In 50 mila con Libera e Avviso Pubblico: “La vera emergenza è ancora la mafia”

“La mafia uccide, il silenzio pure”: ecco perché ieri decine di migliaia di persone si sono radunate nel corteo organizzato da Libera e Avviso Pubblico. L’iniziativa ha scelto Padova come luogo principale, sfilando fino a Prato della Valle, la più grande piazza della città. Oltre a una maggioranza di studenti, a manifestare erano presenti don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, il sindaco Sergio Giordani, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, Rosy Bindi e il segretario della Cgil Maurizio Landini. “Dobbiamo alzare la voce mentre tanti scelgono un prudente silenzio” ha dichiarato Don Ciotti, dopo che i nomi di 1.111 vittime di mafia sono stati declamati nella Piazza, di fronte a 50.000 persone. I cittadini hanno aderito all’iniziativa con un entusiasmo che supera le aspettative degli stessi organizzatori, come rivela il referente Padovano di Libera Marco Lombardo. “La partecipazione è stata incredibile. È stato bello notare, inoltre, che la maggior parte erano studenti, ragazzi, provenienti da tutto il nord-est della Nazione”. Sicuramente, infatti, è importante il ruolo che i giovani e la loro istruzione hanno nella lotta alla criminalità organizzata. “Siamo sicuri che la scuola abbia un ruolo fondamentale – prosegue Lombardo – La nostra associazione organizza continuamente iniziative dirette agli studenti. Dev’essere un’urgenza insegnare la legalità e la giustizia sociale, questo è l’unico modo per costruire una società civile e soprattutto consapevole”. Non sempre, infatti, i cittadini (non soltanto i più giovani) hanno una percezione corretta della mafia e delle sue manifestazioni.

Il rapporto #Liberaidee di luglio, ad esempio, dimostra che nelle aree settentrionali del Paese solo il 17% delle persone lo considera un fenomeno presente e socialmente pericoloso nel territorio. Questo è uno dei motivi principali per cui la scelta del luogo ospitante il corteo è ricaduta su Padova: “Abbiamo ritenuto fondamentale diffondere una maggiore coscienza civile. La mafia è presente anche qui, solo che si manifesta sotto forme diverse dalla conoscenza comune, legata all’immaginario che la dipinge violenta ed esplicita. Da noi è presente soprattutto nel mondo imprenditoriale ed economico, per questo è poco percepibile dalla popolazione. Bisogna smentire il pregiudizio che la mafia divori unicamente il meridione. Al nord è più subdola, ma c’è”. E le indagini di poche settimane fa, che hanno portato a 50 arresti nel Veneto, lo dimostrano. Si può ritenere che il governo stia dando una risposta a tutto questo? “Come ha ribadito Don Ciotti, il governo sta dirottando l’attenzione degli elettori, facendo loro credere che il problema del Paese siano gli immigrati, quando in realtà sono la mafia e la corruzione. Per combattere le quali si fa ancora troppo poco”. Come si potrebbe contribuire alla battaglia contro la criminalità organizzata? Conclude Lombardo: “Non è importante solo l’azione delle forze dell’ordine, ma anche quella dei cittadini. Non bastano le politiche repressive: serve aumentare la consapevolezza della popolazione. Ciascuno di noi deve cominciare a modificare il proprio comportamento, anche nella vita privata, nel proprio piccolo. In questo periodo, essere neutrali significa essere complici”.

Trovata la cassaforte dei Casamonica per la ’ndrangheta

Maxi confisca al clan Casamonica: società, appartamenti, conti bancari, automobili di proprietà di alcuni membri della famiglia sono stati confiscati dai poliziotti della Divisione anticrimine della Questura di Roma per un valore complessivo di 30 milioni di euro. Un bottino cui attingevano anche esponenti di ‘ndrangheta ritenuti vicini al clan della periferia est della Capitale. La ricchezza accumulata dal gruppo dedito a traffico di droga, usura e riciclaggio, è stata sottratta dall’amministrazione giudiziaria: si tratta di 10 immobili, 21 tra società e imprese individuali con sede a Roma, Milano, Sora (Frosinone), Avellino, Caserta e Benevento, 25 complessi aziendali, 24 veicoli, 68 rapporti creditizi e una polizza pegno relativa a preziosi. I provvedimenti sono legati alla “riconosciuta pericolosità sociale del gruppo”, e dispongono anche la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza, per 5 anni, nei confronti di quattro persone. Tra le attività confiscate, bar e ristoranti nelle zone più prestigiose di Roma, come Trastevere e vicino al Vaticano. Il provvedimento di confisca riguarda anche una palestra e alcuni negozi.

“Scarantino telefonava spesso ai pm”

“Stava sempre a parlare con i magistrati, soprattutto quando gli prendevano quei cinque minuti e tornavano a galla i rimorsi per gli innocenti che stavano in carcere per colpa sua”. È questo, e molte altre cose, Vincenzo Scarantino, il depistatore della strage di via D’Amelio, nei ricordi dell’ex moglie Rosalia Basile.

Ascoltata a Caltanissetta nel processo a carico dei funzionari di polizia Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di calunnia aggravata dall’aver agevolato Cosa Nostra, la donna ha rispolverato dettagli degli anni trascorsi a fianco del “finto pentito”, quello che avrebbero creato ad arte l’ex capo della mobile Arnaldo La Barbera e i poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino.

Nei ricordi della Basile, però, ci sono anche i nomi di alcuni magistrati che hanno indagato sulla strage del 19 luglio del 1992: “Ho trovato a casa dei foglietti del mio ex marito con i numeri dei cellulari e dell’ufficio dei pm all’epoca in servizio a Caltanissetta”, racconta. Foglietti con i nomi e i numeri di Nino Di Matteo, Anna Palma, Carmelo Petralia e Gianni Tinebra, quest’ultimo da lei conosciuto a Torino, mentre viveva sotto protezione con Scarantino. “Lui si chiudeva in stanza per parlare con loro al telefono”. Un dettaglio, questo delle telefonate, di cui Rosalia Basile non aveva mai parlato prima nei processi precedenti su via D’Amelio. Dichiarazione che non è passata inosservata, tanto che Di Matteo, oggi alla Superprocura antimafia di Roma, ha dovuto replicare: “Io per primo, spontaneamente, ho detto durante un’udienza del Borsellino quater di aver parlato al telefono con Scarantino. Qualcuno gli aveva dato a mia insaputa il mio numero di cellulare, perché una volta mi aveva telefonato e un’altra mi aveva lasciato otto messaggi nella segreteria telefonica. Insomma, non è nulla di nuovo, basta rileggere la mia deposizione a quell’udienza”.

Eppure, Rosalia Basile lo ha raccontato solo adesso, in mezzo a una deposizione di oltre quattro ore: “Ho cercato di cancellare tutto questo, per proteggermi”, dice a un tratto, interrompendosi e scoppiando in lacrime. Non sono bastati più di vent’anni, però, per dimenticare quello che le ha raccontato l’ex marito.

Non ci sarebbero stati infatti solo i pestaggi, le botte come le chiama lei, da parte dei poliziotti. Ma numerose pressioni psicologiche, per spaventarlo e riuscire così a gestirlo meglio. “Vermi nelle zuppe, minacce di morte o di infettarlo col virus del- l’Aids”, persino allusioni continue alla presunta infedeltà della moglie, un particolare che “lo faceva letteralmente impazzire”.

Tutti meccanismi di uno stesso disegno, quello per costruire a tavolino il finto pentito Vincenzo Scarantino.

Un’accozzaglia per separare le carriere dei magistrati

Con la primavera a Montecitorio sboccia un’iniziativa assai singolare e decisamente trasversale. Deputati di maggioranza giallo-verde e di opposizione varia, ma accomunati dalla medesima professione, sono tutti (o quasi) avvocati, lanciano un appello ai parlamentari, con una lettera, per sostenere il progetto di iniziativa popolare della separazione delle carriere dei magistrati (pm o giudici a vita), da febbraio in Commissione Affari costituzionali, dopo che l’Unione camere penali ha raccolto le firme, compresa quella di Matteo Salvini. Primo firmatario dell’appello di ieri, per formare “un intergruppo parlamentare” che “approfondisca un tema trascurato dal Parlamento” è Enrico Costa, deputato forzista ed ex ministro. Con lui hanno firmato i dem renziani Roberto Giachetti e Franco Vazio e un deputato del M5s Roberto Cataldi (in foto), direttore della rivista online studiocataldi.it; c’è poi il leghista Catello Vitiello, autore di un emendamento per annacquare il peculato, poi cassato, ribattezzato “salva Lega”. Non poteva mancare Francesco Paolo Sisto, FI, relatore del ddl in Commissione. Inoltre, hanno firmato Luca Paolini, Lega, Riccardo Magi, Europa e Carolina Varchi, FdI. Ma i protagonisti della riforma sponsorizzata dai deputati-avvocati, cioè i magistrati, sono contrarissimi: per loro la separazione delle carriere è il primo passo verso la dipendenza del pm dal governo.

A caccia del super boss ma stavano nella loggia

Cene “di chiarimento in vista delle nuove alleanze di comodo” e “per la spartizioni delle cariche” e “non chiarite missioni a Roma e a Palermo, muovendosi in gruppo, per attivare l’intervento (in favore di componenti dell’associazione stessa) dei vertici dell’Assemblea regionale siciliana (Ars) o del Ministero dell’Interno”. Con il coinvolgimento addirittura di due poliziotti sulle tracce di Matteo Messina Denaro, uno della Dia e uno nella squadra anti-latitante. Procura e carabinieri scoprono a Trapani una loggia segreta per condizionare la politica, influire sulle nomine di sottogoverno, creare consenso elettorale con la concessione di false invalidità con forti agganci con uomini dell’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano. Sullo sfondo, appunto, l’ombra di Matteo Messina Denaro: finisce in carcere il deputato regionale Giovanni Lo Sciuto, ex membro della commissione antimafia, fotografato da ragazzo proprio coi familiari del boss Matteo Messina Denaro e tra gli indagati c’è un cugino del boss, già arrestato tre anni fa per avere dirottato malati nelle cliniche private.

Ai domiciliari con l’obbligo del braccialetto elettronico è finito l’ex presidente dell’Assemblea regionale siciliana Francesco Cascio, insieme ad altre 25 persone, politici, funzionari, gestori di enti di formazione professionale e poliziotti: sono accusati di violazione della legge Anselmi, corruzione, voto di scambio, abuso di ufficio, rivelazione di segreto di ufficio. L’indagine ha infatti rischiato di saltare: tra gli indagati c’è anche l’ex capo della segreteria di Alfano, l’avvocato Giovannantonio Macchiarola, poi piazzato alla divisione Security dell’Eni, dove si occupa di “normative e strategie di protezione delle infrastrutture critiche”. È sospettato di avere avvertito Lo Sciuto attraverso Cascio nel settembre del 2016: è Lo Sciuto intercettato in auto a rivelare a un amico che la soffiata era arrivata da Macchiarola e che la considerava attendibile perché arrivava da un iscritto a Ncd. A comunicargliela, sostengono gli investigatori, sarebbe stato il presidente dell’Ars il 25 settembre 2016: quel giorno viene intercettata una richiesta di Lo Sciuto di essere ricevuto all’Ars dal presidente, e solo dopo, al ritorno in auto verso Trapani, comunica le sue preoccupazioni (“quello mi viene a dire il discorso dopo due mesi e mezzo”) all’amico perché considera la notizia altamente attendibile per “spirito di fratellanza conservativa”, chiosa la Procura.

“Ho chiamato Macchiarola e gli ho detto: vedi che c’è questa novità, per cui parla con la Lorenzin…”, dice Cascio a Lo Sciuto quando l’Azienda sanitaria di Trapani deve nominare il collegio dei revisori e un componente è indicato dal Ministero della Salute. E per Miriam Orlando, figlia di Rosario, medico dell’Inps indicato come il regista delle false invalidità, era pronto un posto al ministero dei Beni Culturali: “Abbiamo il sottosegretario ai Beni Culturali, capito? E glielo do personalmente ad Alfano”. Ribadendo, scrive il gip, di poter contare sul sottosegretario Dorina Bianchi ma soprattutto su Angelino Alfano, all’epoca ministro dell’Interno, al quale avrebbe recapitato la segnalazione della giovane.

Tra gli arrestati vecchi e nuovi burattinai dell’intreccio politico affaristico all’ombra della loggia massonica con agganci romani: Paolo Genco, riconfermato alla guida dell’Anfe nazionale (associazione famiglie degli emigrati) nel 2018 nonostante due anni prima fosse stato arrestato per avere utilizzato i fondi regionali e comunitari per acquistare immobili per sè per poi affittarli all’Anfe come uffici e sedi dei corsi di formazione; Vincenzo Barone, segretario comunale di Erice e di Buseto Palizzolo, capace, secondo l’accusa, di influire sulle scelte dei Comuni di Gibellina, Favignana, Calatafimi, Salemi, Campobello di Mazara, dove aveva ricoperto lo stesso incarico. In carcere anche tre poliziotti: Salvatore Virgilio, assistente capo alla Dia di Trapani, e Salvatore Passanante, ispettore del Commissariato di Castelvetrano e soprattutto componente della squadra incaricata della cattura del super latitante: avrebbero rivelato notizie investigative riservate in cambio dell’assunzione delle mogli all’Anfe di Genco. E Salvatore Giacobbe, in servizio a Palermo, cointeressato nella gestione di un centro di accoglienza per migranti nel Trapanese.

Metropolitana Roma, nuovo incidente su una scala mobile

Ancora un incidente su una scala mobile nella metro di Roma. Poco dopo le 10, alla stazione Barberini, un gradino si è accartocciato su se stesso e nel giro di pochi secondi la scala ha rischiato il collasso. Per fortuna è scattato il blocco. Nessun ferito, quasi un miracolo, ma sono ritornate alla mente le scene della fermata Repubblica, quando in ottobre i tifosi del Cska Mosca in trasferta a Roma per il match di Champions League furono “inghiottiti” dai gradoni impazziti. Alcune persone rimasero gravemente ferite. Gli accessi alla stazione Barberini sono stati chiusi in entrata e in uscita. Sul nuovo incidente la Procura di Roma ha aperto un’indagine. Il fascicolo, al momento senza ipotesi di reato e indagati, è stato affidato dal procuratore aggiunto Nunzia D’Elia al sostituto Francesco Dall’Olio, già titolare del procedimento sulla fermata Repubblica. Sempre a Barberini, il 22 febbraio, altri passeggeri avevano vissuto la stessa scena. Anche in quel caso non ci furono feriti per un caso fortuito: erano in 50 su quella scala mobile. La stazione fu chiusa.

Ramy, senza cittadinanza: “Fingevo di pregare e chiedevo aiuto in arabo”

Gli piace il calcio, tifa Juventus, in camera ha la maglia di Cristiano Ronaldo. Studia e ascolta la musica di Sfera Ebbasta, sogna un giorno di fare il carabiniere o il farmacista. È Ramy, 13 anni, origini egiziane, nato in Italia ma non ancora italiano. Dal 2005 vive in un quartiere popolare di Crema.

Era a bordo dello scuolabus ed è stato tra i primi a dare l’allarme. Parlando in arabo, fingendo di pregare inginocchiato per terra come fanno i musulmani e così raccogliendo il cellulare per avvertire il padre. Poi chiamerà la polizia e ancora altre tre volte i carabinieri. Ramy ricorda quei momenti drammatici: “Stavamo tornando a scuola dalla palestra. È arrivato quel tipo che non avevamo mai visto e ci ha detto di stare zitti e fermi. Abbiamo pensato a uno scherzo, ma dopo ha legato i professori e gli studenti davanti. Il momento più difficile è stato quando ha messo il coltello addosso a un nostro compagno, già solo vedere il coltello ci ha fatto paura”. Sua buona parte del merito di aver allertato le forze dell’ordine e di aver mantenuto la calma. I carabinieri arriveranno in pochi minuti. Dice papà Khalid Shehata: “Siamo egiziani, sono arrivato in Italia nel 2001, mio figlio è nato qui nel 2005 ma siamo ancora in attesa di un documento ufficiale. Vorremmo tanto restare in questo Paese, sono orgoglioso di mio figlio, con il suo comportamento ha salvato 51 suoi compagni di scuola”.

Un appello ad avere la cittadinanza che è stato subito raccolto da buona parte della politica italiana. Certo, meglio prima dare la cittadinanza italiana a Ramy che toglierla al dirottatore Ousseynou Sy. E così l’ppello del padre ieri è stato rilanciato dal vicepremier Luigi Di Maio che in un post su Facebook spiega: “Ramy ha messo a rischio la propria vita per salvare quella dei suoi compagni. È la cittadinanza per meriti speciali che si può conferire quando ricorre un eccezionale interesse dello Stato. Sentirò personalmente il presidente del Consiglio in questo senso”. Sul punto è intervenuto anche il Viminale che si è detto pronto a velocizzare al massimo le procedure per riconoscere la cittadinanza italiana a Ramy. Il ministro Matteo Salvini è pronto a farsi carico delle spese e di tutte le procedure burocratiche per accelerare al massimo la concessione della cittadinanza. “L’auspicio – sottolineano fonti del ministero – è attribuire la cittadinanza a Ramy e toglierla al conducente del bus autore del folle gesto”. Lo stesso ragazzo ieri ha confermato di essere stato già contattato dal ministero dell’Interno per andare a Roma nei prossimi giorni. Ieri mattina, Ramy era sul piazzale della caserma dei carabinieri di San Donato. Con lui, il padre e i militari. Poi nel pomeriggio è tornato a Crema e alla sua vita che certo non sarà più la stessa. Ma in mente Ramy ha ancora quei suoi compagni e gli insegnanti. Il tempo guarirà le sue paure e Ramy, speriamo da cittadino italiano a tutti gli effetti, potrà tornare ai suoi sogni di ragazzo: il calcio, la musica, gli amici e il futuro con la sua famiglia.

“Sy aveva già provato a dirottare lo scuolabus”

Ousseynou Sy aveva già provato a dirottare il pullman prima di mercoledì. A raccontarlo sono alcuni studenti della scuola media Vailati di Crema. “Io – spiega uno di loro – ero andato con lui questo lunedì. Era molto scortese e nervoso, ci spintonava e ci insultava. Poi al momento del rientro ha cambiato strada. Tanto che un nostro insegnante gli ha detto ‘ma che sta facendo?’. In quel momento l’autista ha ripreso il percorso giusto”. Il giorno dopo l’entità della tragedia dello scuolabus di San Donato assume contorni sempre più drammatici. A definire il quadro sono i racconti dei testimoni e i particolari dell’inchiesta coordinata dal Pool antiterrorismo della Procura di Milano. Torniamo allora a quei momenti. Lo scuolabus ha appena deviato il suo tragitto e, come emerge dagli atti dell’indagine, il 46enne di origini senegalesi Ousseynou Sy ha già preparato il teatro della strage: ha messo drappi neri alle pareti del pullman, ha fatto sparire i martelletti per rompere i vetri, dopodiché ha ordinato a Tiziana Magarini, bidella della scuola media Vailati di Crema di gettare benzina sul pavimento e sulle tende. La donna è stata minacciata con un coltello che sarà poi ritrovato tra i resti carbonizzati del bus. Ousseynou Sy le ordina di legare i 51 studenti con le fascette da elettricista. Lei però non stringe. Sy consegna dello spray a un insegnante e ordina di spruzzarlo sui vetri per oscurarli.

I cellulari vengono sequestrati. Qualcuno riesce a tenerli. Un bambino telefona il 112: “Signore chiamate le mamme, ci stanno rapendo, ci minacciano con il coltello. Veloce, il guidatore ha gettato benzina, non resistiamo più. Per favore signore fai in fretta questo non è un film”. Un altro alunno chiama la mamma: “Siamo in pullman, ci stanno uccidendo”. Quasi nello stesso tempo Ramy, un 13enne di origine egiziana ma nato in Italia, si mette per terra, finge di pregare, in realtà con un cellulare in lingua araba allerta il padre e gli chiede di chiamare le forze dell’ordine. In quel momento Ousseynou Sy sta minacciando tutti con un coltello. Tiene un bimbo di 12 anni in ostaggio. Il ragazzo si è offerto volontariamente. Dirà: “L’ho fatto per salvare i miei amici”. Nel frattempo Sy ha legato i professori. Urla: “Da qui nessuno esce vivo, vado a Linate a fare una strage, voglio vendicare i morti nel Meditarraneo”. Il suo “progetto stragista” è in pieno svolgimento. Quando i carabinieri intervengono lui urla: “Vado sulla pista di Linate, non voglio vedere nessuno nell’arco di due chilometri, ci sono solo bambini qua, non sparate al pullman, è tutto gasolio”. Un insegnante a bordo dice ai carabinieri: “Ha in mano un accendino, minaccia di dare fuoco, il pavimento è cosparso di benzina”. Quello di Sy è un progetto premeditato. Secondo quanto messo a verbale, l’uomo ha maturato il suo gesto in solitudine. Mai ha condiviso con altri le sue idee contro le politiche migratorie del governo. La Procura esclude l’esistenza di una rete “panafricanista”. Ousseynou Sy si definisce un “panafricanista”. E il pomeriggio del 19 marzo viene inquadrato dalle telecamere di un distributore mentre riempie le taniche di benzina. Ha già ordinato le fascette e, secondo fonti investigative, avrebbe chiesto a un amico di comprare un pistola tipo taser. Arma che non sarà ritrovata. A sostegno della premeditazione c’è il video che l’uomo dice di aver girato prima nella sua azione e nel quale spiega il suo odio contro l’Europa, dice ai suoi “fratelli” africani di non partire perché il loro destino sarebbe stato segnato da un naufragio e avverte che il giorno dopo avrebbe fatto “un gesto eclatante”. Il video non è stato trovato. Secondo quanto riferito da Ousseynou Sy sarebbe stato postato sul suo canale Youtube. La Procura ha interpellato Google che ha però risposto negativamente. Il video girato con il cellulare potrebbe non essere stato inviato e quindi bruciato assieme al telefono.

L’uomo, accusato di strage e sequestro di persona con l’aggravante del terrorismo, si trova nella sezione “protetti” di San Vittore, assieme a sex offenders, pentiti o ex appartenenti alle forze dell’ordine. Nel 2007, quando gli fu ritirata la patente, chiese un permesso dal lavoro per non confessare di essere stato fermato in auto ubriaco. Il fascicolo per abusi si è concluso con una condanna a un anno. L’azienda Autoguidovie ha riferito di non essere a conoscenza dei precedenti. Particolare controverso. Secondo il giuslavorista Luca Failla, nello statuto dei lavoratori “l’articolo 8 consente la raccolta di informazioni rilevanti per lo svolgimento della attività lavorativa. L’azienda poteva pretendere di essere informata dall’autista”. Visto il ruolo di trasporto pubblico di minori. Oggi Sy sarà interrogato dal Gip per la convalida del fermo

Sul corpo nessuna traccia evidente di radioattività

Non ci sono tracce di radioattività negli organi interni di Imane Fadil, la modella marocchina teste dei processi del Rubygate morta in circostanze misteriose il 1º marzo nella clinica Humanitas di Rozzano. È quanto hanno stabilito i primi test eseguiti sui campioni prelevati con le biopsie di reni e fegato della 34enne. Restano da analizzare, a quanto riferiscono fonti vicine alle indagini, i liquidi corporei. Gli esiti, tuttavia, portano a pensare che Imane non sia stata esposta a sostanze radioattive. La Procura però non esclude che la modella sia stata avvelenata con metalli pesanti – nel suo sangue c’erano tracce di cadmio, cromo, antimonio, cobalto e molibdeno molto superiori alla media – o che sia morta per una rara malattia autoimmune. “Il suo stile di vita non giustifica valori particolari di metalli”, non anomali invece per chi lavora per anni a contatto con certe sostanze. Resta da capire questa anomalia, che tuttavia potrebbe non essere la causa diretta del decesso. Non si esclude, anzi si rafforza, l’ipotesi che l’ex modella fosse affetta da una malattia rara, autoimmune, che potrebbe essere stata attivata magari da un batterio e che i medici dell’Humanitas non sono riusciti a diagnosticare.

“Diteci com’è morta mia figlia. Per noi la domanda resta”

“Per noi, quello che conta è che sono passati 20 giorni dalla morte di Imane e ancora non abbiamo una risposta chiara sul perché e sul come sia successo”. È la prima cosa che dicono, stravolti dal dolore, da una parte, e dalla pressione, dall’altra, i familiari di Imane Fadil. Sul corpo della giovane – teste chiave nei processi sulle “cene eleganti” che, anche da morta, non riesce a trovare pace – sono stati eseguiti nella giornata di mercoledì i primi prelievi pre-autoptici: i risultati, riferiti ieri dagli inquirenti, hanno escluso tracce di radioattività, lasciando così alla Procura di Milano, come ipotesi investigative, la morte per malattia rara o per avvelenamento da metalli pesanti.

“Sappiamo solo che Imane è entrata viva in ospedale, all’Humanitas, ed è uscita morta un mese dopo. E non è che ci rassereni sapere che non è il centro di un complotto internazionale… Nessuno può ridarcela indietro. Vogliamo solo la verità, ora”, prosegue la famiglia. Ci sono Tarik, il fratello di Imane, magazziniere a Milano, che l’ha assistita giorno per giorni durante il ricovero (e che, continua a ripetere, “ero convinto, o volevo convincermi, che alla fine ce l’avrebbe fatta”), la sorella Fatima, con suo marito Cosimo, e la mamma, Saadia.

In questi giorni i pm stanno ascoltando i parenti, oltre che gli amici della ragazza. Proprio ieri, secondo fonti investigative, sarebbero state sentite madre e sorella, per ricostruire non solo il mese in ospedale, ma il periodo subito prima – dagli ultimi movimenti, i “sospetti”, le frequentazioni della ragazza precedenti al malore – agli anni di Imane a Milano: in via Nuoro, ai tempi del Bunga Bunga, e poi nella cascina a due passi dal “Corvetto”.

È lì che hanno passato l’ultimo Natale assieme, Imane e sua madre Saadia. In quella casa, piena di libri, che lei aveva cercato in periferia, in mezzo alla campagna, perché non voleva più incontrare facce “conosciute” e per cui aveva ricevuto tre ingiunzioni di sfratto. Le parole che dice Saadia sono pochissime. È seduta sul divano, quasi accovacciata in un angolo. Una signora minuta, da 33 anni in Italia, con il velo che incornicia un viso dai lineamenti dolci e due occhi cerulei sempre bassi. A riempire i suoi silenzi sono le immagini che le scorrono accanto: l’all-news che trasmette in tv i fermo-immagine di Imane in tribunale, in udienza.

“Il processo era diventato la sua ossessione, viveva per questo ormai”: è Fatima, bellissima anche lei come sua sorella Imane, a consumare il pavimento avanti e indietro. Non dorme da giorni, mangiata dalle domande, dalle paure, dall’incredulità: di Imane, tutto il tempo parla al presente. “Mi sembra di non avere più una parte di me”, dice Fatima, con gli occhi che ritornano a riempirsi di lacrime.

Quando Imane arriva in ospedale a fine gennaio, le due sorelle non si parlano da qualche giorno. Avevano discusso di nuovo perché Imane – “è testarda testarda” – aveva rifiutato l’ultimo invito della sorella ad andare a trovarla in Svizzera: “Mi diceva sempre ‘ho le udienze’, ‘il tribunale’… Ma stacca un po’ il cervello, le dicevo io”. E invece Imane niente. Si era buttata giù nell’ultimo periodo, nonostante fosse “una combattente”, perché non riusciva nemmeno più a lavorare come hostess a giornate. Era marchiata, diceva lei. E trovava ingiusto che alla fine a pagare fosse proprio lei che aveva raccontato la verità.

“Imane era così orgogliosa che non ci aveva nemmeno detto subito del ricovero”, prosegue Fatima. “‘Non voglio essere un peso per nessuno’, aveva detto a mio fratello Tarik. E io mi sono arrabbiata ancora di più. Ma se solo avessi immaginato… Non ho il coraggio di riguardare le foto che ho di lei sul cellulare. Anche perché quando la video-chiamavo dalla Svizzera la vedevo con una pancia gonfissima, gli occhi cerchiati, gialli, il naso spesso insanguinato e tutti quei tubi a cui era attaccata per ‘lavarle’ il sangue, così ci dicevano i medici…”.

È distrutta, Fatima. Perché, comunque vada a finire l’inchiesta sulla morte di sua sorella, quella di Imane è una storia – tristissima – già finita. “È colpa anche di tutto lo stress, le paure, quelle pressioni…”. La mamma Suaad all’improvviso interviene: “Mi sveglio ogni notte alle 4 e prego fino alle 6.30, due ore ogni mattina. Per Imane, perché non è possibile che una ragazza di 34 anni vada via così, e per il mondo. Perché anche solo se si arriva a pensare a un livello di cattiveria tale… cosa ci sta succedendo?”.