La Chanson Egocentrique d’Occidente compie cent’anni. La poesia del me, me, me del piccolo ragazzo – l’anatema che distrugge il raglio dell’io-io-io – si riavvolge in un secolo. E chissà se Lawrence Ferlinghetti – lui è il festeggiato, nato a Yonkers, nello Stato di New York, nel 1919 – è riuscito a cambiarlo, il mondo, a farlo infine immagine e somiglianza di un libraio, un editore, un cantore e una pop star che nel sentire universale è suppergiù quello dell’eterno reading infinitamente estatico e infinitamente sofferente.
Domenica saranno cento le candeline del Little Boy e per l’occasione uscirà anche un romanzo autobiografico stream of consciousness e in terza persona, senza paragrafi o punteggiatura convenzionale.
Massimo Gaggi che l’ha intervistato per il Corriere l’ha trovato “quasi completamente cieco” e tutto torna nell’affastellarsi dei giorni con la maculopatia che si fa destino per i vegliardi il cui unico credo – e solo questa fede ha Ferlinghetti – è la parola.
Lo sguardo dei bardi – come con le cancellature di Emilio Isgrò sul Cantico delle Creature di Emilio Isgrò – si addensa di tratti. Sono le ombre che vanno a fendere le intermittenze nella luce della città. City Lights è il catalogo di Ferlinghetti per i cui tipi nel 1955 edita Urlo di Allen Ginsberg: il libro che gli apre le porte della prigione un anno dopo, condannato per avere stampato l’oscenità, il viatico per fare di lui un beatnik – lui che non lo sarà mai – lui che resta nella controcultura di massa per parlare alle masse.
Eccolo, come a togliere le parole di bocca a Greta Thunberg: “E allora mostra a tuo figlio un tramonto prima che non ce ne siano più”. Uno sciogliere di trecce, il suo canto: “…consigliò un vecchio Sinistroide/esibendo la solita paranoia della sinistra/che adesso si è riversata sugli ecologisti/e altri della stessa specie/sempre a farneticare sul buco dell’ozono…”. Tutto uno scoperchiare tetti, il suo essere un performer. Ed è, quindi, tutto un sollevare i ciechi, uno svitare serrature senza buttare via i cardini e le sue mura di Ilio – se mai Ferlinghetti è nel segnacolo di un Omero – sono le macerie di Nagasaki e il fungo di Hiroshima.
È la catastrofe atomica voluta a suggello della Seconda guerra mondiale che lo porta a gettare la propria uniforme di soldato della Marina degli Stati Uniti per attraversare dritto dritto la traiettoria del XXI secolo e lì diventare parte della terra bruciata del mondo. Ogni accadere dell’esistenza cerca un verbo: “Che cosa mai sarebbe servito ai troiani, mentre i palazzi di Ilio rovinavano che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?”. Se lo chiede un altro illustre centenario – Ernst Jünger, un altro soldato – autore, nell’immediato accadere della forgia poetica, di un saggio intitolato La Pace.
Italiano nel sangue, con un padre che muore sei mesi prima della sua nascita, Ferlinghetti che si accasa a San Francisco si esalta della casualità “onomastica” e ne fa un dettaglio: è la città di Francesco d’Assisi nel dilagare degli anni 70, il pacifismo è bandiera di una militanza artistica, dice, declama e recita tutto il condivisibile possibile, costruisce la sua “controcultura” nel verso della rivoluzione ma – e la domanda resta – una rivoluzione veicolata dal mainstream può mai considerarsi tale?
“Un poeta anarchico al quale è capitato anche di diventare santo”, dice di Francesco, Ferlinghetti ma di lui –al netto di ogni enfasi –si può dire sia un anarchico cui capita la poesia? Geniale organizzatore di meeting – già nel momento del suo più grande fulgore – Ferlinghetti si definisce per ciò che non è. I pochi giorni di carcere non sono la gabbia del campo di concentramento, a Pisa, di Ezra Pound. A differenza dell’autore dei Cantos, ovvero la Divina Commedia del nostro tempo, il suo ideogramma – la remota linfa della poesis – è l’identità bretone.
A dispetto dell’erudito Tiresia, profondo conoscitore di Confucio, nonché il Miglior Fabbro autore di A lume spento, Ferlinghetti si svela in un’antologia di aforismi, dettati e frammenti il cui titolo, più che un lapsus, è antitesi: Il lume non spento. Il suo paroliberismo, pur sperimentalista nel solco del postfuturismo, nel definirsi in ciò che non è, non fa di lui il Vladimir Majakovskij del proletariato americano (in quella parodia della Rivoluzione bolscevica qual è la stagione della contestazione beat) ma un bestsellerista da milioni e milioni di copie, oltretutto a colpi di poesia. Una cosa è la fama, un’altra è gloria, direbbe Cyrano de Bergerac sfidando il gusto dozzinale dettato dalla voga.
Il mondo, intanto, s’è fatto a sua somiglianza, ma Ferlinghetti lo psicadelico non ha le sciabole, come quel russo, da asciugare sulla seta delle cocottes.
Figlio di una madre pazza, adottato, cresciuto e formato dalla famiglia presso cui la zia è domestica, Ferlinghetti – per suo stesso canto – “è l’acrobata che si arrampica sulla corda che s’è costruita”. Dà parola al Cane della Casa Bianca e va dove la bellezza sta “e aspetta gravemente/l’avvio della sua girandola di morte” è di certo maestro, ma lo è di una sola generazione: quella beat.