A dieci anni dalla morte, il nome di Michael Jackson ritorna sulle prime pagine a causa del documentario Leaving Neverland, trasmesso in questi giorni anche sulla televisione italiana e prodotto da HBO.
Il docufilm vede Wade Robson e Jimmy Safechuck, due dei numerosi bambini che dagli anni 80 seguivano Jackson in tournée e che spesso dormivano con lui, accusare il cantante di molestie e violenze sessuali.
Quando vivevo negli Stati Uniti, pur trascurando le pagine intitolate Celebrities, facevo eccezione per Michael Jackson, colpito dalla dimensione tragica che scorreva sotto le sue vicende. Leggevo anche il New York Times e il Washington Post dove il dibattito americano (e questo è rilevante perché MJ era mito americano, poi sottoposto a globalizzazione) verteva molto sulla vita privata di MJ, che, come molti ricorderanno, è stato processato per pedofilia ma non condannato.
Anche se è stato assolto, le accuse hanno continuato ad accumularsi e l’opinione pubblica a dibatterne. Nell’immaginario collettivo, la confusione resta quando un individuo diventa un simbolo pubblico che ognuno continua a usare, in buona parte, per soddisfare bisogni privati. Anche MJ si è fatto simbolo collettivo. A questo simbolo appartiene una negazione della distinzione etnica, razziale e persino dermatologica (ha dichiarato che voleva la pelle più chiara possibile) dell’identità.
Dopo aver dato vita a nuova musica, era diventato la negazione di una identità: che è necessaria alla vita psichica come il corpo è indispensabile alla vita fisica. Pur essendo il prototipo del diventare qualcuno, MJ era diventato la negazione dell’essere qualcuno.
Bambino precocemente adulto e famoso, da adulto voleva apparire – voleva apparire per essere – di nuovo bambino. Fortemente segnato dall’essere nero, aveva poi – in ogni senso – cambiato pelle, divenendo sempre più chiaro: non era più né nero né bianco.
Ipersessualizzato, come gran parte dei bambini abusati, come molti dei bambini manipolati dai loro genitori per diventare il loro riscatto sociale e la loro protesi, aveva finito col non avere più una identità sessuale. Aveva lasciato in dubbio tutti, e sicuramente anche se stesso: era etero o omosessuale? Troppo semplice rispondere: era bisessuale. La bisessualità è presenza di due identità sessuali. Ma MJ ne era, ancora una volta, la negazione.
Paradossalmente, le accuse di pedofilia gli avevano quasi restituito una definizione: incapace di crescere, cercava, simbolicamente e letteralmente, di amare: e di ri-possedere quel bambino che, almeno brevemente, era stato la sua unica identità.
In occasione della sua morte, l’International Herald Tribune gli dedicò gran parte della prima pagina, più che a un presidente degli Usa. Ed è comprensibile. La mancanza di identità è la nuova identità del nuovo secolo: ed è una prova di verità che tutti, e soprattutto i giovani, riconoscano in lui una parte di se stessi.
MJ è un emblema dei tempi? Certo. La mancanza di relazione col tempo, la mancanza del tempo, è un segno del tempo. MJ non era vecchio né giovane e non era qui né là. Tanto che aveva chiamato Neverland (il paese di Peter Pan, prototipo del bambino che non cresce) la sua residenza ufficiale (letteralmente: luogo-mai). MJ era la negazione della identità, ma era anche l’identità data dalla negazione. In questo senso, MJ non è mai esistito. Quindi non potrà mai morire.
In questo intreccio è possibile isolare patologie strettamente fisiche di chi ha sofferto? L’ansia si somatizza: e la pelle è proprio la parte del corpo che più manifesta i disturbi psicosomatici. I mali del corpo inevitabilmente incidono sulla identità. Ma i problemi d’identità affliggono il corpo: si giunge così a un circolo vizioso, non a un uovo o gallina di cui si conosca l’origine. Mi sembrerebbe significativo riflettere, più che sugli aspetti di patologia individuale, su quelli di patologia collettiva di cui inconsapevolmente il personaggio-simbolo può farsi portatore.
Traducendo in altre parole Freud e Jung, nessuna epoca è povera di miti. Ma certe epoche sono, più di altre, povere di consapevolezza. Così, vivono i propri miti inconsciamente, in forma patologica. La psicoanalisi, però, si occupa oggi poco di questi aspetti.
Nel corso del XX secolo, fra i personaggi-simbolo i signori delle lettere hanno ceduto il posto ai signori del suono (poi, con Tv e computer, del suono abbinato a un’immagine). Negli anni 30 Joseph Roth scrive a Stefan Zweig che la loro battaglia di scrittori è perduta: pur essendo autori di successo, li leggono quattro gatti rispetto a 40 milioni che ormai ascoltano alla radio i discorsi di Göbbels. Intorno a metà secolo, in Egitto le radio sono ancora pochissime e le Tv nessuna: eppure, Umm Kulthum è non la cantante, ma la persona più nota di tutto il mondo arabo. Al suo funerale, malgrado le mancanze di trasporti, partecipano al Cairo 4 milioni di persone (i funerali di MJ sono stati seguiti in tv da 31 milioni di americani).
La tecnica aiuta a capire questo spostamento, ma da sola non lo spiega. Una ragione può stare nella eccezionalità dell’organo sensoriale-orecchio (che, notava Adorno, non si può chiudere).
Tornando a MJ, qualche commentatore ha parlato di occasione mancata, legata alla sua immensa fama e potenziale influenza. Anziché agli assertori dei diritti civili degli afro-americani, MJ, con la negazione della propria identità, può aver fornito aiuto a chi nega che esista il razzismo.
I personaggi simbolo hanno oneri commisurati agli onori. Cercando di sottrarsi all’impegno si scivola nel peccato di omissione: e, se il regime dominante è ingiusto, si può essere accusati di colludere con esso. Amalia Rodriguez, la più nota cantante di fado di tutti i tempi, fu criticata come complice della dittatura di Salazar. MJ è stato uno strumento acritico di una dittatura del mercato senza valori?
Più antico e universale ancora dei comandamenti ebraico-cristiani è quello di Eschilo (Agamennone): gli uomini sono ingiusti quando preferiscono l’apparire all’essere. Un dilemma morale che schiaccia ogni personaggio pubblico. E che esser solo schivi non è la soluzione: se si fosse dato retta al temperamento riservato di Kafka, i suoi scritti non sarebbero mai stati pubblicati. Ma nella immagine pubblica di MJ l’affermazione dell’apparenza si combina con una sconcertante negazione di quel baricentro dell’essere che chiamiamo identità. Sentire in questo una antinomia tragica può provocare interesse e com-passione (a differenza dell’antitragico primato dell’apparire sull’essere che avvertiamo nella politica italiana). Non può, però, assolvere dalla responsabilità di una epocale occasione smarrita in un Neverland.