Schäuble spiega la Ue col Sisifo di Camus: bello, ma non ci vivrei…

Il Financial Times venerdì ha pubblicato una (bella) intervista a Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco dal 2009 al 2017 e oggi presidente del Bundestag, di cui citeremo alcuni passaggi. Il peccato originale del “discutibile” processo di costruzione europea, dice, fu l’aver creato “una moneta comune senza comuni politiche economiche, del lavoro e sociali”: “Avremmo dovuto fare prima i passi più grandi verso l’integrazione che ora, visto che non possiamo convincere gli Stati a farli, sono irraggiungibili”. Il caso della Grecia è plastico. Già nel 2010 Schäuble propose al collega Papakonstantinou di uscire dall’euro per un po’: “Gli dissi: devi poter svalutare, così non sei competitivo”; e poi le riforme necessarie sarebbero “difficili da attuare in una democrazia: ecco perché dovreste lasciare l’euro per un periodo. Ma tutti dissero che era impossibile”. La stessa proposta fu rifiutata nel 2015. Riassumendo: la costruzione è sbilenca e irriformabile e, se c’è una crisi, servono scelte “difficili da fare in una democrazia”. E qui Schäuble ci sorprende: “Sisifo va guardato come un uomo felice (citazione da Camus che l’intervistatore non pare aver colto, ndr) perché niente di quel che si fa in politica è per sempre: sposti le cose un po’ e quelle possono andare avanti o tornare al punto di partenza. Così è la vita”. Il Sisifo di Camus, com’è noto, risponde con la rivolta all’insensatezza del mondo in uno sforzo, ammirevole quanto inutile, di costruzione disperata di senso (continuare a spostare la pietra). Bello, per carità, ma non ci vivrei…

Stiamo con Saviano contro i prepotenti allergici al pensiero

Le mosse scomposte dello pseudo-adolescenziale ministro dell’Interno ci costringono ad abbandonare l’ironia per parlare seriamente (e questa è una delle cose che più ci danno fastidio delle anime semplici come lui: che tarano il registro di tutti sul livello del meno dotato). Noi stiamo con Saviano, com’è naturale che sia. Il tentativo di intimidazione esemplare che Salvini ha messo in atto querelandolo ne svela la pericolosità e insieme la debolezza di idolo delle folle, costretto dalla sua stessa narrazione a proteggere con una mano la reputazione che distrugge con l’altra. Incapace di dimostrare coi fatti di non essere “il ministro della mala vita” e un “buffone” come accusa Saviano, non vede altra strada che mandare a processo lo scrittore, additandolo al suo popolo quale “borghese dell’élite con attico a New York” (come se i soldi che eventualmente dovesse togliere a Saviano vincendo la causa fossero destinati a una redistribuzione proletaria), sapendo che quel popolo ama sentirsi defraudato senza stridore tanto dalla casta che dai poveracci. Mai come adesso che si è appena fatto salvare in Parlamento da un processo per un atto che pure rivendica, è chiaro che il presunto uomo d’onore è in realtà un personaggio talmente debole che per corroborare la sua fama deve volgere la difesa della propria rispettabilità in un’ordalia di Stato comandata su carta intestata del ministero – oltre che, come già si sapeva, un politico così a corto di visione da dover travestire clamorose azioni sadiche contro pochi disperati in atti ministeriali per la sicurezza nazionale. Temiamo che a Salvini (che ha intentato diverse cause contro questo giornale) stia accadendo quel che accade a tutti i salvatori della Patria oltre un certo limite d’ebbrezza, e cioè che creda veramente a quel che la gente gli urla per strada, “alle bagnature di Riccione o di Ostia o d’altro qualunque lido della Italia dove egli apparisse ignudo del torso co’ tettarelli sua” (Gadda su Mussolini), di essere “bravo” e, secondo alcune donne chiaramente pazze o non vedenti, addirittura “bello”, tanto da vivere come un affronto imperdonabile le voci contrarie e persino le contestazioni di ragazzini minorenni, che non si fa scrupolo a segnalare sui social perché i suoi troll da combattimento regolino i conti per lui.

Ma esistono modi per tappare la bocca ai dissidenti molto più subdoli e insinuanti di una querela. Noi, per dire, stavamo con Saviano anche quando il Pd renziano, costituzionalmente anti-intellettuali, anti-gufi, anti-professoroni, cercò di distruggerne la credibilità di coraggioso modello anticamorra che aveva cercato di cooptare, azzannandolo per aver osato criticare la Boschi per il conflitto d’interessi nella vicenda di Banca Etruria. Senza che un hashtag si levasse a sua difesa, Saviano era: “in crisi di creatività, poco informato e molto pregiudiziale” (Andrea Romano), “giustizialista peloso” (Riccardo Nencini), “pretestuoso” (Stefano Esposito), “in cerca di audience” (Davide Faraone) e di “riflettori” (Francesca Puglisi), plagiaro (“mi chiedo se questi post siano farina del suo sacco”, Ernesto Carbone), uno “che utilizza la sua autorevolezza acquisita in altri campi” per colpire “una persona rigorosa e trasparente” (Franceschini), uno sciacallo che speculava sulla “drammatica vicenda del suicidio di un pensionato” (Laura Garavini) e “mafiosetto di quartiere” (Rondolino su L’Unità). Poco dopo, Vincenzo De Luca lo chiamò “camorrologo di corte e di salotti”. I prepotenti, le tigri di carta, reagiscono sempre allo stesso modo quando qualcuno scrive, pensa, critica, fa satira e commenta con le parole che ritiene più aderenti alla propria coscienza i loro deliri di onnipotenza. L’equivoco è che lo facciano “per il popolo” e non, come invece è da millenni, contro di esso.

La Quaresima sollecita tutti ad accogliere la misericordia di Gesù

In quel tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Diceva anche questa stessa parabola: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: ‘Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?’. Ma quello gli rispose: ‘Padrone lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai’” (Luca 13,1-9).

La Quaresima, iniziata con le tentazioni e con la contemplazione della Trasfigurazione di Gesù, ci sollecita seriamente alla conversione. Dobbiamo prepararci con la vela della fiducia ad accogliere la misericordia donata dalla morte e risurrezione di Gesù.

Per dare un senso paradigmatico al Vangelo, trovo utile accennare al brano dell’Esodo che la liturgia odierna fa precedere e che rivela l’amore appassionato di Dio per l’ingiusta oppressione imposta dal faraone al suo Popolo Israele. Dio desidera convertire Mosè al suo meraviglioso progetto di liberazione dal male e dalla morte. Incuriosito dal fenomeno del roveto che ardeva, ma non si consumava, avvicinatosi e, a sorpresa, chiamato per nome come persona nota, è avvisato di trovarsi alla presenza di Dio: non avvicinarti tu stai su suolo santo! La paura è grande, l’indegnità gli fa coprire il volto, la balbuzie si acuisce, il terrore d’una potenza estranea lo fa tremare. Ma Dio gli si presenta come benevolo perché conosce ed è amico dei suoi antenati: Io sono il Dio di tuo padre, di Abramo, d’Isacco, di Giacobbe. La parola di Dio fa cambiare Mosè e, nonostante ritrosie, pentimenti, infedeltà, si lascerà coinvolgere nella liberazione d’Israele, s’impegnerà a farlo salire verso una terra bella e spaziosa dove scorrono latte e miele. Mosè si prende cura della vita amara del suo Popolo in obbediente fiducia all’iniziativa amorosa di Dio.

I due fatti di sangue, riportati come cronaca da Luca, offrono l’opportunità a Gesù d’intervenire sulla conversione e di prendere posizione contro la concezione del castigo come espiazione del peccato. È un pregiudizio stabilire un rapporto di causa ed effetto! Gesù interpreta i due drammatici avvenimenti in termini di dannazione e di salvezza. Dalla perdizione ci salva la conversione al Signore. Non si diventa peccatori per la sorte che ci può capitare: No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.

La parabola del fico sterile è consolante rivelazione della tenera testardaggine amorosa del Dio rivelato da Gesù. Il primo giudizio sulla situazione umana (fuori di parabola!) è chiaro: Tàglialo, dice il padrone dopo tre anni d’improduttività. Ma vi si frappone il vignaiolo premuroso e col cuore orientato al futuro: lascialo finché gli avrò zappato attorno. La pazienza di Dio, che ha il volto del Signore Gesù, di fronte al male diventa tempo di grazia per la conversione, per non farci più male. Nell’ortolano che implora ancora una dilazione per regalare altra felice opportunità al fico per fruttificare abbiamo l’impossibile che, per Dio, diventa possibile in Gesù Cristo.

La magnanimità del Padre, rassicura San Pietro (2Pt 3,9), non vuole che “alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi”.

*Arcivescovo emerito di Camerino-San Severino Marche

Dalla Nuova Zelanda notizie per l’Italia

“Jacinda Ardern, primo ministro di Nuova Zelanda, ha stabilito un esempio, con la sua risposta al massacro di Christchurch, in cui 50 islamici sono stati uccisi in due moschee da un suprematista bianco australiano e dai suoi complici. Jacinda Ardern ha creato, nel suo Paese, un contesto di lutto nazionale con il suo gesto di abbracciare la comunità degli immigrati e nel dire in modo chiaro e fermo: le vittime sono parte della nostra comunità islamica neozelandese. La Nuova Zelanda è la loro casa. Loro sono noi”.

Cito dall’articolo di apertura del New York Times del 22 marzo che continua così: “Il primo ministro neozelandese, indossando il velo delle donne islamiche, è andata nelle case delle vittime, portando, ha detto, il dolore e la solidarietà dei suoi cittadini e del suo governo. La domenica dopo la strage in tutte le chiese della nuova Zelanda si è cantato l’inno nazionale che dice ‘questa è la libera terra degli uomini di ogni credo e ogni razza’”. Ci spiega l’articolista Sushil Aaron che la signora primo ministro della Nuova Zelanda è persuasa, e spiega continuamente ai suoi cittadini (tra cui gode di un favore molto alto) che tocca alla politica stabilire in che cosa credere e dove andare, e che la politica è un impegno giuridico e morale molto al di sopra del pregiudizio. Secondo Ardern dipende dalla politica se siamo in prevalenza buoni o cattivi, gretti o generosi, aggressivi o amichevoli. Perché è la politica che crea il paesaggio. E raramente qualcuno si muove con rancore e vendetta in un paesaggio benevolo. Infatti quando Donald Trump ha chiesto, con automatismo diplomatico, se e che cosa poteva fare per la Nuova Zelanda dopo la strage, il primo ministro neozelandese ha risposto: “Offra sostegno e amore alla nostra comunità islamica”.

Per capire il senso (il senso per noi, lettori italiani, in questa Italia) del testo che ho appena citato, occorre cercare risposta ad alcune inevitabili domande. Una è se c’è qualcosa di “santo” o di religioso nella vita o nel curriculum di Jacinda Ardern. Per tutto quello che sappiamo e che troviamo su di lei, la risposta è no. È una buona cristiana, ma non andrebbe a Verona. Come ha già detto lei stessa nelle parole citate, lei è un leader politico, e la politica è al di sopra del pregiudizio e ha il compito di tenere il pregiudizio a bada.

È di sinistra? Dal punto di vista del laburismo inglese di questi anni, che si unisce alla Brexit per paura di accogliere migranti o di perdere voti, no. È una strana e mite dirigente di un partito laburista fondato da lei che, accogliendo gli esclusi, difendendo gli emarginati e dicendo frasi come “i nostri emigranti”, ha ottenuto un mare di voti, e continua ad avere sondaggi da Salvini. Ecco un punto che ci interessa. Dunque, per fare il pieno di voti (o di sondaggi) non occorre abbandonare i barconi avariati pieni di disperati affinché i superstiti siano catturati e portati a morire in Libia. Non occorre aggirarsi tutto il tempo sulla scena in giacca di polizia, ma lontano dalla polizia e vicino solo alla folla dei comizi elettorali. Non c’è bisogno di annunciare che “devono scendere in manette”, se 50 scampati dal mare sono sulla “nave pirata” di Casarini. Invece della paura potrebbe esserci la fiducia, invece della minaccia di vendetta (mentre si cerca una problematica “stretta” giudiziaria contro i presunti violatori dei mari chiusi) potrebbero esserci un po’ di nutrimento per i profughi finalmente sbarcati, un po’ di visite mediche e un po’ di organizzazione per stabilire dove li mandi a dormire.

Può la storia “esemplare” (uso di nuovo la parola del New York Times) di Jacinda Ardern ispirare una via del voto, del successo, di un governo meno crudele dei campi di Rosarno dove si muore di lavoro di giorno o di incendio di notte, e si sfruttano all’estremo persone dichiarate illegali, irregolari e criminali per la mano d’opera che non c’è e che, se trattati umanamente, potrebbe diventare lavoro italiano? La leader neozelandese ha la sua opposizione, ma nessuno l’accusa di mentire. Il suo sistema di pace e di accoglienza funziona. Per avere una strage bisogna importare un assassino da un Paese suprematista, l’Australia.

Mi domando se il comportamento “esemplare” del primo ministro neozelandese non dica nulla ai Cinque Stelle che cedono, ogni giorno di più, spazio e rilievo alla cattiveria come programma e al potere come invenzione continua di regole persecutorie della Lega. Si rendono conto che la chiusura illegale (e di fatto una dichiarazione falsa) dei porti è opera di un loro ministro non proprio prestigioso? Non sarebbe un colpo da maestri se essi fossero un partito di gente normale, che finalmente fa capire a tutti (vedi Diciotti, Mare Jonio, Verona) che la normalità di giudizio e di comportamento non è il punto forte della Lega?

Mail box

Sicuri che la “via della seta” convenga al nostro Paese?

Sinceramente non si vede quale possa essere il guadagno dall’accordo di scambio commerciale con la Cina, detto volgarmente “via della seta”. Noi scambieremo merci ad alto valore aggiunto e quindi di prezzo medio alto, con merci cinesi di basso valore aggiunto e di prezzo e valore più basso, prodotte da lavoratori vessati e senza garanzie e diritti. Ma qui i milioni di poveri e disoccupati quelle merci non se le potranno comunque permettere, mentre i ricchi italiani compreranno come sempre ottime e più costose merci tedesche, francesi o americane. Va considerato che i cinesi benestanti sono solo 100 milioni su 1,5 miliardi, e tutti gli altri, poveri contadini od operai, difficilmente si avventeranno come falchi a comprare le costose merci italiane. Quindi il miraggio di un aumento corposo del PIL italiano resterà probabilmente un miraggio da zero virgola, mentre il rischio di cessione di importanti assets italiani e di sovranità ai cinesi, sotto la pressione del debito indotto, sarà invece molto concreto e reale, come già accaduto al Pireo che è divenuta una escludente enclave cinese. Quindi a chi giova tutto ciò?

Enrico Costantini

 

Ramy merita la cittadinanza, ma non è certo l’unico

Caro Ramy, bravo!

Sei stato sveglio a chiamare i Carabinieri e salvare i tuoi compagni nel pullman.

Ora devi fare un altro salvataggio: quello di tutti i ragazzi, che come te, sono nati in Italia e parlano, studiano e vivono da italiani, ma non possono avere la cittadinanza. A te la vogliono dare per far capire a tutti i figli di immigrati che sono così differenti dai loro compagni, che devono fare una cosa clamorosa per averla. Vogliono che il tuo caso appaia l’eccezione che conferma la regola. Ramy, se dici no, metti in moto una marcia civile.

Se dici: o tutti o nessuno, il tuo gesto diventa più clamoroso di quello che ti ha fatto conoscere.

Perché rinunci a un privilegio per te, per chiedere un diritto per tutti. Pensaci.

Massimo Marnetto

 

Ci pieghiamo ai forti e abbandoniamo i deboli

Forti con i deboli e deboli con i forti. È questa l’antropologia che distingue, al di là della fenomenologia politica, l’animo fascista degli individui. L’antropologia che c’è dietro alla brutale involuzione del popolo italiano. Per cui evidentemente il fascismo non è una “parentesi storica” come sosteneva Croce; ma più verosimilmente il carattere ricorrente dell’ “autobiografia di una nazione” come indicava Gobetti. La temperie storica che stiamo attraversando e la sua concretizzazione politica sembrano non lasciare spazio ad altre interpretazioni.

L’attuale simbiosi politica fra la maggioranza del nostro popolo e il suo demagogo si è dispiegata fin dall’inizio e si rinsalda ad ogni levata del peana de “l’Italia agli Italiani!”. Un peana costruito sulla partitura ‘politica’ della caccia al migrante; della chiusura dei porti. In un mantra di macismo tricolore che si sgretola, nella più classica delle dinamiche macio-fasciste, quando ai porti bussano non i poveri africani in fuga dalla miseria e dalla guerra ma i ricchi e potenti cinesi. Se infatti sul porto di Lampedusa vi è, da parte dell’Internista, la più intransigente vigilanza nazionalistica, per i moli di Trieste l’atteggiamento pare essere tutt’altro che vigile. Ed è qui che si va al cuore della questione: lì dove il difetto dell’antropologia fascista di un popolo non è l’immoralità ma l’ignoranza. Non è la crudeltà ma la cecità. Perché lì dove sarebbe molto più facile, qualora si posseggano vere virtù politiche, integrare il più debole e dare luogo a una solidarietà conveniente alla stessa demografia ed economia italiane, il demagogo e il suo popolo non sanno fare altro che vedere e percorrere la via che aprirà veramente le porte allo straniero. Che lo straniero, in un’Italia democratica, non è quello che in fuga dalla fame e dalla guerra chiede di sbarcare a Lampedusa, ma quello che arriva con i suoi soldi costruiti sull’oppressione di un altro intero popolo e la negazione di ogni diritto umano e del lavoro. Sulla cosiddetta nuova via della seta è questo che importeremo ancora di più; la negazione dei diritti umani e soprattutto dei diritti del lavoro. Mentre bestemmia contro l’Europa il nuovo Podestà italiano del Celeste Impero, innalza la sua preghiera in mandarino.

Giuseppe Cappello

 

I politici fanno le leggi senza pensare alle conseguenze

Perchè si fanno le Leggi senza pensare alle conseguenze? Se “Quota 100” porterà via, entro il 2025, due mila medici difficili da sostituire, che fine farà la Sanità in Piemonte? Se nel prossimo triennio dai Comuni usciranno tante persone cosa succederà? Se anche per gli infermieri sarà un’emorragia, chi rimarrà a seguire i pazienti negli ospedali? Se queste sono le previsioni il disastro è assicurato, e a farne le spese saranno sempre i soliti cittadini ormai stanchi di protestare, e di ricevere dai politici, di ieri e di oggi, delle risposte poco convincenti! Nel Bel Paese tutto può succedere a danno della collettività, e dei cittadini che non sanno più chi votare per cambiare il triste andazzo.

Mariberto

Per crescere il M5S si affidi ai competenti come la Fattori

“Lo strapotere del Movimento 5 Stelle della Camera deriva dalla volontà comunicativa iniziale di dare l’immagine di una forza politica nuova fatta da volti giovani (…). Questo strapotere mediatico del giovanilismo esasperato, da contrapporre alla gerontocrazia imperante, sarà sempre un limite in termini di saggezza e competenza e un punto di forza quanto a energia e vitalità del gruppo parlamentare del movimento”.

Elena Fattori, “Il Medioevo in Parlamento”, Bur

 

La senatrice Elena Fattori è vittima di due pregiudizi. Il primo, alimentato dai diffamatori un tanto al chilo – politici e dattilografi – è che il M5S sia un’accozzaglia di ignorantoni, terrapiattisti e incapaci (ma anche piuttosto ladri, vedi Marcello De Vito). A cui, per un malaugurato incidente della storia, il popolo italiano ha affidato un’ampia maggioranza alle ultime elezioni, e quindi la guida del Paese. Il secondo preconcetto, alimentato nello stesso M5S, è che la notorietà della senatrice si debba unicamente al suo essere insofferente rispetto alle decisioni dei vertici del movimento (vedi il suo no al salva Salvini sul caso Diciotti). In ciò accomunata a un’altra “dissidente”, la senatrice Paola Nugnes, con cui condivide l’incombente rischio di un provvedimento di espulsione da parte dei probiviri grillini. Per confutare la prima sciocchezza sarebbe sufficiente che i frequentatori di triti e ritriti luoghi comuni (il più insopportabile dei quali versa calde lacrime sulla “perdita dell’innocenza”, ovvero della “verginità”, ovvero dell’“anima” pentastellata) si sforzassero almeno di dare un’occhiata alla copertina del succitato testo per apprendere che la Fattori, laureata con lode in Scienze Biologiche è stata ricercatrice presso l’Istituto di ricerche di Biologia molecolare di Pomezia. Non certo la sola ad aver portato nel parlamento 5 Stelle competenza ed esperienza. Se poi i custodi dell’illibatezza il libro addirittura lo leggessero scoprirebbero una narrazione del mondo 5 Stelle capovolta rispetto alle loro credenze. Verrebbero per esempio a conoscenza delle battaglie condotte dai e nei gruppi parlamentari M5S contro “l’oscurantismo” e il “partito trasversale dell’ignoranza”. Del quale fanno parte i picchiatelli delle scie chimiche e i negatori dello sbarco dell’uomo sulla luna, tutto sommato innocui se messi a confronto con i cospicui interessi economici e il vergognoso ricatto immorale che hanno agito dietro la “finzione” Stamina, alla fine smascherata. Ancora più impegnativa, racconta Elena Fattori, la sfida alle teorie No Vax, vinta grazie anche all’apporto di Rocco Casalino, “un sostenitore senza se e senza ma delle ragioni della medicina e della sensatezza scientifica”. Nel libro si racconta poi dell’evoluzione di Beppe Grillo, dal negazionismo dei suoi primi spettacoli alla sottoscrizione del “patto trasversale per la scienza” lanciato dai professori Silvestri e Burioni. Per crescere ancora e legittimarsi come forza di governo il MoVimento dovrebbe fare appello, al suo interno, a tutti coloro che come la senatrice Fattori sono portatori di conoscenza e competenza. Quando è sorretta da saldi principi la libertà di pensiero è un valore aggiunto, non un fastidioso ostacolo di cui liberarsi. Ma, con l’istinto autolesionista dei 5 Stelle non si può mai dire.

La grande Ornella Vanoni che invecchia benissimo

Si invecchia in tanti modi e quale sia il migliore non si è mai capito. C’è chi si oppone stoicamente al tempo che passa e si rompe il femore lanciandosi col parapendio. C’è chi asseconda le pieghe e gli acciacchi e mette su lo sguardo fatalista dell’accettazione. C’è chi si incazza perché questa cosa di invecchiare è una vigliaccata della biologia e diventa il vicino che fruga nell’immondizia per scovare il condomino che butta la carta nella plastica. C’è chi si isola e trova il suo tempo, chi gira il mondo perché c’è poco tempo, chi compra il passeggino per cani, chi fa il genitore coi nipotini, chi prende il viagra dalla scatola o l’ostia dal prete per la prima volta. Poi, in una bolla sospesa, isolata dalle cose terrene, c’è Ornella Vanoni. Lei.

La donna dai tanti talenti che con un colpo di coda inatteso, alla rispettabile età di 84 anni, afferra l’ultimo dei talenti rimasti, quello più raro e inespugnabile, e lo fa suo. Ornella Vanoni s’è presa il talento di invecchiare bene. E non ci avrei scommesso un euro, qualche anno fa, quando l’ho vista per la prima volta stravolta dalla chirurgia, con i suoi spigoli arrotondati, i suoi incavi riempiti, con la sua unicità piegata a quello standard estetico di chi fa la guerra al tempo. Pensavo che Ornella fosse destinata a diventare l’ombra malinconica di se stessa come certe dive aggrappate ai loro fotogrammi di 50 anni fa. Come la Loren e le sue scollature, la Lollobrigida e le sue cofane. Come la Bertè e le sue minigonne e i suoi capricci. O che si sarebbe riciclata come la Zanicchi, nel ruolo della vaiassa naïf in qualche salotto tv, che ora è così di moda.

Oppure – ho pensato – tra un po’ si eclisserà come Mina. “Mina non farti più vedere mi raccomando, rimani lì a Lugano, rimani il mito, la Madonna pellegrina che sei, rintanata nel tuo castello per sempre giovane e magra, almeno nei nostri ricordi!”, disse una volta proprio la Zanicchi in tv, facendo un appello alla tigre di Cremona. Perché invecchiare dopo che sei stata Mina, dopo che sei stata Patty Pravo, dopo che sei stata Ornella Vanoni è mica un lavoro facile. E invece non avevo capito niente. Ornella stava prendendo le misure. Stava sbagliando, stava procedendo a tentoni, stava andando a tentativi. Il bisturi era il passaggio della paura. Poi è arrivato il coraggio. E Ornella Vanoni è diventata quella che è oggi, nella fase più genuina, anticonformista e scanzonata della sua carriera. Ornella, tanto per cominciare, non si è riciclata come altre. Si è scoperta. Lei che ha vissuto per decenni nelle vesti sofisticate della cantante ricercata, dell’ex compagna e musa di Strehler, della donna spigolosa, sensuale e austera, della donna dai travagli amorosi con i cantautori schivi alla Paoli e dalle rivalità feroci con le colleghe, si è spogliata di tutto per diventare improvvisamente simpatica. “Hai un gran talento ma non i nervi per fare questo mestiere” le disse molto tempo fa Strehler, alludendo al suo noto terrore di stare sul palco. La Vanoni ha sempre detto che il maestro aveva ragione, che per lei l’ansia da prestazione è sempre stata un inferno.

Ecco, oggi a 84 anni Ornella sale sul palco e capisci che quell’ansia è passata. Che l’ha curata con la leggerezza e l’autoironia di chi invecchia divertendosi come i bambini, abolendo i filtri, parlando ad alta voce alle cerimonie, fregandosene dei cliché. Fingendosi rimbambita quando serve al gioco, ma tornando lucida un attimo dopo. A Sanremo, per dire, il suo siparietto con la Raffaele è stata la gag più riuscita di tutte le puntate e forse era la meno scritta. Ornella che rimprovera la sua imitatrice di dipingerla come una vecchia rimbambita sessuomane ed esclama quel “porca puttana!” che fa appassire i fiori del teatro e di tutte le serre di Sanremo, rimarrà nella storia della kermesse più della vittoria dei Jalisse. O della farfallina di Belen. Ornella che ironizza sulla sua presenza a titolo gratuito e prima di andarsene si rivolge alla Rai coi dirigenti incravattati in prima fila esclamando: “Questa volta sono venuta aggratis, ma che non diventi l’abitudine eh!” o che si presenta su quel palco col vestito dell’anno prima “Visto che dici che so’ rincoglionita!” rimarrà uno spasso indimenticabile. Per non parlare del siparietto da Fazio con Patty Pravo. “Da quanto siete amiche?”, chiede il conduttore. “Da mai!”, risponde lei sbracata sulla sedia come se non fosse in tv ma davanti alla tv, sul divano, con la tisana e il barboncino sul grembo. E perfino il carisma della Pravo soccombe di fronte alla furia divertita della Vanoni che riesce ad inanellare una battuta dopo l’altra: “Fazio io sono qui ma non ho niente da presentare, se vuoi ti racconto una barzelletta!”. “La Raffaele mi dipinge come una che la dà via come un frisbee”, oppure, rivolta alla Pravo che raccontava di sue avventure in cammello: “Lei è un po’ surreale, ama infiocchettare la realtà perché la realtà è banale, del resto non si fa selfie in questi viaggi, quindi non ci sono prove!”.

Infine, quando Fazio la invita a cantare perché “Ti ho vista da Amadeus e so che dopo le dieci di sera ti viene sonno”, lei replica “Non avevo sonno, lì mi stavo annoiando”. Perché sì, tra le altre cose la Vanoni, quest’anno, si è addormentata durante una puntata di Ora o mai più, una versione geriatrica di Amici dove cantanti il cui successo è ormai lontano si sfidano tra di loro. Lei era la maestra di Paolo Vallesi, uno a cui “La forza della vita” per star dietro all’imprevedibilità della Vanoni è servita tutta, ma che alla fine ha pure vinto.

Inutile dire che la protagonista assoluta dello show è stata Ornella con i suoi cazziatoni al capro espiatorio di turno (Toto Cutugno), con le sue gag con il tablet, con le sue dichiarazioni senza fronzoli tipo quella riservata al povero Amedeo Minghi al quale serviva un’Ornella Vanoni per conoscere finalmente la verità dopo 30 anni: “Ma che è ‘sto trottolino amoroso? Trottolino è una canzone per bambini, quale donna vuole un trottolino amoroso?”. Non che l’amore per la verità, talvolta pecoreccia, a dire il vero le sia mai mancato. “Ho rifiutato Grande grande grande ai tempi nonostante mia madre mi dicesse di cantarla. Io le rispondevo ‘dai avanti, si capisce a cosa allude’ e alla fine se l’è presa Mina” o “Quando Gino Paoli mi vide per la prima volta gli dissero che ero la cantante della mala, portavo sfiga ed ero lesbica”, ha detto. E ne continua a dire tante, mai banale, senza autocelebrarsi per quello che è stata ma raccontandosi per quello che è oggi. E cioè un capolavoro di ironia, di eccentricità e di senso dello spettacolo mescolati alla stravagante intemperanza da gattara chic, che ha imparato a prendersi il meglio dalla vecchiaia.

“Sono stata depressa più volte e mi sono curata con le medicine. Sì, ho fatto anche la psicanalisi, ma la psicanalisi è un bellissimo viaggio intellettuale, la verità è che io sono stata meglio quando ho imparato a essere meno importante per me stessa”. Ecco. La Vanoni ha smesso di fare ombra a Ornella. E questa Ornella illuminata di humor e intelligenza è uno splendore. Senza fine.

“Dicono ‘roba da Medioevo’ ma è insulto da analfabeti”

Negli ultimi mesi il Medioevo è stato evocato diverse volte nel cosiddetto “dibattito pubblico” (o in quel che ne rimane) come somma ingiuria: dal caso dei vaccini al congresso mondiale delle famiglie. Ne abbiamo parlato con Franco Cardini, uno che di Medioevo se ne intende un po’.

Professore, “roba da Medioevo” è diventata un’offesa di moda.

Più che un’offesa è una dichiarazione di analfabetismo. Se chi la proferisce avesse un minimo d’istruzione anche media, saprebbe che il “Medioevo” non esiste: è una convenzione. La stessa parola che lo indica è un’antidefinizione, una non-definizione. Gli umanisti italiani tre-quattrocenteschi, a cominciare dallo stesso Petrarca, avevano riscoperto (per l’ennesima volta, dopo che ciò era già accaduto nel IX, nel X, nel XII secolo) l’antichità romana e un po’ più tardi anche greca con la sua lingua e la sua arte: e ritenevano che il lungo periodo che da essa li separava fossero stati una lunga notte (tra V e XIV secolo) di barbarie, d’ignoranza, di fanatismo, di superstizione. Un periodo indegno perfino di esser definito: quindi “Medium Aevum”, “Media Tempestas”. Essi s’illudevano di restaurare l’Antichità. È la base concettuale di quello che, a partire dall’Ottocento, si sarebbe definito “Rinascimento”.

Come la mettiamo con l’Inquisizione?

Appunto: l’età d’oro dell’Inquisizione è stato lo splendido Rinascimento, non il buio Medioevo. Le streghe le hanno bruciate soprattutto i protestanti tra XVI e XVIII secolo tra Svizzera, Germania, Inghilterra e New England; si può dire che il luminoso Rinascimento sia stato tale in quanto illuminato dal fuoco dei roghi; quanto alle crociate, se ne sono fatte di più fra Cinque e Seicento che non fra XI e XV secolo.

Nei secoli che noi indichiamo come Medioevo, dunque, è successo un po’ di tutto.

Potremmo parlare per mesi. L’espressione “Medioevo” copre nella sua accezione comune una decina di secoli, dal V al XV, in cui è successo tutto e il contrario di tutto. Il mondo carolingio, tra VIII e IX secolo, è stato tutt’altro che trascurabile da un punto di vista culturale. Nel X secolo assistiamo alla “rinascita ottoniana”; verso l’Anno Mille un grande filosofo e matematico provenzale, Gerberto d’Aurillac che aveva subìto l’influsso della cultura arabo-iberica, è diventato papa Silvestro II ed è stato un grande scienziato che si occupava perfino di automi, sul modello bizantino; ed eccoci quindi allo splendido sviluppo filosofico ed economico del medioevo pieno, nei secoli XI-XIII: si costruiscono le cattedrali, nascono sul modello musulmano le Università nelle quali si “vende” e si “compra” il sapere, si sviluppano il commercio mediterraneo più intenso (contemporaneamente alle crociate!), la circolazione sulle vie del pellegrinaggio e sulle rotte marittime, si fondano i princìpi del sistema creditizio sul quale si basano le banche moderne. È insomma là che nasce la Modernità occidentale.

L’accusa riguardo all’assenza di una scienza medievale è ingiusta?

Peggio. È sanguinosa, impresentabile, ridicola. Quelli tra il X e il XV sono secoli di venerazione verso la scienza. Attraverso la Spagna musulmana ci è arrivato, grazie a traduttori arabi ed ebrei, non solo gran parte del sapere della Grecia, ma anche il sapere indiano e cinese. E non solo la filosofia: se Aristotele ci arriva in parte attraverso i bizantini, la medicina e la geometria no. Il padre della medicina moderna è Avicenna, un persiano di Buchara. L’amore per le macchine non nasce con Leonardo, ma appunto con Gerberto d’Aurillac e quindi con Ruggero Bacone e Raimondo Lullo, che erano francescani.

Lei ha detto anche che le radici della Modernità stanno in quel periodo. Cioè?

Pensi all’economia. I banchieri-mercanti soprattutto toscani e lombardi capiscono – ed è una scoperta gravida di conseguenze, magari non tutte fauste – che per fare più soldi bisogna invertire il rapporto tra produttore e consumatore. Il consumatore ha il coltello dalla parte del manico: se lui non vuol comprare, puoi produrre fin che vuoi… e i nostri mercanti invertono per la prima volta nella storia dell’umanità quel rapporto, fanno in modo che l’iniziativa passi al produttore che inventa modi sempre nuovi per indurre i suoi clienti a (come si dice oggi) “allargare il paniere dei consumi”. “Moda”, non a caso, è una parola tardomedievale. Le dame francesi amano le stoffe blu oltremarino, colorate con la polvere di lapislazzulo? E i mercanti italiani ne forniscono loro anche giallo zafferano, rosso porpora, oppure foderate di pelliccia! E gli artisti, pittori e miniatori, s’incaricano di diffondere il gusto che trasforma il superfluo in indispensabile. Il consumo si mobilita e finisce col non bastare mai: è questa la Modernità.

Quanto a utilizzo nel discorso pubblico, il Medioevo è un po’ come il Fascismo.

Già: per molti è diventata una pigra e sleale strada per la comoda scorciatoia consistente nel tappare la bocca a qualcuno. Quando in certi dibattiti mi succede (abbastanza spesso) che un interlocutore a corto d’argomenti invece di contestare i miei, che evidentemente lo mettono in difficoltà, mi dia del fascista, io gli rispondo: “adulatore!”. Perché se io dico che senza legge e senza ordine non esiste libertà e il libertario da salotto mi dà del fascista, si merita solo quella risposta. Di questo passo si dovrà smettere di mangiare verdura perché Hitler era vegetariano. Qui purtroppo cade il discorso Fascismo eterno di Umberto Eco, un caro e indimenticabile amico: ma quello è il suo peggior scritto. Eco doveva spiegare a ragazzi americani cos’era l’anima del Fascismo. Ma quelli non l’avevano capita nemmeno quando gliel’aveva spiegata, ottanta o novant’anni or sono, Gaetano Salvemini. Eco però era formidabile nel fiutare quello che la gente voleva sentirsi dire. Sapeva benissimo di parlare a ragazzini che dicevano “you’re fascist” al padre che pretendeva di farli rincasare a mezzanotte. E allora ecco il discorso sul Fascismo ridotto al principio d’autorità, al razzismo, alla violenza…

È stato anche queste cose.

Senza dubbio: e probabilmente soprattutto questo. Ma i connotati che vengono addebitati al “Fascismo eterno” si ritrovano diversamente connotati anche nel socialismo, nel comunismo, nel liberalismo, nella pratica coloniale, nella violenza economico-finanziaria delle lobbies multinazionali. Siamo liberi dal fascismo da più di settant’anni: pensiamo a tutte le cose che sono successe da allora: la Corea, il Vietnam, i Balcani, l’Afghanistan, il Vicino Oriente, l’Iraq, la Siria, la Libia, l’Africa che si sta spopolando perché sconvolta e svenduta alle multinazionali sotto gli occhi e con il consenso dell’Onu…

Quindi non è vero che historia magistra vitae

Si potrebbe dire che è magistra ma ha pessimi allievi. O che non è magistra, ma anzi è lei che avrebbe bisogno di andare a scuola. La storia, se ben intesa, è quel che ha detto Luciano Canfora ne La scopa di Don Abbondio: la storia non è la deterministica freccia del tempo che va dal meno bene al meglio, ma non è nemmeno l’eterno ritorno di Nietzsche. È l’unione di queste due cose: una spirale, che conosce flussi e riflussi, balzi in avanti e ristagni. E, ogni tanto, imprevedibili salti di fase e di qualità.

Rimborsi banche, Salvini e M5s: “Tria firmi il decreto”

Il ministerodell’Economia “ci sta mettendo troppo”: a dirlo, ieri, è stato il vicepremier Matteo Salvini al Forum di Confcommercio a Cernobbio parlando dei rimborsi agli investitori delle banche. “Al ministero stanno aspettando la risposta dell’Europa – ha aggiunto – io mi sono rotto le palle di aspettare la risposta dell’Europa e oggi lo dirò allo stesso ministro dell’Economia, perché i risparmiatori non possono aspettare i tempi dell’Europa”. A Tria spetta firmare e io “personalmente gli chiedo di farlo”. Anche il senatore del M5S, Gianluigi Paragone, è intervenuto: “Mi auguro non solo che i decreti attuativi siano sbloccati a prescindere dall’Europa, ma che la loro scrittura non sia di esclusiva pertinenza del ministro Tria”. La norma è stata oggetto di alcune modifiche per venire incontro, in parte, alle obiezioni della Commissione Ue che teme l’aggiramento della direttiva sul burden sharing. Bruxelles è disponibile al rimborso in caso di vendita scorretta ma deve essere accertato. Inoltre fa ancora rumore la sentenza del Tribunale Ue che ha cancellato la sua decisione del 2015 su Tercas. Il salvataggio tramite il Fitd era bocciato dalla Commissione come ‘aiuto di stato’.

Reddito, le richieste arrivano a quota 700mila

Si sono fermate a 500mila le domande di reddito di cittadinanza raccolte nelle prime due settimane dai centri di assistenza fiscale. Il dato, fornito ieri dalla Consulta dei Caf, sommato con quello diffuso martedì da Poste Italiane porta a 700 mila le persone che hanno “prenotato” la carta acquisti.

Una risposta discreta, ma che conferma le impressioni delle prime ore: nessun assalto. Al nuovo sostegno contro la povertà alcuni centri avevano pure destinato sedi speciali, diverse sono già state chiuse. Se tutti gli attuali richiedenti fossero ammessi al sussidio, supereremmo metà della platea potenziale individuata dal governo, cioè 1,3 milioni di famiglie. È però inevitabile che una quota sarà rigettata. Il numero potrebbe essere condizionato dal fatto che alcuni potrebbero essere scoraggiati dagli stringenti requisiti di accesso mentre tra quelli che già prendono il Reddito di inclusione ci potrebbe essere il timore (infondato come precisato dai Caf) che la domanda per la nuova misura faccia perdere temporaneamente la vecchia. Il via-vai nei centri di assistenza fiscale sta gradualmente calando nonostante si avvicini il 31 marzo ed entro quel giorno bisogna inviare la domanda per ricevere la card carica nella prima sessione di fine aprile. Mercoledì l’Inps ha chiarito con una circolare che “in caso di esaurimento delle risorse disponibili, è ristabilita la compatibilità finanziaria mediante rimodulazione dell’ammontare del beneficio”. Insomma, se finiscono i soldi, i sussidi chiesti da quel giorno in poi sarebbero tagliati, mentre quelli già erogati resterebbero salvi. Anche questa circostanza avrebbe potuto spingere tanti ad affrettarsi, ma così non è stato. “Ci eravamo preparati per accogliere una massa superiore – spiega Simone Zucca, responsabile di produzione dei caf Acli –. Il 45% dei nostri assistiti ha un Isee inferiore a 9.360 euro, soglia richiesta per il reddito, ma finora a fare domanda del sostegno è stato il 30%. Il primo giorno ne abbiamo fatte 8mila, poi c’è stato uno scalare costante”. Va detto che l’esperienza internazionale mostra quanto sia difficile che questi strumenti riescano a raggiungere il totale dei possibili percettori. Il governo ha ipotizzato una copertura dell’85%, ma l’Istituto di analisi delle politiche pubbliche (Inapp) ha fatto notare come in Germania e Regno Unito la percentuale sia del 60%, in Francia addirittura del 40%. In Italia, il Reddito di inclusione è andato nel primo anno a 462 mila famiglie su 700 mila che avrebbero i requisiti.

Il racconto di un Paese che il 4 marzo 2018 ha dato fiducia al M5s perché impaziente di ottenere il sostegno economico si è dunque scontrato con la realtà e non si vedono conferme delle segnalazioni di residenze furbescamente cambiate in alcune città del Sud per rientrare nelle soglie: come emerge dai dati dei Caf, la quota di persone singole che ha chiesto il reddito nel Meridione è solo del 12%, contro il 21% del Nord e il 23% del Centro. Al Nord sembra significativa la presenza di stranieri, che compongono il 15,4% dei richiedenti contro il 3,4% registrato al Sud. Per quanto riguarda invece gli anziani, il 12% delle domande inoltrate nel Mezzogiorno riguardano la pensione di cittadinanza, quindi sono presentate da over 67, percentuale che al Nord scende al 2,9%. Ogni cento aspiranti beneficiari, meno di sette sono under 30.