Fallisce la coop, in fumo 4 milioni di risparmi

“Sono passati quasi cinque anni da quando abbiamo perso i nostri risparmi, ma ancora oggi nessuno di noi è stato risarcito”. Il tempo che è passato non ha placato la rabbia delle circa cento famiglie romane che, nei decenni scorsi, avevano prestato i soldi alla Cooperativa deposito locomotive San Lorenzo.

Si erano affidate a questo ente mutualistico per sostenere la sua attività di costruzione di abitazioni da offrire a prezzi vantaggiosi ai soci. Tipica esperienza di quel mondo cooperativo che ha riunito gli operai dopo la Seconda guerra mondiale, in particolare quelli che si riconoscevano nei valori allora incarnati dai partiti comunista e socialista. Questa storia, però, nel 2014, è finita molto male con la coop messa in liquidazione e i risparmi di queste persone, circa quattro milioni di euro, sono spariti. Non proprio un fulmine a ciel sereno, poiché il sostanziale dissesto dei conti era noto a molti di loro.

Tuttavia gli amministratori della cooperativa avevano in più di un’occasione dato rassicurazioni sulla capacità di rimborsare i prestiti sociali. Il 28 luglio 2014, per esempio, si era tenuta l’assemblea per l’approvazione del bilancio 2013. “Io ero presente – racconta uno dei soci –. Ci proposero una liquidazione volontaria per risarcire i soci con il ricavato. Ci dissero che i soci prenotatari (quelli che avevano prenotato un alloggio in costruzione, ndr) sarebbero stati fatti confluire in qualche altra coop mentre i soci prestatori (quelli che avevano solo prestato denaro in cambio di interessi, ndr) sarebbero stati risarciti con le vendite dei beni della coop”. Pochi mesi dopo, però, il liquidatore ha proposto di procedere con la liquidazione coatta alla quale la Deposito locomotive San Lorenzo è stata ammessa a inizio 2015.

Lo stato passivo era cresciuto fino a 18 milioni, sfumate le speranze di ottenere indietro le somme. Il 19 luglio 2016 il Tribunale di Roma ha dichiarato l’insolvenza della coop. Nel frattempo, è emerso anche che la cooperativa era finita nel 2013 nel mirino di Salvatore Buzzi (condannato a 18 anni e quattro mesi nell’ambito di Mafia Capitale), il quale ne aveva avvertito lo stato comatoso e fiutato l’affare, poi sfumato.

I soci azzerati proseguono la battaglia. Puntano il dito contro la Lega coop, cui la Deposito locomotive San Lorenzo aderiva. “Nessun organo di vigilanza si è mai accorto delle attività illecite”, dicono. La Lega Coop ha risposto sostenendo di non svolgere “attività di controllo o revisione del bilancio, attività deputate agli organi gestionali e di revisione contabile della cooperativa stessa”.

Diverse famiglie, dopo aver perso i propri risparmi, stanno facendo i conti con difficoltà economiche. Ci sono operai che avevano destinato alla coop il proprio trattamento di fine rapporto, nuclei che hanno visto sparire 100 mila euro. Tengono però a precisare che non chiedono un ristoro di tipo assistenziale, ma un risarcimento del danno da parte dei responsabili di questa situazione sulla quale sperano che la Procura di Roma faccia chiarezza. “Permanendo il comportamento di rifiuto della Lega delle Cooperative e l’indifferenza del Ministero – avvertono – i procederemo con l’azione civile”.

“In Libia niente porti sicuri”: ora il sistema-Salvini vacilla

Alle sei del pomeriggio Luca Casarini esce dalla caserma della Finanza con una doppia accusa: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e disobbedienza a un ordine impartito da una nave militare. È indagato in concorso con Pietro Marrone, il comandante del rimorchiatore Mare Jonio, messo in mare dalla Ong Mediterranea, che il 19 marzo ha soccorso 50 migranti in mare in acque libiche. E non è affatto detto che per il ministro dell’Interno Matteo Salvini, come per il suo predecessore Marco Minniti, questa iscrizione rappresenti una buona notizia. Anzi. Al di là del soccorso – che fonti investigative hanno definito non soltanto “corretto” ma anche “meritorio” – Mediterranea sta raggiungendo un secondo scopo che, sotto il profilo giuridico, potrebbe risultare ulteriormente incisivo: minare dalle fondamenta l’obbligo di “restituire” ai libici i naufraghi salvati nelle loro acque.

Una partita inedita, in grado di disinnescare la politica del governo italiano, dove sostiene che la Libia può fornire un porto sicuro, e mandare in aria gli investimenti (anche economici) fatti dal governo precedente, con Minniti al Viminale, per consentire ai libici di ottenere la gestione di un’area di soccorso in mare.

Per capirlo bisogna partire proprio dall’iscrizione di Casarini nel registro degli indagati. La frase chiave per comprendere l’addebito del reato, in estrema sintesi, è questa: “Ho condiviso in modo operativo tutti gli ordini del comandante”. Nel momento in cui Casarini si è addebitato il concorso nella condotta incriminata, l’iscrizione è scattata automaticamente. In qualità di capo missione, però, Casarini è in condizioni di motivare le sue scelte sotto il profilo ideologico. I titolari del fascicolo – procuratore aggiunto Salvatore Vella e la pm Cecilia Baravelli – hanno chiesto se la motovedetta libica, che ha raggiunto la Mare Jonio quando aveva già tratto in salvo i 50 migranti, abbia dato all’equipaggio italiano l’indicazione di un porto sicuro. Risposta negativa. Quindi ha chiesto a Casarini se la Mare Jonio abbia chiesto ai libici di indicare un porto sicuro. “Non l’abbiamo chiesto – risponde Casarini – e se anche l’avessero indicato non avrei mai acconsentito allo sbarco dei migranti in Libia. Per me – ha aggiunto – il reato sarebbe stato quello di consegnarli a loro. La Libia non ha alcun porto sicuro per quanto ci riguarda”. La Procura di Agrigento vuol far luce innanzitutto su questo punto: la Libia ha un porto sicuro?

È legittimo rifiutarsi di consegnare i migranti salvati ai libici? O comporta l’inizio di una condotta illegale che sfocia nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina? Se la Procura guidata da Luigi Patronaggio dovesse stabilire che la Libia non ha un porto sicuro, questa tesi creerebbe un precedente giuridico del quale si dovrà tener conto in futuro, con buona pace delle direttive emesse dal Viminale e anche dell’esistenza di una Guardia Costiera libica. Che in Libia i migranti subiscano costanti violazioni dei diritti umani è peraltro un fatto accertato anche dall’Onu. E che non si tratti di un luogo sicuro lo certifica anche la Farnesina per gli italiani che intendano recarsi in quell’area. Se ora un’archiviazione o una sentenza, nell’inchiesta sulla Mare Jonio, dovessero cristallizzare l’insussistenza di un porto sicuro in Libia, risulterebbe – per la prima volta – legittimo rifiutarsi di collaborare con la loro Guardia Costiera. La Mediterranea avrebbe così raggiunto, oltre che uno scopo umanitario, anche un obiettivo politico considerevole. Non solo. Anche sull’alt impartito dalla Gdf al comandante, motivato dal divieto di entrare in acque italiane e dalla connessa consumazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la Procura vuole fare la massima chiarezza. Da un lato per capire quanto sia stato legittimo il rifiuto della Mare Jonio, argomentato con le condizioni meteo e la salvaguardia dei naufraghi a bordo, dall’altro per comprendere quanto sia stato legittimo l’ordine della Gdf.

Di Maio: “Lo Ius soli non è nel contratto del nostro governo”

È D’ACCORDO sul dare la cittadinanza italiana a Rami, il ragazzo egiziano nato a Milano che ha salvato i compagni del bus dirottato a San Donato milanese, ma lo ius soli, la legge sulla cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia rimasta al palo nella scorsa legislatura, “non è nel contratto né nell’agenda di governo”. A ribadirlo è il vicepremier Luigi Di Maio, ospite di Agorà su Rai3 che aggiunge: “Questi temi vanno affrontati a livello di cittadinanza europea”.

Di fatto, la procedura per il caso di Rami è stata avviata ieri mattina dalla prefettura di Cremona, che ha chiesto al Comune di Crema il certificato di nascita del ragazzo per valutare la concessione della cittadinanza. Lo ha spiegato il sindaco di Crema, Stefania Bonaldi al sua arrivo alla scuola Vailati dove è atteso il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti. Il sindaco ha però posto l’accento su come sia stato “corale” il comportamento degli alunni: “C’era chi distraeva l’attentatore, chi contribuiva a nascondere i telefonini. Credo sia stato il messaggio più importante: si sono salvati insieme”.

Locri, la Procura vuole ancora processare Mimmo Lucano

Nonostante ogni giudice che sia stato chiamato a valutare le carte dell’inchiesta “Xenia” ne abbia demolito un pezzo, la Procura di Locri vuole processare il sindaco di Riace Mimmo Lucano.

Nei suoi confronti, i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio anche per quelle accuse escluse prima dal gip e poi dalla Cassazione in sede di decisione sulle misure cautelari. Il sindaco “sospeso” di Riace e altri 29 indagati dovranno presentarsi il primo aprile all’udienza preliminare davanti al gup di Locri Amelia Monteleone. Sarà quest’ultima a decidere, in caso di rito ordinario, se rinviare a giudizio Mimmo Lucano, accusato di associazione a delinquere e abuso d’ufficio per avere orientato “l’esercizio della funzione pubblica degli uffici del Ministero dell’Interno e della Prefettura di Reggio Calabria, preposti alla gestione dell’accoglienza dei rifugiati nell’ambito dei progetti Sprar, Cas e Msna e per l’affidamento dei progetti nell’ambito del Comune di Riace”.

Ancora sottoposto al divieto di dimora, Lucano deve rispondere anche di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (l’unico capo di imputazione ancora in piedi) e alcune irregolarità nell’affidamento del servizio di raccolta dei rifiuti a due cooperative che raccoglievano l’immondizia con due asinelli. Quest’ultimo reato e le esigenze cautelari sono state annullate dalla Cassazione, che ieri ha revocato definitivamente l’obbligo di dimora per Tesfahun Lemlem, coinvolta pure lei nell’inchiesta su Riace.

“Affronterò il processo a testa alta anche se mi sembra tutto così paradossale”, è l’unico commento di Lucano. “Non farò come Salvini. A differenza sua che con l’aiuto del Movimento Cinque Stelle ha evitato di essere processato per sequestro di persona, io come qualsiasi cittadino italiano andrò davanti ai giudici. Ho fiducia nella giustizia. Prima o poi la verità su tutta questa storia verrà fuori”.

“Sentivo le voci dei bimbi morti in mare”

Sentivo le voci nella mia testa. Sì le voci dei bambini africani morti in mare”. Ousseynou Sy inizia così il suo verbale davanti al giudice per le indagini preliminari Tommaso Perna. Ieri il dirottatore dello scuolabus è stato sentito per oltre due ore nel carcere di San Vittore. Interrogatorio per la convalida del fermo chiesta dalla procura di Milano “perché – si legge nel documento – Ousseynou Sy potrebbe agire ancora” e per questo va tenuto in prigione.

E così di fronte alle domande pressanti dei magistrati, il 46enne di origine senegalese ma italiano dal 2004 ha tirato fuori “le voci” che “sentivo nella mia testa”. Spiegherà a verbale: “Quei bambini morti nei naufragi mi dicevano che dovevo fare un gesto eclatante per fare in modo che le tragedie nel Mediterraneo non avvengano più, ma non volevo ammazzare quei 51 studenti e i loro professori, sono state le voci dei bimbi africani a dirmi che non dovevo ucciderli”. Questo sarebbe il motivo che mercoledì lo ha portato a dirottare lo scuolabus con a bordo gli studenti della scuola media Vailati di Crema, tenerli sequestrati, gettare la benzina sul pavimento, minacciare di dare fuoco a tutto e urlare: “Da qui non esce vivo nessuno”. E spiegherebbe anche, come raccontato dal Fatto, il tentativo di dirottamento fallito già lunedì. Per gli inquirenti, però, Sy ha “solo” recitato la parte del pazzo e lo ha fatto anche male. Il giudice Perna ha spiegato poi di “non aver notato segni di squilibrio”. “L’accendino era scarico”, ha ribadito Sy. Secondo gli investigatori, invece, l’accendino funzionava eccome. Ousseynou Sy ha proseguito: “Volevo andare sulla pista dell’aeroporto di Linate, arrivato lì, scendere e prendere l’aereo per il Senagal in qualche modo”. Di certo in tasca non aveva alcun biglietto aereo. L’uomo ha mostrato un’instabilità forse solo di facciata anche in vista della perizia psichiatrica già annunciata dal suo legale. Davanti alle evidenze del suo gesto, Sy non ha mostrato alcun pentimento. Anzi ha ribadito “con vigore” che quelle “voci di bambini morti” gli hanno suggerito di fare “un gesto eclatante non di portata nazionale ma internazionale”. Ha poi confermato il contenuto del verbale di due giorni fa davanti al procuratore aggiunto Alberto Nobili.

Lui, che si definisce un “panafricanista”, voleva “lanciare un messaggio ai popoli dell’Africa di non venire in Europa”. Un movimento, il “panafricasimo”, di cui la nostra intelligence mai ha sentito parlare e la cui definizione non compare nelle note informative degli ultimi mesi. Lo stesso Sy ha spiegato di aver fatto tutto da solo. Il gesto contro le politiche migratorie del governo italiano sarebbe “maturato nella sua testa”. Poi ha ribadito l’esistenza del video nel quale ha annunciato il suo gesto. Il video di 37 minuti, non caricato sul suo canale Youtube (“Paul Sy”) perché troppo pesante, è invece presente in un server remoto come ha spiegato Google alla Procura. Nei prossimi giorni il video sarà recuperato. Il filmato, secondo quanto spiegato dall’indagato, è stato inviato a persone di Crema a lui vicine che a questo punto saranno sentite. L’interrogatorio poi è proseguito tra strane e indecifrabili “invocazioni” dell’indagato. Il quale ha giustificato la presenza di un coltello come arma di difesa che gli autisti portano con sé durante i turni serali. Il dirottamento, per la cronaca, è avvenuto poco prima di mezzogiorno.

Bruciano anche le tende del Viminale: una vittima

Quattro incendi, quattro migranti morti in poco più di un anno. La musica a San Ferdinando è sempre la stessa anche dopo che le ruspe il 6 marzo, appena 15 giorni fa, hanno smantellato a favore di telecamere la baraccopoli abusiva nella zona industriale del porto di Gioia Tauro. Forse un corto circuito. Più improbabile un rogo di origine dolosa. Le indagini della Procura di Palmi, adesso, dovranno spiegare la causa dell’incendio che, ieri mattina all’alba, si è sviluppato all’interno della nuova tendopoli ufficiale, gestita dal Comune di San Ferdinando

La tenda con la scritta “Ministero dell’Interno” è andata in fumo così come tutto quello che c’era dentro, compreso Sylla Noumo, un senegalese di 32 anni, trovato carbonizzato quando i vigili del fuoco hanno spento le fiamme.

Il giovane, un lavoratore stagionale venuto in Calabria a raccogliere le arance, stava dormendo. Sembrerebbe che il rogo sia partito da un angolo della tenda che doveva essere ignifuga ma che – ha spiegato il sindaco Andrea Tripodi – “non vuol dire che non si incendia. Ha solo un processo più rallentato”. Fondamentale, a questo punto, per gli inquirenti non è soltanto capire la causa dell’incendio ma anche in quanto tempo la tenda si sia trasformata in una trappola per il senegalese e perché il 32enne non è riuscito a mettersi in salvo pur essendo la struttura composta di materiale ignifugo. “L’unica assicurazione che posso dare è che sarà fatto tutto il possibile per accertare la verità”. Dopo un sopralluogo, il procuratore di Palmi Ottavio Sferlazza ha disposto il sequestro dell’area.

E se per il prefetto Michele Di Bari “questa morte era inaspettata”, il dato di fatto al momento è che il problema dei migranti a San Ferdinando non è stato risolto con lo sgombero effettuato in pompa magna e presentato alla stampa come la soluzione che si aspettava da anni.

Al netto dei migranti che sono andati via volontariamente e di quelli trasferiti nei Cas e negli ex-Sprar, infatti, si è sostituita la baraccopoli abusiva con un accampamento improvvisato dall’altra parte della strada e con la tendopoli “ufficiale” dove i migranti sono raddoppiati rispetto al passato. Il giorno dello sgombero, il ministro Matteo Salvini aveva twittato: “Come promesso, dopo anni di chiacchiere degli altri, noi passiamo dalle parole ai fatti”.

Quei fatti, purtroppo, sono stati smentiti dalla cronaca in soli 15 giorni: Sylla Noumo è morto dentro quella che oggi il ministro dell’Interno definisce “la tendopoli attrezzata e vigilata”. Se nella baraccopoli abusiva gli incendi in cui hanno perso la vita Becky Moses (gennaio 2018), Suruwa Jaith (dicembre 2018) e Moussa Ba (febbraio 2019) erano il frutto della situazione di degrado in cui vivevano, ieri dal Viminale il ministro Salvini si è detto “addolorato per la morte di una persona a San Ferdinando”. Tuttavia il vicepremier leghista riesce a vedere il bicchiere mezzo pieno: “Se fosse successo nella baraccopoli abusiva il bilancio poteva essere ben più pesante”.

Un’amara consolazione che non basta a don Ennio Stamile, coordinatore di Libera: “La dinamica di questa morte è molto strana. – dice – Il problema dei migranti non si risolve con una nuova tendopoli. Serve un piano di integrazione”. È quello che da anni chiede la Cgil con i suoi segretari Giuseppe Massafra e Celeste Logiacco secondo cui servono “soluzioni strutturali” da parte delle istituzioni: governo, Regione e città metropolitana di Reggio “devono farsi carico di queste difficoltà”.

Aurelio Monte del sindacato Usb, infine, punta il dito contro Salvini: “Lo sgombero della baraccopoli, costato un milione di euro, è servito a fare pubblicità al Ministero dell’Interno. Salvini aveva detto di aver risolto il caso di San Ferdinando, ma il problema è ancora sotto i nostri occhi”.

Conte: “È una cosa seria, riguarda i valori del M5S”

“È una questioneche ha colpito tutti, quella di Marcello De Vito, il presidente del Consiglio Comunale di Roma. È una questione seria”. A margine del Consiglio europeo a Bruxelles, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha commentato con queste parole lo scandalo che ha travolto l’ex presidente dell’Assemblea capitolina, arrestato per corruzione insieme all’avvocato Camillo Mazzacapo. Il premier ha poi tenuto ad aggiungere, a tutela dell’interessato, che “rispetto al dibattito che è legittimamente sorto, sono solo ipotesi accusatorie”. Avvalendosi delle sue competenze in materia giuridica, continua poi a spiegare: “Ci sono due piani diversi: l’aspetto morale e giudiziario e poi l’aspetto politico. La politica non può aspettare una sentenza passata in giudicato: è sbagliato sovrapporre le due cose. I cittadini non possono aspettare tale sentenza, non possono aspettare una sentenza che si conclude con la prescrizione. C’è un giudizio politico: stiamo parlando di una forza politica che ha fatto del rispetto di certi valori il proprio Dna”. Il Movimento 5 Stelle, infatti, da cui provengono sia Conte che De Vito, dopo lo scandalo non ha avuto esitazioni nel sollevare quest’ultimo dal suo incarico.

“Nessuna pressione da De Vito. Per la giunta parlano gli atti”

Marcello De Vito il 29 maggio del 2017 è pedinato ‘telematicamente’ dai Carabinieri con il sistema dei tabulati e delle celle telefoniche. Quel giorno fa una telefonata sul cellulare dell’assessore Luca Montuori. De Vito in quel momento è a pranzo nel ristorante con l’imprenditore interessato allo sviluppo dell’area degli ex Magazzini Generali, Davide Zanchi, e con il capogruppo di FI, Davide Bordoni, amico di Zanchi, che spinge per l’approvazione del progetto. Abbiamo chiesto a Montuori di chiarire.

Assessore Montuori, Marcello De Vito, che allora non era intercettato, le fa una telefonata di 32 secondi il 29 maggio 2017. I carabinieri annotano la chiamata ma non sanno cosa le disse. Lei lo ricorda?

No. Parliamo di una telefonata di due anni fa…

I carabinieri seguono il cellulare di De Vito e quello di Zanchi ed entrambi si spostano verso il Campidoglio. Lei ha incontrato Zanchi e De Vito quel giorno?

Non ho mai incontrato Zanchi in compagnia di De Vito. Non ho incontrato Zanchi il 29 maggio 2017 né De Vito nella stessa data. Io avevo già incontrato Zanchi l’11 aprile senza De Vito. Ho incontrato invece Zanchi anche dopo, se non ricordo male, con l’imprenditore Toti che era il concessionario dell’area degli ex Mercati Generali. Ma sempre nei miei uffici e alla presenza di funzionari.

Chi le chiese di incontrare Zanchi?

Mi pare De Vito. Mi sembrò una cosa normalissima. Zanchi venne con il presidente della società che gestirà il complesso dei Mercati Generali. L’incontro si svolse in assessorato, in via Petroselli, previo appuntamento. Ma vorrei far notare che non c’è nulla di strano. È mia consuetudine ricevere i soggetti che stanno portando investimenti nel nostro territorio per poter prendere le decisioni che mi competono.

Ha mai parlato con De Vito degli ex Mercati Generali?

Certo che ho parlato con De Vito, in qualità di presidente dell’Assemblea capitolina. Mi ha chiesto, come altri esponenti sia di maggioranza che di opposizione, aggiornamenti rispetto al progetto e io lo ho informato dei lavori e degli approfondimenti che stavamo facendo con gli uffici e il supporto della Avvocatura capitolina.

Ne ha parlato con il sindaco Virginia Raggi?

Certo, come consuetudine la sindaca mi ha chiesto aggiornamenti sul progetto e sulle migliorie che stavamo apportando.

Quelle migliorie secondo molti sono insufficienti.

Sono migliorie e modifiche apportate nei limiti di quanto permesso per un progetto che ricordo era stato già approvato dalla Conferenza dei Servizi il 19 aprile del 2016 e aveva i pareri favorevoli di tutti i soggetti coinvolti: Dipartimento Mobilità, Urbanistica, Lavori Pubblici, Dipartimento Commercio, Sovrintendenze e Regione Lazio tra gli altri.

Per il suo predecessore Paolo Berdini il progetto era molto simile a quello approvato dalle giunte precedenti e non prevede verde e parcheggi.

La Sovrintendenza Statale aveva posto dei limiti sul verde che è stato comunque recuperato nella zona di Volusia. Le migliorie ci sono state e hanno riguardato l’ampliamento dell’interesse pubblico dell’intervento. Un ampliamento dello spazio pubblico a disposizione dei cittadini, e alcuni aspetti amministrativi tra cui l’immutabilità delle destinazioni d’uso. Poi il pagamento dei canoni di locazione, fino a oggi mai riscossi dalla Amministrazione. Inoltre c’è ora il costo massimo della locazione delle stanze nell’edificio della residenza studentesca. Sono tutti obblighi fino a quel momento non regolati da alcun documento.

Cosa le disse Marcello De Vito su Zanchi e cosa le disse Zanchi?

Su Zanchi De Vito non mi disse nulla di rilevante. Si parlava in generale dei subconcessionari, il gruppo di investitori esteri e mi pare che disse che questi avrebbero gestito anche e non solo speculato. Zanchi nell’incontro di aprile mi illustrò il progetto, e raccontò le iniziative che erano soliti svolgere promuovendo attività culturali all’interno degli spazi di loro proprietà o valorizzando spazi pubblici nelle vicinanze.

Poco dopo l’approvazione della delibera di giunta, l’avvocato Mezzacapo, l’amico di De Vito arrestato con lui per corruzione e traffico di influenze, prepara una parcella che poi incasserà per 110 mila euro. Lei, assessore, ha preparato una delibera, la giunta ha approvato e pochi giorni dopo, grazie a quella delibera, il complice presunto di De Vito ha incassato. Non pensa che la delibera sia viziata?

Assolutamente no. Né De Vito né Mezzacapo, che io non conosco, si sono interfacciati con gli uffici che hanno predisposto quella delibera. Io ho depositato la delibera a luglio ed è stata rivista dal segretariato e dagli uffici. Bisogna conoscere tutti i passaggi per capire che l’iter amministrativo ha seguito un percorso lineare e trasparente. Sono stati fatti tutti i passaggi previsti dall’Amministrazione con i soggetti preposti alla procedura stessa. L’Amministrazione deve esprimersi per atti e non tramite racconti o illazioni, men che meno opinioni, che poi non trovano riscontro nelle procedure formali che sono pubbliche e a disposizione.

Quindi per lei è tutto corretto?

Sì. L’approvazione era avvenuta con la delibera della Giunta Marino del 13 marzo del 2015. La Conferenza dei Servizi ha approvato nell’aprile 2016. A maggio 2016, il Responsabile del Procedimento (RUP) ha effettuato la verifica della documentazione. A giugno 2016 c’era già lo schema di deliberazione. L’allora Commissario Straordinario Tronca, ha scritto di avere “riscontrato la legittimità e apprezzato i rilevanti profili di interesse pubblico (…) rispetto ad un quadrante cittadino ormai da decenni caratterizzato da una situazione di abbandono e degrado, sono destinati a produrre evidenti benefici”.

Vorrei sottolineare che c’è una continuità da Marino a Tronca a me passando per Berdini.

Ma Berdini ha scritto articoli di fuoco sul progetto

Il mio predecessore aveva proseguito l’iter. A gennaio del 2017 convocò una riunione e scrisse che l’assessorato era “favorevole all’avvio del progetto di recupero”. Per cambiare un progetto bisogna fare gli atti e non articoli sul giornale.

Non è diffamazione: il Tribunale di Milano dà ragione a Speranza

Il procedimento penale a carico del deputato Roberto Speranza è stato archiviato: l’ordinanza del gip presso il Tribunale di Milano è stata depositata nella giornata di giovedì, dopo un primo tentativo a cui si era opposta la parte offesa. Speranza era stato chiamato in giudizio per il reato di diffamazione ai danni del Ministro dell’interno Matteo Salvini: nel corso della trasmissione Di Martedì, in onda su La7 il 13 Gennaio scorso, aveva infatti accusato il vicepremier di essere tra i meno presenti in assoluto al Parlamento Europeo, e per tutta risposta aveva ricevuto una querela. Danilo Leva, il legale di Speranza, ha sottolineato come “le affermazioni di Roberto Speranza non fossero assolutamente lesive della reputazione di Matteo Salvini, in quanto non possono essere ritenute false e rientrano a pieno titolo nell’ambito dell’esercizio del diritto di critica politica, che è ampiamente tutelato dalla nostra Costituzione”. Il suo assistito ha poi lanciato una provocazione: “Il Matteo Salvini che fugge dai processi è lo stesso che ha provato a portarmi in giudizio?”.

Parnasi e l’aiuto non richiesto alla Lombardi

Nessun finanziamento. Il sostegno a Roberta Lombardi per la scorsa campagna elettorale da parte di Luca Parnasi avrebbe riguardato la comunicazione, i rapporti con la stampa. Tutto, secondo quanto ricostruito dai carabinieri, all’insaputa della capogruppo M5S in Consiglio regionale del Lazio.

Così un’informativa dell’11 febbraio depositata nel procedimento a carico di Marcello De Vito, in carcere per corruzione: “Non sono state acquisite evidenze che documentino la consapevolezza da parte della Lombardi delle attività svolte dalla consorteria capeggiata dal Parnasi in relazione alla sua campagna elettorale”. Quando a giugno scorso l’imprenditore romano è stato arrestato (misura poi revocata), la Lombardi aveva detto di non aver mai preso contributi elettorali da lui. Ieri è tornata sull’argomento dopo che i giornali hanno riportato una parte delle nuove informative: “Sono stati acquisiti elementi che permettono di affermare che De Vito, ha chiesto e ottenuto da Parnasi un supporto per la campagna elettorale della Lombardi”. “Alla fine del 2017 – ha detto la consigliera – inizio la campagna come candidata governatrice del Lazio. Sono stata avvicinata da diversi imprenditori della borghesia romana che si sono proposti come finanziatori occulti della mia campagna. Mi hanno fatto capire che se avessi avuto bisogno di stampa, servizi che potevano comprare senza figurare, erano a mia disposizione. A tutti ho risposto che se volevano investire sul M5s e su di me potevano farmi una piccola donazione che poi avrei rendicontato”. Tra questi, aggiunge, “c’era anche Parnasi, che per quattro volte si è offerto di sostenere la mia campagna e io per quattro volte ho risposto no”.

Gli investigatori scrivono: “A partire dall’11 gennaio 2018, Parnasi e De Vito si scambiano comunicazioni riguardanti un’attività da realizzare in favore di Lombardi”. Il 30 gennaio del 2018, Mangosi (dirigente di una delle società di Parnasi) dice intercettato: “Mi hanno chiesto di aiutare la Lombardi… Poi De Vito, Ferrara, loro… se sono a disposizione… io a tutti rispondo (…), ma non sono nè un militante nè un simpatizzante di nessuno. Sono un professionista”.

Il giorno dopo De Vito invia a Parnasi i contatti di Augusto Rubei, all’epoca capo ufficio stampa della Lombardi, ora alla Difesa con Elisabetta Trenta. E l’imprenditore non tarda a contattarlo. Rubei – che al Fatto spiega di non aver mai incontrato Parnasi – rispose così all’imprenditore: “Do i tuoi contatti alla mia segreteria così ti sente per fissare con Roberta”. Fa il suo lavoro di ufficio stampa. Secondo i carabinieri, il 31 gennaio 2018 “Mangosi scrive di aver visto tutti a Ostia e che Rubei gli ha chiesto supporto stampa”. “Un 5stelle me lo ha presentato e non l’ho mai più rivisto”, spiega Rubei. E Mangosi ai carabinieri risulta essere stato ad Ostia “per incontrare la Lombardi”.

Al Fatto Roberta Lombardi replica: “Ho conosciuto penso migliaia di persone nella campagna. Nessuno si è identificato come emissario di Parnasi o come aiuto per la campagna”.