Contro le grandi opere e contro chi ci ha ripensato

Sono accorsi in migliaia a Roma ieri. Circa duecento autobus provenienti da tutta Italia hanno raggiunto in tarda mattinata la capitale per la “marcia per il clima contro le grandi opere inutili e le devastazioni ambientali”. L’idea è nata a novembre scorso in Val Susa durante il primo incontro che ha compattato numerosi movimenti impegnati per la giustizia ambientale e sociale nel nostro Paese. Non salvano nessuno, né governo né opposizione. Per le strade solo la difesa dell’ambiente e della salute.

In testa il Movimento No Tav, seguito dai No Tap, i No Muos, i No Ilva, i No Triv, i No Hub del gas e No Grandi Navi. Gli organizzatori hanno stimato oltre 100mila partecipanti, per le forze dell’ordine erano poco meno della metà. Dopo le manifestazioni del 15 marzo scorso in difesa del clima, ieri nel primo pomeriggio un corteo chilometrico è partito da piazza della Repubblica diretto a piazza San Giovanni. Per la prima volta in Italia i movimenti, i comitati e le associazioni si sono uniti in un unico fronte per dire basta ad un modello di sviluppo vincolato al fossile e allo sfruttamento dei territori ai danni della popolazione e dell’ambiente. A favorire l’unità hanno contribuito la creazione di una rete tra i territori e la sfiducia diffusa verso la classe politica, ritenuta “serva delle lobby”.

Non solo un fronte ambientalista: alla marcia di ieri hanno preso parte anche gli studenti universitari della Sapienza e alcune sigle sindacali, come Fiom, Cobas e Usb. Non sono mancate bandiere politiche legate all’estrema sinistra (Potere al Popolo, Comunisti Italiani, Sinistra Europea, Rifondazione Comunista). Non c’erano esponenti di partito, ma c’era il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, che si è detto impegnato nella lotta per i diritti e la giustizia sociale, e Marco Potì, il sindaco di Melendugno dove approderà il gasdotto Tap. “Tap continua a fare porcherie – ha detto – ma ci aspettiamo dalla magistratura autonoma e indipendente un passaggio decisivo”.

Dalla provincia di Lecce a Taranto: in testa al corteo c’era Angelo Di Ponzio, il padre di Giorgio morto a 15 anni per un sarcoma dei tessuti molli lo scorso 25 febbraio. “Sono qui insieme a centinaia di concittadini – ha dichiarato – per chiedere una volta per tutte la chiusura dell’Ilva”. I No Triv della Basilicata vogliono un capovolgimento di paradigma sulle estrazioni di idrocarburi nella loro Regione: “Questo governo – ha ricordato il portavoce Francesco Masi – non ha voluto nemmeno cancellare l’emendamento del governo Monti, che autorizza le proroghe automatiche alle compagnie petrolifere”. Per il comitato Friday For Future “i territori hanno bisogno di piccole opere e della messa in sicurezza del territorio” mentre del principio di precauzione ha parlato il comitato No hub del gas di Sulmona, contrario alla costruzione della Rete adriatica Snam che trasporterà il gas di Tap. “L’Italia ha bisogno di opere che mettano in sicurezza i territori dal rischio idrogeologico e dai terremoti”, denuncia.

Ultimi nel novero, ma i principali organizzatori della manifestazione, gli attivisti del movimento No Tav: “Fermeremo la Torino-Lione con le nostre mani, torniamo a casa ancora più forti e consapevoli” hanno detto.

La polemica contro i politici è stata comunque generalizzata. Di Maio è stato raffigurato come Gigi la trottola. Il leader leghista è finito in uno slogan che diceva: “meno Salvini, più pinguini”. Anche il leader del Pd Nicola Zingaretti è stato sbugiardato per aver prima citato la giovane attivista svedese Greta Thunberg (il giorno della vittoria delle primarie), poi aver dato il suo sostegno al governatore del Piemonte, Sergio Chiamparino, e aver annunciato la visita al cantiere Tav .

Confiscati beni per 1 milione e mezzo alla famiglia Riina

I carabinieri del Ros e della compagnia di Corleone hanno dato esecuzione a un decreto di confisca emesso dal Tribunale di Palermo nei confronti di Antonina Bagarella, Giuseppe Salvatore Riina, Maria Concetta Riina, Lucia Riina e Giovanni Riina, familiari ed eredi del capo dei capi di Cosa nostra Salvatore Riina, deceduto il 17 novembre 2017. I beni confiscati dal valore di un milione e mezzo di euro erano stati sequestrati a luglio 2017. Il Tribunale di Palermo ha confermato che “gli investimenti eseguiti nel tempo sono avvenuti in uno stato di profonda sperequazione, il cui saldo finale progressivo ammonta a ben 448 mila euro”. Si tratta del 95% del capitale sociale relativo alla partecipazione di Antonino Ciavarello nella ditta di riparazioni meccaniche Clawstek srl, a San Pancrazio Salentino (Brindisi). Il 100% del capitale sociale della vendita di autoricambi Rigenertek srl sempre di Ciavarello. Il 100% della Ac Service srl di Antonino Ciavarello, ditta con sede a Lecce che opera nel settore del commercio all’ingrosso e al dettaglio di autovetture. Diciassette rapporti bancari e l’abitazione a Mazara del Vallo di Vito Caladrino. Amministrazione giudiziaria per l’azienda agricola Maria del Rosario di Tagliavia.

Brusca: “Graviano e l’orologio del Cav”

“Matteo Messina Denaro mi disse che i rapporti con Berlusconi li avevano i fratelli Graviano. Che c’era questo rapporto con il gruppo di Forza Italia era palese. Nel 1995 Messina Denaro mi disse che, in un incontro con Berlusconi, Giuseppe Graviano aveva visto un orologio da 500milioni” di vecchie lire al polso dello stesso Silvio Berlusconi.

È un fiume in piena Giovanni Brusca nel processo ’ndrangheta stragista che si sta celebrando a Reggio Calabria e che vede alla sbarra il boss di Brancaccio e Rocco Filippone, l’uomo di fiducia della cosca Piromalli. Entrambi sono accusati dell’attentato ai carabinieri Fava e Garofalo. Siamo nel gennaio 1994 e quell’agguato sulla Salerno-Reggio, per la Dda è una delle cosiddette “stragi continentali” iniziate con l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. In Cassazione, il magistrato calabrese avrebbe dovuto rappresentare l’accusa nel maxiprocesso a Cosa nostra. Secondo Brusca, uccidere quel giudice è stata “un’azione preventiva”. Non riuscendo ad agganciarlo “attraverso calabresi”, Riina avrebbe deciso che quella morte doveva essere “monito per chi prendeva il suo posto”.

Gli interessi politici di Cosa nostra sono stati al centro dell’interrogatorio. Per più di tre ore u Verru ha risposto alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo.

Dai progetti di natura separatista di Sicilia Libera al tentativo fatto da Leoluca Bagarella di aggregare “questo partito a Forza Italia”. “So per certo che il contatto c’è stato tra Berlusconi e Giuseppe Graviano”. A Giovanni Brusca lo rivelò il superlatitante di Castelvetrano. “Io so solo di questo incontro che me lo ha raccontato Matteo Messina Denaro. A me hanno raccontato di un incontro in cui Graviano gli ha visto questo orologio di 500milioni. Se poi sono stati due, tre o quattro non glielo so dire”.

È a questo punto dell’interrogatorio che Brusca spiega le richieste che Cosa nostra fece a Berlusconi. Una sorta di secondo “papello”: al primo posto per i boss siciliani c’era “svuotare il 41 bis per renderlo più tenuo”. L’obiettivo era eliminare “il carcere duro, applicare la legge Gozzini ai mafiosi, eliminare l’ergastolo, poter legiferare a favore di Cosa nostra”. L’ambasciatore era Vittorio Mangano che fino a poco tempo prima aveva lavorato ad Arcore. Ma non come stalliere. Lo avrebbe detto lui stesso al pentito Brusca: “Quale stalliere? Io accompagnavo i figli a scuola, gli facevo da factotum”.

Le elezioni politiche del 1994 erano prossime ma i fratelli Graviano erano già in carcere. Serviva un altro canale. Bagarella e Brusca si rivolgono a Mangano: è lui “che fa il tramite” per far arrivare le richieste a Berlusconi con l’apporto di Marcello Dell’Utri.

“Basta silenzi sugli errori di Renzi. Da Zingaretti ora aspetto i fatti”

“Gli ultimi arresti a Castelvetrano fanno capire perché è così difficile catturare Matteo Messina Denaro”. Rosy Bindi è stata la presidente della Commissione Antimafia (2013-2018) che ha messo in luce, nella relazione finale, l’intreccio tra cosche e massonerie partendo proprio da Castelvetrano, città dell’ultimo latitante della stagione delle Stragi. “Messina Denaro non viene preso perché la sua rete di protezione non è di pastori e contadini, ma di colletti bianchi appartenenti alla classe dirigente”.

Pensa che Messina Denaro non sarà mai catturato?

Le inchieste della magistratura come quest’ultima sulla massoneria di Castelvetrano, anche se aprono uno squarcio di luce, fanno capire quanto la rete di protezione sia sconfinata e in parte imprevedibile: hanno arrestato anche tre poliziotti massoni, di cui uno della Dia e uno della squadra preposta alla caccia del boss.

Il lavoro della sua Commissione è stato prezioso, è citata più volte dai pm…

Partimmo dalle denunce del consigliere comunale del Pd Pasquale Calamia, seriamente minacciato. Il Consiglio comunale si poneva a difesa di Matteo Messina Denaro e dei suoi interessi. Scoprimmo una situazione in cui Consiglio e giunta erano composti in maggioranza da massoni. L’allora sindaco Felice Errante, ai domiciliari da tre giorni, fu audito in commissione e negò la sua appartenenza a logge massoniche.

E la massoneria ufficiale si oppose alla vostra azione.

Il Goi, Grande Oriente d’Italia, si riunì a Castelvetrano per esprimere solidarietà ai confratelli che si ritenevano infangati dal nostro intervento. Non ci vollero dare i nominativi dei massoni, che poi ci andammo a prendere. Grazie alla nostra indagine fu anche commissariata una banca locale per legami sempre con la rete di Messina Denaro. Evidenze nel rapporto tra mafie e massoneria sono ormai difficilmente occultabili.

Il problema è anche la segretezza?

In democrazia la segretezza non è giustificabile: durante le dittature può servire come difesa e ricostruzione. Ma non in democrazia. Non a caso accomuna massoneria e mafie e la massoneria ufficiale consente la doppia appartenenza. Se è segreto il tuo confratello sarà segreto il fatto che lo stesso confratello può accedere a un altro livello massonico, quello deviato. E il vincolo alla segretezza non permette di capire quanto sia tollerata la massoneria deviata da quella ufficiale.

Come si risolve?

Cambiando la legge Spadolini che consente la segretezza se non si tratta di associazioni eversive. Ma se non si tratta di associazioni eversive la segretezza a che cosa serve? In più, chi giura sulla Costituzione per un incarico politico e istituzionale deve dichiarare tutte le appartenenze.

A proposito di appartenenze, ieri era alla manifestazione antifascista di Prato. Il suo Pd ha un nuovo segretario. Ha votato ai gazebo?

Difficile dire che si volta pagina se non si chiamano per nome gli errori. C’erano tre candidati: uno già renziano, uno che sosteneva Renzi a spada tratta e uno che del passato non parlava. Non ho votato. Ma sono felicissima del risultato di popolo, della partecipazione, e dell’evidente richiesta che arriva da quella consultazione: ricostruire il centrosinistra. Adesso spero che Nicola Zingaretti possa agire in questo senso.

Il renzismo è finito?

È stato sconfitto da referendum, elezioni politiche e congresso-primarie del Pd.

Ritornerà a disposizione del partito?

Se ci sarà la possibilità di ricostruire una nuova sinistra andando oltre i confini attuali perché no? Anche perché io non mi pento di aver votato “no” al referendum costituzionale e di non aver votato leggi come il Job act, la Buona scuola e lo Sblocca Italia.

Che giudizio dà del governo di Giuseppe Conte?

Sono molto preoccupata. Cosa fosse la Lega lo sapevamo, anche se Matteo Salvini è andato oltre. Ma ai 5Stelle, forse sbagliando, davo il beneficio di poter essere portatori di innovazione; adesso devo constatare come stiano svendendo l’anima pur di restare al governo. E per ritornare all’argomento della lotta alla mafia devo aggiungere: sono allarmata per la legge sugli appalti che stanno per approvare, favorire i subappalti sarà un enorme regalo alle mafie.

Salini, Casalino e Buffagni: il “bugiardino” gialloverde

Effetti collaterali.

Il bugiardino dell’Italia gialloverde. Nove potenti affluenti e loro controindicazioni.

 

L’amico dei cinesi – Michele Geraci

È il 5G che traccia il solco ma è il memorandum che lo difende.

Porti aperti al già pericolo giallo.

Xi Jinping, forte della nuova tecnologia dati di nuova generazione, giunge in visita di Stato in Italia per firmare l’accordo commerciale.

La crescita economica passa dalla Cina, Pechino riempie di soldi il Mediterraneo da compensare mille e più Tav, quello che ne capisce più di tutti è Michele Geraci – sottosegretario allo Sviluppo Economico, economista, dal 2008 in cattedra presso la Via della Seta (insegna finanza alla New York University di Shanghai e all’università di Zhejiang) – ma il suo partito, la Lega, per effetto collaterale lo abbandona.

Matteo Salvini lascia in asso l’asse Mosca-Pechino-Varese e passa armi e bagagli con Donald Trump. Porti chiusi e dazi amari. Leggere attentamente le avvertenze.

 

Un libro è per sempre – Lucia Borgonzoni

Come Socrate, Lucia Borgonzoni – sottosegretaria leghista al ministero della Cultura – sa di non sapere.

A Un giorno da pecora aveva dichiarato di aver letto l’ultimo libro tre anni fa.

Dopo un anno di governo, gli anni di digiuno letterario sono divenuti quattro.

Sarebbe già un effetto collaterale di vero danno una viceministro così orgogliosamente illetterata ma, invece, è tutta salute.

Tenendosi alla larga dei libri, infatti, Borgonzoni si evita tutto il cucuzzaro benpensante dei Francesco Piccolo, dei Massimo Recalcati, delle Michela Murgia, dei Corrado Augias e dei Beppe Severgnini.

Borgonzoni che Dante l’ha conosciuto a Bologna per tramite di Carmelo Bene e non certo con Roberto Benigni in tivù, non ha ancora avuto tempo per C’è tempo, il nuovo film di Walter Veltroni con Stefano Fresi ma – socraticamente – già pregusta la pellicola prossimamente in uscita con la regia di Francesco Storace.

Il televisionista – Fabrizio Salini

Fabrizio Salini, direttore generale della Rai, è la medicina allopatica prontamente registrata in farmacopea con il marchio Citrosalini.

Il governo gialloverde l’ha scelto nella speranza di aggiustare una volta per tutte la Rai.

I sintomi accusati dall’azienda radiotelevisiva di Stato, infatti – dal mal di pancia delle società di produzioni private, alle scariche continue di sprechi di denaro pubblico – hanno convinto gli esponenti della maggioranza a portare alla guida dell’ente un manager per avviare, oltre al risanamento dei principali asset, la riforma dell’informazione.

Come la Citrosodina, Salini – in dosi modiche – aiuta a far digerire dunque la mappazza ingovernabile dell’azienda radiotelevisiva di Stato da sempre affetta da pirosi, da eruttazioni e da ulcere peptiche derivate, sempre, dalle famose risorse interne.

Un cucchiaio di Citrosalini granulare al dì e tutto resta come prima. Non ci sono controindicazioni.

Rocco e i suoi casini – Rocco Casalino

Le telecamere del Grande Fratello sono state le sue Frattocchie. Primo depilato d’Italia, Rocco Casalino – il Rasputin della comunicazione di Palazzo Chigi, già capo dell’ufficio stampa del M5S – rende vano qualsiasi tentativo di sfottò degli aristocratici liberali perché lui è oltre, è un Magritte puro: questo, infatti, non è un Casalino.

Formatosi nella scalettatura autorale, non certo nella formazione quadri di un comitato centrale, allo schioccare di dita – uno, due e tre – Rocco fa partire la notizia. Così fece con Enrico Mentana al varo del governo di Giuseppe Conte e così ancora fa quando deve centellinare il susseguirsi di fidanzate di Luigi Di Maio, da Silvia Virgulti – a gran passo verso il ricevimento al Quirinale – a Giovanna Melodia, festosa durante le regionali siciliane del 2017, a Virginia Saba, infine, di cui ha dato notizia: “Va al Teatro dell’Opera col suo nuovo fidanzato”. Anzi, al contrario: “Di Maio va al Teatro dell’Opera con la sua nuova fidanzata”. Come effetto collaterale c’è questo fatto che con Rocco non si capisce mai – magrittianamente – chi è fidanzato di chi.

 

Eccedenze

In questo primo anno di governo gialloverde – nell’usa e getta dell’usato e buttato dei farmaci di automedicazione – se ne sono andati in tanti.

Tutti in eccedenza: da Giulio Sapelli, economista, mancato presidente del Consiglio, al professor Paolo Becchi costretto a becchettare altrove vista l’indisponibilità dell’algoritmo, da Milena Gabanelli che tanto doveva fare nel mondo dell’informazione fatto nuovo (non ancora nuovo) a Maria Giovanna Maglie pronta per il dopo-tiggì cui però è mancato il sì.

Alla dismissione dei tanti – perfino del comandante Gregorio De Falco – si arriva alla tristissima vicenda di Giulia Sarti, parlamentare del M5S, messa a nudo in un giro di fotografie finite negli smartphone di autorevoli protagonisti del mainstream come neppure nel più mesto bunga-bunga da tinello si poteva immaginare.

 

Il fuochista – Stefano Buffagni

Se Giancarlo Giorgetti è lo Stefano Buffagni della Lega, quest’ultimo, a sua volta – da sottosegretario del ministero per gli Affari regionali e le autonomie – è il Giorgetti del M5S. Se il governo è bifronte, una faccia è quella di Giancarlo, l’altra è quella di Stefano che apre le crisi di governo in vista della salute, ma per fare – in controindicazione – le nomine. Uno vale uno, Rousseau ci mette sempre del suo ma in tanta teoria, un poco di pratica, può mai guastare? Uno a volte vale più di uno e la Lega, per non sbagliare, ritira una vecchia querela contro Buffagni.

 

Miss Nord e Miss Sud – Erika Stefani e Barbara Lezzi

Sono le ministre boh. Chioma di simile densità, statura equivalente, l’età pure, e infatti le accoppiarono già al Quirinale nel giorno dell’insediamento.

Per non confonderle, sono state dislocate a nord e sud del Paese. Erika Stefani deve provvedere a issare la bandiera leghista di “Prima il Nord” e rendere il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna autonome da Roma ladrona. Barbara Lezzi dovrebbe fare in modo che non accada. Al tempo in cui il Parlamento pareva una scatoletta di tonno, a Barbara fu dato il compito di portare l’apriscatola. Il fatto è che ci credette e lo portò veramente. Sempre a lei fu chiesto di dire che l’Ilva si sarebbe chiusa e il gasdotto Tap mai realizzato. E lei ci credette e lo promise veramente.

La Lezzi già una volta ha inguaiato Di Maio dicendo, al tempo di Renzi, che l’aumento del Pil era dovuto ai condizionatori accesi per il troppo caldo. Ha poi inguaiato suo figlio chiamandolo Attila. Invece Stefani, pur di non far danni, non si fa vedere né sentire. Nonostante ciò alle prime voci di rimpasto il suo nome ha fatto capolino. Salvini, temendo effetti collaterali, vorrebbe già sostituirla.

Il macchinista – Giorgio Sorial

Non si sa come né perché ma a lui sono state affidate le grandi crisi industriali. Giorgio Sorial non ha fatto nulla per meritarsi una simile pena però il mondo è cattivo e dopo la trombatura alle ultime Politiche, quando non è riuscito a entrare a Montecitorio, Luigi Di Maio, il suo navigator, ha deciso di affidargli il portafoglio rogne del ministero. Divenuto potente ha proposto la sua compagna Sara Marcozzi alla presidenza della Regione Abruzzo. Sara, che era già stata trombata nell’identica posizione di lancio cinque anni fa, a febbraio scorso ha fatto il bis. È il primo caso di coppia politica felice e perdente. Urge visita di controllo.

Il comunista – Pasquale Tridico

È l’ideatore del reddito di cittadinanza. Calabrese, insegna economia a Roma Tre. È l’unico che conta nel Movimento a capirci qualcosa, e anche l’unico ad aver detto che la flat tax è iniqua e regressiva e l’accordo con la Lega un problema e che mai avrebbe fatto un governo con Salvini. L’unico ad ammettere: “Non ho lo stomaco per fare il ministro”. Ora è commissario dell’Inps. È troppo di sinistra, indispone l’apparato digerente del governo.

E sono tre: a Roma chiudono altre due fermate della metro

Di questo passo,Roma resterà senza metropolitana: alla chiusura della stazione della metropolitana “Repubblica”, si sono aggiunte quelle delle fermate “Barberini” e “Spagna”, entrambe tappe nevralgiche nel percorso della linea A. La prima è fuori uso da ottobre 2018, quando le scale mobili crollarono al passaggio dei tifosi del Cska Mosca; “Barberini”, invece, nonostante fosse stata chiusa per alcune ore nella giornata di giovedì a causa del cedimento di un gradino della scala mobile, era rimasta attiva fino a ieri. Dopo le disposizioni della autorità giudiziaria, però, è scattato il sequestro, mentre “Spagna” è stata chiusa per controlli a causa della somiglianza tra le sue scale mobili e quelle di Barberini. La decisione è stata assunta dall’Atac che incolpa dei malfunzionamenti l’azienda che fa manutenzione sulle scale mobili: “Gravi e inconfutabili ragioni”, dice l’azienda pubblica che gestisce i trasporto nella Capitale, hanno portato alla rescissione del contratto. Ora Atac promette di rimettere tutto a posto ”nel minor tempo possibile”. Nel frattempo, i cittadini sono stati letteralmente lasciati a piedi.

Politica & affari: ecco le pagine gialle del Sistema Capitale

“C’è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con Berlusconi…”. Le parole di Massimo Carminati risuonano come una profezia capace di annunciare le vicende che negli ultimi anni hanno portato numerosi politici tra i corridoi della cittadella giudiziaria di piazzale Clodio, a Roma. Sindaci, presidenti della Regione, consiglieri comunali, assessori e funzionari pubblici di ogni sorta: che si tratti di Mafia Capitale o delle indagini sulla metro C, o ancora delle diverse inchieste che ruotano intorno al Nuovo Stadio della Roma poco importa, da anni il ruolo appeso fuori dalle porte delle aule del Tribunale romano riporta le “pagine gialle” del “Sistema Capitale”.

MONDO DI MEZZO. Mafia Capitale è l’esempio più significativo. I processi scaturiti dall’operazione del dicembre del 2014 non coinvolsero solo il “Mondo di Mezzo”, chiamando in causa i criminali storici come Massimo Carminati o i ras delle cooperative alla Salvatore Buzzi, ma anche numerosi politici: dall’ex Pdl Luca Gramazio (condannato in appello a 8 anni e 8 mesi), all’ex presidente dell’assemblea capitolina del Pd Mirko Coratti (4 anni e 2 mesi), passando per il consigliere del Cd Pierpaolo Pedetti (3 anni e 2 mesi) e per quello del Pdl Giordano Tredicine (2 anni e 6 mesi). E ancora il veltroniano Luca Odevaine, il presidente Ama Franco Panzironi e quello del decimo municipio Andrea Tassone, del Pd. Il 25 febbraio scorso, in un processo stralcio, anche l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno (Pdl), è stato condannato a 6 anni di reclusione per aver ricevuto, in gran parte attraverso la fondazione Nuova Italia, oltre 200 mila euro dall’imprenditore Salvatore Buzzi. E poi ci sono le indagini sulle presunte false testimonianze durante il processo: è il caso dell’ex vice ministro agli Interni Filippo Bubbico, dell’ex braccio destro di Alemanno, Antonio Lucarelli, e dell’esponente del Pd Micaela Campana.

METRO C. Le indagini sono state concluse nel luglio scorso. L’ex sindaco Gianni Alemanno, il suo ex assessore Antonio Aurigemma (Pdl) e l’ex assessore ai Trasporti in epoca Marino, Guido Improta, devono difendersi con altre 22 persone perché, nel 2011, alcune delibere sospette avrebbero ingannato Cipe, lo Stato, la Regione e il Comune di Roma, procurando un profitto di 230 milioni di euro ad alcuni costruttori.

SCARPELLINI. Nel 2016 gli inquirenti avevano raccolto le rivelazioni della ex compagna di Manlio Vitale, “er Gnappa”, un gregario che ai tempi d’oro della Banda della Magliana era il padrone della Garbatella. La donna aveva rivelato che Vitale era in contatto con Sergio Scarpellini, il costruttore scomparso il 20 novembre scorso e che negli anni ’90 affittava immobili al Parlamento. Per i pm fu come aprire il vaso di Pandora. Intercettazione dopo intercettazione nacquero diverse indagini, come quella che ha portato alla condanna in primo grado (3 anni e 6 mesi di reclusione) dell’ex capo del personale del Campidoglio, Raffaele Marra, che avrebbe messo a disposizione dell’immobiliarista la sua funzione, per due assegni circolari da 367 mila euro. Marra sta affrontando anche un secondo processo per difendersi dall’accusa di abuso d’ufficio in relazione alla nomina del fratello Renato, nominato a capo del Dipartimento Turismo del Campidoglio. È sempre dall’indagine su Vitale e Scarpellini che nasce l’inchiesta che porterà all’arresto del sindaco di Ponzano, Enzo De Santis, e all’iscrizione nel registro degli indagati dell’ex vicepresidente della Regione Lazio, Luciano Ciocchetti (Udc), dell’ex FI Denis Verdini e, ancora una volta, dell’ex presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti (Pd).

STADIO. Sempre dalle rivelazioni di Scarpellini è nata l’indagine sul Nuovo Stadio della Roma. L’imprenditore Luca Parnasi finisce in cella nel giugno scorso e il sistema da lui promosso, basato sulla corruzione a pioggia, travolge politici del M5S, del Pd e di Forza Italia. Così i pm hanno chiesto di procedere con rito immediato nei confronti di Luca Lanzalone, l’ex uomo stadio della Raggi. L’inchiesta ha preso di mira, tra gli altri, anche Adriano Palozzi (FI), ex vicepresidente del Consiglio della Regione Lazio, il consigliere regionale Michele Civita (Pd), quello comunale in quota Forza Italia Davide Bordoni e l’assessore allo sport del X municipio Giampaolo Gola (M5S). Un filone di indagine punta anche su un giro di finanziamenti illeciti che avrebbe favorito Pd e Lega: sono indagati i rispettivi tesorieri, Francesco Bonifazi e Giulio Centemero. Dulcis in fundo l’ultimo stralcio: l’arresto del presidente dell’assemblea capitolina, il 5 Stelle Marcello De Vito e l’iscrizione nel registro degli indagati dell’assessore allo Sport, Daniele Frongia, e dell’ad di Acea Stefano Donnarumma, accusato per due sponsorizzazioni all’Auditorium della Conciliazione da 25 mila euro ciascuna, anche se per Acea Spa “le contestazioni non sono riferibili né allo stadio della As Roma né alla presunta vicenda del Business Park”. Frongia invece è stato accusato dopo le dichiarazioni con cui Parnasi aveva raccontato agli inquirenti di aver chiesto all’assessore il nome di qualcuno da assumere nella sua società “Ampersand”. Alla fine la persona segnalata da Frongia non fu assunta e i legali dell’assessore hanno reso noto che presto la faccenda verrà archiviata. Più complessa la situazione che riguarda De Vito: sarebbe stato corrotto, sotto forma di incarichi all’avvocato Camillo Mezzocapo, attraverso un “sistematico mercimonio della funzione pubblica” di cui avrebbe usufruito sia Parnasi sia i fratelli costruttori Pierluigi e Claudio Toti, oltre all’imprenditore Giuseppe Statuto.

PROVINCIA. Parnasi è coinvolto anche in un procedimento della Corte dei Conti, quello sul palazzo della Provincia. Un immobile inagibile acquistato alienando locali della Provincia, grazie a una certa dose di “finanza creativa”, ha portato i pm contabili a notificare un atto di messa in mora nei confronti di 105 persone. Dagli ex presidenti della Provincia targata Pd, Enrico Gasbarra e l’attuale governatore del Lazio e segretario del Pd Nicola Zingaretti, fino al sindaco di Roma Virginia Raggi, del Movimento 5 Stelle, e il suo predecessore Ignazio Marino.

corte dei conti. Una delle indagini più importanti degli ultimi mesi è quella nata dalle dichiarazioni dell’avvocato che aveva in pugno numerosi giudici di Palazzo Spada, Piero Amara. Dalle sue rivelazioni i leader di Forza Italia e Pd, Berlusconi e Zingaretti, sono stati indagati rispettivamente per corruzione in atti giudiziari e finanziamento illecito. L’ex capo di gabinetto di Zingaretti, Maurizio Venafro, è indagato per false fatturazioni.

Prodiani verso la lista con Bonino, Tabacci e la novità Pizzarotti

I prodiani, guidati dal deputato, Serse Soverini (nella foto), avrebbero chiuso le trattative con Alessandro Fusacchia e Bruno Tabacci per candidarsi nella lista + Europa alle elezioni di maggio. Con loro anche il movimento del sindaco di Parma, Pizzarotti. D’altra parte era stato lo stesso Romano Prodi ad auspicare la costruzione di una lista europeista accanto a quella del Pd. Insieme alla Bonino correranno anche i Verdi. Il progetto di una lista unitaria del centrosinistra, voluto da Carlo Calenda, che se ne è fatto promotore con il suo manifesto “Siamo europei”, non è andato in porto, proprio per volontà di + Europa.

Quindi, accanto a questa lista, ce ne sarà una del Pd larga e aperta alla società civile e alla cultura alla quale sta lavorando il segretario Nicola Zingaretti. Ne potrebbero far parte gli ex compagni di Articolo 1 guidati da Roberto Speranza, che Zingaretti ha incontrato mercoledì scorso. Le trattative sono in corso, insieme a quelle sulle candidature. Tra i capolista certi, Giuliano Pisapia e Massimo Cacciari. E lo stesso Calenda dovrebbe correre in questa lista.

Pd e M5S: il governatore non picchia, Di Maio sì

La battuta circola, clandestina e sulfurea, su entrambe le sponde. “A Zingaretti conviene quasi che il M5S non sprofondi nei consensi, altrimenti nel Movimento rischia di scoppiare tutto. E in quel caso con chi potrebbe fare accordi per le Politiche?”. E sono ghigni, preoccupati o ironici, tra i dem e i 5Stelle. Però poi c’è quello che nessuno dirà a taccuino aperto, c’è il fiutarsi a distanza tra Pd e Movimento, in attesa di ciò che potrebbe essere. Chissà quando e come.

Perché certo, il neo segretario dem fino al 26 maggio morderà i 5Stelle, con l’obiettivo di superarli nelle Europee e sperare così nell’esplosione del governo gialloverde. Ma mordere non vuol dire picchiare, e il segretario dem per ora non sta colpendo con la clava. Neppure in questi giorni, in cui il Campidoglio a 5Stelle è ridiventato per la milionesima volta una polveriera, con un presidente del Consiglio comunale in manette. Innanzitutto perché Zingaretti la clava non l’ha mai maneggiata volentieri, mentre il Renzi da cui deve discostarsi la adorava. Però c’è anche altro. C’è il fatto che Zingaretti deve anche guardarsi le spalle, cioè ricordarsi che in Regione Lazio governa con il Movimento, e i due consiglieri reclutati nel centrodestra per avere una maggioranza bastano fino a un certo punto. E poi ci sono i progetti a medio termine, del segretario e del suo mentore Goffredo Bettini, l’eterno demiurgo del Pd romano.

Europarlamentare uscente, non tornerà a Bruxelles. Però sta preparando le liste per le Europee con Zingaretti, suggerendo e talvolta telefonando, ai big e agli esterni da convincere. E in testa, sussurrano, Bettini ha sempre quel progetto, portare i dem al governo anche tramite un accordo con il M5S. Magari da qui a breve più debole, quindi per forza di cose più gestibile. E da qui si può arrivare alla suggestione rincorsa da diversi dem, quello di una scissione a 5Stelle, con un’ala “di sinistra” che si stacchi. Ma siamo nell’irrealtà. “Chi ci spera non sa cosa sia il M5S, e io l’ho spiegato a quelli del Pd” conferma un veterano del Movimento che frequenta sia il Parlamento che la Regione Lazio. Ossia la sede di lavoro di Roberta Lombardi, che poco tempo fa lo ha detto al Fatto: “Ogni volta che Zingaretti dice che non si alleerà con i 5Stelle io me lo segno…”. Sillabe che non volevano pungere solo il governatore.

Infatti, raccontano, si è sentito punto anche Luigi Di Maio, che in queste settimane sta provando a snidare il neo segretario “sui temi”, per dirla alla 5Stelle. E la prima carta gettata sul tavolo è stata la richiesta di appoggio al disegno di legge del M5S sul salario minimo, ora in Senato. Offerta subito respinta da Zingaretti, perché “i processi politici non si costruiscono con le furbizie”. Ed è una smentita che chiude nell’immediato ma non pone limiti per il futuro, cioè non nega il formarsi “di processi politici”. Così colpisce come la politologa Nadia Urbinati ieri su Repubblica abbia ricordato a Zingaretti che “il Pd viene da una pratica di contrapposizione one way con i 5Stelle”, che ha “lasciato ai margini Matteo Salvini”, colui che “è il vero nemico”.

Però ora sarà solo campagna elettorale. Con Di Maio che ha mostrato il fianco giorni fa, invitando Salvini a “non farci dividere dal Pd sul Tav”, riconoscendo così che i dem sono tornati un avversario. Ma soprattutto ha lasciato che i suoi aggredissero Zingaretti, appena si è sparsa la notizia che era indagato per finanziamento illecito. Perché ora si gioca per la sopravvivenza, e a fare la differenza saranno anche i voti che pencolano tra dem, M5S e astensione. Poi, dopo il 26 maggio, si vedrà.

Basilicata, la sinistra è divisa e il favorito è ancora Salvini

Dopo 25 anni di governo ininterrotto del centrosinistra, oggi anche la Basilicata dovrebbe cambiare colore. È l’ennesimo territorio da conquistare nel risiko salviniano iniziato il 4 marzo, l’ultimo prima della decisiva campagna europea di fine maggio. Anche qui – come in Abruzzo e Sardegna – il tour elettorale del ministro dell’Interno è stato incessante. Salvini ha speso 5 degli ultimi 10 giorni a macinare comizi tra le province di Potenza e Matera. Le manifestazioni dell’ultima settimana si aggiungono ai 69 eventi a cui ha presenziato il Capitano negli ultimi 3 mesi (dati Openpolis): in media più di due comizi ogni tre giorni (a tempo perso ci sarebbe pure il Viminale…).

L’uomo di Salvini in realtà l’ha scelto Silvio Berlusconi, anche se la narrazione mediatica gira sempre attorno al capo della Lega. È il generale (in congedo) della guardia di finanza Vito Bardi. Potentino, 68 anni, non è esattamente un animale politico e ha vissuto poco nella regione di cui vuole diventare presidente. Al Giornale, che gli ha chiesto come facesse a sapere che la Basilicata è governata male, ha regalato una risposta che lascia interdetti: “Me lo raccontano gli amici e i cittadini”. Eppure Bardi è considerato il grande favorito. La Basilicata non ha goduto della copertura dei sondaggi delle altre regioni, ma i pochi che circolano lo danno avanti – sebbene con distacco non abissale – rispetto al candidato di centrosinistra.

Il Pd ha chiuso l’epoca Pittella affidando le chiavi della coalizione al farmacista Carlo Trerotola. Anche in questo caso, non uno statista di livello internazionale: figlio di un militante missino, è riuscito a conquistare l’attenzione dei giornali nazionali per aver definito in pubblico il post fascista Giorgio Almirante “il mio unico politico di riferimento”. Il semi sconosciuto Trerotola è stato scelto personalmente da Marcello Pittella, costretto a farsi da parte per l’indagine sulla sanità regionale che gli era costata anche due mesi di arresti domiciliari. Insomma, l’ex governatore – candidato con “Avanti Basilicata”, una delle 8 liste che appoggiano Trerotola – non si è affatto sfilato.

Si sono sfilati, semmai, alcuni “pittelliani” che hanno fiutato il vento e si sono spostati a destra, come il suo ex assessore ai Trasporti Nicola Benedetto o Carmine Cicala, fratello del sindaco di Viggiano Amedeo, pure lui considerato un fedelissimo della famiglia che in Basilicata significava Pd. Oggi i dem quasi si nascondono in una “pseudo civica”: si presentano sotto le insegne di “Comunità democratiche”, il logo del partito si vede, ma piccolo piccolo, all’interno del simbolo della lista. Con Trerotola sono tornati all’ovile del centrosinistra anche Roberto Speranza e i bersaniani di Articolo Uno.

Restano fuori, invece, tutti gli altri frammenti della sinistra. E alla fine nella corsa alla presidenza potrebbe essere decisivo proprio il candidato di “La Basilicata Possibile”. Valerio Tramutoli è un docente dell’Università della Basilicata, con un ambizioso programma ambientalista e una discreta popolarità: secondo i sondaggi potrebbe puntare anche al 5%. Numeri che rischiano di risultare cruciali nella probabile affermazione di Bardi.

A serio rischio irrilevanza, come in Abruzzo e in Sardegna, il Movimento Cinque Stelle. Alle politiche qui fu trionfo (44%), nessuno si aspetta di avvicinarsi a replicarlo. E il candidato Antonio Mattia ha in curriculum un passato in Forza Italia.