Nel ricco Veneto a caccia di assassini e di tette, tra fascisti e boss della camorra

Ah il mitico Nord-est, motore della Padania e traino dell’intera penisola italica. Ma il luccichio degli schei, il vile e prezioso danaro, cela di tutto, comprese le mafie del Paese. Non a caso si è celebrata proprio a Padova la giornata della memoria che ricorda le vittime innocenti della delinquenza organizzata, organizzata ieri da Libera. Ed è da un caso di “nera” che fonde droga, camorra e connivenze politico-imprenditoriali che parte l’inchiesta giornalistica di Anacleto Lippi, cronista veneto di base a Roma che ritorna a Verona, la sua città, per indagare sulle abitudini sessuali di un esponente della Regione. Passioni transex.

Lippi è il protagonista dell’esordio giallistico di Paolo Butturini, già vicesegretario della Fnsi, il sindacato dei giornalisti. Il libro s’intitola Ho ballato di tutto e vanta una prefazione di Giovanni Bianconi del Corriere della Sera. A Verona, però, l’affermato cronista cerca soprattutto la sua Querencia. Che cos’è? “Nella tauromachia, è la zona in cui, nella spaventosa confusione dell’arena, il toro si sente al sicuro. In fondo la vita è questa: una lunga corrida in cui a volte siamo tori a volte matador, e quando ci capita di essere al posto dell’anima, cerchiamo un luogo tranquillo: la nostra Querencia, appunto”. Lippi ritorna e il racconto si sdoppia, su due piani temporali diversi (a proposito: l’indicazione dell’anno per ogni capitolo avrebbe facilitato la lettura). Così c’è il giovane Anacleto che incappa nell’omicidio di un tossico. Camorra, appunto, neofascisti, spacciatori. Il tutto con la copertura delle istituzioni, dalla politica ai carabinieri. Un giallo che conduce decenni dopo a una verità amara, sull’onda di un amore mancato, tra grandi tette e fiumi di Spritz.

 

Wittgenstein può spiegare la morte di Lolita

Un libro, se è tale, non si legge per sapere come va a finire. Si legge per sapere come andiamo a finire noi. E lo scrittore, se è tale, è colui che azzarda l’impresa – ineludibile ma impossibile – di fare ciò che i comuni mortali, “troppo occupati con le faccende di ogni giorno: lavorare, mangiare, dormire, crescere i figli, pagare i debiti, non hanno né tempo né voglia di fare”: chiedersi “quale sia il senso della vita, sempre che ce l’abbia”. Clara Usón è una scrittrice. E L’assassino timido è un libro. Bello? Domanda sbagliata.

I libri si dividono in due famiglie: utili e inutili. Utili, nel senso che dicono. Qualcosa che non sappiamo. O sappiamo ma abbiamo dimenticato o rimosso. O preferiremmo continuare a ignorare. Inutili, nel senso che non valgono la carta su cui sono stampati. E ancora meno, il nostro tempo: unico bene. Due famiglie profondamente diseguali. Nella qualità ma, soprattutto, nelle dimensioni. Microscopica, la prima. Sterminata, la seconda. L’assassinio timido appartiene alla prima. Felicemente. Per lui. E per noi. Perché libro e non romanzo? Lo spiega la stessa Usón: “Non credo nell’unità del romanzo, penso, come Cervantes, che ‘il tipo stesso, così libero, di questa scrittura’ faccia sì che dentro ci stia tutto, compreso il disordine, se ha uno scopo”. Convinzione che non basta a liberarla dai rimorsi della coscienza. “Come posso giustificare i salti improvvisi da Sandra Mozarowsky (attrice di ‘b-movie’ sexy-horror spagnoli anni Settanta, morta “in circostanze misteriose” – suicida?, assassinata?, incinta? – a soli 19 anni) a mia madre, da mia madre a Wittgestein, dal re (Juan Carlos: amante di Sandra?, responsabile della gravidanza?, della morte?) a me stessa?, so dove sto andando?, sto andando da qualche parte? (e se sto andando da qualche parte, perché mi perdo in tanti preamboli?), e cerco di convincermi che questo gioco che mi sto inventando ha delle regole e una logica”. “Ho l’impressione – aggiunge la Usón – che questa sia un’altra delle regole di questo romanzo: l’incongruenza”. La consapevolezza del fatto che, dato che in natura l’ordine non esiste, non deve esistere nemmeno sulla pagina. È astrazione, invenzione. Ossessione, addirittura. A lui affidiamo il compito di dare forma, senso e scopo a qualcosa che ne è totalmente priva: l’esistenza. L’uomo è come Sisifo. La sua inutile fatica è condanna o salvezza? Esiste per lui la possibilità della felicità? Il quesito fondamentale della filosofia, scriveva Camus – uno dei protagonisti del romanzo (insieme a Pavese, Cechov, Nietzsche, Beckett, Coleridge, Russell, Virginia Woolf e, soprattutto, Ludwig Wittgenstein) – è “giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta”. Il resto sono “giuochi”. “Su ciò di cui non si può parlare – scriveva Wittgestein – si deve tacere”. Ma è proprio questo, secondo la Usón, il senso stesso dello scrivere. “Quello che io vorrei fare e non faccio è parlare di tutto ciò di cui dovremmo tacere, scrivere di ciò su cui non si può dire nulla ma che in realtà è l’unica cosa importante”. “Un adolescente non ha dubbi: il senso della vita è l’amore”. Ma cosa succede dopo? Chiediamolo a L’assassino timido. Non deluderà.

Uno spettro si aggira per l’Europa: il nazismo. Così Lupa rispolvera Bernhard

“Ci sono più nazisti oggi a Vienna che nel 1938”. “Da mezzo secolo questo megalomane pseudo-socialismo non ha più niente a che fare con il socialismo vero”. “La Cina regnerà sul mondo”. Hanno oggi un suono particolare, assieme sinistro e profetico, le frasi di Thomas Bernhard udite nel 1988 alla famigerata “prima” di Piazza degli Eroi al Burgtheater. Non è dunque casuale, nella Parigi del 2019, la ripresa della pièce nel premiato allestimento del regista polacco Krystian Lupa per il Teatro di Vilnius.

A Sceaux, nella difficile banlieue parigina (Les Gémeaux, fino al 31 marzo), l’atto di accusa di Bernhard non coinvolge soltanto i fantasmi del nuovo antisemitismo o l’ossessione di mai sopite tendenze totalitarie, ma mostra la banalità del male tramite una messinscena essenziale: la governante che stira in una casa in disarmo, il composto lutto per il prof. Schuster che si è suicidato, il fratello malato che arranca nella piazza dell’Anschluss sperando (come l’Europa?) di scollinare la primavera.

Se questi temi parlano naturaliter a un polacco come Lupa, che si dice atterrito dall’ondata di oscurantismo e dal disprezzo della verità che ha inghiottito il suo Paese e il continente (“le prese di posizione che generano il fascismo nascono dall’ipocrisia”), un’altra pièce austriaca ha appena scosso la scena francese: la Via del re di Elfriede Jelinek ha trionfato all’Odéon di Parigi nell’allestimento dell’enfant terrible Falk Richter. La Jelinek, Nobel 2004, dedica il suo lavoro a Trump, al “nuovo re” che gioca a palla col mondo come il Grande dittatore, dichiara guerra a Paesi e movimenti, si fa beffe di oppositori balbuzienti. La cecità di Edipo in una Tebe condannata, le incredule tirate di una Miss Piggy sanguinante, lodi medievali sotto le maschere del Kkk: dal trionfo incontrollato del capitale e dalla liberazione del potenziale di odio e di sfiducia nasce lentamente il tiranno assetato di sacrificio, e soprattutto l’assuefazione alle sue parole in un popolo disorientato e istupidito.

 

L’Orlando furioso per la solitudine

La solitudine rende liberi: “Da soli è un po’ triste, ma non si soffre… Essere socievoli è terribilmente faticoso… La confidenza fa schifo”. La solitudine rende liberi, ma non troppo allegri: Silvio (Orlando), ad esempio, si è autoescluso dal mondo da tre anni, ritirandosi in campagna lontano da parenti e amici, ma “non si basta”.

Silvio è il protagonista dell’ultima pièce di Lucia Calamaro – Si nota all’imbrunire (Solitudine da paese spopolato) –, da lei scritta e diretta, prodotta da Cardellino, Napoli Teatro Festival e Stabile dell’Umbria e in tour fino al 26 maggio: per festeggiare il suo compleanno, e insieme commemorare la morte della moglie/madre/cognata, l’anziano riceve la visita dei tre figli e del fratello, che tentano di dissuaderlo dall’isolamento forzato e di riportarlo nell’affollata città. La nevrosi, tuttavia, è ereditaria, perciò Silvio, pur solo, non è il solo svalvolato di famiglia: Alice (Redini) è un’aspirante poetessa di dubbio talento e certificata ipocondria; Maria Laura (Rondanini) è una dottoressa frustrata, precisetta e noiosetta; Riccardo (Goretti) è un trentenne spiantato, senz’arte né parte; zio Roberto (Nobile) ha la mania del citazionismo, della moto e delle cadute dalla moto. A ciò si aggiunga un’atmosfera vagamente cechoviana, in cui si parla molto, ci si piange addosso, si vive di ricordi e succede poco o nulla.

“Questo spettacolo trova le sue radici in una piaga, una maledizione, una patologia specifica del nostro tempo: la ‘solitudine sociale’. Sembra che uccida di più dell’obesità… non solo tra gli anziani, ma anche tra i giovani”, spiega nelle note l’autrice e regista, che, però, è troppo smaliziata e pensosa per limitarsi ad affabulare una storiella di cronaca. Non di solo realismo è imbevuta la messinscena; diversi sono gli indizi che la dirottano su un piano onirico e metafisico: gli “a parte” al pubblico di Silvio e compagnia; la confusione dell’uomo tra pensieri e parlato; l’alter ego immaginario con cui parla, “l’uomo qualunque che ha dentro”. Per questo il finale è abbastanza prevedibile, ma non importa: Si nota all’imbrunire non è un thriller.

La regia è raffinatissima, grazie anche alla gabbia scenografica – che diventa ora casa ora chiesa, ora interno ora esterno – e alle rigorose e colorate geometrie di scene (Roberto Crea) e luci (Umile Vainieri). Il cast eccezionale, manco a dirlo, contribuisce non poco a far decollare la pièce, con ironia e, soprattutto, autoironia rispetto al testo, rispetto alle parole – talvolta pretenziose – che l’autrice gli mette in bocca: in questo gioco il primattore Orlando è insuperabile, ma anche gli altri gli stanno dietro, maneggiando la drammaturgia con piglio sornione e quasi sadico. Lo spettatore ringrazia e tira un sospiro di sollievo, dopo che ripetutamente si è sentito più stupido e meno filosofico dei personaggi in commedia, gente che pensa al congiuntivo imperfetto mentre piega i panni o rimastica frasi di Wittgenstein mentre guida la moto. Poi però cade.

 

Will Smith è “King Richard”, il padre geniale di Venus e Serena

Will Smith sarà il protagonista di King Richard, il biopic targato Warner Bros di cui è anche coproduttore con la sua Overbrook Entertainment: interpreterà Richard Williams, il padre oggi 77enne delle due celebri tenniste Serena e Venus. La sceneggiatura di Zack Baylin mostra la vera storia di Richard che, contando solo sul suo intuito di autodidatta, è stato il primo allenatore delle due campionesse, guidandole dai campi del Compton fino ai vertici sportivi mondiali e ideando per loro allenamenti personalizzati e innovativi, contaminati con quelli di diverse discipline sportive come il basket e il football americano.

A 11 anni da Vicky Cristina Barcelona Woody Allen tornerà a dirigere un film per Mediapro, la casa di produzione spagnola di Jaume Roures con cui ha realizzato anche Midnight in Paris. Il progetto, ancora senza titolo, sarà ambientato nei Paesi Baschi tra San Sebastian e la provincia di Guipúzcoa e vedrà sul set Vittorio Storaro per la quarta volta insieme ad Allen come autore della fotografia.

Il regista veneto Alessandro Rossetto, dopo il notevole esordio Piccola Patria, è tornato sul set per dirigere Effetto domino, il suo secondo lungometraggio prodotto da Jolefilm, Rai Cinema e IDM Film Fund & Commission dell’Alto Adige. La trasposizione dell’omonimo romanzo di Romolo Bugaro – da lui sceneggiato con Caterina Serra e interpretata da Maria Roveran, Lucia Mascino,Diego Ribon, Roberta Da Soller eNicoletta Maragno – è ambientata in una località termale dell’Italia di oggi che sembra ancora resistere al turismo di massa. Una catastrofe finanziaria travolgerà le vite di potenti e umili, alimentando un “duello western” tra individui disposti a tutto.

Siamo nel 1819 ma sembra l’Uk della Brexit

Battaglia di Waterloo. Il soldato Joseph suona a stento la tromba, il suo sguardo è totalmente smarrito, attorno solo morti e feriti. È lo smarrimento dei poveri dell’Inghilterra di allora e, perché no, è il medesimo impresso sui volti dei politici auto-intrappolati nel cul de sac della Brexit, 200 anni dopo. Quel “Paese che si sta rendendo ridicolo davanti al mondo” vorrebbe non conoscerlo così bene il suddito repubblicano Mike Leigh, che oggi prova solo vergogna e indignazione. Il suo epico Peterloo, dunque, calza a pennello.

Al centro dell’opera, in concorso alla Mostra veneziana e ora nei cinema, è il massacro di St Peter’s Field avvenuto il 16 agosto 1819 a Manchester, e considerato fra i momenti più oscuri della storia sociale e istituzionale britannica, ma altrove rimasto quasi ignoto. L’attacco armato perpetrato dalla guardia nazionale contro le migliaia di popolani inermi riuniti in pacifica manifestazione costò la vita ad almeno 15 persone e il ferimento di centinaia, e fu talmente efferato che passò alla cronaca come Peterloo, giocando di crasi con la battaglia che mise fine a Napoleone. Nella mano rigorosa e sensibile di Leigh, il bicentenario della strage ha preso una forma monumentale, estesa nel tempo (154’) e profonda nell’attenzione filologica a ogni dettaglio, dentro e fuori campo. Perché così lavora da sempre il regista pluripremiato, 75 anni di vitalità e lungimiranza. E se attorno a Peterloo esistevano segreti e bugie, nell’omonimo film questi emergono alla luce del sole, impressi nei lunghissimi dibattiti che precedono la grande manifestazione organizzata dai comitati pro-democrazia del Nord Inghilterra che aspirano al suffragio universale e l’eguaglianza di rappresentazione parlamentare. Il discorso di Leigh è organizzato in una struttura a imbuto: gli imponenti affreschi assembleari che mettono in parallelo le ragioni dei riformisti – fra moderati e radicali – a quelle opposte di istituzioni e aristocrazia (guidata dal volgare e inetto principe reggente) arrivano a sfociare nella tragica esplosione finale, e operano in controluce con le toccanti inserzioni che denunciano le vessazioni (per sospensione dell’Habeas corpus si finiva impiccati per il furto di una pagnotta così rara da trovare date le inique Corn Laws…) subìte dagli “ultimi”, indigenti nell’anima e nel corpo. Guidati dal famoso ed egocentrico oratore radicale Henry Hunt (un marketing man ante litteram) sperano nel buon esito della manifestazione, ma ad attenderli è ben altro. Opera dal potente respiro politico, Peterloo è un grande film che usando il passato parla al presente ponendo al centro il concetto di democrazia, il suo senso profondo, le sue dinamiche funzionali. Ma non solo. Con il rigore filologico sopra detto apre riflessioni sulla retorica in politica, sul linguaggio della comunicazione “moderna”: a St Peter’s Field, infatti, compaiono i primi giornalisti inviati a testimoniare la verità liberandola dalle menzogne. Perché le fake news non le abbiamo inventate noi.

Cent’anni di non beat

La Chanson Egocentrique d’Occidente compie cent’anni. La poesia del me, me, me del piccolo ragazzo – l’anatema che distrugge il raglio dell’io-io-io – si riavvolge in un secolo. E chissà se Lawrence Ferlinghetti – lui è il festeggiato, nato a Yonkers, nello Stato di New York, nel 1919 – è riuscito a cambiarlo, il mondo, a farlo infine immagine e somiglianza di un libraio, un editore, un cantore e una pop star che nel sentire universale è suppergiù quello dell’eterno reading infinitamente estatico e infinitamente sofferente.

Domenica saranno cento le candeline del Little Boy e per l’occasione uscirà anche un romanzo autobiografico stream of consciousness e in terza persona, senza paragrafi o punteggiatura convenzionale.

Massimo Gaggi che l’ha intervistato per il Corriere l’ha trovato “quasi completamente cieco” e tutto torna nell’affastellarsi dei giorni con la maculopatia che si fa destino per i vegliardi il cui unico credo – e solo questa fede ha Ferlinghetti – è la parola.

Lo sguardo dei bardi – come con le cancellature di Emilio Isgrò sul Cantico delle Creature di Emilio Isgrò – si addensa di tratti. Sono le ombre che vanno a fendere le intermittenze nella luce della città. City Lights è il catalogo di Ferlinghetti per i cui tipi nel 1955 edita Urlo di Allen Ginsberg: il libro che gli apre le porte della prigione un anno dopo, condannato per avere stampato l’oscenità, il viatico per fare di lui un beatnik – lui che non lo sarà mai – lui che resta nella controcultura di massa per parlare alle masse.

Eccolo, come a togliere le parole di bocca a Greta Thunberg: “E allora mostra a tuo figlio un tramonto prima che non ce ne siano più”. Uno sciogliere di trecce, il suo canto: “…consigliò un vecchio Sinistroide/esibendo la solita paranoia della sinistra/che adesso si è riversata sugli ecologisti/e altri della stessa specie/sempre a farneticare sul buco dell’ozono…”. Tutto uno scoperchiare tetti, il suo essere un performer. Ed è, quindi, tutto un sollevare i ciechi, uno svitare serrature senza buttare via i cardini e le sue mura di Ilio – se mai Ferlinghetti è nel segnacolo di un Omero – sono le macerie di Nagasaki e il fungo di Hiroshima.

È la catastrofe atomica voluta a suggello della Seconda guerra mondiale che lo porta a gettare la propria uniforme di soldato della Marina degli Stati Uniti per attraversare dritto dritto la traiettoria del XXI secolo e lì diventare parte della terra bruciata del mondo. Ogni accadere dell’esistenza cerca un verbo: “Che cosa mai sarebbe servito ai troiani, mentre i palazzi di Ilio rovinavano che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?”. Se lo chiede un altro illustre centenario – Ernst Jünger, un altro soldato – autore, nell’immediato accadere della forgia poetica, di un saggio intitolato La Pace.

Italiano nel sangue, con un padre che muore sei mesi prima della sua nascita, Ferlinghetti che si accasa a San Francisco si esalta della casualità “onomastica” e ne fa un dettaglio: è la città di Francesco d’Assisi nel dilagare degli anni 70, il pacifismo è bandiera di una militanza artistica, dice, declama e recita tutto il condivisibile possibile, costruisce la sua “controcultura” nel verso della rivoluzione ma – e la domanda resta – una rivoluzione veicolata dal mainstream può mai considerarsi tale?

“Un poeta anarchico al quale è capitato anche di diventare santo”, dice di Francesco, Ferlinghetti ma di lui –al netto di ogni enfasi –si può dire sia un anarchico cui capita la poesia? Geniale organizzatore di meeting – già nel momento del suo più grande fulgore – Ferlinghetti si definisce per ciò che non è. I pochi giorni di carcere non sono la gabbia del campo di concentramento, a Pisa, di Ezra Pound. A differenza dell’autore dei Cantos, ovvero la Divina Commedia del nostro tempo, il suo ideogramma – la remota linfa della poesis – è l’identità bretone.

A dispetto dell’erudito Tiresia, profondo conoscitore di Confucio, nonché il Miglior Fabbro autore di A lume spento, Ferlinghetti si svela in un’antologia di aforismi, dettati e frammenti il cui titolo, più che un lapsus, è antitesi: Il lume non spento. Il suo paroliberismo, pur sperimentalista nel solco del postfuturismo, nel definirsi in ciò che non è, non fa di lui il Vladimir Majakovskij del proletariato americano (in quella parodia della Rivoluzione bolscevica qual è la stagione della contestazione beat) ma un bestsellerista da milioni e milioni di copie, oltretutto a colpi di poesia. Una cosa è la fama, un’altra è gloria, direbbe Cyrano de Bergerac sfidando il gusto dozzinale dettato dalla voga.

Il mondo, intanto, s’è fatto a sua somiglianza, ma Ferlinghetti lo psicadelico non ha le sciabole, come quel russo, da asciugare sulla seta delle cocottes.

Figlio di una madre pazza, adottato, cresciuto e formato dalla famiglia presso cui la zia è domestica, Ferlinghetti – per suo stesso canto – “è l’acrobata che si arrampica sulla corda che s’è costruita”. Dà parola al Cane della Casa Bianca e va dove la bellezza sta “e aspetta gravemente/l’avvio della sua girandola di morte” è di certo maestro, ma lo è di una sola generazione: quella beat.

Giornalisti uccisi, il governo spia le vedove

Il 15 maggio 2017 il giornalista messicano Javier Valdez viene ucciso con una dozzina di colpi d’arma da fuoco mentre esce dalla sede del giornale per cui lavora e che ha contribuito a fondare per stanare il potere del cartello dei narcotrafficanti di Sinaloa. È uno degli 11 cronisti che spariscono quell’anno.

La notizia sembra quasi banale, scontata, nel clima irrespirabile per la stampa del paese sudamericano. Ma c’è di più: se a Valdez – subito dopo averlo tirato fuori dall’auto ancora agonizzante – rubano laptop e telefono cellulare, con i suoi colleghi Andrés Villareal e Isamael Bojorquez e con sua moglie, Griselda Triana, perpetrano il disegno criminale. Per spiarli, appena 11 giorni dopo il suo omicidio, inviano loro messaggi di testo sui telefonini appositamente elaborati per indurli a cliccare sui link che una volta aperti infettano i cellulari con lo spyware Pegasus. A rivelare la trama è una lunga ricerca di Citizen Lab dell’Università di Toronto di cui la parte sul caso di spionaggio di amici e vedove di cronisti uccisi rappresenta in Messico è solo l’ultima puntata di un elenco di altre 7 sulla persecuzione di giornalisti, attivisti anti-corruzione, avvocati, politici, professionisti della salute, investigatori internazionali al tempo del presidente Enrique Peña Nieto.

Il software spia si chiama Pegasus ed è sviluppato dalla compagnia israeliana Nso per infettare e quindi poi monitorare da remoto i telefoni cellulari. Lo stesso malware introdotto nel cellulare del giornalista saudita Jamal Khashoggi per spiare la sua attività di dissidente prima che fosse ucciso.

Ma nel caso messicano, Citizen Lab non si limita a scoprire di cosa si sia trattato e chi abbia agito, ma attraverso un’ulteriore indagine collega lo spionaggio al gruppo Reckless-1 che si scopre legato al governo messicano dell’allora presidente Peña Nieto. Per ascoltare le conversazioni di Triana – anche lei cittadina impegnata, produttrice dello spettacolo “Diversità” e direttore della comunicazione per il Centro delle politiche di genere e uguaglianza tra uomini e donne di Sinaloa – Citizen Lab scopre che Nso ha tentato di inviarle il link infetto per ben tre volte nel giro di pochi giorni e – cosa più crudele – ha provato a trarla in inganno attraverso collegamenti a fake news riguardanti proprio la morte di suo marito Javier.

Oltre il lutto, il danno e anche la beffa. Ma soprattutto ciò che l’inchiesta evidenzia è un “innegabile modello di abuso”, sottolineano dall’Università canadese, ma anche il fallimento di quel modello nel maggio del 2017, quando Pegasus aveva già preso di mira decine di membri della società civile messicana e c’erano già state segnalazioni pubbliche di tali abusi riportati anche dal quotidiano Usa The New York Times.

In tutto si parla di 11 casi precedenti a quello di Griselda e di 25 obiettivi messicani, numeri che “suggeriscono un modello di abuso ufficiale” che anche secondo la ricarca così come anche secondo Amnesty International appare ancora più inquietante se legato al dato delle morti di giornalisti in Messico: 47 nel 2018 e già 2 nel 2019, da quando cioè al governo è arrivato Andres Manuel Lopez Obrador. Quest’ultimo ha promesso “giustizia e protezione” ai giornalisti e di stare lavorando “a un piano per “la libertà d’espressione”.

L’effetto serra è un complotto: lo dice l’uomo nuovo d’Olanda

Come previsto, la fatale sparatoria avvenuta quattro giorni fa su un tram di Utrecht per mano di Gokmen Tanis, un olandese di origini turche, ha aiutato decisamente i populisti del Forum per la Democrazia (FvD) a conquistare il Senato dei Paesi Bassi, dove finora non era nemmeno presente, in seguito alle elezioni provinciali. Il leader della formazione euroscettica e di estrema destra è il parlamentare Thierry Baudet, 36 anni, personaggio di bell’aspetto che ama i colpi di teatro e si dà arie da intellettuale.

La coalizione di centrodestra che sostiene il governo guidato dal premier olandese Mark Rutte ha perso dunque la maggioranza alla camera alta.

Inserito fino a oggi solo in Parlamento, il partito FvD entra pertanto anche in Senato dopo averlo scalato fino alla vetta. Con il conteggio dei voti al 98,5%, risulta il primo partito e potrebbe conquistare 13 seggi, uno in più del Vvd guidato dal premier Mark Rutte. Baudet, appena dopo la sparatoria, che è costata la vita a tre giovani, aveva accusato il premier di “aver lasciato le porte spalancate a gente che ha una cultura completamente diversa dalla nostra e ci odia”. Noto per le sue trovate, per esempio arrivare in aula con uno scassato giubbotto militare anti proiettile per dimostrare che le forze armate sono umiliate dall’attuale governo che ha diminuito il budget per la difesa, Baudet vorrebbe anche aumentare la presenza dei militari nelle strade dell’Olanda. I dati ormai definitivi confermano che la coalizione di governo è scesa a 31 seggi su 75. Il giovane Baudet, nel cui ufficio in Parlamento campeggia un enorme frigorifero di design italiano e un pianoforte, oltre a una scacchiera dietro cui ama farsi fotografare sfoggiando un aspetto riflessivo e impegnato, non solo vorrebbe far uscire il Paese dall’Unione europea, ma vorrebbe anche cancellare l’accordo di Parigi sul clima perché non crede all’effetto serra, al riscaldamento del pianeta, ritenendolo un complotto di scienziati prezzolati.

Inoltre ha fatto campagna su temi nazionali, escludendo la politica locale delle 12 province in cui ora sarà rappresentato. “Arroganza e stupidità sono stati puniti”, ha dichiarato Baudet nel suo discorso di vittoria. “Siamo stati rovinati dalla gente che ci avrebbe dovuto proteggere”, ha quindi aggiunto.

I quattro partiti di coalizione controlleranno d’ora in poi 31 dei 75 seggi nel Senato e avranno bisogno dell’appoggio di un quinto partito per approvare le misure più controverse. Sconfitti il partito anti-immigrati PVV di Geert Wilders, che dovrebbe perdere 4 dei suoi 9 seggi e i socialisti che dovrebbero passare da 9 a 4. L’affluenza è stata in netta crescita rispetto alle ultime provinciali (56%) con picchi a Zeeland e, non è un caso, proprio a Utrecht, la città nota per la sua antica tradizione universitaria.

Una beffa della storia. A bilanciare in parte il risultato, è il buon risultato ottenuto dai Verdi di GroenLinks, guidati da Jesse Klaver, che sono passati da quattro a otto seggi. Mentre il Partito per la libertà (Pvv) anti-islam, guidato dal deputato di estrema destra Geert Wilders, scende da nove a sei seggi. I membri del Senato saranno ufficialmente nominati a maggio dai 570 rappresentanti eletti nel voto provinciale di oggi nelle 12 province olandesi. Le provinciali si sono trasformate in ultimo in un referendum sulla politica di Mark Rutte. Vista la valanga di voti, è presumibile che Baudet sia stato votato anche da donne nonostante abbia più volte dichiarato che “in generale sono meno eccellenti professionalmente e meno ambiziose”.

Tornando alla sparatoria di Utrecht, il killer Gokmen Tani è accusato di omicidio plurimo e terrorismo; comparirà nelle prossime ore davanti al giudice. Si sta indagando se la sua azione, che ha fatto anche tre feriti gravi, “sia scaturita da problemi personali combinati con un’ideologia radicalizzata”.

Libia e fondo sovrano. L’odore dei soldi unisce i nemici Serraj e Haftar

Presentata come “l’ultima occasione per far vincere la pace”, Ghassan Salamé, rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite per la Libia, ha convocato una conferenza di riconciliazione tra le fazioni in lotta nell’ex colonia italiana. La conferenza, che durerà ben 15 giorni, da 1° al 16 aprile, e a cui parteciperanno da 120 a 150 delegati, si terrà a Ghadames, un villaggio-oasi nel deserto, dove si incontrano i confini di Libia, Algeria e Tunisia. Una scelta dovuta a ragioni di sicurezza. Le strade di accesso al piccolissimo centro abitato, più o meno 15 mila anime, sono facilmente controllabili anche perché le Nazioni Unite hanno chiesto alle due colonie francesi limitrofe di provvedere alla stretta sorveglianza delle rispettive frontiere.

Ghassan durante la conferenza stampa con cui ha dato l’annuncio dell’incontro è stato chiaro: “Se questa opportunità non verrà colta ci troveremo di fronte a due alterative: o uno stallo o un conflitto. E lo stallo può sempre evolversi in guerra”.

L’intenzione del rappresentante dell’Onu, un libanese che si occupa di Libia dal 2017, è di riprendere l’iniziativa politica per arrivare a una pacificazione e permettere di organizzare elezioni generali alla fine del 2019, cosa che, però, appare piuttosto complicata e difficile. Il Paese è diviso tra due grandi gruppi. A occidente comanda il primo ministro Fayez al-Serraj, un ex funzionario di Gheddafi, il cui governo è riconosciuto dall’Onu e appoggiato dall’Occidente (anche se non proprio in modo compatto: formalmente sì, sostanzialmente un po’ meno). La parte orientale invece è controllata da Khalifa Belqasim Haftar, un generale, già fedele alla jamahiriya libica (lo “stato delle masse”, termine usato dal colonnello Gheddafi) alla fine degli anni 80, catturato dai francesi durante il conflitto in Ciad, “adottato” dagli americani e tornato in patria dopo la caduta del dittatore. Tra loro una miriade di milizie, un giorno in lite e il giorno successivo alleate, nate e cresciute dal 2011, quando, con la rivolta e la morte di Geddafi, la Libia è entrata nel caos. Ne hanno approfittato provenendo dai Paesi vicini, anche bande di criminali e di islamici. Le Nazioni Unite hanno cercato di mediare tra i due leader con scarso successo. Un primo tentativo di organizzare le elezioni lo scorso dicembre è abortito sul nascere, anche perché lo stesso Ghassan ha accusato l’esercito di Haftar (Libyan National Army) di avere commesso atrocità nel villaggio di Murzuq, per vendicarsi di un precedente attacco. “I miliziani dell’Lna hanno bruciato senza motivo 90 case di civili”, aveva biasimato. Haftar, il cui parlamento si riunisce a Tobruk, la Capitale del suo “regno”, non ha mai nascosto l’idea di voler marciare su Tripoli, capitale del suo antagonista. “Haftar è un militare – sottolinea un analista di cose libiche, Jalel Harchaoui, residente a Parigi – e ragiona da militare”. Secondo fonti di intelligence, Haftar ha lasciato gruppi di suoi fedelissimi nel centro del Paese per esercitare forti pressioni su Serraj e costringerlo ad accettare un accordo di spartizione del potere: Serraj alla presidenza della Repubblica, Haftar al comando dell’esercito.

I due rivali si sono visti in febbraio ad Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti, uno dei grandi sponsor del generale di Tobruk. L’idea di un governo di coalizione è nata proprio allora: “I due – ha spiegato Ghassan – sono d’accordo nel ritenere che il Paese debba dotarsi di un governo eletto e democratico con il pieno controllo dei militari e una pacifica transizione del potere”. Ma sono in tanti ad avere paura a mettere le chiavi del Paese, cioè il comando dell’esercito, nelle mani di Haftar: un immediato colpo di stato potrebbe essere dietro l’angolo.

Un accordo di questo genere sarebbe possibile solo se fosse garantito da potenze straniere. Cosa non semplice date le rivalità che contrappongono Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia e il ruolo regionale che giocano Egitto, Emirati, Algeria e Arabia Saudita. Un incentivo che potrebbe indurre i due leader a raggiungere un accordo, potrebbe essere rappresentato dal possibile sbocco da parte dell’Onu del Fondo Sovrano Libico (la Libyan Investment Authority). Si tratta di 67 miliardi di dollari investiti in partecipazioni gestite dal governo libico in diversi paesi del mondo, Italia inclusa. Ora quel denaro è congelato (anche se distribuisce interessi e dividendi, ma non si sa bene a chi). “Una parte di queste risorse, spiega il sito Politico.eu, si trova in Belgio, in almeno quattro conti bancari gestiti da Euroclear, un’istituzione finanziaria con sede a Bruxelles. Si tratta di circa 16 miliardi, che sulla carta appartengono al fondo sovrano del Paese“. Quel capitale potrebbe essere sbloccato e consegnato al governo. A patto che si riesca a formare un governo.