Si sa che il capitanoha basato il suo successo anche sul piglio truce, a tratti bullesco, con cui tratta gli avversari politici. Ora scopriamo che Salvini fa il bullo anche con i ragazzini. L’ultima virulenta battaglia verbale l’ha ingaggiata con il temibile Ramy, il quattordicenne egiziano che ha avuto un ruolo decisivo nel salvare i compagni ed evitare la strage del bus di Milano. Il ministro dell’Interno aveva provato a cavalcare la sua figura mediatica annunciando di volergli concedere la cittadinanza onoraria, ma Ramy l’ha preso in contropiede: “Diventare italiano è il mio sogno, ma allora dovrebbero darla anche a mio fratello e ai miei compagni di classe di origini straniere che vivono in Italia da tanto tempo e magari sono pure nati qui”. In pratica, Ramy chiede lo ius soli. Com’è la replica del Capitano a un ragazzino appena sopravvissuto a una possibile mattanza? Geniale: “Ramy vorrebbe dare la cittadinanza ai suoi compagni? Questa è una scelta che potrà fare quando verrà eletto parlamentare, intanto la legge va bene così”. Certo, come no: che ci vuole per un quattordicenne straniero a farsi eleggere in Parlamento e a scrivere una legge sullo ius soli? Salvini forse voleva scendere al livello – anagrafico – del suo interlocutore. Ma ha fatto la figura del bambino rosicone. Sarebbe stato più arguto se avesse detto solo “specchio riflesso”.
Brutte notizie: i tassi sul debito americano dicono “recessione”
L’Italia prova a far svoltare le sue relazioni economiche con la Cina e potrebbe avere un motivo in più per farlo a giudicare da alcuni segnali che arrivano dai mercati occidentali. Dai tassi sui titoli di Stato americani arrivano pessime notizie: quelli con scadenza a tre mesi alla fine di questa settimana rendevano il 2,45%, vale a dire più di quelli a dieci anni (2,43%). La curva dei tassi si è, insomma, invertita e in genere significa che il mercato si aspetta una recessione a breve: l’ultima volta, per capirci, successe nel 2007 poco prima della “grande catastrofe”. Negli ultimi 60 anni, dicono gli esperti, ogni recessione è stata prevista dall’inversione della curva dei rendimenti con un anticipo di circa 18-24 mesi. Anche in Europa si avverte un segnale di questa sfiducia: a marzo sia l’indice manifatturiero che quello dei servizi in Europa hanno fatto segnare pessime performance (l’industria, in particolare, va male oltre le attese in Francia e Germania) e questo ha spinto gli investitori alla corsa a comprare i Bund decennali tedeschi, considerati un bene rifugio. Il rendimento è tornato negativo per la prima volta dal 2016, in pieno Quantitative easing: in sostanza il mercato paga per investire in debito tedesco.
“Dal funzionario cinese minacce alla cronista”, scrive Il Foglio
Una conversazione non proprio amichevole tra un funzionario cinese e una giornalista italiana, che sui social e dai media in poche ore è stata definita “minaccia”: è raccontata sulle pagine de Il Foglio , perché coinvolge una sua giornalista esperta di Cina, Giulia Pompili, e un funzionario dell’ambasciata cinese in Italia, Yang Han, di recente nominato capo dell’ufficio stampa della sede diplomatica. Il Foglio riferisce che venerdì, poco prima dell’incontro al Quirinale tra il presidente cinese Xi Jinping e Sergio Mattarella i due si sono incontrati per caso.
“Un funzionario del Quirinale stava accompagnando la giornalista alla sala, e le ha chiesto il suo nome – si legge –. Lei ha risposto e Yang l’ha guardata dicendo: ‘La devi smettere di parlare male della Cina’. La nostra cronista ha pensato fosse un commento non benevolo, ma nemmeno eccessivamente serio e ha sorriso. Ma Yang le ha ripetuto: ‘Non devi ridere. La devi smettere di parlare male della Cina’ ”. Pompili avrebbe risposto che fa la giornalista e che il suo lavoro consiste nel raccontare quel che succede. Poi gli avrebbe teso la mano presentandosi perché non si erano mai incontrati. “Yang Han – scrive Il Foglio – ha rifiutato di darle la mano e le ha detto in tono allusivo: ‘E comunque so benissimo chi sei’”. A questo punto il funzionario del Quirinale avrebbe invitato entrambi a ricominciare a camminare e quando la giornalista ha tirato fuori il suo telefonino dalla tasca, Yang le si sarebbe avvicinato di nuovo intimandole di metterlo via.
“Il Foglio ha una posizione molto chiara sulla Cina, sulla Belt and Road Initiative e in generale sulle operazioni cinesi in occidente – conclude il quotidiano – Poiché l’Italia non è la Cina e il Quirinale non è il palazzo della Città proibita c’è il pieno diritto di esprimere idee e critiche. Se il portavoce dell’Ambasciata della Repubblica cinese non lo capisce, bisognerà probabilmente farsi qualche domanda ulteriore su questi nostri nuovi amici”.
Conta poco e, in ogni caso, porterà vantaggi solo a Pechino
Penso che sia un accordo dal significato simbolico e politico più che commerciale e come tale è stato percepito in Europa. Dubito che avrà una importanza reale sul commercio tra Italia e Cina, che è piuttosto debole e potrebbe restarlo. Questi giorni mi hanno ricordato tutto il fasto che ci fu qualche anno fa per accogliere la dirigenza cinese a Londra, senza che poi scaturisse granché di nuovo nei rapporti tra Cina e Regno Unito. Ma per l’Italia è anche una mossa politica sbagliata quella di voler dimostrare di poter chiudere accordi anche contro il parere dei partner europei. Anzi, è il contrario di quello di cui c’è bisogno. Con la Cina è senz’altro necessario stringere intese, ma lo si deve fare a livello di Unione europea, se si muovono i singoli Stati non si va da nessuna parte. L’unica cosa certa in questi casi è che, tra i contraenti, vince chi è più grande, quindi se è improbabile che le aziende cinesi inizino a comprare prodotti italiani per merito dell’intesa, è più facile che qualche vantaggio lo abbia proprio la Cina. Non bisogna farsi illusioni: i cinesi potranno investire qualche miliardo nelle infrastrutture, ma di certo non faranno regali all’Italia e un domani pretenderanno di avere il controllo sui loro investimenti. E allora voglio vedere come farà il governo italiano a lasciare alle aziende di Pechino la gestione di porti e altre infrastrutture strategici.
Ne sottovalutiamo l’impatto: ci infiliamo in una “guerra”
Al di là del piano commerciale dell’intesa, ritengo che tutta la discussione politica stia sottovalutando l’impatto che avrà questo accordo nelle relazioni internazionali. Discutere del rapporto con la Cina in questo momento significa inserirsi in una guerra che a lungo è stata sottotraccia ma che adesso sta venendo sempre più allo scoperto, ovvero quella tra Stati Uniti e Cina. Temo che l’Italia si sia fatta andare bene la versione “buonista” del Memorandum, che vede gli aspetti positivi degli scambi economici, ma non si può scindere l’espansione commerciale cinese da quella militare, ideologica, che da sempre le si accompagna.
L’una è veicolo dell’altro, basti pensare che tutti i porti di cui si sono interessati i cinesi, prima nel Mare cinese orientale e poi in Africa, sono “dual uses”, utilizzati sia per fini commerciali che per scopi militari. Non voglio dire che sarà così in Italia, ma oggi negli ambienti americani si parla sempre più apertamente di conflitto, si immagina “una sonora lezione militare” alla Cina non appena questa compia qualche infrazione nei nostri mari.
Questo aspetto non è stato considerato a sufficienza, perché oggi noi proviamo a stare con tutti, ma un domani potremmo essere presi nel mezzo. Cosa faremo allora? Non possiamo fare finta che questo accordo sia neutro e non abbia conseguenze diverse da quelle economiche. E neanche coinvolgere l’Europa sarebbe bastato, perché è una questione che riguarda i rapporti atlantici.
Ci sono vantaggi commerciali, ma Trump può farcela pagare
Da un punto di vista commerciale, ci sono delle opportunità che l’Italia potrà sfruttare grazie a questo memorandum. Penso per esempio alla cooperazione nei porti di Genova e Trieste, ma anche alle aziende italiane che saranno facilitate nell’accedere a un mercato potenziale di oltre un miliardo di persone. Per come la Cina imposta questo tipo di accordi, però, sarà necessario considerarlo un punto di partenza più che un punto d’arrivo: il governo dovrà assicurarsi che mano a mano non venga meno l’interesse nazionale dell’Italia, che altrimenti rischia di essere “mangiata” dal contraente più grande.
C’è poi un aspetto più politico di questa vicenda. La nostra adesione ha implicazioni geopolitiche, perché in questo momento abbiamo “sposato” il rivale degli Stati Uniti e questo alimenta le preoccupazioni di Washington. Non è un caso che, dopo la visita in Italia, Xi Jinping incontri gli altri leader europei, che credo cercheranno di formare un blocco comune. Se noi rimaniamo esclusi, non sarà un bene.
L’Italia, nel momento in cui sceglie la Cina, deve sapere che dovrà trovare un equilibrio da cui trarre vantaggio in un contesto internazionale che però rischia di diventarle sfavorevole. Penso agli Stati Uniti, nostro principale alleato, che un domani potrebbe rivalersi con noi per questo accordo, magari sfruttando la sua influenza sulle agenzie di rating per condizionare l’affidabilità della nostra economia.
Per l’Italia l’affare c’è Per questo Francia e Usa sono infuriati
La firma dei vari memorandum tra Italia e Cina, 19 istituzionali e 10 commerciali, dispiace fortemente agli Stati Uniti e all’Unione europea, in particolare alla Francia, ma in Italia ha un consenso ampio. Perché porta soldi freschi a un sistema delle imprese che boccheggia da anni e fa sperare all’attuale governo di poter avere risorse per rilanciare opere infrastrutturali. La stessa speranza l’avevano anche i passati governi. Si dimentica sempre che a presenziare al varo della strategia della “Via della Seta” fu l’ex premier Paolo Gentiloni e che in prima fila nel dialogo cinese ci sono esponenti del centrosinistra come Romano Prodi e Massimo D’Alema.
Paura del Faraone. Su La Stampa e Repubblica, ieri, si leggevano editoriali di fuoco contro la visita di Xi Jinping a Roma, una sottomissione al “faraone” da parte del governo italiano o contro la stessa “Via della Seta”, una “via dell’inferno”. Ma l’indignazione de la Stampa per “uniformi, pennacchi, nastrini”, per la “voce di Andrea Bocelli nella Cappella Paolina”, la scorta dei “corazzieri a cavallo, una cosa che non si vedeva dalla visita della regina Elisabetta nel 1961” non vede che dietro alle cerimonie di venerdì c’era Sergio Mattarella. Che, certamente, ha ricordato i diritti umani e il fatto che la via della Seta “è a doppio senso”, ma che comunque quell’accoglienza, fino alla cena di gala, ha organizzato.
E pour cause. Le intese interessano molto il sistema economico italiano di cui il Quirinale è sempre una voce autorevole. Basti guardare la rassegna di pareri sistemici sfoderata dal Sole 24 Ore. Federmeccanica, cioè le imprese metallurgiche, vuole potenziare l’export con la Cina “ma anche collaborare con le aziende cinesi per andare in paesi terzi”. Per l’Associazione bancaria italiana “è importante la presenza di banche italiane in Cina e di quelle cinesi in Italia”; l’Ance, l’Associazione dei costruttori, spera che l’Italia diventi “la porta per i cinesi verso le aree più industrializzate” e dichiarazioni analoghe fanno le associazioni delle imprese elettrotecniche ed elettroniche. La Fondazione Italia-Cina ha già da tempo indicato la strada della cooperazione come leva strategica per lo sviluppo delle imprese italiane e tra i suoi soci si trovano Assolombarda, Confcommercio, Poste italiane, società come Brembo, Autogrill, Dhl, la Confindustria del turismo o Aeroporti di Roma.
La convenienza sta in una quantità enorme di denaro che può essere mobilitata verso l’Italia. Non solo, come già accaduto, investendo nella partecipazione di società come Pirelli, Ansaldo elettrica, Cdp Reti, e quindi Enel, o l’Inter. Ma costruendo strutture. La partita dei porti di Trieste e Genova si gioca su questo: non è assimilabile all’acquisto del porto di Atene, il Pireo, messo all’asta dal governo greco a sua volta strozzato dalla tagliola europea. Qui si tratta di investimenti nella logistica con China Communications Construction Company che puntano ad allargare le vie di comunicazione al centro Europa e al nord, come dimostra l’asse ferroviario varato nel 2017 tra Trieste e il porto belga di Zeebrugge, controllato anch’esso dai cinesi.
Gli interessi di chi? La convenienza può produrre una sottomissione alla Cina? Alla lunga sì, è chiaro, come in passato si è prodotta una sottomissione agli Stati Uniti, i quali temono di perdere una pedina fondamentale nel loro scacchiere geopolitico, collocata nell’area strategica del Mediterraneo e che, nella guerra su dazi e tecnologie con la Cina, immaginano uno schieramento fedele dei loro alleati.
L’interesse nazionale accomuna agli Usa e anche la Francia, che al momento sembra essere il paese che più rischia dai nuovi crocevia di comunicazione, visto che finora è stata coinvolta solo parzialmente nel porto di Marsiglia e nell’aeroporto di Tolosa. E in parte la Germania che però si è già portata avanti e con la Cina non vanta solo un grande surplus commerciale, ma pure il primo scalo ferroviario delle merci che provengono dalla nuova “Via della Seta”. Ora l’Italia potrebbe avvantaggiarsi sia sul piano commerciale che geopolitico. E questo infastidisce gli “alleati”.
Nella crisi endemica provocata dal crac finanziario del 2007-2008, le risorse cinesi rappresentano una stampella necessaria. Che poi questi accordi si traducano in vantaggi anche per le popolazioni è un altro discorso: anche l’Unione europea fu presentata come un vantaggio per tutti e invece, a quasi trent’anni dal Trattato di Maastricht, si notano gli effetti di disuglianza e divaricazione sociali. Il memorandum con la Cina è un vantaggio per il sistema italiano, un tradimento per i suoi alleati, un’incognita per tutti gli altri.
Conte vara il memorandum E Di Maio litiga con Salvini
Da una parte, su una sorta di palco, il presidente cinese Xi Jinping, dall’altra il premier italiano, Giuseppe Conte. Dietro a entrambi le bandiere cinese, italiana ed europea, mentre davanti sfilano i firmatari per le due nazioni dei 19 accordi istituzionali e 10 commerciali. Il cinese di turno consegna all’omologo italiano una cartellina blu, l’italiano una rossa. Mentre il cerimoniale annuncia nelle due lingue l’intesa che si va siglando.
A Villa Madama, l’atmosfera è solenne, la soddisfazione dei presenti palpabile. Nonostante i tentativi di Angela Merkel e di Emmanuel Macron di dissuaderlo fino all’ultimo momento utile, nonostante le pressioni degli States per fermarlo e i paletti della Lega, Conte ieri mattina ha firmato il Memorandum of understanding, una sorta di dichiarazione di intenti non vincolante tra Italia e Cina. Più vincolanti sono invece soprattutto i 10 accordi commerciali tra aziende italiane e cinesi: da quello tra Cdp e Bank of China per emettere i Panda Bond (obbligazioni sottoscritte da investitori istituzionali cinesi per finanziare l’espansione in Cina delle medie imprese italiane) al piano trihub di investimenti per il porto di Trieste (China Communications Construction Company) a quelli siglati da Eni, Ansaldo Energia e Danieli. E poi ce ne sono 19 istituzionali: in prima linea a firmarli Luigi Di Maio, il vice ministro degli Esteri, Emanuela Del Re, il ministro della Salute, Giulia Grillo.
In questa partita, il ministero dello Sviluppo economico è stato impegnato dall’inizio. Tanto è vero che ieri Di Maio non si è risparmiato la critica: “Salvini ha il diritto di parlare, io come ministro del Mise ho il dovere di fare i fatti e i fatti sono la firma di accordi per 2,5 miliardi”, ha detto, mentre rivendicava: “È chiaro che l’Italia è arrivata prima sulla Via della Seta e quindi altri Paesi Ue hanno delle loro posizioni critiche, ne hanno tutto il diritto. Nessuno vuole scavalcare i nostri partner Ue ma, come qualcuno diceva America First, noi nelle relazioni commerciali diciamo Italy First”. Matteo Salvini, che ha disertato la cena di gala venerdì al Quirinale (perché in campagna elettorale in Basilicata) ha chiarito in mattinata: “Sono contento che il presidente cinese venga in Italia, bene il memorandum, ma questo deve essere a parità di condizioni.
Non è una competizione normale, non mi si venga a dire che in Cina vige il mercato libero”. Ancora: “Vogliamo essere cauti quando ci sono in ballo la sicurezza nazionale, i nostri dati e la nostra energia, ma se si portano i nostri imprenditori in Cina, bene”.
La Lega la partita di fermare il memorandun l’ha persa. Ma il governo ha approvato salvo intese il golden power (i poteri di veto del governo) rafforzato, predisposto da Giancarlo Giorgetti, sottosegretario a Palazzo Chigi. Il quale, non a caso, ieri ha avvertito: “Queste intese si misurano nel lungo termine. Serve una reciprocità”.
Ma a presentarsi come uomo del giorno è stato Conte. Che la “reciprocità” negli accordi l’ha assicurata. E ha annunciato che sarà al Forum di Pechino del 26 e 27 aprile. L’Imperatore Xi è partito per Palermo. A Palazzo Chigi hanno già iniziato a lavorare per la visita del presidente russo Vladimir Putin a luglio.
Venite già mangiati
Oggi si vota in Basilicata. E qualche ingenuo poteva forse immaginare un piccolo dibattito sul rapporto della commissione parlamentare Antimafia a proposito dei candidati impresentabili in lista: due condannati in primo grado e tre imputati, spudoratamente presentati dal centrodestra e dal Pd in barba al codice di autodisciplina che tutti i partiti approvano a ogni legislatura per poi violarlo allegramente. Roba da provocare un surplus di sdegno fra gli indignati speciali che in questi giorni bivaccano in Campidoglio vibranti di sacrosanta passione civile per l’arresto del pentastellato De Vito: se si scandalizzano, e giustamente, per un politico in manette, figurarsi che dovrebbero dire delle condanne e dei rinvii a giudizio, per giunta a carico di politici mai espulsi né sospesi né esclusi dai rispettivi partiti in attesa delle sentenze definitive, ma addirittura candidati. Invece tutti tacciono. E intanto continuano a tuonare contro i 5Stelle che hanno cacciato il loro presidente dell’Assemblea capitolina al solo clic delle manette, senza neppure attendere la richiesta di rinvio a giudizio. Strano, vero? Il centrosinistra, anzi il “nuovo centrosinistra” di Nicola Zingaretti, per distinguersi da quello vecchio che aveva visto cadere la sua giunta per l’arresto del governatore Marcello Pittella, ricandida Sergio Claudio Cantiani e Massimo Maria Molinari, alla sbarra dinanzi al Tribunale di Potenza. Cantiani è imputato per concussione, con l’accusa – risalente a quando era candidato a sindaco di Marsicotevere – di aver “costretto” la ditta aggiudicataria dell’appalto per la raccolta rifiuti ad assumere il fratello della sua segretaria e, una volta eletto, di aver “minacciato” di revocare l’appalto in caso di licenziamento dell’operaio, “malgrado le reiterate inadempienze” di quest’ultimo. Molinari invece risponde di corruzione in veste di ex vicesindaco di Potenza: l’accusa è aver facilitato l’iter di una gara per la gestione di parcheggi e premuto per l’acquisto di pubblicità sul settimanale edito da un parente.
Poi c’è il centrodestra, che almeno non si spaccia per nuovo, e infatti è orgogliosamente così vecchio che più vecchio non si può. Per non farsi mancare niente e tener fede alle tradizioni nazionali, schiera anche due condannati in primo grado: Paolo Galante (Psi) e Rocco Sarli (Fratelli d’Italia). Sono stati entrambi condannati in primo grado a 3 anni e 6 mesi di reclusione per peculato nello stesso processo. Galante, già consigliere e vicepresidente del Consiglio regionale, era vicepresidente del Consorzio per lo sviluppo di Potenza, mentre Sarli sedeva nel Cda.
Il primo, consigliere uscente, fu sospeso dalla carica per 18 mesi in base alla legge Severino. Il secondo invece, consigliere entrante, lo sarà se verrà condannato anche in appello, mentre l’altro starebbe fermo altri 12 mesi. Vincenzo Clemente, terzo impresentabile del centrodestra, è imputato di corruzione in cambio della rateizzazione dei canoni d’affitto di una casa di riposo gestita da una società a Corleto Perticara. Ora, com’è noto, da tempo immemorabile tutti i partiti si sono impegnati formalmente in commissione Antimafia a non candidare indagati (e, a maggior ragione, imputati e condannati) per reati contro la Pubblica amministrazione: in primis per concussione, corruzione e peculato, che implicano tutti e tre il latrocinio di denaro pubblico. L’hanno fatto soltanto per farsi belli dinanzi agli elettori, specialmente dopo le prime denunce di Beppe Grillo nel 2006 sul suo blog contro il Parlamento degli inquisiti, prim’ancora che nascessero i 5Stelle. Poi, naturalmente, hanno sempre tradito l’impegno, prendendosela pure col presidente di turno dell’Antimafia (ieri Rosy Bindi, ora Nicola Morra) che si permette addirittura di pubblicare i nomi degli impresentabili, come previsto dalla loro legge-spot. Ora questi impuniti hanno pure il coraggio di accusare chi caccia i propri inquisiti senza neppure lo straccio di una richiesta di rinvio a giudizio di “essere come gli altri” (cioè come loro, che gli inquisiti non li cacciano nemmeno dopo il rinvio a giudizio, la condanna provvisoria e quella definitiva, anzi li candidano, li premiano e li promuovono).
Siccome c’è un limite a tutto, anche alla faccia di culo, proponiamo al presidente Morra un emendamento esplicativo e chiarificatore al Codice di autodisciplina dell’Antimafia. Un norma elementare di due soli articoli: “1. Chiunque venga arrestato, rinviato e giudizio, condannato in primo o secondo o terzo grado, è da ritenersi innocente per definizione e matura il diritto acquisito a essere candidato ed eletto a una carica pubblica adeguata, cioè non inferiore a quella di consigliere comunale. 2. La regola di cui sopra vale soltanto per i politici iscritti a partiti che non hanno mai promesso ‘onestà’, anzi statutariamente rifuggono da simili turpiloqui. Chi si fosse lasciato sfuggire anche una sola volta quel termine ignominioso o suoi sinonimi, deve vergognarsi a prescindere”. Così finalmente verrà codificato un principio che ora si sente echeggiare sui giornali e in bocca ai politici, ma un po’ alla rinfusa: se finisce dentro un 5Stelle, si può dire subito che rubano tutti i 5Stelle (arrestano De Vito e tutti chiedono la testa della Raggi e di Frongia, forse perché De Vito è stato subito cacciato); se invece finiscono dentro decine di forzisti, pidini, leghisti, non si può dire che sono impresentabili neanche se li rinviano a giudizio e/o li condannano. Ergo, è infinitamente più grave candidare un incensurato insospettabile e poi espellerlo se lo arrestano, che candidare indagati e poi ricandidarli se li rinviano a giudizio o li condannano. Il segreto per rubare indisturbati è venire già mangiati.
Per Paolo Maurensig: “Il gioco degli dèi” è sempre a scacchi
Martedì prossimo, giorno del suo 76esimo compleanno, Paolo Maurensig approda nelle librerie con una nuova fatica mentre Theoria ripropone dalla sua backlist titoli come Venere lesa e L’ultima traversa. Esce infatti Il gioco degli dèi, secondo volume in casa Einaudi dopo il fortunato Il diavolo nel cassetto dello scorso anno. L’autore friulano – schivo e refrattario alla mondanità letteraria sin dal suo esordio bestseller nel 1993 con La variante di Lüneburg – manda in stampa ancora una volta un romanzo sull’ossessione che lo ha reso celebre: gli scacchi.
Impressiona per coerenza e rigore questa fedeltà tematica (al netto di un automatismo che a tratti rischia di trasformarsi in maniera) e colloca la sua bibliografia nel solco di una fiducia nella forma romanzo sempre più rara in un tempo egemone di nonfiction e autofiction. Maurensig, spoglio di qualsiasi complessità stilistica e sulla scorta della sua formazione mitteleuropea, conosce tanto a fondo la felicità di raccontare che ogni suo testo sembra precipitare da una dimensione atemporale. Si potrebbe azzardare che ha il passo del classico, impermeabile a tutti i birignao che si rincorrono tra scuole di scrittura e mode editoriali.
L’impronta del narratore è tutta dentro la storia. Non c’è spazio per speculazioni intellettuali e velleità sociologiche. Come aveva fatto con la biografia dello statunitense Paul Morphy ne L’arcangelo degli scacchi o con il russo Alexandre Alekhine in Teoria delle ombre lo scrittore di Gorizia ne Il gioco degli dèi recupera un altro protagonista vincente sulla scacchiera e perdente crepuscolare nella vita. In un montaggio di episodi veri e immaginari, restituisce questa volta ai lettori la parabola dell’indiano Sultan Khan, la cui traccia nel firmamento degli scacchi “è quella di una stella cadente: un chiarore abbagliante che precede l’oscurità”. L’ambientazione esotica in un’India dominata dalla spiritualità rovescia la prospettiva occidentale del talento. Per Sultan Khan è un dono divino ma come lui stesso ammette “Non ero io a inventare o a progettare, mi limitavo ad aspettare che il genio preposto al gioco mi desse il suggerimento giusto. Essere supportati dagli dèi non è poi quella gran cosa che tutti credono”. Lo scacchista col turbante, “straordinario personaggio che sembra uscire dalle pagine di un Kipling”, si racconta in prima persona grazie all’espediente drammaturgico di un corrispondente del Washington Post che raccoglie nel 1965 la sua testimonianza nell’ospedale di una missione di preti comboniani.
La parabola di Sultan Khan comincia a servizio del maharaja Sir Umar Khan che lo inizia al chaturanga, antenato indiano del gioco degli scacchi. Complice una scommessa con un alto ufficiale britannico, il maharaja decide di sbarcare nei primi anni ’30 nel Regno Unito e portare con sé il suo servitore Sultan Khan perché sfidi i migliori giocatori inglesi dell’epoca. Il giovane ottiene una serie di vittorie, tra cui una con il cubano Capablanca, in una carriera che dura appena tre anni e che lo immortala come un simbolico tentativo di rivolta dell’India oppressa dal- l’imperialismo britannico. Sultan Khan si riciclerà chauffeur di una Rolls Royce nella campagna inglese fino a ritrovarsi a New York accusato di plagio a danno di una ereditiera americana e riapprodare infine nella terra natale e morire di tubercolosi nel 1966 pressoché misconosciuto senza che la Federazione internazionale quando coniò il titolo di Grande Maestro si ricordasse di lui e analizzasse le sue partite. Il gioco degli dèi scorre sospeso tra romanzo di formazione e avventura, con un incedere a metà tra Dickens e il Sandokan di Salgari.
Maurensig, giunto al suo ventesimo libro assecondando una vocazione da narratore puro, persiste a tirar fuori dal suo magma creativo tutti quei vissuti capaci, attraverso i chiaroscuri del genio, di rinnovare la scommessa della sua letteratura e cioè vincere la morte, perché per scomodare l’io narrante della Novella degli scacchi di Stefan Zweig il gioco degli scacchi è “l’unico fra tutti quelli ideati dall’uomo che sovranamente si sottrae alla tirannia del caso e consegna la palma della vittoria esclusivamente all’intelletto o, meglio, a una certa forma di talento intellettuale”.