Arte da scompisciarsi: la pipì in posa con Tiziano e Warhol

Un libro da scompisciarsi: un bigino di storia dell’arte filtrata dal buco della serratura, al vaglio del “nostro sguardo segreto”, lubrico e infantile. Sì, perché in bella mostra c’è la pipì, o meglio le Figure piscianti tra il 1280 e il 2014.

Appena edito da Utet, il saggio di Jean-Claude Lebensztejn ripercorre con ironia e arguzia, e un ricco corredo di 150 immagini, secoli di iconografia tabù, dai bassorilievi romani ai cessi pubblici contemporanei, pur non seguendo un ordine cronologico e pur sconfinando nel costume e nella letteratura con Ovidio, Rabelais e Baudelaire.

Primo viene il fanciullino, la statua del Manneken-Pis che urina gioiosamente in una fontana di Bruxelles: è il puer mingens – il bambino piscettino – per eccellenza, icona profana e sempiterna riprodotta nei videogame giapponesi così come nelle pubblicità della birra belga, nelle attuali réclame di prodotti per la prostata così come negli spiritelli ornamentali del Medioevo o nei putti aggraziati del Rinascimento.

Questi “piscioni ben dotati” vantano proprietà apotropaiche, benaugurali, promettono fertilità e fortuna, regalano abbondanza a getto continuo: anche per questo li mettono in posa pittori e scultori, da Michelangelo a Bruegel, da Tiziano a Picasso. Ma pure al cinema li ritroviamo, ad esempio nella scena del “quadro pisciato” in Teorema di Pasolini, fino a diventare con Warhol materia prima dei Piss Paintings, ossidati appunto con la pipì, o del profumo “Urina” di nome e di fatto, che al confronto l’orinatoio di Duchamp è arte barbara.

In questo colto divertissement, l’estetica si intreccia con l’etica e la storia con le storiacce di cronaca nera: pittori secenteschi condannati a morte per sodomia; birrai degli anni Duemila (!) assassinati in odor di pederastia; ricatti sessuali, voyeurismo, pruderie, gang bang per brevità chiamate “body art” e propaganda fascista, con le sue “cartoline di bambini nudi che pisciano sulle sanzioni” internazionali comminate in seguito all’invasione dell’Etiopia.

I ragazzini sono i soggetti preferiti in pose da toilette, come lo spassosissimo Bacco di Guido Reni, che beve e insieme urina, o il tragicomico Ganimede di Rembrandt, “un grosso bebè che piange e piscia dal panico” mentre un’aquila lo rapisce. Tra gli adulti spiccano i personaggi della mitologia – vedi l’Ercole ebbro e urinante –, viceversa le pisciatrici sono poco gettonate: se “il XX secolo legittima la donna che piscia, privandola della carica eccitante”, di recente è tornata di moda la pornografia grazie ad artiste come Kiki Smith e Marlene Dumas.

L’immaginario del piscio si lega naturaliter alla sessualità, ma anche al lazzo infantile, alla satira libertina e al ridicolo: Charmante Gabrielle di un anonimo ottocentesco accosta, per dire, un amplesso campestre a due bambini accovacciati a far pipì; intanto, il Cupido di Lotto piscia addosso alla sua Venere, che accenna un sorriso malizioso. Non chiamatela però degenerata, questa è “arte scompisciata”.

La libreria muore (e il libro non si sente tanto bene)

Si legge sempre poco; il mercato ha nuovamente subito uno stop – i valori erano tornati a quelli del 2011, prima della crisi, ma nel 2018 hanno fatto registrare il segno meno –, gli e-book non hanno sfondato e il numero delle case editrici continua a crescere (e pure quello dei libri stampati, persino troppi per gli esigui destinatari). Se prendessimo i dati di vendita o gli articoli sui giornali usciti negli ultimi anni, forse non avremmo di che aggiornare il dibattito. C’è, invece, una sostanziale differenza: secondo le ultime cifre diffuse dall’Istat, relative al 2016, la differenza sta nelle librerie. Non quelle appartenenti alle grandi catene editoriali, ma quelle di quartiere, spesso punti di riferimento per un ampio bacino di abitanti.

L’Istat ha certificato che, tra il 2012 e il 2016, ad acquistare un volume in librerie o in cartolerie indipendenti è stato l’11% in meno della popolazione. Dato che, se al Nord-ovest scende al 7,9%, al Sud supera addirittura il 17. Non è un caso se, nel periodo preso in esame, molti esercizi – ben 2.038: si è passati dalle 17.314 del 2012 alle 15.276 del 2016 – hanno chiuso e se la forza lavoro è diminuita di 4.162 unità, pari al 12,5%. “Siamo certi – fa sapere Paolo Ambrosini, presidente dell’Associazione Librai che fa capo a Confcommercio – che questi numeri già di per sé impietosi non sono sufficientemente rappresentativi della sofferenza e delle difficoltà delle librerie e cartolibrerie italiane, che anno dopo anno hanno subito un’aggressione continua da parte di operatori che, agevolati da condizioni normative e di mercato, hanno messo a rischio di tenuta la prima infrastruttura di distribuzione del libro in Italia”.

Già poco dopo il suo insediamento, i librai avevano chiesto al ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, un impegno concreto per salvaguardare la filiera. Ma il ministro, che a suo tempo aveva ipotizzato un decreto legge urgente, interpellato dal Fatto adesso frena: “Rispetto il ruolo del Parlamento, che non deve trovarsi oberato di decreti. Però ho raccolto l’appello e mi sto muovendo: gli spunti venuti fuori dai tavoli congiunti che abbiamo finalmente realizzato (con editori, librai, distributori e persino piattaforme on line come Amazon, ndr) sono stati portati alla commissione Cultura della Camera, dove si discute la futura legge per il libro. Auspico la condivisione di linee guida comuni che possano portare a una rapida approvazione del disegno di legge. Sono fiducioso che ciò avverrà entro la fine del 2020”.

E nel frattempo? Il rapporto dell’Associazione italiana editori (Aie), diffuso poco prima di Natale e relativo al 2017, conferma che le librerie – tutte, quelle di catena e quelle a conduzione familiare – rappresentano sempre il principale canale di approvvigionamento di libri, con il 70,8% della quota, mentre gli store online (leggi soprattutto Amazon) valgono il 21,5% del mercato della “varia”. Se paragoniamo questi dati a quelli del 2007, in cui l’e-commerce di libri (esclusi gli e-book) valeva il 3,5% e le librerie il 79, capiamo che gli italiani sono sempre più orientati ad acquistare su Internet, come per gli altri oggetti “di consumo”. Qualcuno può dire: “È il progresso, bellezza!”. Ma siamo così sicuri che la graduale sparizione degli “intermediari” librai sia un processo ineludibile e un vantaggio per i lettori, almeno in termini di scontistica (dal momento che le “grandi” applicano promozioni che le “piccole” non si possono permettere)? “La distinzione tra grandi catene e indipendenti non regge molto – sostiene il presidente dell’Aie, Ricardo Franco Levi, che ha dato il suo nome proprio alla legge sul prezzo dei libri –. Se guarda i bilanci dei grandi gruppi, la parte relativa alla libreria non è quella più florida. Però è vero che, all’interno della legge, i due elementi che hanno funzionato meno sono i controlli e le promozioni. Noi editori siamo d’accordo sulla necessità di riportare ordine”. Secondo Levi, il problema è però più ampio. “Dopo due anni buoni, per il mercato del libro il 2018 si è chiuso con un -0,4%, in parallelo al rallentamento dell’economia generale. E, considerando che non si vedono segni di recupero a breve termine, siamo molto preoccupati”. Che fare, dunque? “Sul lungo periodo – prosegue – bisogna mettere in atto politiche di sostegno alla lettura, perché, se è vero che assistiamo a una contrazione del mercato in tutta Europa, restiamo tra gli ultimi quanto a numero di lettori. Sul breve termine, invece, si può incidere attraverso due elementi: il sostegno alla domanda, con il rinnovo – anche con formule diverse – dell’App18, che consente ai ragazzi di acquistare libri e cultura; e l’aiuto ai soggetti più fragili, piccoli librai e piccoli editori, che fino a poco fa potevano godere di uno sgravio delle imposte sul reddito e di quelle locali. L’ultima legge di Bilancio ha ridotto drasticamente – 1,5 milioni di euro – questo sostegno”.

Magna Charta a Vercelli per festeggiare Sant’Andrea

La storia sa essere davvero bizzarra. Proprio mentre tra Bruxelles e Londra va in scena l’ultima fase del controverso e livoroso divorzio, a Vercelli si celebra il legame indissolubile tra Regno Unito e il nostro Paese, fondatore dell’Unione europea. Da oggi fino al 9 giugno all’interno del museo Arca della cittadina piemontese sarà possibile vedere per la prima volta nella storia italiana una delle 4 copie originali della Magna Charta Libertatum redatta nel 1215. Arrivata direttamente dalla Cattedrale di Hereford, dove è custodita, tra misure di sicurezza eccezionali, la pergamena in mostra è la versione del 1217 che, rispetto al primo esemplare in assoluto sviluppa ulteriormente alcune “clausole” dedicate al riconoscimento universale dei diritti del popolo rispetto al sovrano, fino ad allora legibus solutus. Il motivo per cui è giunta a Vercelli è la celebrazione degli 800 anni della basilica di Sant’Andrea. La Carta e Sant’Andrea sono infatti legate dalla figura del cardinale Guala Bicchieri, nato a Vercelli nella seconda metà del XII secolo. Nominato nel 2015 legato pontificio in Inghilterra e Francia da papa Innocenzo III, grazie alla sua scaltrezza in ambito diplomatico, il cardinale contribuì a salvare la monarchia inglese, promuovendo la nascita di questo dirimente documento e cambiando le sorti della terra di Albione e dell’Europa. Innocenzo III inviò Biccheri a Londra e Parigi con l’obiettivo di cercare di dirimere una storica disputa tra Giovanni Senza Terra e il re di Francia. La mediazione ebbe successo e il cardinale come compenso ricevette in dono dal re d’Inghilterra l’abbazia di S. Andrea di Chesterton. Con il ricavo della vendita Guala Bicchieri fece costruire nel 1219 l’abbazia, poi divenuta basilica, di Sant’Andrea. Questo legame tra Italia e Regno Unito è ignorato dalla maggior parte dei britannici e dai nostri connazionali.

“A Danzica non hanno ucciso i diritti”

Con il “premio sulla libertà”, Critica Liberale, storica rivista del liberalismo progressista italiano ha deciso di onorare la memoria di Pawel Adamowicz, il sindaco di Danzica accoltellato a morte lo scorso gennaio.

Abbiamo incontrato Pawel Stepniewski, presidente dell’Istituto Montesquieu di Varsavia, think tank vicino al partito di Adamowicz, in occasione della due giorni a Roma dalla fondazione Critica Liberale per i 50 anni della rivista.

Signor Stepniewski, chi era Adamowicz?

Un uomo da sempre impegnato in politica a difesa delle differenze. Per la sua geografia e storia, Danzica è una città aperta. Da cattolico integrale quale era, Adamowicz ha voluto dare voce alla diversità, alle minoranze. Dove c’era una marcia per sostenere i diritti, per l’uguaglianza, per i diritti Lgbt, lui c’era.

Che cosa ha rappresentato per la Polonia la sua uccisione?

L’omicidio è avvenuto durante un grande evento di beneficenza che si tiene tradizionalmente dopo le feste di Natale in tutte le città. Il sindaco era lì per unire. Chi l’ha ucciso voleva solo dividere.

Si è detto l’opera di uno squilibrato…

È possibile, ma è anche vero che ha addotto una motivazione politica, dicendo di avercela con lui in quanto sindaco.

Crede che ci siano delle responsabilità del governo polacco sostenuto dal partito Diritto e Giustizia di Jaroslav Kaczynsky?

Anche mancasse un collegamento diretto con il gesto dell’attentatore, una cosa è certa: da quando è al governo, il Pis ha utilizzato un linguaggio carico di emotività, con un evidente scopo demagogico. Tutti quelli che gli si oppongono vengono definiti ‘traditori’, ‘tedeschi’, ‘agenti del comunismo’ o ‘servi di Putin’.

Come si sta organizzando l’opposizione in vista delle elezioni di maggio?

Unendosi nella Coalizione europea, un fronte unitario che va dai popolari ai socialisti ai liberali in nome della difesa dello Stato di Diritto. Da quando è al potere, il Pis ha demolito pezzo per pezzo le garanzie fondamentali della democrazia, che risiedono nella divisione di poteri, come insegna Montesquieu. Per concentrare il potere nelle sue mani, il Pis ha indebolito la magistratura, impadronendosi della Corte costituzionale.

Eppure, i valori liberal-democratici arrancano ovunque nel mondo, non solo in Polonia o nell’Ungheria di Orban. C’è speranza di invertire la rotta?

A quanto dicono i sondaggi, Coalizione europea è diventata competitiva con il partito di governo: segno che, almeno da noi, qualcosa sta cambiando.

“Il bodyguard di Macron è amico dell’ex Benalla”

La nuova guardia del corpo di Emmanuel Macron, Christian Guédon, non è altri che un amico di Alexandre Benalla, l’ex responsabile della sicurezza dell’Eliseo finito al centro di uno scandalo tentacolare e che dall’estate scorsa ha messo nei guai il presidente francese. È il giornale Mediapart che ieri ha pubblicato una lunga inchiesta sulla nuova “spalla” di Macron, il “garante della sua integrità fisica in tutti gli spostamenti”. Guédon è un ex gendarme che si era già occupato della sicurezza dell’ex candidato En marche durante la campagna per l’Eliseo.

Di lui si sa che è uno specialista “di tecniche di infrazione e infiltrazione” e di “apertura discreta delle serrature di case e veicoli”. Come ha fatto Guédon, che ha lasciato l’arma dal 2010 per riconvertirsi nella sicurezza privata, è riuscito a farsi assumere nel Gspr, il Gruppo di sicurezza della presidenza della Repubblica? È qui che ritroviamo il nome di Benalla, noto dallo scorso luglio quando Le Monde ha pubblicato un video che mostrava il giovane consigliere di Macron mentre picchiava una coppia di manifestanti il primo maggio, a Parigi. Quando lo scandalo è diventato insostenibile per l’Eliseo, Benalla è stato licenziato.

Da allora la giustizia ha aperto una collezione di inchieste contro di lui, non solo per violenze, ma anche, tra le altre cose, per l’uso illecito dei passaporti diplomatici dopo aver lasciato l’Eliseo. Proprio giovedì scorso la commissione senatoriale che da mesi lavora sulla vicenda ha deciso di rimettere l’intero fascicolo nelle mani della Procura, coinvolgendo anche altri stretti collaboratori di Macron. Una vera dichiarazione di guerra, per il governo. La stessa commissione ha concluso che Guédon per entrare nella cerchia ristretta dei fidati di Macron, era stato “raccomandato” da Benalla e che il reclutamento “non è stato fatto nel rispetto delle regole”. Guédon ha poi “stretto una relazione particolare con il presidente. Spesso – scrive Mediapart – i due uomini si dedicano al pugilato nel sottosuolo dell’Eliseo”. Guédon ha poi “continuato ad avere contatti con Benalla anche dopo la sua partenza dall’Eliseo. È stato un punto di contatto tra Benalla e l’Eliseo. Fino a che data? Impossibile saperlo”. Si sa però che Guédon e Benalla hanno incontrato “un intermediario siriano di dubbia reputazione”, l’uomo d’affari Mohamad Izzat Khatab, residente da anni a Parigi, che sarebbe tenuto d’occhio dall’unità anti-frode del ministero delle Finanze. L’incontro si è tenuto nell’agosto 2018. “Guédon ha agito in coordinazione con l’Eliseo o di iniziativa personale?”, si chiede Mediapart. La risposta non c’è. Comunque un altro tassello si è aggiunto al già intricato puzzle del Benallagate che continua a inguaiare Macron, in un momento già molto difficile. Oggi un nuovo sabato “giallo” è atteso a Parigi: “Il posto dei blak blok è in prigione, non sugli Champs Elysées”, ha detto il nuovo prefetto di Parigi, Didier Lellement. Il suo predecessore, Michel Delpuech, è stato fatto fuori dopo i saccheggi di una settimana fa. Per il governo, che ha dato una stretta al dispositivo di sicurezza per evitare nuove scene di guerriglia, oggi è una giornata test.

Le manifestazioni sono vietate sull’avenue parigina. Ma ad aspettare i casseurs ci sono anche i militari dell’operazione Sentinelle, nata nel 2015 dopo gli attentati. I soldati sono messi a protezione degli edifici ufficiali e dei luoghi a rischio per lasciare maggiore libertà di movimento ai poliziotti. Ma la loro mobilitazione ha sollevato diverse critiche. I primi a dubitare sono gli stessi militari, armati di fucili e non di manganelli. Uno di loro, restando anonimo, ha detto a France Info che, se dovessero essere attaccati dai casseurs, “si rischiano morti”. Il generale Bruno Leray ha spiegato che i militari “potranno aprire il fuoco se la loro vita è minacciata”. Affermazioni che fanno paura. Ieri Macron è dovuto intervenire da Bruxelles per tentare di ristabilire un po’ di calma: “In nessun caso l’esercito è incaricato di mantenere l’ordine pubblico nel nostro paese. È un falso dibattito. Chi gioca a farsi paura o a far paura, ha torto”.

Sprint di Bibi sul Golan siriano

Il tweet del presidente degli Stati Uniti Donald Trump con la sua intenzione di riconoscere la sovranità israeliana sulle Alture del Golan riflette le nuove regole del gioco in Medio Oriente. E contemporaneamente ha buttato nel cestino 52 anni di diplomazia americana. L’annuncio di Trump è arrivato dopo le persistenti pressioni di Netanyahu, il suo più stretto alleato politico, che sta combattendo per la sua sopravvivenza politica nelle elezioni programmate per il 9 aprile e che invoca la sua amicizia con il presidente americano come primo argomento per rimanere in carica.

La mossa del presidente americano, benché popolare in Israele e tra alcuni legislatori al Congresso Usa, suscita le ansie dell’Unione Europea e per il Cremlino potrebbe avere effetti devastanti e “destabilizzare” tutta la regione mediorientale. Per le Nazioni Unite resta un territorio occupato dal 1967, da quando le truppe israeliane conquistarono queste 400 miglia quadrate di altopiani rocciosi dalla Siria durante la guerra arabo-israeliana. Lo Stato di Israele decise poi nel 1981 di annettere unilateralmente queste colline, una decisione che non venne mai riconosciuta internazionalmente. L’annuncio di Trump è destinato a ripercuotersi anche nelle capitali arabe e minare la sua tanto attesa proposta di pace per Israele e i palestinesi. La Casa Bianca ha ottenuto il sostegno per quel piano tra i leader mediorientali che adesso però devono accettare la perdita di territori a lungo rivendicati come arabi.

Nell’Era di Trump le vecchie convenzioni che hanno guidato i precedenti presidenti degli Stati Uniti appartengono alla spazzatura, ciò che conta è sfuggire all’ortodossia diplomatica, dare l’immagine di forza e determinazione per vincere. E il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che guadagna il massimo da questa mossa, è nella squadra del vincitore.

La mossa americana nell’immediato, non ha ripercussioni pratiche legate alla sicurezza e non si prevede che cambi il modello di attività delle forze Onu nel Golan, che solo di recente è tornato ai suoi posti di osservazione sul lato siriano del confine ora che l’esercito di Assad regime ha finito di bonificare l’area dalle bande di ribelli filo-Isis. Nella zona adesso potrebbero adesso insediarsi pericolosamente le milizie iraniane della Forza Al Quds e gli Hezbollah libanesi, nonostante le promesse della Russia di tenerli lontano dal confine con Israele.

La tempistica della dichiarazione di Trump consente a Netanyahu di enfatizzare il feeling con la Casa Bianca, sfruttando un significativo vantaggio sui suoi avversari politici nel voto del 9 aprile. Trump rafforzerà poi il gesto nella dichiarazione congiunta alla stampa che terranno quando Netanyahu visiterà Washington la settimana prossima, un viaggio durante il quale il primo ministro parlerà alla conferenza annuale dell’Aipac, la potente lobby israeliana negli Usa.

Il presidente americano è completamente in linea con i temi del Likud, il partito del premier Netanyahu, dal ritiro dall’accordo nucleare con l’Iran, alla decisione di trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti in Israele a Gerusalemme, e ora, il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan. Questo soddisfa i sogni della destra israeliana, specialmente dopo anni di reciproca ostilità tra il premier e l’ex presidente Barack Obama. Questi segnali vengono letti anche dalla destra israeliana come incoraggiamento verso l’annessione della Cisgiordania – un passo molto più pericoloso che minaccerebbe il carattere ebraico e democratico dello Stato –. C’è una grande differenza tra i due territori, entrambi sotto il controllo israeliano nella guerra del 1967. Le alture del Golan scarsamente popolate, strappate alla Siria e annesse da Israele nel 1981 a dispetto delle critiche internazionali, venivano usate dalla Siria per bombardare la regione israeliana della Galilea.

La Cisgiordania, invece è densamente popolata e il suo futuro è il problema più complesso del conflitto israelo-palestinese dal 1967. La sua annessione cancellerebbe ogni possibilità per uno Stato palestinese e rischierebbe di infiammare l’intero Medio Oriente. Porterebbe al collasso del coordinamento della sicurezza tra Israele e l’Autorità palestinese e probabilmente causerebbe il crollo dell’Anp, costringendo Israele a prendere in carico l’intera zona. Israele dovrebbe quindi concedere la cittadinanza ai 2,5 milioni di palestinesi che vivono lì, arrivando però poi a un drammatico bivio esistenziale: o cessare di essere uno Stato ebraico o distruggere la sua democrazia negando l’uguaglianza nei diritti ai palestinesi.

La strana vendita che ha scatenato l’ira di Della Valle

Gianluca Mancini è una bozza di campione. Classe ’96, toscano di Pontedera, difensore robusto, molto alto, è un metro e novanta, marcature grintose, stacco di testa, già sei reti in trentadue presenze in Serie A. S’ispira a Marco Materazzi. In onore di “Matrix”, all’Atalanta indossa la maglia numero 23. Roberto, l’altro Mancini, l’ha convocato in Nazionale. La Roma l’ha prenotato per il prossimo campionato, per una cifra che oscilla tra i 20 e i 25 milioni di euro. Sul retropalco, lì dove la retorica del pallone non attecchisce, Gianluca è protagonista involontario di un contenzioso tra Fiorentina, Atalanta e Perugia. Il club della famiglia Della Valle, che l’ha allevato nelle giovanili, ha incassato soltanto 100.000 euro nel 2017 dal cartellino di Mancini. Gianluca era di proprietà del Perugia, ma la Viola vantava il diritto al cinquanta per cento dei ricavi dalla cessione del calciatore. Massimiliano Santopadre, il patron del Grifo, per l’appunto nel gennaio 2017, gira Mancini all’Atalanta per 200.000 euro e, dopo un paio di settimane, pure il figlio Alessandro, un portiere ancora non sbocciato, per un milione. “Vendita simulata: i soldi veri per Mancini caricati sul prezzo di Santopadre”, così la Fiorentina denuncia Perugia e Atalanta in Figc. Respinti dai tribunali sportivi della sezione disciplinare, adesso i Viola aspettano il secondo grado della sezione vertenze economiche e preparano il ricorso al Tar del Lazio. I Della Valle pretendono un risarcimento di 425.000 euro.

Il caso di Mancini, a sua insaputa, è la summa dei difetti del calcio d’Italia: regole troppo fragili, autorità federali inermi, faide tra club per sopravvivere, sete di plusvalenze per aggiustare i bilanci. Allora tocca raccontare la vicenda dal 12 gennaio 2017, in quel periodo d’inverno che le società sfruttano per rimediare agli errori estivi e dunque chiamano mercato di riparazione. Mancini è al secondo campionato al Perugia, in Serie B. Dopo una stagione in prestito e la solita scarsa pazienza con i ragazzi, la Fiorentina regala Gianluca agli umbri con la garanzia del cinquanta per cento in futuro. Gli osservatori dell’Atalanta tampinano da tempo il difensore col 23 sulle spalle e firmano un affare: 200.000 euro, la metà va ai Viola, e 300.000 di eventuali bonus. Il 23 gennaio, mentre sta per chiudere la finestra del mercato invernale, l’Atalanta ha urgenza di acquistare un portiere. E l’occasione, coincidenza, s’affaccia da Perugia: Alessandro Santopadre (’98), una trentina di partite in Primavera, viene prelevato per un milione di euro e subito rientra in prestito in Umbria, dove completa la stagione 2016/17 e anche la 2017/18 senza mai scendere in campo, tranne una decina di amichevoli.

Più esilaranti le dichiarazioni dei vertici di Atalanta e Perugia e dei calciatori Mancini e Santopadre interrogati dalla Procura della Figc. Luca Percassi, figlio del patron e amministratore delegato dell’Atalanta, afferma che non si occupa di mercato e che ha conosciuto quasi per caso il collega Santopadre. Giovanni Sartori, direttore sportivo dei bergamaschi, sostiene che il prezzo di Santopadre figlio è congruo e che c’era una carenza di portieri. Però non l’hanno mai utilizzato. Il difensore Mancini non commenta, spiega che s’era interessato all’ingaggio, passato da 60.000 a 160.000 euro.

Il portiere Santopadre riferisce che la trattativa con l’Atalanta l’ha seguita il padre Massimiliano e che ha accettato di buon grado uno stipendio di 14.000 euro all’anno, minimo federale per un calciatore professionista, anche se il suo cartellino è stato pagato un milione.

Il compenso al Perugia, cioè dal padre, era un rimborso mensile di circa 500 euro. Il presidente Santopadre ribadisce che il figlio ha “ottime potenzialità”. Oggi Alessandro, sempre in prestito dall’Atalanta, gioca per la Paganese (14 gare), squadra ultima in classifica nel girone meridionale della Terza serie.

Il procuratore federale Pecoraro ha deferito l’Atalanta e il Perugia, ma i giudici sportivi hanno negato la condanna perché, nonostante periti, contratti e precedenti, “non esistono criteri oggettivi e imparziali per una valutazione di mercato dei calciatori”. Ognuno li paga come gli pare e ognuno s’accorda con chi gli pare. E il calcio, forse un po’ sconsolato, di sicuro più insalubre, procede a passo svelto verso il precipizio con 4 miliardi di euro di debiti e 749 milioni di plusvalenze non proprio solide nei bilanci.

L’architetto Marenco e l’intelligenza di far ridere

Per Renzo Arbore, uno che se ne intende, non ci sono dubbi: Mario Marenco era il più bravo di tutti e l’ha dimostrato fino all’ultimo, andandosene alla chetichella nell’ultima domenica d’inverno, l’altra domenica. È stato un arborigeno della prima ora, imprinting radiofonico con Alto Gradimento, personaggi-tormentoni a raffica, e poi presenza fissa televisiva: mister Ramengo, il professor Artistogitone, il bambino Riccardino, Pasquale Zambuto-ato-ito-uto…

Cambiava il nome, ma in tutti c’è la stessa aria di famiglia, lo stesso gusto per l’assurdo, la stessa purezza situazionista. Lo stesso stile. Era anche un bravo designer e architetto, Mario Marenco, e questo rincarava la dose; già è difficile che gli architetti facciano ridere (almeno volontariamente), lui invece riusciva a stare in equilibrio tra il surreale e il nulla, sfidando i principi della statica col sorriso sulle labbra. Ci sono umoristi di cui ricordiamo le battute, altri di cui ricordiamo le intemerate, di altri ancora ricordiamo il trasformismo. Mario Marenco non cambiava mai, qualunque fosse il suo personaggio. Era il personaggio a entrare dentro di lui. E non cambiava mai il suo sorriso, anch’esso in equilibrio tra l’estatico, il diabolico e l’ebete. Un mite sfottò agli antipodi dai nostri tempi sovreccitati, che ce lo rende più lontano, e più vicino. La sua libidine (direbbe Jerry Calà) era risultare un perfetto idiot savant, nascondere quel che tutti si affannano a mettere in vetrina. L’intelligenza.

Michael Jackson non era nessuno

A dieci anni dalla morte, il nome di Michael Jackson ritorna sulle prime pagine a causa del documentario Leaving Neverland, trasmesso in questi giorni anche sulla televisione italiana e prodotto da HBO.

Il docufilm vede Wade Robson e Jimmy Safechuck, due dei numerosi bambini che dagli anni 80 seguivano Jackson in tournée e che spesso dormivano con lui, accusare il cantante di molestie e violenze sessuali.

Quando vivevo negli Stati Uniti, pur trascurando le pagine intitolate Celebrities, facevo eccezione per Michael Jackson, colpito dalla dimensione tragica che scorreva sotto le sue vicende. Leggevo anche il New York Times e il Washington Post dove il dibattito americano (e questo è rilevante perché MJ era mito americano, poi sottoposto a globalizzazione) verteva molto sulla vita privata di MJ, che, come molti ricorderanno, è stato processato per pedofilia ma non condannato.

Anche se è stato assolto, le accuse hanno continuato ad accumularsi e l’opinione pubblica a dibatterne. Nell’immaginario collettivo, la confusione resta quando un individuo diventa un simbolo pubblico che ognuno continua a usare, in buona parte, per soddisfare bisogni privati. Anche MJ si è fatto simbolo collettivo. A questo simbolo appartiene una negazione della distinzione etnica, razziale e persino dermatologica (ha dichiarato che voleva la pelle più chiara possibile) dell’identità.

Dopo aver dato vita a nuova musica, era diventato la negazione di una identità: che è necessaria alla vita psichica come il corpo è indispensabile alla vita fisica. Pur essendo il prototipo del diventare qualcuno, MJ era diventato la negazione dell’essere qualcuno.

Bambino precocemente adulto e famoso, da adulto voleva apparire – voleva apparire per essere – di nuovo bambino. Fortemente segnato dall’essere nero, aveva poi – in ogni senso – cambiato pelle, divenendo sempre più chiaro: non era più né nero né bianco.

Ipersessualizzato, come gran parte dei bambini abusati, come molti dei bambini manipolati dai loro genitori per diventare il loro riscatto sociale e la loro protesi, aveva finito col non avere più una identità sessuale. Aveva lasciato in dubbio tutti, e sicuramente anche se stesso: era etero o omosessuale? Troppo semplice rispondere: era bisessuale. La bisessualità è presenza di due identità sessuali. Ma MJ ne era, ancora una volta, la negazione.

Paradossalmente, le accuse di pedofilia gli avevano quasi restituito una definizione: incapace di crescere, cercava, simbolicamente e letteralmente, di amare: e di ri-possedere quel bambino che, almeno brevemente, era stato la sua unica identità.

In occasione della sua morte, l’International Herald Tribune gli dedicò gran parte della prima pagina, più che a un presidente degli Usa. Ed è comprensibile. La mancanza di identità è la nuova identità del nuovo secolo: ed è una prova di verità che tutti, e soprattutto i giovani, riconoscano in lui una parte di se stessi.

MJ è un emblema dei tempi? Certo. La mancanza di relazione col tempo, la mancanza del tempo, è un segno del tempo. MJ non era vecchio né giovane e non era qui né là. Tanto che aveva chiamato Neverland (il paese di Peter Pan, prototipo del bambino che non cresce) la sua residenza ufficiale (letteralmente: luogo-mai). MJ era la negazione della identità, ma era anche l’identità data dalla negazione. In questo senso, MJ non è mai esistito. Quindi non potrà mai morire.

In questo intreccio è possibile isolare patologie strettamente fisiche di chi ha sofferto? L’ansia si somatizza: e la pelle è proprio la parte del corpo che più manifesta i disturbi psicosomatici. I mali del corpo inevitabilmente incidono sulla identità. Ma i problemi d’identità affliggono il corpo: si giunge così a un circolo vizioso, non a un uovo o gallina di cui si conosca l’origine. Mi sembrerebbe significativo riflettere, più che sugli aspetti di patologia individuale, su quelli di patologia collettiva di cui inconsapevolmente il personaggio-simbolo può farsi portatore.

Traducendo in altre parole Freud e Jung, nessuna epoca è povera di miti. Ma certe epoche sono, più di altre, povere di consapevolezza. Così, vivono i propri miti inconsciamente, in forma patologica. La psicoanalisi, però, si occupa oggi poco di questi aspetti.

Nel corso del XX secolo, fra i personaggi-simbolo i signori delle lettere hanno ceduto il posto ai signori del suono (poi, con Tv e computer, del suono abbinato a un’immagine). Negli anni 30 Joseph Roth scrive a Stefan Zweig che la loro battaglia di scrittori è perduta: pur essendo autori di successo, li leggono quattro gatti rispetto a 40 milioni che ormai ascoltano alla radio i discorsi di Göbbels. Intorno a metà secolo, in Egitto le radio sono ancora pochissime e le Tv nessuna: eppure, Umm Kulthum è non la cantante, ma la persona più nota di tutto il mondo arabo. Al suo funerale, malgrado le mancanze di trasporti, partecipano al Cairo 4 milioni di persone (i funerali di MJ sono stati seguiti in tv da 31 milioni di americani).

La tecnica aiuta a capire questo spostamento, ma da sola non lo spiega. Una ragione può stare nella eccezionalità dell’organo sensoriale-orecchio (che, notava Adorno, non si può chiudere).

Tornando a MJ, qualche commentatore ha parlato di occasione mancata, legata alla sua immensa fama e potenziale influenza. Anziché agli assertori dei diritti civili degli afro-americani, MJ, con la negazione della propria identità, può aver fornito aiuto a chi nega che esista il razzismo.

I personaggi simbolo hanno oneri commisurati agli onori. Cercando di sottrarsi all’impegno si scivola nel peccato di omissione: e, se il regime dominante è ingiusto, si può essere accusati di colludere con esso. Amalia Rodriguez, la più nota cantante di fado di tutti i tempi, fu criticata come complice della dittatura di Salazar. MJ è stato uno strumento acritico di una dittatura del mercato senza valori?

Più antico e universale ancora dei comandamenti ebraico-cristiani è quello di Eschilo (Agamennone): gli uomini sono ingiusti quando preferiscono l’apparire all’essere. Un dilemma morale che schiaccia ogni personaggio pubblico. E che esser solo schivi non è la soluzione: se si fosse dato retta al temperamento riservato di Kafka, i suoi scritti non sarebbero mai stati pubblicati. Ma nella immagine pubblica di MJ l’affermazione dell’apparenza si combina con una sconcertante negazione di quel baricentro dell’essere che chiamiamo identità. Sentire in questo una antinomia tragica può provocare interesse e com-passione (a differenza dell’antitragico primato dell’apparire sull’essere che avvertiamo nella politica italiana). Non può, però, assolvere dalla responsabilità di una epocale occasione smarrita in un Neverland.

Quando l’Authority rischia di perdere tutta la sua autorità

“Il fatto è che i magistrati, spesso con la complicità del Parlamento (…), sono riusciti a disegnare per se stessi un meccanismo di carriera unico al mondo”

(da Magistrati – L’ultracasta di Stefano Livadiotti – Bompiani, 2009 – pag. 47)

Non è normale che un’Autorità di garanzia sia acefala, senza guida, da tre mesi. E anzi, nel caso dell’Antitrust, la vacatio della presidenza dura dall’ottobre scorso, quando Giovanni Pitruzzella si dimise per trasferirsi alla Corte di Giustizia europea. Ma comunque il suo successore, nominato il 20 dicembre 2018 dai presidenti delle due Camere, non s’è ancora insediato. La situazione appare tanto più anomala per il fatto che il collegio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ridotto a tre componenti nel 2011 dall’improvvida riforma del governo Monti, in mancanza del presidente si riduce a due membri e in caso di parità decide da solo quello più anziano. E allora l’Antitrust diventa in pratica un organo monocratico.

Da che cosa dipende questa anomalia? Dipende dal fatto che il neo presidente Roberto Rustichelli è un magistrato ordinario del Tribunale di Napoli. E prima di assumere il nuovo incarico, per il periodo previsto di sette anni, vuole accertarsi che la sua carriera pensionistica non s’interrompa. Per cui ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura di essere collocato “fuori ruolo” per tutta la durata del mandato. Il Csm s’è già riunito un paio di volte per prendere una decisione, ma nell’ultima seduta di mercoledì scorso ha rinviato tutto a data da destinarsi.

Perché l’organo di autogoverno della magistratura non ha dato ancora una risposta a Rustichelli? Perché i magistrati possono andare “fuori ruolo” al massimo per dieci anni mantenendo la continuità del trattamento pensionistico e l’interessato li ha già “consumati” in altri incarichi precedenti. E poi perché il mandato di presidente dell’Antitrust non è né elettivo né di rango costituzionale, ciò che consentirebbe invece una proroga. Da qui, una divisione fra le correnti del Csm, di cui il Fatto Quotidiano ha riferito nelle ultime settimane, che ha prodotto questo stallo. Per completare il quadro, bisogna aggiungere che il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, s’è trovato in un’analoga situazione e ha dovuto mettersi “fuori ruolo”, avendo ancora la possibilità temporale di farlo. E all’interno della stessa Autorità Antitrust, Gabriella Muscolo s’è regolarmente dimessa dalla magistratura per entrare a far parte del collegio di presidenza.

Fin qui, in sintesi, lo stato dei fatti. Alla luce dei quali si può ben dire che questa situazione non è normale e, anzi, è diventata assurda e insostenibile, minacciando di far perdere autorità all’Authority che vigila sul mercato e sulla concorrenza. Qualsiasi decisione che questa assuma in tale condizioni, ancorché legittima sotto l’aspetto formale, rischia di essere inficiata dalla vacatio del presidente, coinvolgendo rilevanti interessi di natura economica, commerciale e sociale.

Sono stati i presidenti delle due Camere, Maria Elisabetta Casellati e Roberto Fico, a nominare Rustichelli in forza della legge e in base alla valutazione del suo curriculum. Con tutto il rispetto, forse avrebbero fatto meglio a verificarne prima la disponibilità e la compatibilità. Ma tant’è.

Ora spetta a loro sciogliere il nodo, sollecitando l’interessato a fare una scelta definitiva oppure procedendo a un’altra nomina. Il mercato e la concorrenza, cioè il mondo dei produttori e il popolo dei consumatori, non possono attendere oltre che il Csm tolga le castagne dal fuoco ai vertici del Parlamento.