Mattarella ricorda a Xi i diritti umani (e gli States)

Tra un tortello ripieno alla carbonara e un babà, tra una disquisizione su Marco Polo e la promessa della restituzione di qualche prezioso bene archeologico, l’Italia ha accolto Xi Jinping con il tappeto rosso, reale e figurato. L’intera Capitale si è sostanzialmente bloccata e trasfigurata, mentre il presidente cinese passava da un incontro istituzionale all’altro. Qualche paletto è arrivato da parte italiana e qualche rassicurazione da parte cinese. Ma di fondo, il dato centrale che è emerso è stato l’interesse reciproco a costruire un rapporto.

Dopo la notte trascorsa al Grand Hotel Parco dei Principi, Xi Jinping è salito sull’auto presidenziale, insieme alla moglie Peng Liyuan, ex cantante e icona della moda in patria, vestita di bianco dalla testa ai piedi, ed è andato al Quirinale per un incontro con Sergio Mattarella. “Attenzione ai diritti umani”, si è raccomandato il presidente italiano. Un appello non scontato. E poi ha definito la via della Seta “una strada a doppio senso”, lungo la quale “devono transitare non solo commercio ma talenti, idee, conoscenze”. Dal canto suo, il cinese ci ha tenuto a dire che “la Cina vuole uno scambio commerciale a due sensi e un flusso degli investimenti a due sensi”. Messaggio da far passare: l’Italia ha i suoi ampi vantaggi dall’intesa. Mattarella non ha neanche mancato di “auspicare” un accordo tra la Cina e gli Stati Uniti ed entrambi hanno sottolineato l’importanza di un’Europa unita.

Poi Xi è andato a deporre una corona all’Altare della Patria, non s’è fatto mancare un incontro con le Associazioni cinesi in Italia (familiarmente, per così dire, avvenuto in albergo) e nemmeno la visita in Parlamento: prima Palazzo Madama, dove ha visto la presidente Maria Elisabetta Casellati, dopo Montecitorio, dove l’ha accolto un gruppo di cinesi con tanto di bandierine prima di una breve chiacchierata col presidente Roberto Fico.

A sera la cena di gala al Quirinale con una gran parata di abiti lunghi: 170 ospiti, tra cui praticamente tutto il governo (ad eccezione di Matteo Salvini) e molti manager. Il tutto accompagnato dall’esibizione di Andrea Bocelli. Oggi si ricomincia a Villa Madama con Conte.

Cda di Ubi, i fondi non presentano la lista per protesta

Il listone unitario dei grandi azionisti Ubi Banca, che comprende la Fondazione Banca del Monte di Lombardia, il Patto dei Mille e la Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo è l’unico che sarà presentato all’assemblea del 12 aprile. A sorpresa, infatti, Assogestioni non ha presentato alcuna lista nonostante la banca avesse deciso di procrastinare il termine a ieri proprio per agevolare i fondi. Quella di aprile è un’assemblea topica per Ubi, in cui eleggere il nuovo cda. Di fatto, dall’unico listone si attingerà per coprire tutti i 15 posti del nuovo consiglio: Letizia Moratti e Victor Massiah saranno presidente e amministratore delegato, mentre come vicepresidente si profila Roberto Nicastro, ex direttore generale di Unicredit. A quanto filtra al Fatto, ci sarebbe stato un malumore dei fondi per la riconferma di Massiah, già imputato a Bergamo al processo per l’inchiesta che ha mostrato come le componenti bergamasche e bresciane di Ubi si sarebbero spartite per anni il controllo dell’istituto. Tra gli imputati ci sono anche diversi degli attuali vertici, tra cui il presidente Andrea Moltrasio e il vicepresidente Mario Cera. Situazione che avrebbe spinto per la mancata conferma. Con l’eccezione, però, di Massiah.

Da Germania e Usa, segnali di recessione in arrivo. Borse giù

Crolla ai minimi dal 2012 l’indice Pmi manifatturiero della Germania. A marzo si è registrato un ribasso a 44,7 punti da 47,6 precedente, segnalando un peggioramento della fase di contrazione dell’attività (quota 50 è la soglia di demarcazione tra espansione e contrazione del ciclo). Un risultato che, seppur preliminare, è in controtendenza rispetto alle attese del mercato che puntava su un rialzo a 48 punti. Un segnale sempre più forte di rallentamento economico della Germania. Anche nell’intera Eurozona a marzo l’indice Pmi manifatturiero ha registrato un’ulteriore contrazione dell’attività, toccando i minimi da sei anni, così come per la Francia (di nuovo sceso sotto 50). Il timore di una nuova recessione si è fatto sentire sulle Borse, che hanno chiuso tutte in negativo (Milano -1,3%). Pessime notizie anche dagli Usa. L’Indice Pmi si è contratto e la paura di un rallentamento ha spinto la Fed ha congelare il rialzo dei tassi. Non solo. La gelata arriva poi con l’inversione della curva dei rendimenti: per la prima volta dal 2007, ovvero poco prima della crisi finanziaria, i titoli a 3 mesi superano quelli a 10 anni. L’inversione è considerata un indicatore di una possibile recessione in 18 mesi.

Parigi, il vero avversario che ama i potenti italiani

Quello tra Italia e Francia è un rapporto complicato, come capita a volte in famiglia. Dando per scontate le ragioni storiche e culturali della cuginanza, è però vero che oggi Parigi si trova ad essere il vero avversario di Roma in quel ring che va sotto il nome di Unione europea. Non si parla qui del folclore tipo Emmanuel Macron che fa l’umanitario coi migranti degli altri e Luigi Di Maio che fa il rivoluzionario coi gilet gialli degli altri, né di Matteo Salvini che rivuole i terroristi e nemmeno delle pur sgradevoli polemiche pubbliche sul Tav che peraltro i francesi – buco nelle Alpi a parte – non hanno alcuna intenzione di costruire. Oltre al folclore, infatti, ci sono dossier, interessi, persino attitudini alla gestione del potere che mettono Francia e Italia su due lati opposti della barricata e tanto più plasticamente si vede ora che Roma tenta di tornare in forme aggiornate al suo tradizionale – per quanto un po’ accattone – multipolarismo (vedi Cina) e Macron reagisce come se la cameriera avesse tentato di sedersi a tavola.

La Libia è forse il caso mediaticamente più noto della differenza di interessi tra Francia e Italia: quella guerra, voluta da Nicolas Sarkozy e dal britannico David Cameron, puntava proprio a rovesciare – a danno dell’Italia – le influenze politiche in un’area ad alta densità di petrolio, contrapposizione che è poi continuata con l’appoggio francese al generale Haftar in Cirenaica per destabilizzare il governo “italiano” di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj.

Quanto ai rapporti economici diretti tra i due Paesi, il conflitto è dovuto anche al modello di espansione francese: non la (altrettanto invasiva) integrazione produttiva e finanziaria tedesca, ma l’acquisizione diretta di grandi aziende. I casi sono molti: dal lusso (Gucci, Bottega Veneta, Bulgari, Loro Piana, etc.) all’energia (Edf in Edison, Suez in Acea); dalla grande distribuzione (Gs-Carrefour) al cibo (Parmalat) fino agli scottanti dossier Tlc e finanza.

Com’è noto, la media company transalpina Vivendi è azionista di rilievo tanto di Tim (dove ha ingaggiato una battaglia col fondo Elliott spalleggiato, finora, da Cassa depositi e prestiti) che di Mediaset (la scalata al Biscione è stata bloccata). Nel settore bancario la presenza francese è pervasiva e punta, minacciosamente, ad estendersi: da Bnl oggi Bnp Paribas allo shopping di piccoli istituti portato avanti da Crédit Agricole fino alla presenza di Société Generale in Generali e le mire della stessa banca su Unicredit e Mediobanca, stoppate (per ora) solo dal cambio di governo.

La “reciprocità”, che ora l’Ue pretenderebbe dalla Cina, non è poi così di moda nei suoi confini: valga, per tutti, la denuncia all’Antitrust Ue dell’ingresso di Fincantieri nella malmessa Stx (pure dopo mesi di contrattazione a livello di governi) o le difficoltà di Leonardo Del Vecchio, nonostante sia di gran lunga primo azionista, a governare la franco-italiana EssilorLuxottica per la resistenza dei manager d’Oltralpe.

La musica cambia di colpo, però, se dalla durezza adamantina dei rapporti di potere si passa a quelli personali. È assolutamente incredibile, per dire, il numero di potenti italiani insigniti a vario grado della Legion d’onore, massima onorificenza francese: l’ultima è stata, l’11 marzo, l’ex ministra Paola Severino, peraltro indicata da Gentiloni tra i tre saggi italiani che avrebbero dovuto scrivere un Trattato con la Francia oggi finito nel cassetto. L’elenco è lungo, ma cogliendo fior da fiore nella lista ci sono Giorgio Napolitano (e il suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi), il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, Romano Prodi, Enrico Letta, Franco Bassanini, Piero Fassino, Walter Veltroni, Massimo D’Alema, Antonio Tajani, Claudio Scajola, Franco Frattini, Stefania Prestigiacomo, Giovanna Melandri, Roberta Pinotti, Emma Bonino, Pier Ferdinando Casini e tutti gli ultimi sindaci di Milano (Albertini, Moratti, Pisapia e Sala). Ma non solo politici: l’intero Gruppo Espresso d’antan (Carlo De Benedetti, l’ad Monica Mondardini, Eugenio Scalfari e Ezio Mauro), il banchiere Giovanni Bazoli, gli ex presidenti di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo e Emma Marcegaglia. Una volontà di premiare gli amici di Parigi che è arrivata persino all’ex sottosegretario Sandro Gozi, a dire forse che quasi chiunque può aspirare all’ordine creato da Napoleone nel 1802.

Congresso Famiglie, via il patrocinio “Dissociazione totale del governo”

Siccome non si arrendono, quelli del World Families Congress adesso hanno messo in bella vista sul loro sito il simbolo del ministero per la Famiglia e le Disabilità, con tanto di stemma della Repubblica italiana: gli è rimasto quello, e ci tengono a farlo pesare. Non c’è più il logo del governo che, per usare le parole del sottosegretario alle Pari opportunità Vincenzo Spadafora, si è “totalmente dissociato”: dopo settimane di patemi, Palazzo Chigi ha chiesto e ottenuto che gli organizzatori del convegno in programma a Verona per il prossimo weekend togliessero l’effigie dell’esecutivo, che non aveva alcuna intenzione di patrocinare un evento i cui temi non sono contemplati “dal contratto di governo” né tantomeno di dare il benestare a un consesso che non tutela “il rispetto della persona indipendentemente dall’orientamento sessuale”.

È dovuto intervenire il premier Giuseppe Conte in persona: a nulla erano serviti i tentativi di far desistere il ministro Fontana, che poi è quello che ha voluto dare il patrocinio agli omofobi, antiabortisti e ultratradizionalisti cattolici che venerdì si riuniranno in nome della famiglia. Ci aveva provato il segretario generale della presidenza del Consiglio, Roberto Chieppa: dieci giorni fa aveva documentato e spiegato come il patrocinio fosse illegittimo, perché non aveva seguito l’iter previsto dal Cerimoniale. A Fontana, però, quella lettera era scivolata addosso. E poco aveva potuto il capo del dipartimento guidato da Vito Crimi (l’Editoria), che aveva accolto le ragioni di Chieppa e spiegato a Fontana che usare il logo era inopportuno. Solo Conte, alla fine, poteva convincere il ministro leghista, che ha perfino tentato di resistere, quando giovedì il premier lo ha avvertito via Facebook che il gioco era finito. Ieri, di fronte alla diffida ufficiale arrivata al World Families Congress, il logo è finalmente sparito. “Dovremo usare direttamente il logo della Repubblica italiana (quella “allegata” al ministero della Famiglia, ndr): per noi si tratta di un felice guadagno”, hanno commentato gli organizzatori, pur irritati per la mole di materiale che andrà ristampata. Logo o no, sul palco di Verona ci saranno, oltre a Fontana, anche il ministro Bussetti e il vicepremier Salvini. Quelli, non si possono diffidare.

Tav, da Macron molti sgarbi: “È un problema solo vostro”

L’inizio non è di buon auspicio. Difficile potesse andare peggio, almeno pubblicamente. Dietro le quinte, l’accordo di massima è per dare vita a dei tavoli tecnici, a partire dall’incontro tra i ministri Danilo Toninelli ed Elisabeth Borne che si terrà nei prossimi giorni. Ma ufficialmente l’incontro tra Giuseppe Conte ed Emmanuel Macron viene accompagnato, prima e dopo, da una sfilza di scortesie del presidente francese. L’incontro era stato chiesto dal premier, che lo aveva promesso dopo il via libera agli avvisi pubblici dei bandi Telt pubblicati l’11 marzo scorso dal promotore italo-francese dell’opera. L’obiettivo è “ridiscutere integralmente questo progetto”, a partire dalla sproporzione dei costi e da alcune inadempienze di Parigi. Ieri il presidente francese non ha fatto nessuna apertura. Anzi.

Il bilaterale, una colazione tra i due leader, inizia al mattino presto, nel giorno conclusivo del Consiglio europeo. Macron lo anticipa con una dichiarazione sprezzante giovedì notte. Ai cronisti la derubrica a una bega romana: “La Francia ha sempre avuto la stessa posizione, ora – spiega – è un problema italiano. Penso che i temi europei sono sufficientemente importanti, come la Cina e le questioni commerciali. Ogni volta che ci sono dei temi di divisione nazionale o domestici di un Paese al Consiglio si perde del tempo e io non ne ho molto da perdere”. Insomma, l’incontro è poco più di una cortesia.

L’uscita costringe Conte a un chiarimento imbarazzato: “Il suo tono apparentemente irritato era dettato dal non volersi far coinvolgere in un dibattito politico…”. Il vertice dura poco. Alla fine il premier ostenta ottimismo: è stato “buono e proficuo”, “abbiamo parlato anche di Tav e condiviso un metodo”, spiega. Poco prima che parli, però, fonti dell’Eliseo riferiscono all’Ansa che l’impegno della Francia sulla Torino-Lione è chiaro, soprattutto sul lato finanziario e su questo non c’è nessun dubbio da parte dei francesi. Questo “è quello che Macron avrebbe detto a Conte”. L’unica conferma è che i ministri dei Trasporti si vedranno nei prossimi giorni. Saranno loro, Toninelli e Borne, ad “analizzare i risultati dell’analisi costi-benefici e su quella base aprire una discussione aperta”, spiega il premier, costretto anche a replicare alle fonti dell’Eliseo: “Io non ho parlato di redistribuzione di risorse economiche, ma solo di analisi costi-benefici…”.

Eppure, almeno negli obiettivi, è proprio la redistribuzione il cuore delle richieste italiane. Anche perché l’analisi è dai primi di febbraio nelle mani francesi, che non hanno mai fornito a Toninelli le loro deduzioni. Il ministero italiano le attende da mesi.

La sproporzione nei costi è palese. Quello del tunnel di base del Tav è di 9,6 miliardi. Così ripartiti: al netto del contributo europea, l’Italia spende 3,5 miliardi e la Francia 2,4 nonostante la galleria sia per 45 km (su 57 totali) in territorio francese. Al lordo del contributo Ue, che viene poi versato ai Paesi, sull’Italia ricade il 58% dei costi. Fu il governo di Silvio Berlusconi nel 2004 a escogitare la geniale idea di accollare a Roma i due terzi delle spese per un tunnel per oltre due terzi in Francia (accordo confermato nel 2012 da Monti). La stessa procedura francese che analizza le opere (Enquete d’utilité publique) ammette che “il Tav è positivo “in ragione del fatto che l’Italia si accolla la mmaggior parte dei costi”. L’anomalia fu giustificata dal fatto che Parigi avrebbe sopportato costi più alti per la tratta nazionale dal tunnel a Lione (8 miliardi), ma a gennaio 2018 il governo francese ha deciso che non verrà presa in considerazione “prima del 2038”.

Per questo ora Conte chiede di ridiscutere le cifre. Anche perché l’articolo 16 del Trattato del 2012 dice che “la disponibilità del finanziamento sarà una condizione preliminare per l’avvio dei lavori della parte comune italo-francese della sezione internazionale”. Condizione che non è soddisfatta, visto che l’Italia ha già messo sul piatto 2,63 miliardi, assegnati dalla legge di Stabilità 2013 (governo Monti) mentre Parigi finora per i prossimi lavori ha messo 55 milioni e di altre risorse non c’è traccia nei documenti pubblici, nemmeno nel bilancio di Telt. Eppure i bandi da 2,3 miliardi riguardano i lavori dell’intero versante francese.

Roma ha 5 mesi e mezzo per apporre il veto alla pubblicazione definitiva dei bandi, ipotesi che però per la Lega non è sul tavolo. “Ho ricordato a Conte che noi abbiamo prima di tutto un accordo intergovernativo, testi internazionali e impegni che legano noi e l’Ue. Non possiamo non tenerne conto”, ha spiegato ieri Macron. Che pure non ha mai amato l’opera.

Un nemico del popolo

“Ache ti serve avere ragione se non hai il potere? A che ti serve la verità se il popolo non la vuole?”. “Il popolo non ha bisogno di idee nuove, semmai ha bisogno di idee che ha già”. “Siamo tutti d’accordo che, sulla faccia della terra, gli imbecilli costituiscono la maggioranza”. Sono i dialoghi paradossali e provocatori di Un nemico del popolo di Henrik Ibsen, portato in scena in questi giorni al teatro Argentina di Roma da Massimo Popolizio, nei panni del dottor Stockmann, con Maria Paiato in quelli maschili del di lui fratello, sindaco corrotto di un piccolo centro termale della Norvegia. La pièce è del 1882, ma potrebbe essere di stamane, se oggi esistessero drammaturghi di quel rango. Stockmann, medico delle terme che reggono l’economia locale, scopre che le acque “curative” sono un focolaio d’infezione, inquinato dai liquami delle concerie del suocero. E, analisi chimiche alla mano, informa il giornale cittadino, La Voce del Popolo, perché lanci l’allarme, e il fratello sindaco, perché chiuda l’impianto per tre anni e avvii i lavori per la bonifica e per le nuove condutture. Ma il sindaco mette tutto a tacere, per non perdere i soldi dei turisti. Con la complicità del giornale, edito dal capo dei costruttori e benpensanti (“mi agito per la temperanza”) e diretto da un suo degno servo, ovviamente cultore della “libera stampa”. I tre occultano le analisi, tappano la bocca al “nemico del popolo” e gli montano contro l’“opinione pubblica” con una campagna di stampa e propaganda di calunnie e slogan a presa rapida: lo “sviluppo”, il “lavoro”, il “ceto medio” e la riduzione delle tasse (“noi non mettiamo le mani nelle tasche dei cittadini”). E tanti saluti all’ambiente, alla salute e alla scienza.

Mancano soltanto il “Partito del Pil”, il “ce lo chiede l’Europa”, lo “Sblocca-cantieri”, la marcia delle “madamine”, le fantomatiche “controanalisi costi-benefici” per smentire i prof allarmisti alla Ponti, ed ecco servita con 137 anni d’anticipo la tragicomica campagna pro Tav degli ultimi mesi. Sulle terme inquinate di Ibsen come sul mega-buco inquinante in Val Susa, la “maggioranza” è assolutamente digiuna. Attende lumi dalla politica, dalla stampa e dalla scienza (“Perché dovrei votare anch’io che non so niente e non ci capisco niente?”). Ma, se la politica è corrotta, la stampa asservita e la scienza tacitata, l’opinione pubblica diventa “una massa di organismi in forma umana” pronti a tutto, anche a benedire chi li avvelena e a maledire chi vuole salvarli. Così vince l’omertà, opportunamente propiziata con amorevoli consigli (“sappiamo dove abiti”, “te la diamo noi la medicina…”).

l caso ha voluto che la prima nazionale di questa satira feroce sulle degenerazioni della democrazia andasse in scena proprio a Roma mercoledì, poco dopo l’arresto del presidente dell’Assemblea capitolina. Dunque, in sala, oltre a tutti i rimandi che il profeta Ibsen lancia a un’attualità che non può conoscere (la guerra delle opposte fake news, il caso Ilva, il Tav e le grandi opere dell’alta voracità), il pensiero correva spesso a quel che accade tra Campidoglio, Procura e redazioni dei giornali.
Abbiamo già segnalato l’immonda campagna contro la sindaca Raggi, sempre uscita pulita anzi estranea da ogni inchiesta e processo, e ritirata in ballo a sproposito dopo l’arresto del suo più acerrimo avversario; e contro l’assessore Daniele Frongia, mai accusato da nessuno di aver preso soldi o favorito chicchessia, prossimo all’archiviazione dopo che era stato iscritto mesi fa per “atto dovuto” in una vecchia indagine su storie di curricula chiesti da Parnasi, totalmente separata dal caso De Vito e dal caso stadio. Anche ieri si leggevano titoli falsi come Giuda che dovrebbero interessare l’Ordine dei giornalisti, se servisse a qualcosa. “Il cerchio si stringe sulla Raggi. Indagato pure il suo assessore”, “Anche Frongia indagato. Cade il teorema dell’unica mela marcia”, “Cade il sindaco-ombra sempre vicino a Virginia” (il Giornale dei pregiudicati Silvio e Paolo B.), “Stadio della Roma. Indagato Frongia, fedelissimo di Raggi, accusato di corruzione. L’inchiesta ha già portato in carcere De Vito” (La Stampa, che scambia la nuova inchiesta con una vecchia avviata all’archivio), “Di Maio chiama la sindaca: ‘Così danneggi il Movimento’” (ibidem: “così” come, visto che non è accusata di nulla?). “Indagato Frongia. E ora la Raggi balla davvero. Il fedelissimo della sindaca avrebbe accettato favori da Parnasi” (il manifesto: quali favori?). “Ciclone giudiziario su Raggi” (Corriere della Sera: un tale ciclone che la Raggi non deve rispondere di nulla, e lo stesso Corsera, in piccolo, precisa che per Frongia “si parla di archiviazione già lunedì”). “Frongia, fedelissimo di Raggi nella rete della corruzione”, “La giunta Raggi sotto accusa”, “La cricca grillina” (Repubblica: poi, in caratteri lillipuziani, “la Procura si appresta a chiedere l’archiviazione”), “Assessore indagato, Raggi trema”, “Ascesa e caduta di Daniele”, “Stadio, indagato Frongia” (Messaggero: non è per lo stadio, ma fa lo stesso).
Cioè: tutti sanno benissimo, e lo scrivono pure di straforo, che Frongia non ha fatto nulla, è stato iscritto mesi fa per essere sentito con la tutela dell’avvocato, nessuno lo accusa di aver preso uno spillo in soldi o favori, e i pm hanno già chiuso il suo caso, mandando altri 19 indagati al gip per il rinvio a giudizio. Ma per Frongia la regola è: i titoli separati dai fatti, ma persino dagli articoli. E alla svelta: se si attende un altro paio di giorni, poi arriva l’archiviazione e non si può più titolare sulla “caduta” dell’assessore “corrotto” e “mela marcia” della “cricca” Raggi. È così che la “libera stampa” forma ed educa la “maggioranza” e l’“opinione pubblica” contro i “nemici del popolo” nel 2019.

Savinio, il De Chirico che sorprende

L’accecante talento di un familiare può, delle volte, spingere un fratello, una sorella, un coniuge a fare un passo indietro per timore del confronto o anche solo per indolenza.

Una sera del giugno 1897, seduti a un tavolo del Cafè de la Paix a Parigi, Costantino Kavafis riflettendo sulle proprie intenzioni di essere un poeta dice en passant al fratello John: “Non c’è posto per due poeti nella stessa famiglia”. Quasi se ne pente sul fare ma John, che ha già pubblicato una silloge in inglese ma è il più grande ammiratore del fratello, si fa da parte. Tuttavia, per un John Kavafis che cede il posto, c’è un altro “greco” – la comune nazionalità è casuale – che invece persiste a ragione nella propria arte parallelamente all’opera del fratello: Alberto Savinio (1891-1952: nom de plume di Andrea De Chirico), scrittore e musicista oltre che pittore.

Lo presenta al grande pubblico la mostra De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna fino al 30 giugno alla Fondazione Magnani-Rocca di Parma, curata da Alice Ensabella e Stefano Roffi. Nonostante il titolo (che testimonia la condanna di Savinio alla necessità della nota di redazione: “N.d.R. fratello di Giorgio De Chirico”), l’esposizione restituisce con ampiezza l’eclettico percorso artistico di Savinio in dialogo con alcune opere del fratello, tributandogli i dovuti meriti.

Si inizia dalla rilettura del classico e del mito con Prometeo (1929), L’ira di Pericle (1930) e Icaro (1926), dipinti in cui si nota come sia stato lui il primo a utilizzare i celebri manichini senza volto, a rileggere cioè la statuaria greca creando corpi senza identità, oppure inserendovi teste di animali come in La vedova (1931), dedicato alla madre, o in Apollo (1931) in cui il dio greco ha il volto di un tacchino. La battaglia dei centauri (1930) spiega inoltre che fu precursore anche nelle figure di cavalli, gladiatori e centauri, divenute poi un altro marchio di fabbrica di De Chirico.

Si comprende, dunque, che alla pittura metafisica tout-court del fratello, Savinio ne preferisce una più visionaria. Lo testimoniano le vedute sia delle città, l’apocalittica Gomorra (1929) o la futuristica L’île des charmes (1928), sia delle spiagge della Grecia, grazie a cui il pittore torna all’infanzia: a tal proposito, da rimirare a perdifiato è L’abandonné (1929), quadro di commovente bellezza, in cui la gioia di alcuni giocattoli colorati viene abbandonata a riva da una grigia famiglia di forme che, una volta cresciuta e adulta, si allontana per sempre.

L’ombra lunga della depressione su un’innocua amicizia estiva

Il fumetto ha faticato molto per emanciparsi dalla fama di fratello minore della letteratura soltanto perché integra le parole con i disegni. Ma non per questo deve rinunciare alla sua valenza di linguaggio versatile, capace di parlare a pubblici diversi, per età e letture. La casa editrice Il Castoro, specializzata in libri per ragazzi e young adult, ha appena pubblicato un graphic novel che si inserisce in una nicchia sorprendentemente quasi vuota in Italia, quella del fumetto d’autore per un pubblico di lettori giovani. Certo, ci sono tanti adolescenti che si imbottiscono di manga e supereroi, ma dove sono i graphic novel per quelli che invece cercano qualcosa di più serio? La risposta la danno Silvia Vecchini e Sualzo (Antonio Vincenti) con 21 giorni alla fine del mondo, un esperimento molto riuscito. L’impostazione, il tono e il canovaccio narrativo sono abbastanza tradizionali, da libro per ragazzi: Lisa cresce in provincia sul mare, con la mamma, ha un’amica che la venera, investe le sue energie sul karate. Non ha mai dimenticato Ale, platonico amore di qualche estate remota. Ale ricompare e inizia la prevedibile grammatica del corteggiamento tra adolescenti. Ma gli autori riescono a creare un doppio livello della narrazione, sotto la superficie quasi idilliaca si intravedono segreti e drammi rimossi, con gradualità e grazie al tratto morbido e lieve di Sualzo il lettore viene portato alla consapevolezza che non esiste un’età dell’innocenza. Che la morte della madre di Ale è stata rimossa da un’intera comunità, ma il tentativo di proteggere il figlio, invece che aiutarlo a capire, ha ottenuto come unico risultato di trasmettere tra le generazioni il male oscuro della depressione e un desiderio di morte che può essere vinto solo grazie all’aiuto e all’affetto degli altri.

 

Il mondo di Fantalà: fuga dai problemi (pure degli adulti)

Quando i problemi sembrano una vetta insormontabile, è facile fuggire nella fantasia. Simone, dieci anni, è il protagonista della storia a puntate di Michela Tilli. L’autrice ha già firmato due romanzi per Garzanti, oltre a scrivere per il teatro e la tv. L’ultimo lavoro, da poco in libreria, è una saga letteraria per bimbi dal titolo “Il mondo fantastico di Fantalà” (Gallucci editore). Sulla copertina del primo volume campeggia il sottotitolo: “Due strane creature”. Simone, il protagonista, ha un nemico giurato a scuola: il terribile Emiliano Tagliapietra, un bullo patentato. Lo punge col compasso e gli svuota lo zaino; Simone è la sua vittima preferita. Emiliano è spalleggiato dal fido Diego, sempre pronto a sostenere i suoi dispetti. Simone, terrorizzato, non ci pensa neppure ad affrontare il rivale. Lo farebbe volentieri l’amica Lavinia, alta come una ragazza di terza media, coraggiosa e allergica alle ingiustizie. Simone invece preferisce scambiare le figurine con Leo, l’amico del cuore, mentre immagina il futuro alle scuole medie. Il presente, a Simone fa paura; come la strada che percorre, solitario e nel silenzio, ogni mattina per andare a scuola. Quella via si chiama Vicolo Buio: una metafora dell’anima. A riportare la luce, nella vita di Simone, ci provano due creature dal mondo di Fantalà, Ben e Grimm. Non è detto che sia un bene.