzione, chi si offende di più sono gli uffici stampa e chi li segue, sono loro a rompere le palle.

Con Salvini non è proprio andata così.

Una volta ci siamo conosciuti nel programma di Bruno Vespa, entrambi invitati per presentare Benvenuti al sud, e creare una contrapposizione.

Riuscita?

Tutto conciliante, gli era pure piaciuto il film.

Ha dichiarato: “L’espressione ‘società civile’ non mi piace”.

L’ho detto?

A quanto pare.

Non mi ci riconosco, poi a volte me ne esco con cazzate, in altre ci sono questi social che rilanciano l’impossibile, distorcono e pretendono pure il ruolo di Cassazione della verità.

Non li ama.

Per niente, infatti cerco di sottrarmi il più possibile.

I suoi maestri?

Ne esistono di consapevoli e di inconsapevoli, ma il primo che mi viene in mente è sempre Dario Fo, a lui devo veramente molto (inizia a muovere le mani, cambia espressione del viso, arriccia le palpebre).

Conosciuto?

Negli anni Settanta, quando ha partecipato all’occupazione del mio liceo scientifico, e così, con la leggerezza tipica dei ragazzi e la complicità del professore di Lettere, lo abbiamo invitato in aula.

Lui si è presentato.

E ha regalato ore di magia, e una disponibilità non comune: credeva nella condivisione, nella possibilità di incidere, di suggestionare con la bellezza dell’arte; per lui non c’era un pubblico alto e uno basso, ma solo persone con le quali interagire. Ecco, questo per me è il concetto di società civile.

E poi?

Ho iniziato a seguirlo in teatro, da semplice spettatore, dieci anni dopo ero con lui sul palco e cercavo di assorbire ogni sfumatura.

Oltre a Fo?

Paolo Rossi: ha quasi inventato il cabaret a teatro, ed è un amico e artista unico, un fuoriclasse che ancora oggi non smette di sperimentare, di rischiare. Ha coraggio.

Sottovalutato?

Non lo so, la sua è stata ed è una scelta coerente: ha preferito il teatro alla televisione e al cinema, e non è semplice, soprattutto per una questione economica. Lo ammiro veramente molto.

Ha salvaguardato il fanciullo che è in lei?

Per questo alcuni mi accusano di essere un pirlone, a volte i miei figli mi guardano con espressioni di sgomento.

Genitore amico.

Lo so, è sbagliato, è un errore clamoroso, ma chi se ne frega, non riesco a essere autoritario e non amo neanche la parte dell’autorevole: non controllo i cellulari, non pongo la stessa domanda per scoprire l’errore. Diciamo che do fiducia e oggi posso dire che mi è andata bene.

Cosa ha acquistato con i primi soldi guadagnati?

Una chitarra Yamaha: allora suonavo, ero uno di quei ragazzi da spiaggia, anche io mi sono illuso che servisse per rimorchiare, invece, come nel più classico dei casi, gli altri conoscevano, mentre io finivo l’alba a cantare Guccini. Magari da solo.

Era comunista?

Sì. Credevo nella comunione dei beni, nell’avere pari stipendio e tutto il percorso correlato…

Oggi?

Qualcosa dentro di me è cambiato dopo aver conosciuto Kledi Kadiu ai tempi di Zelig: era scappato dall’Albania e ne abbiamo parlato e discusso a lungo, io con i miei ideali, lui con la sua storia vissuta.

L’Albania era il paese meno comunista.

Cambogia e Cina non sono stati molto differenti. Anzi peggio.

“Bella ciao” la canta ancora?

È l’inno dei partigiani che ci hanno liberato, quindi sì, la canterò per sempre. E per sempre mi emozionerà.

 

Termini Imerese, si dimette il sindaco “Ma sono innocente”

Termini Imereserimane senza sindaco: Francesco Giunta, coinvolto nella recente inchiesta giudiziaria sul voto di scambio che ha coinvolto 96 politici locali, ha infatti annunciato le sue dimissioni. A distanza di due anni dalla sua elezione, che avvenne tramite una lista civica di centrodestra, il primo cittadino del Comune in provincia di Palermo ha comunicato la sua decisione con un video messaggio in diretta su Facebook, rivolgendosi ai suoi cittadini con voce commossa: “Come sapete nei giorni scorsi ho ricevuto insieme a 96 persone un avviso di garanzia. Ad oggi non ho avuto il tempo di acquisire la documentazione. Ho la coscienza a posto. Sono certo di dimostrare la mia estraneità dei fatti contestati. E mi sono dimesso con grande dolore visto che stavamo ottenendo ottimi risultati”. Conclude ringraziando tutti gli assessori e i consiglieri comunali, spiegando che l’abbandono della carica gli permetterà di difendersi meglio dalle accuse. Ribadisce infine di avere grande rispetto per la magistratura, aggiungendo “Tornerò a fare l’avvocato”. Nei suoi confronti l’accusa è di voto di scambio e peculato per il presunto uso privato dell’auto di servizio del Comune.

“La Casalese” di Lady Vallanzasca fa arrabbiare il Viminale: niente presentazione per il libro-film

Una sala sfarzosa, la firma di Lady Vallanzasca e l’ombra inquietante dei Bardellino. Ce n’è abbastanza per bloccare la presentazione de La Casalese, libro-film su donne e camorra.

Eppure a Spigno Saturnia, in provincia di Latina, avevano fatto le cose in grande, prenotando per martedì 26 marzo una sala al restaurant resort & spa Villa Caribe, location lussuosa spesso meta di ricevimenti matrimoniali. Avevano chiamato come moderatori due giornalisti casertani, Francesca Nardi e Ferdinando Terlizzi, cronisti che da tempo lavorano sul territorio ma evidentemente non in maniera così attenta e approfondita. C’erano tutti gli ingredienti per una presentazione surreale de La Casalese – l’operazione Spartacus e dell’omonimo film. Il problema è che l’autrice è Antonella D’Agostino, meglio conosciuta come lady Vallanzasca, sposata per 10 anni con il bandito più famoso d’Italia (Renato Vallanzasca) e arrestata (e poi scarcerata) nel 2013 in un’operazione anticamorra tra Frosinone e Caserta. Non basta. La produzione del film è a cura di Angelo Bardellino, nipote di Antonio, il patriarca dei casalesi ucciso nel 1988 durante la guerra con gli Schiavone, proprietario della Roxyl Music&Film che ha realizzato il lungometraggio tratto dal libro e che nel settembre 2017 è stato condannato in Appello a 7 anni e 5 mesi per concorso in estorsione insieme ad altri imputati, a seguito dell’inchiesta Formia Connection. La storia è ambientata a Mondragone (Caserta), e parla di donne con la vita segnata dall’appartenenza dei loro uomini, mariti, fratelli, alla criminalità organizzata. Un’ambientazione più che mai azzeccata visto che la D’Agostino nel 2013 è stata arresta proprio perché, secondo gli investigatori, sarebbe stata legata ai vertici del clan mondragonese La Torre, come anche ad alcuni esponenti del clan Esposito. Ma per il Viminale stavolta l’intreccio tra fiction e realtà si è spinto un po’ troppo in là: il Ministero ha deciso di stoppare la presentazione.

Forza Nuova, raduno-flop: la piazza è vuota, in città sfilano 3 mila antifascisti

Doveva essere la giornata dei neofascisti, a Prato. Invece, la città se la sono presa i loro “oppositori”. Forza Nuova aveva infatti organizzato un presidio in piazza del Mercato Nuovo per dire no “all’immigrazione clandestina”, nonostante la contrarietà espressa dal sindaco Matteo Biffoni. Il luogo del raduno non era casuale: a ridosso di un tempio buddista, vicino a una chiesa e a una moschea che verrà aperta tra qualche mese. Dopo giorni di polemiche, però, Roberto Fiore (leader di FN) si è ritrovato a parlare in una piazza semi-vuota e presidiata in forze solo dalla polizia: “Come cento anni fa, quando pochi ma decisi italiani iniziarono a risollevare il destino della patria, oggi siamo pronti a salvare l’Italia per portarla laddove il suo destino la chiama”. E ad ascoltare i suoi proclami erano “pochi” davvero: qualche bandiera, tanti giornalisti e agenti, uno sparuto gruppo di militanti di estrema destra; appena 150, secondo i numeri diffusi dalle forze dell’ordine. L’evento neofascista, che dopo l’iniziale autorizzazione era stato poi trasformato da corte itinerante in raduno “fisso” (proprio per evitare eventuali disordini e contatti con la contro manifestazione organizzata in città), si è così aperto e richiuso nel giro di un paio d’ore: nulla da segnalare, se non i soliti slogan “Italia agli italiani”, “Dio, Patria e Famiglia” e il sempreverde “Boia chi molla”. Più qualche insulto diretto a Gad Lerner, apostrofato al grido di “ebreo, ebreo” quando è passato per la piazza. “Certo che lo sono”, la replica. Non è stato un sabato nero, quello di Prato, ma colorato dalle bandiere sventolate dai partigiani dell’Ani e dalle altre associazioni, sindacati e partiti che hanno invaso pacificamente la città per rispondere al raduno di FN: nelle strade si sono raccolte circa 3 mila persone. “La manifestazione di Forza Nuova era uno sfregio alla città”, ha detto il sindaco Matteo Biffoni. “Chiedo scusa ai cittadini che si sono trovati coinvolti in quello che non doveva accadere”.

“Altro che voci dei naufraghi: Ousseynou Sy voleva uccidere” L’autista resta in carcere

Nessuna voce di bimbi morti in mare, nessuna “visione”: secondo il gip, Ousseynou Sy sapeva benissimo ciò che stava facendo. Ha acceso volontariamente il fuoco, e non avrebbe mai lasciato andare gli studenti, se non fosse stato per l’intervento dei carabinieri. Per questo deve rimanere in carcere. Il giudice per le indagini preliminari di Milano, Tommaso Perna, ha convalidato l’arresto di Ousseynou Sy, l’autista di origine senegalese che mercoledì ha dirottato un bus con a bordo 51 studenti di una scuola media di Crema. Secondo il magistrato, la versione da lui inizialmente fornita sarebbe solo “una maldestra opera di rivisitazione della realtà” al fine “di poter contare sui benefici conseguenti a una eventuale, e improbabile, dichiarazione di incapacità di intendere e di volere”. Nel suo interrogatorio davanti ai pm, il senegalese aveva parlato di sé al plurale, facendo riferimento a immaginari “bambini” immigrati che gli avevano chiesto di fare qualcosa, citando poi a più riprese i due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini e attaccando le loro politiche migratorie. “Io, quello che ho fatto, l’ho fatto per salvare vite umane, per dare un taglio a questo massacro, questo genocidio”. Ma il giudice non gli ha creduto: le sue parole sono da interpretare solo come segno del suo “convincimento ideologico”, nient’altro. E i fatti e le dichiarazioni mostrano come “la potenzialità offensiva della condotta fosse elevatissima e concretamente idonea a raggiungere lo scopo terroristico prefissato”, mentre “la liberazione degli ostaggi non è in alcun modo dipesa dalle scelte del fuggitivo”, contrariamente a quanto lui ha provato a sostenere. Confermata dunque la misura cautelare, restano in piedi tutti i capi di imputazione: reato di strage aggravato dalla finalità terroristica, sequestro di persona, resistenza e incendio.

Due fratellini precipitano dall’8° piano. Interrogato il padre: “Una tragedia”

Un duro rimprovero. Il papà chiuso in bagno a fare la doccia. I due fratellini precipitati dall’ottavo piano e morti nello schianto. Una tragedia, pare. Tutto, forse, per qualche euro di resto sbagliato dai ragazzini, appena tornati dalla spesa. Ma quello che è successo ieri a Bologna non è ancora del tutto chiaro.

Potrebbe essere questa la causa della caduta dal balcone di David e Benjamin Nathan, rispettivamente 11 e 14 anni, caduti dall’ottavo piano di casa. I due erano soli nell’appartamento col papà, e – a quanto ha dichiarato l’uomo – erano stati sgridati per essere tornati dalla spesa con meno soldi del dovuto. Heitz Chabwore, dopo averli rimproverati, sarebbe andato a farsi una doccia post lavoro. Intorno alle 10, secondo il racconto dei vicini, i ragazzi sono precipitati nel cortile interno di via Quirino Di Marzio, periferia popolare di Bologna. Palazzoni rossi e solo un grande deposito di autobus vicino. Un quartiere intero sotto choc.

Il padre è stato interrogato per ore, fino a sera inoltrata, negli uffici della Questura, così come la moglie, Lilian Dadda che al momento della tragedia non era in casa ma ha difeso il proprio compagno senza esitazioni. “Mio marito è una persona amorevole” avrebbe detto agli inquirenti. “È stata una disgrazia”, le dichiarazioni dell’uomo, che avrebbe spiegato che mentre è successo stava facendo la doccia. I due, entrambi kenioti, sono in Italia da diversi anni e hanno altri due figli, un maschio di due e una bambina di otto anni, che erano fuori con la madre. Quando è stata raggiunta dagli agenti delle volanti, la donna era al lavoro in un salone del centro dove fa la parrucchiera.

I due fratellini erano rimasti a casa con il padre, un operatore sociosanitario che poche ore dopo la tragedia ha postato su Facebook un messaggio in inglese: “Pregate per la mia famiglia”. Un uomo, almeno dall’immagine dei social, estremamente religioso e devoto. Chi vive nella zona lo descrive come una persona taciturna, tranquilla, se non fosse per qualche piccola lite condominiale. Vicende ordinarie. Salvo una, secondo il racconto di un vicino ai cronisti presenti: l’anno scorso Heitz avrebbe chiuso i bambini in bagno e sarebbero intervenuti i vigili del fuoco per salvarli; in realtà pare che fosse stato il bimbo a chiudersi in bagno e i genitori a chiamare i pompieri.

Sono diversi i condomini che si sono accorti del rumore della caduta ma nessuno ricorda di aver sentito grida o urla. Qualcuno ha riferito di aver visto il padre affacciarsi poco dopo. I due ragazzi sono precipitati dall’ottavo piano, da un balcone, che appare molto stretto, alto circa trenta metri. “Ero con un amico quando li abbiamo visti e abbiamo chiamato l’ambulanza, il personale sanitario ha provato a rianimarli ma gli infermieri si sono messi le mani nei capelli”, ha raccontato Franco Pizzuti, un residente. L’appartamento di proprietà di una onlus, in cui la famiglia viveva perché bisognosa di sostegno economico, è stato sequestrato. In tarda serata i due sono usciti dalla Questura. Anche se non è ancora chiaro come sia potuto succedere, prevale l’ipotesi della disgrazia: si attendono i rilievi della scientifica per capire la dinamica.

Trump, il suo giro d’affari più letale dell’inchiesta sui contatti con Mosca

C’erano una volta ‘tutti gli uomini del presidente’, quelli del Watergate – che finì con le dimissioni del presidente Nixon, giusto prima che ne scattasse l’impeachment –; e anche quelli del Russiagate, perché diversi collaboratori del magnate candidato alle presidenziali 2016 sono già stati indagati (e alcuni condannati). Ci sono ora ‘tutti gli affari del presidente’, emersi nell’inchiesta sui contatti tra la campagna di Trump ed emissari del Cremlino nel 2016, prima e dopo il voto che portò l’imprenditore showman alla Casa Bianca. Venerdì sera, a Borse chiuse e palazzi della politica deserti per il week-end, il procuratore speciale Robert Mueller ha depositato il suo rapporto finale, il più atteso nella storia d’America, forse dopo il rapporto Warren sull’assassinio Kennedy e quello pruriginoso sul ‘caso Lewsinski’. Unanimi, i media americani sollecitano, in queste ore, la pubblicazione del rapporto, consegnato al segretario alla Giustizia William Barr e il cui contenuto, per il momento, non sarebbe neppure noto al presidente che, ieri, s’è riunito a consulto con i suoi legali nella tenuta di Mar-a-lago in Florida (non molto a lungo: a metà mattina, se n’è andato a giocare a golf). Trump e Barr sono amici e Trump ha messo Barr in quel posto proprio per gestire questo momento. La consegna del rapporto conclude un’indagine durata 22 mesi e costata 25 milioni di dollari, che ha gettato molte ombre sull’Amministrazione Trump. Di sicuro, per Trump i problemi giudiziari non sono finiti. Russiagate a parte, i giudici di New York stanno indagando sulla Trump Organization e sulla campagna 2016 per vagliare eventuali violazioni alle norme sui finanziamenti elettorali, e sull’organizzazione della cerimonia d’insediamento. Inoltre, i democratici alla Camera hanno sotto inchiesta le dichiarazioni dei redditi di Trump – primo presidente a non pubblicarle –, la concessione al genero Jarred Kushner e ad altri familiari del nulla osta di sicurezza della Casa Bianca; i legami d’affari con la Deutsche Bank e i contributi giunti a Trump da governi stranieri.

Gilet gialli, Champs Elysées blindati gli ‘émeutiers’ cambiano quartiere

Al 19° sabato della protesta dei gilet gialli, i parigini e i turisti che volevano raggiungere gli Champs Elysées hanno potuto farlo senza rischiare di respirare lacrimogeni. Per una volta hanno trovato negozi e caffé aperti. L’avenue parigina si è barricata contro i casseurs. Anzi, gli émeutiers, i rivoltosi, come vengono chiamati ormai quanti vogliono solo spaccare e battersi con la polizia. Un perimetro molto ampio è stato vietato ai gilet gialli. I militari dell’operazione anti-terrorismo Sentinelle sono stati mobilitati in difesa degli edifici ufficiali per dare man forte ai 6.000 agenti di polizia; 34 “unità anti-casseurs”, 1300 agenti, sono intervenute nelle stazioni ferroviarie, alle porte di Parigi e davanti ad alcuni negozi. Due droni hanno sorvolato la capitale. I poliziotti hanno avuto l’autorizzazione di usare i flashball muniti di nuovi proiettili, giudicati più efficaci. Nel frattempo, i gilet gialli, 5.000 circa, manifestavano tranquilli a Montmartre, mescolati alla folla di turisti ai piedi del Sacré Coeur. I black block invece si sono scelti un altro quartiere. Una sessantina di incappucciati, chi col gilet fluorescente chi no, hanno sfidato i poliziotti sul boulevard de Strasbourg e fino alla Place de la République. Si sono ritrovati anche in altre città. Degli scontri si sono verificati a Montpellier, Lione, Bordeaux e Lille. A Nizza, dove tutto il centro era “zona rossa”, alcune decine di gilet gialli hanno sfidato il divieto e occupato la place Garibaldi. Niente a che vedere comunque con sabato scorso. Per il governo è stato un sabato-test. Circa 70 persone sono state fermate e 49 manifestanti multati perché volevano accedere alla “zona rossa”. Tra questi anche Eric Drouet, uno dei leader del movimento, che si è fatto fare una multa di 135 euro per “incitazione a manifestare”. Dopo i saccheggi di sabato scorso, Fly Rider, uno dei gilet gialli più radicali, aveva parlato di “giornata storica” e promesso che non sarebbe stata l’ultima. Appuntamento a tra “tre-quattro settimane”, aveva detto.

Brexit, un milione chiede di rivotare: no al divorzio

Sebbene il premier Theresa May abbia escluso che il suo governo dia spazio ad un nuovo ferendum, l’organizzazione pro Ue “Peoples Vote” ha rilanciato la sfida a Westminster convocando un corteo che ha riscosso – secondo chi ha curato l’iniziativa – un milione di adesioni. Inoltre, sono arrivate a 4,3 milioni le firme della petizione on line per chiedere al Parlamento britannico la revoca dell’articolo 50, che regola il divorzio di uno Stato membro dall’Ue. L’iniziativa di “Peoples Vote” fa il paio con quella tenuta nell’ottobre scorso, ma è stata ancor più imponente rispetto alle 700.000 presenze rivendicate in quell’occasione.

Il comizio finale in Parliament square è sembrato un monito ad alta voce verso il primo ministro che naviga in brutte acque, e alcune fonti vorrebbero vicino alle dimissioni. May, in una lettera inviata due sere fa ai deputati non esclude di rinunciare al terzo tentativo di ratifica dell’accordo raggiunto con i 27, e rimettere in gioco tutte le alternative, dal divorzio da Bruxelles a riproporre piani B con l’aiuto della Camera.

May è alle prese con le opzioni concesse da Bruxelles: una proroga della Brexit dal 29 marzo al 22 maggio, a patto che nel frattempo la Camera dei Comuni approvi l’accordo; o altrimenti un mini rinvio fino al 12 aprile affinché Londra indichi una nuova strada nel caso in cui l’intesa non passi.

Dopo 17 mesi di difficili negoziati, il testo è comunque ben lontano dall’aver convinto i deputati britannici che lo hanno già respinto, in modo massiccio, due volte, il 15 gennaio e poi il 12 marzo. Criticata da tutte le parti, May sembra navigare a vista affrontando anche “pressioni” per “stabilire la data delle sue dimissioni” da Downing Street, secondo quanto riportato dal Times.

In questo spazio si incunea “Peoples Vote” che offre la sua soluzione, tornare a votare, convinto che rispetto al giugno 2016 il risultato potrà essere diverso, soprattutto rispetto al fallimento di May nel portare avanti la trattativa.

Sul palco diversi esponenti politici favorevoli a restare nell’Unione, fra cui il vice capo del Labour, Tom Watson, presente con tanti colleghi di partito – a differenza del leader Jeremy Corbyn –, il conservatore pro Remain Dominic Grieve, il LibDem Vince Cable, l’ex Tory Anna Soubry, la premier della Scozia (Snp), Nicola Sturgeon che ha esortato il popolo del Remain a “cogliere al massimo l’opportunità” offerta da Bruxelles: “Dobbiamo evitare sia la catastrofe di un no deal sia il danno causato dal pessimo accordo della premier Theresa May”. Sturgeon ha proseguito: “La decisione dell’Ue di rinviare almeno al 12 aprile ha aperto una finestra e quelli di noi che si oppongono alla Brexit devono cogliere l’opportunità”.

L’opzione di un secondo referendum è già stata respinta dalla Camera dei Comuni, il 14 marzo, e incontra anche l’opposizione di May, ma i suoi sostenitori sperano che nel caos in cui è piombato il Regno Unito resti un’opzione inevitabile. A margine del successo del corteo, la situazione non piacevole in cui si trova la promotrice della raccolta di firme on line, Margaret Georgiadou, 77 anni, che ha ricevuto tre telefonate di minacce di morte e ha dovuto chiudere la sua pagina Facebook a causa degli insulti. Intervistata dalla Bbc, ha raccontato che le minacce “l’hanno fatta tremare come una foglia”.

Brasile: ‘O Mecanismo’. La samba dei presidenti a ritmo di corruzione

Presidente che vai, corruzione che trovi: in Brasile, i tre primi presidenti eletti nel XXI Secolo sono finiti in carcere, o sono stati destituiti, per corruzione. Chi condannato in via definitiva, come Lula, Luiz Inacio da Silva, sindacalista, eletto a due riprese, che sta scontando una pena di 12 anni; chi colpito da impeachment, come Dilma Rousseff, guerrigliera ai tempi della dittatura, economista, eletta a due riprese, destituita nel 2016 – avrebbe truccato i dati del bilancio statale –; chi appena arrestato, come Michel Temer, presidente mai eletto dal popolo, uno di destra, dopo due di sinistra.

L’attuale presidente, Jair Messias Bolsonaro, d’estrema destra, omofobo e autoritario, in carica dal 1° gennaio, non è per ora finito nel frullatore delle inchieste. Ma sotto indagine c’è il figlio Flavio, sospettato di connivenza con uno ‘squadrone della morte’ di Rio de Janeiro, lo Escritório do Crime. Il quotidiano O Globo ha accertato che, quand’era deputato, aveva assunto la madre e la moglie del presunto capo banda, un ex agente delle forze speciali.

La madre di tutte le inchieste brasiliane è l’Operação Lava Jato, cioè l’Operazione Autolavaggio, che le forze dell’ordine considerano la più grande iniziativa anti-corruzione mai condotta in Brasile. La polizia federale la avviò il 17 marzo 2014, per fare emergere il meccanismo di tangenti dell’azienda petrolifera statale Petrobras, partendo da dichiarazioni, non tutte attendibili, del pentito Alberto Youssef: un giro di tangenti stimato di 10.000 milioni di real, circa 2,4 miliardi di euro.

Riciclaggio, tangenti, appalti truccati, dentro Lava Jato c’è di tutto: l’esplorazione di questo sistema criminale, articolatasi man mano in molti rivoli, ha innescato oltre un migliaio di arresti e altre misure coercitive e ha coinvolto almeno altri 11 Stati, prevalentemente in America Latina. L’elenco degli inquisiti comprende tuttora una cinquantina di politici e amministratori. La vicenda ha rapidamente acquisito visibilità e, parallelamente, il sostegno dell’opinione pubblica, in parte perché scardinava l’aura di impunità, sedimentata nel tempo, intorno all’intreccio tra mondo degli affari e società pubbliche in Brasile, in parte perché dava concretezza alla rivendicazione d’indipendenza del potere giudiziario. Con modalità che ricordano quelle del pool di Mani Pulite, Sergio Moro, principale magistrato inquirente, ha messo alle strette Lula e la Rousseff, premiando gli imprenditori che collaborano alle indagini e utilizzandone le dichiarazioni. Una linea di condotta che ha suscitato proteste da parte degli avvocati difensori, che accusano i magistrati di “selettività” e “parzialità” contro i loro assistiti. Certo, il dubbio c’è, o c’era: un’inchiesta per scoprire furfanti o per fare fuori antagonisti politici? L’arresto di Temer attenua il sospetto di un’indagine a senso unico. Anche se è un dato di fatto che la condanna di Lula e il divieto all’ex presidente di ricandidarsi abbiano spianato la via lo scorso anno all’elezione di Bolsonaro: secondo tutti i sondaggi, Lula sarebbe stato rieletto. Forse perché la sua gente alla sua corruzione non ha mai davvero creduto; o forse perché in un Paese dove la corruzione è endemica la tolleranza sociale verso tale misfatto è diffusa. Le indagini fanno pure tremare finanzieri e imprenditori: gli ultimi sviluppi innescano cali in Borsa.

Decapitata la sinistra e ora pure la destra ‘tradizionale’, Bolsonaro è sempre più l’uomo forte e solo al comando di questo grande Paese esteso quasi quanto l’Europa e con 190 milioni di abitanti, che ancora fatica a uscire dalla crisi economica degli anni controversi di Dilma Rousseff. Il che dà mano libera al neo-presidente nelle scelte economiche, accelerando in particolare le privatizzazioni, e gli consente una politica estera spregiudicata, spalleggiato com’è da Donald Trump: il palazzinaro e l’ex militare, in barba alla geo-politica, progettano l’ingresso del Brasile nella Nato; e fanno campagna per il loro sodale Benjamin Netanyahu in vista delle elezioni israeliane. Quali le accuse contro Temer? Stando ai documenti forniti dalla Procura federale, l’ex presidente era a capo di una ‘organizzazione criminale’ che ha agito per diversi decenni e che ha raccolto tangenti per mezzo miliardo di euro circa. Arrestato giovedì a San Paolo, Temer è tra l’altro accusato di avere incassato ‘bustarelle’ dall’azienda Engevix, che voleva ottenere contratti relativi alla costruzione della centrale nucleare Angra III, nello Stato di Rio de Janeiro.

Le tangenti erano “parte di uno schema di corruzione ben più vasto”, gestito, per conto di Temer, dall’ex colonnello della polizia Joao Baptista Lima Filho, finito anch’egli in carcere. Fra i primi ad andare a trovare Temer, 78 anni, in carcere, l’ex ministro Carlos Marun, un dirigente dell’Mdb, il Movimento democratico brasiliano, un partito di centro-destra: l’ha trovato “indignato, sorpreso e triste”, in una stanza di 20 mq, al terzo piano d’una sede della polizia a Rio; la retata ha riguardato una decina di persone, fra cui l’ex ministro delle Miniere e dell’Energia Moreira Franco. Èpossibile che la detenzione preventiva dell’ex presidente non duri a lungo; ma i guai giudiziari dell’uomo che ha guidato il Brasile dall’agosto del 2016, dopo l’impeachment della Rousseff, di cui era vice, fino al 31 dicembre 2018, sono solo all’inizio. Ormai privo dell’immunità, è coinvolto in altre nove inchieste, cinque già approdate alla Corte Suprema. La ‘solidarietà’ da dietro le sbarre di Lula, colpito da nuove accuse di riciclaggio, non gli sarà di grande aiuto.