Raggi “indaga” sui dirigenti. Il M5S la blinda ma ha paura

Il capo politico la blinda di primo mattino, perché il Campidoglio a 5Stelle non può saltare per aria, non ora con le Europee a un passo e il M5S che già arranca nei sondaggi, “perché se mandassimo via Virginia finiremmo come il Pd che cacciò Ignazio Marino, gli elettori ci punirebbero”, ragionano ai piani alti. E allora la sindaca di Roma Virginia Raggi non si tocca, e “la giunta deve andare avanti” come scandisce Luigi Di Maio ad Agorà. Così Raggi può annunciare su Facebook “una indagine interna su tutti i dossier citati nell’inchiesta che riguarda De Vito”, l’ex presidente del Consiglio comunale arrestato per corruzione.

Tradotto, valuta di imporre a tutti i dirigenti potenzialmente toccati o lambiti dalla vicenda (“cioè quasi tutti”, riassume una voce dal Campidoglio) di chiedere alla Procura il certificato ex articolo 335 del codice penale, quello da cui risulta se si è iscritti sul registro degli indagati. Ma ci saranno anche ulteriori verifiche. “Rispondiamo con fermezza a chi prova a ‘infettare’ l’amministrazione con pratiche illegali” giura la sindaca nel post, ripreso dal portale del M5S e anche dal blog di Beppe Grillo, il fondatore, per ostentare che tutto il Movimento è con lei. Ma la principale preoccupazione del M5S nazionale resta quella, capire se da Roma possano piovere a breve altri casi giudiziari. Per questo giovedì in Comune si erano presentati tre emissari di Di Maio: il veterano Max Bugani, vicecaposegreteria del vicepremier e membro dell’associazione Rousseau; il vice capogruppo alla Camera Francesco Silvestri, ormai da tempo l’ufficiale di collegamento con il Campidoglio, e la consigliera regionale Valentina Corrado, probabilissima referente nel Lazio quando Di Maio varerà la struttura di raccordo tra il nazionale e i territori. Nell’attesa ieri Silvestri e Corrado tornano in Comune, per capire lo stato delle cose. E restano ore, per sondare la sindaca e i consiglieri riallacciare un filo che si era allentato. Perché in Campidoglio si erano sentiti molto soli, nelle settimane a ridosso della sentenza del novembre scorso, che aveva scagionato Raggi dall’accusa di falso. E anche dopo l’assoluzione la distanza tra lei e i vertici era rimasta.

Per questo in Comune hanno apprezzato la proposta degli emissari di Di Maio di incontrarsi in riunioni periodiche, per lavorare assieme e provare a rivitalizzare la giunta, flagellata da casi giudiziari e scontri interni. E la sintesi la fa Silvestri: “Per raggiungere gli obiettivi serve la massima sinergia tra tutti i livelli istituzionali”. Insomma, bisogna tornare a parlarsi, tanto. E ragionare assieme anche su un nuovo rimpasto in giunta. Con i vertici nazionali che da tempo invocano più risultati su rifiuti e lavori pubblici. Però ora i 5Stelle devono innanzitutto capire quanto sia estesa la vicenda legata allo stadio della Roma, una ferita che potrebbe stillare altri guai. Perché la paura rimane forte, dentro e fuori il Campidoglio.

E forse anche per questo ieri si erano sparse voci su altri consiglieri del M5S indagati. False. Ma di certo ieri sono state sentite in Procura la presidente della Commissione Urbanistica Donatella Iorio e quella della Commissione Lavori Pubblici Alessandra Agnello. Anche se dal Comune assicurano di non essere preoccupati. Ma il caso De Vito e le tensioni con l’assessore Daniele Frongia, probabilmente prossimo all’archiviazione ma “reo” di non aver comunicato ai vertici l’indagine a suo carico per corruzione, hanno lasciato evidenti scorie.

Così non è affatto casuale il rinvio di una delicata assemblea congiunta dei parlamentari, già fissata per lunedì prossimo e slittata a giovedì 4 aprile, ufficialmente “per motivi legati ai lavori parlamentari” come sostenuto in una nota dai capigruppo del Movimento. Ma la verità è che si è scelto di prendere tempo. Perché domenica si vota in Basilicata, e potrebbe andare male se non peggio. E a Roma la situazione è ancora nebulosa. Quindi meglio evitare riunioni di gruppo, perché non si sa mai.

Fadil, l’avvocato della famiglia rinuncia all’incarico

Ha rimesso il mandato difensivo l’avvocato Paolo Sevesi, che rappresentava i familiari e un amico di Imane Fadil, la modella testimone del caso Ruby, morta in circostanze misteriose l’1 marzo scorso. Il legale ieri ha formalizzato la rinuncia all’incarico per contrasti sulla linea nelle indagini con la famiglia della modella. Dopo l’esito delle analisi che hanno escluso la radioattività del cadavere, Sevesi aveva detto: “È meglio per tutti, per Imane e per la sua famiglia. Alla fine vuol dire che in giro c’è un cattivo in meno.” I familiari, invece, non sembrano essere della stessa opinione e continuano a chiedere “verità” sul caso, come dichiarato anche in un’intervista al Fatto.

Intanto, è improbabile che l’autopsia possa essere effettuata oggi: dovrebbe slittare a lunedì. L’esame del corpo dovrebbe dire se la presenza di metalli, tra cui cadmio e antimonio, rintracciati in percentuali di parecchio al di sopra della norma nelle urine e nel sangue di Imane Fadil, sia stata o meno letale. Resta in piedi anche la pista di una rara malattia autoimmune.

“Io, papà Ago e le armi per la giustizia fai da te”

Pubblichiamo un brano di “Dritto al cuore. Armi e sicurezza: perché una pistola non ci libererà mai dalle nostre paure” di Luca Di Bartolomei, ex funzionario del Pd, figlio del campione dell’As Roma Agostino, morto suicida nel 1994.

Quando mio padre Agostino si è sparato, l’ultima persona ad averlo visto vivo sono stato io. Si era alzato presto e, come sempre, era venuto a svegliarmi per andare a scuola. Della mattina di quel 30 maggio 1994 ricordo ogni singolo momento. L’unica cosa che non ricordo è la pistola con cui si è tolto la vita. Quando l’ho salutato con un bacio, Ago era seduto in terrazza e la Smith & Wesson calibro 38 a canna corta sono sicuro non l’avesse ancora presa.

Lo dico subito: se qualcuno vuole accusarmi di usare la vicenda personale mia e della mia famiglia coglie nel giusto. Nelle occasioni in cui si parla – come puntualmente avviene da troppi anni – di ampliare le maglie della detenzione e del porto d’armi con la scusa della legittima difesa, io ripenso sempre a quel bagliore. Quella canna lucida che dopo il suicidio di mio padre ho rivisto diverse volte. Di quell’arma non abbiamo mai avuto né la forza né il coraggio di disfarcene. Come se qualcosa di noi fosse rimasto, da allora e per sempre, ostaggio di quella pistola. (…)

Da qualche anno, sotto la spinta di una certa politica e di una certa propaganda, stiamo assistendo a una irragionevole (lo dicono i numeri!) perdita di fiducia nei confronti dello Stato quale garante e custode della sicurezza di noi cittadini. E tutto questo ci sta conducendo su un sentiero di estremo pericolo. Se ho deciso di partire da qui, da una storia personale, “strumentalizzando” la morte di Ago, è perché non mi interessa più ricordare quanto allora ho perso come figlio. Adesso, di fronte all’abisso verso cui ci stiamo lasciando guidare, non mi pesa più tanto quel dolore passato.

M’importa pensare a tutto quello che, da domani, potrei perdere come padre, come zio, come amico. E ne ho paura. Per questo ho voluto scrivere questo libro, per ricordare che più armi in circolazione significano solo più sangue. E partendo da questa intima convinzione desidero subito offrire le mie scuse alle tante persone di famiglia a cui faccio rivivere un gesto che come un buco nero ci costringe a gravitare ancora una volta nelle sue vicinanze.

È doverosa anche un’avvertenza. Io non sono contrario alle armi e non sono nemmeno pacifista, anzi. Sono fermamente convinto che l’utilizzo della forza sia spesso – di sicuro troppo spesso – ancora necessario. Sia in teatri internazionali, a protezione delle popolazioni e dei diritti umani, sia in contesti nazionali, anche mediante azioni preventive che trovino sempre fondamento nel dettato costituzionale e mai mediante coperture legislative emergenziali. Premesso ciò, credo però altrettanto fermamente che l’utilizzo della forza e quello delle armi debbano essere un’esclusiva dello Stato. Una prerogativa delle forze dell’ordine che sono preparate fisicamente e psicologicamente all’uso.

Basta riflettere per rendersi conto che in un consesso civile tanto l’utilizzo della forza quanto il giudizio e l’eventuale irrogazione della pena devono essere affidati a un soggetto terzo, perché altrimenti si torna alla barbarie tribale.

Se abdicheremo a questi princìpi, se ognuno di noi, da armato, preferirà la percezione personale all’oggettività del reale e considererà superiore a quella di un tribunale la propria idea di giustizia questo nel prossimo futuro rischierà di non esser un Paese per vecchi.

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Strage di Bologna, la nuova indagine coinvolge Bellini

La Procura generale di Bologna ha chiesto la revoca del proscioglimento, disposto nell’aprile 1992, nei confronti di Paolo Bellini per iscriverlo nuovamente nel registro degli indagati con l’accusa di concorso nella strage del 2 agosto 1980 alla stazione centrale. Un ulteriore passo dell’inchiesta sui mandanti e i finanziatori dell’attentato, dopo la notizia che la Procura generale ha indagato per depistaggio l’ex generale Quintino Spella, all’epoca responsabile del Sisde a Padova.

Soprannominato “Primula Nera”, Bellini venne accusato nel 1983 dopo che fu accertata la sua presenza a Bologna. Secondo le cronache del tempo un paio di testimoni riferirono di averlo visto portare l’esplosivo poi servito per l’eccidio in stazione. Finì nella prima inchiesta ma venne poi prosciolto in istruttoria. Atto di cui oggi la Procura generale chiede l’annullamento.

Nato a Reggio Emilia nel 1953, Paolo Bellini dalla metà degli Anni Settanta è protagonista delle cronache giudiziarie italiane: dagli omicidi politici come quello del militante di Lotta Continua Alceste Campanile di cui si autoaccusò 25 anni dopo ma fu dichiarato prescritto, fino alla Trattativa Stato-mafia. A 18 anni segue un addestramento militare in Portogallo, nel 1976, quando parte un’inchiesta contro i fascisti di Avanguardia Nazionale, si dà alla latitanza in America Latina. Bellini sarebbe stato protagonista di una prima trattativa all’inizio degli Anni Novanta, quando mise in moto i suoi contatti piuttosto consolidati con esponenti di Cosa Nostra suggerendo addirittura la strategia degli attentati ai monumenti artistici. È stato anche collaboratore di giustizia.

In carcere, sotto falso nome, conosce Antonino Gioè, in seguito fra gli autori della strage farà saltare per aria Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini di scorta a Capaci. Persino il capo dei capi, Totò Riina, gli si rivolse pubblicamente durante un processo, nel 2003: “Ma questo Paolo Bellini che si affaccia nelle stragi di Bologna, in certi processi e poi non si vede più […] me lo trovo in mezzo ai piedi con i servizi segreti”.

Con l’accusa di averlo favorito finì sotto inchiesta anche Ugo Sisti, procuratore di Bologna all’epoca della strage. Il magistrato, lo stesso che aveva immediatamente ipotizzato lo scoppio di un “trasporto”’ di esplosivo della resistenza palestinese, venne poi scagionato.

Secondo il giudice Carlo Alemi, che ha indagato sulle trattative per il sequestro dell’assessore Ciro Cirillo nel 1981, fu Sisti a stabilire un contatto fra i magistrati inquirenti di Bologna e Pietro Musumeci, generale del Sismi, poi condannato per aver tentato di depistare proprio le indagini sulle strage. Nel corso di un’audizione in Senato nel 1989 Sisti specificò: “I giudici di Bologna mi telefonarono più volte a Roma al Ministero dicendo che le indagini andavano male. Non riuscivano a ricavare una conclusione e temevano di dover scarcerare tutti”. Il magistrato a quel punto si rivolge al generale Giuseppe Santovito, ai tempi capo del Servizio per le informazioni e la sicurezza militare, e di fronte al suo disinteresse rincara la dose: “Io gli ho detto, dovreste interessarvene di fronte alla vittime, alla tragedia, di fronte al comportamento di certe persone che si fanno medicare e poi scappano”.

Il riferimento non sembra casuale: il 2 agosto 1980 tra quelli presenti in stazione c’è anche Sergio Picciafuoco. Criminale comune con simpatie di destra, sostenne di essersi trovato sul posto solo per una coincidenza mancata ma, una volta scoppiata la bomba, si era messo a dare una mano. Peccato che i riscontri successivi dimostrarono che fosse all’ospedale Maggiore a farsi medicare già poche ore dopo l’esplosione. L’undici ottobre del 1990 Picciafuoco, secondo informazioni della Digos, viaggiava verso Reggio Emilia su una macchina intestata proprio alla sorella di Paolo Bellini, con cui poi passerà la mattinata successiva. A Bellini proprio in quei giorni avevano bruciato l’auto, un episodio mai chiarito. Uno dei tanti della vita della Primula Nera.

Poste e Caf deserti: in Basilicata nessuno ha chiesto il reddito

Milioni e milioni di voti di scambio: tu dai il reddito di cittadinanza a me e io faccio la croce sul tuo simbolo. Siamo a Bella, poche migliaia di abitanti ma con un festival di cinematografia formidabile, davanti alle gole del Platano, il fiume che segna il confine della Lucania con la Campania, il territorio montano e disperso dove i Cinquestelle alle scorse Politiche hanno mangiato voti come fossero lupi d’inverno. Percentuali del 50%, in alcuni casi anche di più. Ora sarebbe dovuto arrivare il giusto ristoro. “Sono andato all’ufficio postale e ho chiesto. Per ora zero domande, zero carbonella. I miei dati sono parziali ma l’impressione è che non solo non c’è stata folla, ma nemmeno un’esile fila, nemmeno uno dei crocchi che si vedono in piazza. Magari è ancora presto, però boh…”.

Così verbalizza Vito Leone, assessore alla Cultura, che ha una sua idea: “Dal reddito sono esclusi coloro che possiedono proprietà o soldi in banca. I nostri paesi sono spopolati, quel che non ci manca sono le case. Ed è costume familiare custodire buoni postali, il dono del nonno al nipote, del papà alla figlia. È un tesoretto di poche migliaia di euro che però ostacola la richiesta. Il limite fissato a 6.000 euro spesso è superato e così anche coloro che certamente avrebbero diritto, restano impigliati ed esclusi”.

La Basilicata è stata una delle casseforti pentastellate. Mezzo milione di abitanti, fortilizio democristiano poi passato al Pd e infine ai grillini. La clientela come sistema, la mano tesa come postura. E allora? Tra le montagne e le vallate del Platano e del Marmo, l’area interna più occidentale della Regione, lo scambio previsto, anticipato, illustrato fin nei dettagli dalle analisi giornalistiche, dai commenti, nei talk show, semplicemente non esiste. Anche Anna Maria Scalise, la sindaca di Ruoti, una comunità sistemata più vicino al capoluogo, non vede corse, ansie, entusiasmi alle stelle. “Hanno pesato le restrizioni, che per alcuni hanno avuto il sapore di una presa in giro. Non ho dati certi, ma finora dico che non mi risulta nessuno che si sia presentato alle Poste ad avanzare domanda. Dobbiamo però dirci la verità: il voto ai Cinquestelle non era legato allo scambio quanto a una voglia, spesso impulsiva, di un cambiamento. Non tenerne conto nelle analisi ha significato approssimare sia le indicazioni che le soluzioni e consegnare il Sud all’idea stereotipata della clientela, dei fannulloni che attendano l’assistenza dello Stato”.

La realtà è così andata improvvisamente contro il pensiero egemone, trasformandolo in pregiudizio. Dal giorno dell’apertura dello sportello per il reddito in tutta Italia sono ancora meno della metà (47 per cento) il numero delle domande presentate rispetto a quelle che il governo attende (1 milione e 300 mila). Dato che dev’essere ancora depurato dalla selezione tra chi avanzerà correttamente il titolo e chi no.

Cosicché la distribuzione territoriale del reddito non si concentra al Sud, come pareva, e nemmeno si condensa nei luoghi che elettoralmente hanno premiato maggiormente il Movimento. Il fenomeno sembra assai più metropolitano, assai più settentrionale, assai più correlato a una povertà diffusa e forse sconosciuta. Sono le cinture milanesi e torinesi, la periferia romana, l’area vasta del sottoproletariato che circonda Napoli, le molte Scampia edificate a corona del Vesuvio, che la faranno da padrona.

Invece il Sud interno, l’area più povera dell’Italia, dove il reddito medio pro capite è inferiore di 5 mila euro alla media nazionale e di 10 mila euro a quella del Nord non sembra trarne vantaggio. Laddove la disoccupazione giovanile raggiunge picchi astronomici (fino al 50%) e l’emigrazione diviene un processo continuo che spopola e aggredisce il futuro, il reddito, che doveva essere la mano santa si trasforma in una mano morta.

Salendo per le strade di montagna si giunge a Pescopagano, uno dei centri dove il terremoto dell’80 fu più violento e distruttivo. Di nuovo bussiamo alla porta del sindaco. Si chiama Enzo Schettini: “Non ho dati aggiornati ma la mia comunità ha la fortuna di avere una economia più florida. La banca locale ha dato lavoro a tanti e questa esigenza, che altrove sembra massiccia, qui si dirada fino a divenire invisibile”.

E allora cambiamo marcia e raggiungiamo Muro Lucano, una città bellissima, l’incanto delle case incistate nella montagna, un luogo aggredito però da uno spopolamento progressivo che in un decennio l’ha portata quasi a dimezzare i suoi abitanti: “Immaginavo che le Poste sarebbero state prese d’assalto. Invece nulla, l’accoglienza è stata tiepida. Pesano le condizioni restrittive all’accesso al bonus, e forse magari si è pure esagerato con le aspettative. Anche quota 100, che prima sembrava un fuggi fuggi verso la pensione, si è poi dimostrata una misura che ti fa pagare salato l’anticipo che offre”, dice Giovanni Setaro, il sindaco.

Così è la Lucania, e anche nella valle contigua del Salernitano, attraversata dal fiume Sele, vicina all’autostrada, più legata ai traffici e alle opportunità di lavoro, la condizione di generale resistenza non cambia.

“Nel mio paese – dice Valentina Risi, consigliere comunale di Palomonte – agli uffici postali ancora nessuno si è presentato. Alcuni sono andati ai Caf, forse anche per la maggiore riservatezza che offrono. Ma i due patronati finora hanno raccolto 26 domande, sinceramente credevo che fossero molti di più. Siamo su percentuali davvero modestissime”. I Caf offrono intimità, gli uffici postali lavorano invece en plein air e attendono.

Zero finora le richieste avanzate a Palomonte, zero anche più a sud, a Sant’Arsenio, nel Vallo di Diano, nello stupore impiegatizio: “E pensare che ci hanno fatto serrati corsi di formazione, ci hanno preparati all’emergenza, alla folla… Fatica sprecata”.

Steve, ammazza che brutta fine…

Bei tempi,almeno per lui, quand’era l’anima nera dell’alternative right americana che aveva portato non si sa bene come Donald Trump alla Casa Bianca: all’epoca, ammantato di diaboliche amicizie con certi russi che poi alla fine erano Putin, i giornali di sana e robusta costituzione democratica raccontavano che stesse mettendo su “l’internazionale sovranista”, qualunque cosa essa sia. Poi, si sa, The Donald l’ha sfanculato in malo modo e, dopo un po’ di rendita di posizione, ha iniziato a far notizia più o meno come Mario Monti che chiede più austerità. Ormai l’ex satana Bannon non fa più paura manco alle vedove di Sant’Obama, vergine e martire del potere: il diavolo è arrivato a Roma da un paio di giorni ed è già stato due volte su Rai2 annoiando persino i telemorenti, ha fatto un convegno con gente della Rai salviniana nell’incolpevole e meravigliosa Biblioteca Angelica, già sede dell’Arcadia e perciò se non rude almeno pastorale, lunedì fa addirittura un dibattito con Carlo Calenda (sic) prima di vedere – dice – Giorgia Meloni e la Lega (tutta?). Se mancasse un indizio, l’ex uomo nero Bannon ha avvisato che appena arriverà in Francia sarà sua cura incontrare i Gilet gialli. Come un Di Maio qualsiasi. Sic transit…

Bonafede non c’entra nulla, ma Sansonetti è fuori dal “Dubbio”

“Mai chiesta intervista al ministro e, di conseguenza, mai negata, né al direttore Sansonetti, né ad altri giornalisti de Il Dubbio, testata che seguiamo sempre con grande interesse considerate le tematiche trattate e il livello di approfondimento”. Dagli uffici del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, smentiscono così la ricostruzione fatta ieri dal Fatto circa la sostituzione di Piero Sansonetti alla direzione del Dubbio. Sostituzione che sarebbe stata scatenata da una richiesta di intervista al ministro, probabilmente non fatta dal direttore, e che Bonafede ha rifiutato. Da qui, la decisione di provvedere al cambio di direzione con una guida, si fa il nome di Claudio Fusi, meno in contrasto con l’attuale governo. Anche Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense, editore del Dubbio, precisa “onde evitare equivoci di sorta che, al di là di quelle che potranno essere scelte di indirizzo redazionale, mai vi è stata alcuna interferenza di sorta del ministro Bonafede”. Bonafede non c’entra nulla, e ne prendiamo atto, ma la notizia che Sansonetti non sarà più alla guida del Dubbio non è smentita. Anzi, a leggere bene le dichiarazioni di Mascherin, sembra confermata.

“Non c’è posto come Roma…”, i giornali cinesi da Istituto Luce

Non c’è solo il convenzionale racconto da Istituto Luce d’Oriente nelle cronache dei media cinesi sulla visita di Xi Jinping in Italia. Quello cioè affidato a Beijing Ribao, organo del Partito comunista che segue il presidente dalla discesa della scaletta dell’aereo a Fiumicino “lungo il tappeto rosso che lo accoglie con la first lady Peng Lyuan sulla pista”, fino all’incontro al Quirinale con l’omologo italiano Sergio Mattarella. Quest’ultimo peraltro trasmesso in diretta tv e in streaming da alcune emittenti di Pechino con l’unica sbavatura di aver indicato la figlia del presidente Laura Mattarella come first lady.

Sui media cinesi non mancano articoli d’orgoglio per la firma del memorandum: “Non c’è miglior posto di Roma per il presidente Xi”, è il pezzo a firma Gordon Watts del quotidiano in lingua inglese Asia Time. “Peccato che il piano di aderire all’iniziativa della Via della Seta abbia scatenato preoccupazioni da parte dell’Ue e degli Usa”, scrive Watts riportando le rassicurazione del premier Conte “per disinnescare un potenziale conflitto di interessi”, spiega sibillino il giornalista. “Le crescenti ansie sull’influenza cinese in Europa verranno eliminate quando Xi incontrerà il presidente francese Macron”, chiosa sicuro Watts.

Porta la sua firma anche l’articolo del 19 marzo che descrive il “clima da Opera che si sta creando in Italia intorno al corteggiamento cinese”. “Nella casa spirituale dell’Opera la tragedia è solo un’aria lontana. Per l’Italia, colpita da turbolenze economiche e politiche negli ultimi due anni, risolvere questo problema in stile Puccini potrebbe significare gettarla tra le braccia della Cina”. Dramma a parte, l’Italia ai media cinesi fa anche sorridere, come quella volta – ricordata dal Beijing Ribao – in cui Di Maio a Shanghai chiamò il presidente “Ping”. Intanto il China Daily dà una notizia: a Pechino è in corso “il più grande Forum economico mondiale”.

La Germania controlla già la rotta terrestre Macron va all’attacco

Alla fine è una questione di status, di “spazio vitale” e di soldi. Le regole della geopolitica guidano i comportamenti nei confronti della Cina. E se c’è una richiesta che viene avanzata all’Italia è quella di muoversi con un “approccio più coordinato” come ha affermato Emmanuel Macron a margine del Consiglio europeo concluso ieri a Bruxelles e in cui si è preparato il vertice Ue-Cina del prossimo 9 aprile.

Per marcare questo approccio l’incontro che si terrà martedì prossimo all’Eliseo, tra Xi Jinping e il presidente francese, vedrà presenti anche il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Una triade, senza l’Italia, che vuole mostrare che l’Europa ha capito che “il tempo dell’ingenuità è finito” come ha ripetuto ancora Macron, che la Cina è un “competitore economico”, come ha scritto nero su bianco la Commissione europea e che l’obiettivo principe di questa fase, in cui la Cina si fa “potere globale” è il “riequilibrio” degli scambi commerciali. Anche tramite uno “scudo”, uno “screening degli investimenti cinesi” come ha sottolineato Juncker che dovrebbe scattare il 1º aprile.

Interessi diversi. Ma come faceva notare ieri il Financial Times, “sono i numeri a spiegare perché l’Italia vuole essere la prima grande economia occidentale ad aderire alla Belt and Road Initiative (Bri, la “via della Seta”, ndr). Come si può leggere nella tabella, l’Italia segue Gran Bretagna e Germania per quanto riguarda gli investimenti cinesi nel proprio territorio, ma per quanto riguarda le proprie esportazioni in Cina segue anche la Francia. Solo che ha una posizione strategica molto più favorevole per divenire la porta di accesso all’Europa per le merci cinese.

Chi può permettersi di guardare tutti gli altri dall’alto del proprio surplus commerciale, però, è la Germania, che attrae più investimenti dell’Italia ma che, soprattutto, esporta verso la Cina circa 100 miliardi di euro contro i 20 dell’Italia. Anche per questo ieri Merkel ha sottolineato di “non avere critiche da fare” al Memorandum tra Italia e Cina. Anche perché ad avere i maggiori legami con il gigante asiatico sono proprio la Germania e il Belgio.

Il porto belga. Nel 2017 la Cina ha acquisito il 76% del secondo porto del Belgio, Zeebrugge, con la Cosco Shipping Ports. Zeebrugge ha una capacità annuale di un milione di Teu (l’unità di misura dei container) e il 23 gennaio 2018 si è completato l’accordo per la concessione dell’intero scalo. La centralità del porto belga è dimostrata anche dall’avvio di un servizio ferroviario diretto tra il Belgio e il porto di Trieste con un corridoio tra Adriatico e Mare del Nord ma che può arrivare fino in Turchia, verso est, e in Gran Bretagna attraversando il mare del Nord.

Ma il vero gioiello europeo, in tema di trasporti e connessioni dirette legate alla Cina, è la connessione tra la città tedesca di Duisburg e la cinese Chongqing, “motore della crescita della Cina occidentale” (Rapporto annuale della Fondazione Italia-Cina). Situata nel centro del Paese, con 30 milioni di abitanti, ha uno strategico porto fluviale che, lungo il fiume Yangtze, porta fino al sud-est ricco e con affaccio sul mare.

Siamo sulla rotta terrestre della “via della Seta” e il collegamento ferroviario tra la Cina e la Germania fu creato prima ancora che Xi Jinping annunciasse la Bri. La rotta era solo un tracciato utilizzato dalla Hewlett-Packard per commercializzare i suoi Pc e in seguito è diventata una miniera d’oro. E stato creato, infatti, un nuovo marchio, la China Railway Express, e Duisburg è diventata l’approdo principale dei treni-merci che provengono dalla Cina attraversando la Russia e il Kazakistan. Il tragitto dura 16 giorni contro i 25-30 giorni via mare.

Il futuro delle merci. Nel 2018 il volume delle merci consegnate tra la Cina e l’Europa è aumentato del 35% rispetto al 2017, con oltre 370.000 Teu secondo i dati United Transport and Logistics Company-Eurasian Rail Alliance, specializzata nel trasporto di container merci su rotaia. “Il potenziale di questo settore rimane enorme”, dice Alexey Grom, presidente di Utlc-Era, “oltre 23 milioni di Teu all’anno vengono consegnati in Europa dai Paesi della regione Asia-Pacifico e in direzione opposta via mare e fino al 10% di questo volume potrebbe essere consegnato attraverso le ferrovie euroasiatiche”. Per il momento tutto questo arriva in Germania.

I memorandum sono solo il sigillo su affari già avviati

In italiano memorandum of understanding significa “accordo non vincolante”, ma quelli che verranno firmati oggi tra imprese italiane e cinesi un vincolo lo rivelano: quello che lega aziende in cerca di nuovi mercati e il Paese che può offrire più opportunità. La visita del presidente Xi Jinping a Roma è il segnale di quello che i think tank chiamano “globalismo cinese”. Ma le imprese si sono legate a Pechino da parecchio, come si capisce dai 10 memorandum che dovrebbero essere firmati oggi e che, perlopiù, sono sigilli su progetti già avviati. In prima fila c’è la Cassa Depositi e Prestiti, controllata del Tesoro che gestisce i risparmi postali: dal 2014 nella sua Cdp Reti (che controlla, tra l’altro, la rete elettrica) c’è una compagnia cinese pubblica, State Grid. I nuovi vertici di Cdp, l’ad Fabrizio Palermo e il presidente Massimo Tononi, hanno tenuto le cariche apicali di Cdp Reti. Per far capire che non comandano i cinesi. Palermo si è anche insediato alla presidenza, lato italiano, del business forum Italia-Cina che si è riunito ieri: ha preso il posto di Marco Tronchetti Provera, vicepresidente della Pirelli ormai da anni a controllo cinese. Un altro segnale per ribadire che gli interlocutori principali di Pechino devono essere uomini scelti dal governo, visto che in Cina tutto il business è politica. Tra i memorandum del gruppo Cdp-Sace, per Palermo quello cruciale riguarda i “Panda bond”: la Cdp e Bank of China emetteranno obbligazioni sottoscritte da investitori istituzionali (banche e fondi) cinesi per finanziare l’espansione in Cina delle medie imprese italiane.

Al forum, che serve a far dialogare imprese italiane e cinesi, partecipavano aziende che da tempo puntano sulla Cina, come il gruppo Bracco che dal 2001 porta tecnologie di diagnostica sanitaria in Cina grazie a una joint venture con Shanghai Shine.

Il colonialismo tramite l’iniziativa Belt and Road (il piano di investimenti della “nuova via della seta”) è un rischio politico e per le infrastrutture, ma per altre aziende è la leva per accedere al mercato cinese. A Washington e Bruxelles guardano con sospetto gli interessi cinesi sui porti che però non nascono certo oggi: uno dei memorandum riguarda il porto di Trieste, per il piano “trihub”, investimenti di Cccc (China Communications Construction Company) che dovrebbero permettere al sistema portuale triestino di accedere al nuovo polo ferroviario che i cinesi stanno sviluppando in Slovacchia. Un progetto che comunque ha ottenuto l’avallo di Bruxelles per rafforzare gli scambi Ue-Cina. Anche l’Autorità del Mar Ligure occidentale firmerà il suo memorandum. Ma di nuovo, se di invasione si tratta, è cominciata da parecchio: dal 2016 la Cosco Shipping, controllata dal Porto di Quingdao, ha una partecipazione del 49,9% nel terminal container di Vado Ligure. Mentre Cccc firmerà un memorandum oggi per investire sul porto di Genova.

Quingdao è una città portuale sulla costa est della Cina, a Nord di Shanghai. Oggi è una delle capitali della nuova “via della seta”, ma già da tempo è nel radar delle grandi imprese italiane. Intesa Sanpaolo firmerà oggi un memorandum con la Bank of Quingdao della quale è già azionista con il 15%. A fine 2017 ha lanciato una società di gestione dei patrimoni dei clienti più benestanti di Quingdao, il passo successivo è distribuire prodotti bancari direttamente dall’e-banking della Bank of Quingdao.

Anche Snam, società a controllo Cdp che gestisce la rete del gas, vede la Cina come mercato da conquistare e non una minaccia. La società guidata da Marco Alverà ha già accordi di collaborazione con State Grid, Bejing Gas, PetroChina e si appresta a firmare altri tre memorandum. Secondo le previsioni, la domanda di gas in Cina passerà dai 280 miliardi di metri cubi del 2018 ai 600 miliardi del 2040. Per questo i cinesi programmano di moltiplicare per quattro la loro capacità di importazione di gas naturale liquido. Ma non hanno una società unica della rete, hanno bisogno di supporto e tecnologia, Snam si sta muovendo per fornirli e ha da poco aperto uffici a Pechino.

Ci sono anche Danieli (infrastrutture siderurgiche), Ansaldo Energia e pure l’Eni tra le dieci aziende che oggi firmeranno memorandum. La Cina è un mercato che interessa a tutti. Il 3% delle esportazioni italiane nel 2018, 13,7 miliardi di euro, è andato al mercato cinese. Ma noi, da loro, importiamo per 31 miliardi. Le acquisizioni di società italiane da parte di gruppi cinesi sembrano imponenti, ma in realtà tra il 2000 e il 2018 l’Italia ha ricevuto soltanto 15,3 miliardi di euro contro i 22,2 in Germania e i 46,9 miliardi in Gran Bretagna. I memorandum di oggi, insomma, non sono certo l’inizio di un legame sempre più stretto tra Italia e Cina. E sicuramente non sono la fine di questo percorso di avvicinamento.